La tolleranza della menzogna nella sfera pubblica

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La tolleranza della menzogna nella sfera pubblica
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Dipartimento di Studi Sociali e Politici
Università degli Studi di Milano
Working Paper Esterni 07/08
La tolleranza della menzogna
nella sfera pubblica
Franco Rositi
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Franco Rositi
La tolleranza della menzogna nella scena pubblica
in “Quaderni di scienza politica”, 2008, n° 1
Fra i sette vizi capitali non c’è la menzogna. A partire da Gregorio Magno (eletto papa nel
590), in questo settenario così frequente nella cultura morale occidentale la menzogna è
compresa, del resto molto marginalmente, solo come “peccato derivato”: per esempio come
strumento dell’avarizia, in particolare nei raggiri e nelle frodi degli avidi mercanti, e come
strumento dell’invidia, in particolare nella forma della maldicenza1. Certo, nella letteratura
cristiana medioevale, viene qua e là ripresa la condanna della menzogna che era già presente nella
cultura greca e nella cultura repubblicana romana e che Sant’Agostino aveva codificato nella
moralità cristiana; ma ora ci si riferisce prevalentemente allo spergiuro e alla ingannevole
somministrazione dei sacramenti, dunque a scenari di vita privata o di comunità religiosa.
Se si riflette che, in parallelo con la cultura cristiana, resta fiorente nell’Europa medievale
una letteratura popolare o pseudo-popolare che, con simpatia complice, mette al centro la figura
di persone o animali che hanno estrema abilità nel mentire, in perdurante continuazione con le
mille incarnazioni che il trikster, il “divino briccone” di Kerényi, ha avuto in tutte le mitologie preletterarie (ma anche Atena elogiava l’astuzia di Ulisse, anche Hermes e Mercurio erano divinità
astute)2, si potrebbe sostenere che è soprattutto la modernità a riprendere l’incondizionata
riprovazione della menzogna: nella prima metà del ‘600 con Grozio e con la sua idea incisiva di
una «mutua obbligazione al vero», 150 anni dopo, com’è noto, con l’intransigente rigorismo di
Kant che ignora ogni eccezione e ogni possibile giustificazione, e per esempio non distingue,
come distingueva San Tommaso, fra bugie utili, giocose e pericolose, né distingue, come
distinguevano i gesuiti, fra il peccatum della menzogna maligna e il peccatillum della menzogna a fin
di bene (“bugie pietose”, “white lies”), né infine, come concedevano Platone e Machiavelli,
concede ai governanti il diritto di mentire. Con Kant è come se la modernità individuasse nella
menzogna un ottavo vizio capitale, o meglio, come preciserò in seguito, il primo vizio capitale
della politica3.
Ovviamente l’affermazione della verità come criterio fondativo della sfera pubblica è più
propriamente da intendersi sul piano degli ideali politici e delle istanze costituzionali (intendo il
riferirsi delle costituzioni a valori4) che su un piano positivamente normativo, più come l’asintoto
Cfr. C. Casagrande e S. Vecchio, I sette vizi capitali. Storia dei peccati nel Medioevo, Torino, Einaudi 2000.
Nell’inferno della Divina Commedia ci sono vari tipi di peccatori per frode, ma solo due “falsatori di
parola”, la moglie di Putifarre che accusò falsamente Giuseppe di aver attentato alla sua virtù, e Sinone il
greco che, infiltrato fra i Troiani, li convinse a introdurre il cavallo nella città (canto XXX). Per una ricca
casistica delle imposture nel Medioevo, in particolare quelle relative all’assunzione di false identità, cfr. G.
Lecuppre, L’imposture politique au Moyen Age. La seconde vie des rois, Paris, PUF 2005 (tr. it. L’impostura politica
nel Medioevo, Bari, Dedalo 2007).
2 Si può leggere, per questi e altri riferimenti, l’agile rassegna storica di M. Bettetini, Breve storia della bugia,
Milano, Cortina 2001.
3 Preziosa è l’introduzione di A. Tagliapietra a I. Kant e B. Constant, La verità e la menzogna. Dialogo sulla
fondazione morale della politica, Milano, Bruno Mondadori 1996.
4 J. Habermas (Fatti e valori, Milano, Guerini 1996, cap. 6°), la cui teoria della democrazia è sullo sfondo di
questo saggio, ha espresso obiezioni alla tradizione che vede nelle costituzioni dei moderni stati
democratici una componente valoriale (oltre che, ovviamente, una componente positivamente normativa).
Se le costituzioni avessero una componente valoriale – egli argomenta – e se per esempio le corti
costituzionali dovessero fornire interpretazioni autoritative della tradizione etica di una nazione, verrebbe
a rischio la distinzione fra etica e diritto che è fondamentale per il mantenimento del pluralismo
democratico e della costruzione discorsiva delle deliberazioni politiche. Ciò che sembra un riferimento a
valori è, nella discutibile lettura habermasiana delle costituzioni, l’enunciazione di principi che devono
1
1
utopico delle moderne democrazie che come una loro reale proprietà. Probabilmente la quantità
di menzogna circolante nel nostro tempo, se mai si potesse misurarla5, non è inferiore a quella di
altri tempi. Uno dei pochi libri che pretendono di trattare sociologicamente la menzogna
comincia con la semplice affermazione: «La menzogna è dovunque»6. Pur se ci limitiamo all’età
moderna e ai suoi immediati antecedenti, cioè all’avvento dell’ideale di una libera informazione di
massa, potremmo anche dire «La menzogna è di ogni tempo». È sufficiente per esempio leggere
le storie del primo sviluppo dei fogli di informazione fra ‘600 e ‘7007 (v. Infelise, 2002 e
Castronovo e Recuperati, 1976), per costatare quale intreccio si stabilì fin da quel momento fra
“gazzettanti” o “rapportisti”, da una parte, e diplomazie e potere politico dall’altra: continue
rivendicazioni di disinteresse e di (letteralmente) «dignità del pubblico», da entrambe le parti, così
come, ancora da entrambe le parti, continui servilismi, mercimoni, «avvisi a piacimento», minacce,
bastonate.
Ha già detto Hannah Arendt, in un saggio sui Pentagon Papers:
«Segretezza – quel che in diplomazia si chiamava ‘discrezione’, così come gli arcana imperii, i misteri
del governo – e inganno, la menzogna deliberata e la totale bugia usati come mezzi per realizzare fini
politici sono stati con noi fin dagli inizi della storia tramandata. La verità non è mai stata inserita fra le
virtù politiche e le menzogne sono state sempre considerate come mezzi giustificabili dell’azione politica»8.
Come è noto, la Arendt, intende idealmente l’azione politica come libertà che cambia il
mondo, e, non potendo ammettere che a pratiche creative o almeno non adattive corrisponda un
pensiero che passivamente rispecchi la realtà, è disponibile a porre qualche intima
organizzare logicamente l’interpretazione delle norme e che restano dunque su un piano propriamente
normativo (non valoriale). Ma lo stesso autore riconosce (p. 305) che «nel diritto immigrano anche
contenuti teleologici» [valori]; d’altra parte ammette in più luoghi (per es. p. 337) che il bilanciamento che
una “politica deliberativa” compie fra interessi e valori confliggenti non può portare a risultati che
offendano «valori di fondo culturalmente accreditati» - e prevede perfino una tensione stabile fra
«idealismo costituzionale e materialismo dell’ordinamento legale» (p. 53). Questi riconoscimenti sono
sufficienti perché quello che qui in seguito si dirà non appaia contraddittorio (anche se in qualche modo
divergente) con l’impostazione habermasiana.
5 In questo saggio non mi impegno in una definizione della menzogna. Il più recente lavoro di definizione
che io conosca è di T. L. Carson, The Definition of Lying, in “Noûs”, 40:2, 2006, che così conclude
«L’individuo S dice una menzogna all’individuo S1 se: a) S fa una asserzione falsa x; b) S crede che x sia
falsa o probabilmente falsa (o alternativamente, S non crede che x sia vera); c) S afferma x in un contesto
in cui S garantisce la verità di x a S1; d) S sa di garantire la verità di ciò che dice a S1» (p. 298). Come si
vede manca in questa definizione la condizione che S voglia ingannare S1: si può correttamente dire che ci
sia volontà di mentire anche da parte di chi sa che i suoi interlocutori non gli crederanno, almeno in alcuni
casi particolari (per esempio davanti a un giudice che è convinto della colpevolezza di un imputato cui
resti però qualche vantaggio a non divenire “reo confesso”).
6 J. A. Barnes, A Pack of Lies. Toward a Sociology of Lie, Cambridge Cambridge University Press 1994.
7 M. Infelise, Prima dei giornali, Roma, Laterza 2002; V. Castronovo e G. Recuperati (1976), I primi sviluppi
della stampa periodica fra Cinque e Seicento, Roma, Laterza.
8 Cfr. H. Arendt, Crises of the Republic, San Diego, Harcourt Brace & Company 1972, pp. 4-5 (tr. it. del
saggio Lying in Politics in La menzogna in politica, Marietti 2006). Il saggio che qui interessa, Lying in Politics,
era apparso nel 1969 in “New York Review of Books” Cfr. anche il saggio Truth in Politics, in H. Arendt,
Between Past and Future. Eight Exercises in Political Thought, New York 1968 (tr. it. del saggio Truth in Politics :
Verità e politica, Torino, Bollati Boringhieri, 2004). Cfr. ancora Arendt, Home to root: A bicentennial Adress, in
“New York Review of Books”, 1975, 22. Ma, al di là di questi tre saggi specifici, per il loro sfondo teorico
è rilevante quasi l’intera opera della Arendt. Per una lettura tendenziosa dei primi due testi citati di Arendt,
e per una definizione sui generis, alla Braudillard, della menzogna nella cultura di massa come regno di
simulacri, v. J. Derrida, Without Alibi, Stanford 2002.
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«interconnessione fra la libertà dell’azione e l’umana abilità di negare deliberatamente la realtà
fattuale»; è inoltre ben consapevole della estrema difficoltà dei nostri tentativi di ricostruire
realisticamente il tessuto dei fatti. Immagino che la Arendt avrebbe volentieri sottoscritto
quell’elogio dell’incertezza che una volta fu pronunciato da Hirschman, il quale appunto ha
associato democrazia e amore dell’incertezza9. Nononostante queste premesse e il complesso
concetto di verità che le sostiene10, la Arendt non può tuttavia, date le sue salde convinzioni
repubblicane, accettare passivamente «questa attiva e aggressiva capacità di mentire» e, oltre che
denunciarla come abuso di potere, aggiunge:
«Chiunque rifletta su queste materie può solo sorprendersi per quanta poca attenzione sia stata
[loro] data nella tradizione del pensiero filosofico e politico…».
Sorpresi per la marginalità del tema menzogna dovrebbero per la verità esserlo soprattutto
gli studiosi di scienze sociali empiriche, politologi e sociologi, in particolare se si riflette che per
loro la diffusione e la visibilità sembrano essere spesso il più forte criterio di rilevanza nella scelta
degli oggetti di ricerca. E la menzogna è diffusa e, quando scoperta, è visibile. Per quanto riguarda
i filosofi, a me sembra che a partire dagli anni ’70, in coincidenza con una intensa ripresa degli
studi di filosofia morale, il tema abbia ottenuto buona attenzione. Anche fra gli psicologi lo stato
dell’arte sembra essere migliore, soprattutto se si considerano i territori affini11.
Le ragioni della scarsa fortuna del tema fra sociologi e politologi possono essere varie.
Certamente ce n’è una ragione prammatica: una eventuale misurazione della menzogna
chiederebbe un osservatore non solo onnisciente a riguardo del tessuto dei fatti, ma anche abile a
discernere cose così poco discernibili come la voluntas fallendi, l’intenzione menzognera, e la non
attribuibilità di asserzioni false a errore o a ideologia12. Mostrerò tuttavia in seguito come questa
difficoltà prammatica possa essere, se non superata, almeno aggirata. Immagino pertanto come
più rilevanti le ragioni che potremmo chiamare ideologiche, da una parte una disposizione irenica,
soprattutto presente fra i sociologi, dall’altra una disposizione cinica, soprattutto presente fra i
politologi: intendo come irenica la disposizione al ruolo di osservatore educato, non giudicante –
9
A. O. Hirschman, On Democracy in Latin America, in “New York Review of Books”, 10.5.1986. Fra le virtù
essenziali per la democrazia Hirschman include, oltre a questo love of uncertainty che fra l’altro implica un
corretto processo di formazione dell’opinione pubblica (apertura alla discussione, disponibilità verso
nuove informazioni ecc.) ed è dunque antagonistico verso la comunicazione menzognera, anche «una certa
quantità di pazienza», in particolare per chi ha perso in una elezione e deve attendere la prossima.
10
La «verità fattuale» si pone, per la Arendt, come coercizione (come barriera al libero dispiegarsi delle
opinioni, come «contingenza brutalmente empirica») e, allo stesso tempo, come fondamento di quel senso
comune da cui soltanto può elevarsi la libera discussione politica e da cui soltanto può nascere qualche
smentita alla menzogna sistematica, e fin troppo “logica”, dei totalitarismi; di contro, la «verità logica», il
dispositivo mentale principale dei totalitarismi, è puramente coercitiva. È come se nell’intero arco della sua
riflessione, la Arendt abbia cercato per la politica, a costo di «tremende» tensioni teoriche, una via
intermedia nella distinzione, probabilmente ereditata dal positivismo e da lei non problematizzata, fra
“verità analitiche” e “verità sintetiche” (assumo così in breve questa ricostruzione da J. S. Nelson, Politics
and Truth: Arendt’s Problematic, in “American Journal of Political Science”, 22,1978).
11 Per l’Italia, cfr. C. Castelfranchi e I. Poggi, Bugie, finzioni, sotterfugi. Per una scienza dell’inganno, Roma,
Carocci 1998.
12 Per la distinzione fra errore, menzogna e ideologia rimando al mio Ideologia, in P. Farneti (a cura di),
Politica e società, Firenze, La Nuova Italia 1979, vol. I. La Arendt (Crises of the Republic, op. cit., p. 5), che usa
il termine “ideologia” in un senso particolare, distingue con chiara semplicità fra menzogna e altri
autoinganni della mente: «Questa capacità attiva, aggressiva, è chiaramente differente dalla nostra passiva
predisposizione a cadere preda di errori, di illusioni, di distorsioni della memoria e di quanto si può
attribuire ai fallimenti del nostro apparato sensuale e mentale».
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e come cinica, invece, l’idea che, soprattutto nello studio delle cose politiche, vada evitata ogni
attitudine moralistica verso un oggetto che è pensato come moralmente indifferente o perfino
legittimamente immorale. Intorno a quest’ultima idea deve del resto essere sottolineato che molta
parte del pensiero moderno e contemporaneo, in particolare di letterati e di filosofi, ha
continuato, nonostante il rigore di Kant e gli ideali della democrazia, a civettare intorno all’idea di
menzogna, perfino a riconoscervi un segno distintivo dell’essere umano, pienamente umano13.
Tuttavia anche quelli che professano una religione di spregiudicato realismo dovrebbero
ammettere che fra le cose reali di molte società contemporanee sono anche gli ideali democratici
e le costituzioni democratiche. Questi ideali e queste costituzioni sono continuamente presenti
sulla scena pubblica: nelle controversie politiche, nelle dispute sui valori, nei tribunali, nella
didattica, nelle cerimonie pubbliche. Dovrebbe generare almeno qualche curiosità l’attrito che si
genera fra le virtù di trasparenza comunicativa che così vengono comunemente esaltate e le
smentite che loro derivano da una cattiva pratica comunicativa qual’è la menzogna.
Anche noi sociologi, che tra l’altro conduciamo molta parte del nostro lavoro di ricerca
avendo in mente un pubblico democratico, vale a dire un pubblico che si suppone desideri buone
informazioni fattuali e buoni argomenti per deliberare o per valutare deliberazioni, abbiamo nella
nostra tradizione una serie di limpide testimonianze a favore dell’ideale democratico. Jürgen
Habermas ha ricordato le professioni di fede, a questo proposito, di Durkheim e di Mead.
Pertinente al nostro tema è la seguente citazione di Durkheim:
«Un popolo è tanto più democratico quanto più la deliberazione, la riflessione, lo spirito critico
svolgono un ruolo considerevole nell’andamento degli affari pubblici. Lo è tanto meno quanto
l’incoscienza, le abitudini inconfessate, i sentimenti oscuri, in una parola i pregiudizi non sottoposti a
critica vi sono preponderanti»14.
Il “positivista” Durkheim non aveva timore di introdurre con queste parole un giudizio di
valore nell’analisi sociologica. In realtà egli aveva in mente una regola empirica che io trovo
ragionevole e troppo spesso trascurata:
Sembra che anche qualche altra specie di animale sia in grado di fare cose che richiamano l’umana
menzogna. Ma questa, come infine si dichiara in tutta la letteratura che la riguarda, è strettamente connessa
alle particolari capacità simboliche della specie umana, e in particolare alle capacità linguistiche (alcuni
pensano che mentire attraverso gesti e azioni non possa sussistere che appoggiandosi a qualche
comunicazione linguistica). Sicché coglierebbe nel segno la nota definizione che, in forma di aforisma,
Umberto Eco (Trattato di semiotica generale, Milano Bompiani 1975, p. 17) ha dato del segno come di «tutto
ciò che può essere usato per mentire». Come è noto, già Voltaire aveva attribuito al linguaggio la funzione
di nascondere i pensieri del parlante. Del resto, sembra che l’idea che il linguaggio apra la possibilità di
mentire sia ampiamente diffusa fra tutte le culture: in una ricerca su come i nativi di un villaggio Zafimary
(in Madagascar), l’antropologo Maurice Bloch rileva che la più comune spiegazione per l’incapacità che i
bambini mostrano prima dei 5-6 anni a comprendere, in un ingenoso esperimento psicologico, atti di
inganno, consiste nel ritenere che gli uomini siano in grado di concepire la menzogna solo quando
diventano pienamente padroni del linguaggio. A tale profonda covinzione Bloch fa risalire l’universale
associazione, presente in quasi tutte le culture, fra verità e vista, come se il rapporto diretto fra sé e il
mondo, che la vista sembra realizzare, sia l’unica garanzia contro gli inganni della parola (M. Bloch, Truth
and Sight, in S. Borutti, a cura di, Modelli per le scienze umane, Trauben, Torino 2007). Dovremmo tuttavia
chiederci se la nostra capacità di usare il linguaggio per mentire non sia in sostanza parassitaria della nostra
capacità di usare il linguaggio per dire la verità, tragga anzi tutta la sua “forza” da diffuse e stabili
aspettative di verità.
14
É. Durkheim, Lezioni di sociologia, Milano, Etas 1973, p. 94.
13
4
«La società ideale non è al di fuori della società reale; essa ne fa parte. Lungi dall’essere suddivisi fra
di esse come tra due poli che si respingono, noi non possiamo appartenere all’una senza appartenere
anche all’altra»15.
Certo, le varie apologie della democrazia potrebbero essere ideologia, sia nel senso di wishful
thinking, sia nel senso di copertura inconsapevole di giochi più grevi fra interessi. Ma anche in
questo caso non dovrebbe sfuggire che una ideologia è un meccanismo che può incepparsi:
nonostante il pessimismo di Pareto, quando asseriva che lo svelamento di quelle che egli
chiamava “derivazioni” ha «risultamenti insignificanti», molte evidenze ci inducono a considerare
fattualmente importanti i difetti di funzionamento e le smentite in quella particolare macchina
culturale che è l’ideologia.
Di per sé la menzogna non è una smentita degli ideali democratici. In fin dei conti colui che
mente mantiene il ruolo di partecipante alla discussione, e in un certo senso, come nel vecchio
aforisma che considera l’ipocrisia quale omaggio alla virtù, così egli tiene a che il suo dire sia
classificato dagli uditori come omaggio alla groziana «mutua obbligazione al vero». La menzogna
non è neppure violenza, né intimidazione16, serve anzi essenzialmente a evitare l’una e l’altra: se i
regimi totalitari praticano sistematicamente la distorsione delle informazioni, se costruiscono
tradizioni inventate, se occultano i crimini17, lo fanno perché sperano, spesso invano, che in
questo modo possano essere alleggeriti i costi della pura repressione.
Quanto agli effetti distorsivi sistemici che possono avere comunque, anche se
singolarmente coronate da successo, le pratiche prolungate di menzogna o perfino singoli atti di
particolare rilevanza, per esempio il nascondimento dei rischi e dei costi di una guerra (fino a
ingannare gli stessi seminatori di false informazioni), qui è preferibile trascurarli, data la
complessità della catena cause-effetti: complessità eccessiva per una analisi che sta cominciando.
Se si trascurano dunque questi effetti sistemici, si può circoscrivere l’analisi entro i casi di
menzogna rivelata.
È anche utile, sempre al fine di procurarsi un vantaggio di semplicità, almeno temporaneo,
distinguere chiaramente, entro le molte forme di distorsione della comunicazione pubblica, fra
menzogna e azioni come ipocrisia, falsificazione delle preferenze18, reticenza, promesse fittizie,
patti non mantenuti, rappresentazioni esasperate o edulcorate di problemi, manovre di
distrazione, inversioni di rilevanza, discorsi fuorvianti o equivoci ecc. Si tratta pur sempre di
cattive pratiche comunicative, ma la loro analisi richiede una quantità molto elevata di
15
É. Durkheim, Le forme elementari della vita religiosa, Milano, Comunità 1963, p. 462.
Ci si riferisce, in queste pagine, solo alla menzogna in senso proprio, quella in cui il parlante è molto
attento a nascondere il carattere menzognero delle sue parole. Esistono ovviamente altri casi, qui
trascurati: la menzogna spudorata (bald-faced), quella ironica, quella coatta ecc. (v. R. Sorensen, Bald-faced
Lies! Lying without the Intent to deceive, in “Pacific Philosophical Quarterly”, 2007, 88). Per l’analisi del
discorso politico è a mio parere molto importante la discordia spudorata, ma dovrò trascurare questo
tema.
17 A. Koyré ha scritto a proposito, nel 1943 (anno in cui cominciava a farsi chiaro l’esito della seconda
guerra mondiale) un saggio che ha avuto più di una traduzione in lingua italiana (v. A. Koyré, Riflessioni
sulla menzogna politica, Catania 1994).
18 T. Kuran (Private Truths, public Lies, The Social Consequences of Preference Falsification, Cambridge, Harvard
University Press 1995) intende come “falsificazione delle preferenze” (manifestare pubblicamente
preferenze diverse da quelle che si hanno in privato) una specifica forma di menzogna, ma dovrebbe porsi
maggiore attenzione alla distinzione fra asserzioni relative al mondo esterno, e asserzioni che invece
riguardano peculiarmente quel mondo interno cui le preferenze appartengono. Per quest’ultimo caso ci si
dovrebbe più propriamente riferire a un principio di sincerità/non sincerità che, come sarà accennato fra
qualche pagina, pone problemi particolari all’analisi politologica.
16
5
informazioni e di interpretazioni. C’è infine una ulteriore considerazione che può convincerci a
cominciare da qualcosa che sia relativamente più semplice: nelle nostre democrazie la
legittimazione della “propaganda” continua a produrre indulgenza sistematica per molte
malformazioni dell’opinione pubblica, ma dovrebbe esserci scarsa tolleranza almeno per i casi in
cui qualcuno coscientemente dice una cosa per l’altra su quelli che la Arendt chiama «fatti bruti» non fatti interiori come intenzioni, valori, credenze (in asserzioni che includono esplicitamente
qualcosa come un «io credo»), ma fatti esterni che potrebbero essere oggettivamente conosciuti,
come debito pubblico o tassi di evasione fiscale o investimenti militari o perfino atti e biografie
individuali.
Solo quando viene scoperto, il mentitore può apparire come un deviante, come l’aggressore
di comuni attese. Se immaginiamo una società in cui quasi ogni giorno si scopra che sono state
propagate notizie false e si registrino dunque, almeno in qualche comparto dell’opinione
pubblica, contese intorno a questo tipo di impostura, dovremmo prevedere in essa anche una
catastrofe delle idee e delle pratiche democratiche. E tuttavia le cose non stanno propriamente
così: l’osservazione o certe immediate evidenze ci dicono che sono numerose le vie di
adattamento fra frames democratici e smascheramento di pratiche distorsive della comunicazione
pubblica. Non sappiamo nulla su quanto e con quale intensità possano durare questi giochi
adattivi, ma quel che sappiamo è che comunque essi possono riuscire in qualche misura. Come
sono possibili queste riuscite, almeno relative, della convivenza fra democrazia e menzogna
rivelata? Cercherò di rispondere a questa domanda con qualche ipotesi.
™™™
Conviene innanzitutto distinguere fra i vari ambiti in cui possono avvenire episodi di
menzogna. In particolare a riguardo delle conseguenze che arrivano in seguito alla loro
rivelazione, mi sembra importante la distinzione, che per ora lascio molto generica, fra sfera
privata e sfera pubblica. Purtroppo la tradizione della filosofia e della filosofia sociale in cui siamo
è su questo tema costruita in quasi totale indifferenza alla diversità di queste due sfere19. Kant, che
pure è fra i fondatori del moderno (democratico) principio di “pubblicità” e ritiene che la
menzogna non solo «abolisca la società», ma anche «annienti la fonte stessa del diritto», svolge i
suoi esempi quasi esclusivamente in riferimento a circostanze e a situazioni che potremmo
attribuire alla vita privata: si ricordi il caso della sua risposta a Maria von Herbert che aveva perso
l’amore di un uomo dopo avergli rivelato di avergli mentito (in realtà, sembra che avesse taciuto a
lungo di un precedente amore e che, alla sua finale confessione, l’uomo se ne fosse risentito):
entusiasta dell’insegnamento morale di Kant, Maria von Herbert gli scrisse implorandolo di
confortarla, ma ebbe una risposta che la confortava ben poco e che, certo con ammirevole sintesi
ma anche con indelicata crudezza, le ripeteva le convinzioni dottrinali, perfino accentuandone il
rigorismo e indebolendo perfino le già note concessioni al riserbo20.
Nell’importante libro di S. Bok, On Lying and Moral Choice in Private and Public Life, Pantheon Books 1978
(tr. it. Mentire: una scelta morale nella vita pubblica e privata, Roma, Armando 2003), ancora largamente diffuso
nelle università americane e inglesi, è centrale l’idea che la vita pubblica può fondarsi su un «principio di
veracità» solo a condizione che la disposizione a dire la verità sia ampiamente diffusa nella vita quotidiana
o privata, quasi l’una fosse la continuazione dell’altra – una tesi sulla quale si può nutrire qualche dubbio.
“Pubblico”, inoltre, vi si riferisce anche all’idea che le giustificazioni della menzogna, qualora vi siano,
vadano verificate davanti a un «pubblico ragionevole» (amici, persone di fiducia ecc.).
20 D. Losurdo, Autocensura e compromesso nel pensiero politico di Kant, Napoli, Bibliopolis, Istituto Italiano per
gli Studi Filosofici 1983.
19
6
Due secoli dopo, riprendendo da Kant alcuni elementi sia a riguardo della sfera pubblica sia
a riguardo del dovere di verità, anche Jürgen Habermas considera i tre criteri di validità dell’agire
comunicativo, verità – giustezza – sincerità, in indifferenza rispetto alla distinzione privatopubblico. Eppure la comune esperienza ci consegna a questo proposito alcune evidenze che
andrebbero per lo meno analizzate. Da una parte, sembra infatti che negli scambi privati più
intimi molti casi di menzogna, se si esclude la frode, godano comunemente di una maggiore
permissività, in particolare in ragione del fatto che ne sono possibili le più disparate buone
giustificazioni particolaristiche, legate alla saggezza di chi può conoscere la contingenza dei
caratteri, della situazioni, degli stati d’animo ecc.; dall’altra gli scambi privati sono soggetti, tanto
più quanto più intimi, a esigenti richieste di sincerità: sembra dunque che siano vigenti, in questi
scambi, più lassismo e, al contempo, paradossalmente, più rigore.
Se la virtú di essere veritieri impone di pensare quel che si dice, dunque impone che
qualsiasi enunciato fattuale p sottintenda un illocutivo «credo che p», la virtú della sincerità
impone di dire quel che si pensa, vale a dire di sottintendere che, su determinati campi di
discorso, quel che si dice è tutto quel che si pensa21. È una virtú che appropriatamente Tagliapietra
(2003) ha definito «crudele»22. Sebbene l’ideale della sincerità (nel senso qui adottato) abbia avuto
fortuna soprattutto nella modernità, e ne ottenga ancora nelle molte forme attigue dell’autenticità,
della genuinità, della trasparenza, si può dubitare tuttavia che il senso morale comune faccia
richieste indifferenziate di sincerità. In particolare non le fa sulla scena pubblica: qui, anzi, dire
tutto quello che passa in testa appare ancora a molti come sconveniente, infantile o inurbano; qui
sono anzi attribuiti a dovere quel riserbo e quella reticenza che da Kant era giustificata con il
perdonabile desiderio di nascondere le nostre debolezze, a noi stessi ben note, e che noi
potremmo anche giustificare come benevolenza socievole verso quelle debolezze altrui che ci
sono forse ben più note delle nostre. Insomma vige ancora nella scena pubblica il principio della
Occorre qui precisare che tratto il criterio della sincerità in modo diverso da quello di J. Habermas.
Spesso in questo autore sincerità e veridicità sono pressoché sinonimici – e a me sembra che egli tratti la
menzogna più che sul versante della falsità di asserzioni costatative, sul versante di una invalida illocuzione
espressiva: il soggetto sottintende uno stato di coscienza («credo che p») che non ha. Si veda per esempio
questo luogo: «In molte situazioni un attore ha buone ragioni per nascondere ad altri le proprie esperienze
vissute o di ingannare il suo partner di interazione sulle proprie “vere” esperienze. Allora egli non solleva
alcuna pretesa di veridicità, tutt’al più la simula comportandosi in modo strategico. Espressioni di questo
tipo non possono essere criticate per la loro falsità; esse devono piuttosto essere valutate in base al
successo che si prefiggono. Manifestazioni espressive possono essere misurate sulla loro veridicità soltanto
nel contesto di una comunicazione che mira all’intesa» (J. Habermas, Teoria dell’agore comunicativo, Bologna,
Il Mulino 1986., vol. I, p. 78). Così a p. 426: «p diventa “credo che p” e il parlante può essere accusato di
non veridicità». “Credo che p” è per Habermas non semplicemente un pleonasma di p, ma una
«proposizione esperienziale» (ibi, p. 427; cfr. anche vol. II, p. 636). Sono del resto consapevole che tale
questione sul lessico di Habermas non può essere risolta per via di definizioni stipulative e contiene
possibili divergenze teoriche. Per fare esempi che mi sono noti, insistono sulla “sincerità”, intesa come
rappresentazione veritiera delle credenze, anche Donald Davidson, Deception and Division, in J. Elster, a cura
di, The Multiple Self, Cambridge, Cambridge University Press 1985 e David Simpson, Lying, Liars and
Language, in “Philosophy and Phenomenological Research”, n. 3, 1992. In B. Williams, Genealogia della
verità, Fazi, Roma, 2005, il termine “sincerità” oscilla dalla semplice corrispondenza fra asserzioni e
credenze (p. 92) a un significato che è più vicino al nostro e che ha a che fare con la domanda morale su
quanta parte di verità sia da dire (p. 85): ma l’attenzione dell’autore a questo termine è essenzialmente
determinata dal tema degli inganni che si possono produrre con asserzioni formalmente veritiere.
22 A. Tagliapietra, La virtú crudele. Filosofia e storia della sincerità, Torino, Einaudi 2003.
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«dissimulazione onesta» che Torquato Accetto codificò nel 164123 e che è comunque distinta dalla
dissimulazione fraudolenta. Quando questo principio decade, e quando si assiste alla fortuna di
uomini pubblici che ostentano sincerità e che fingono, come si dice, di “parlare con il cuore”, e
quando infine vasti pubblici partecipano allo spettacolo della politica con l’ansia di spiare i segni
della sincerità, si può dire, con Sennet, che la sfera pubblica stia subendo una regressione24.
Ma se la sincerità resta, o dovrebbe restare, una virtú confinata a determinati ambiti (e solo
a determinati ambiti) di vita privata, e probabilmente, almeno in un senso particolare e come
Habermas sembra pensare, anche alla sfera pubblico-espressiva (arte), il criterio di verità è
profondamente fondativo della scena e della sfera pubbliche nella modernità. Volta a volta il
parlante deve ritenere vero ciò che asserisce - e costituisce devianza non tanto l’asserzione di
cose false, ma, come nei tribunali, l’asserzione di cose false da parte di un parlante che le sapeva
tali, e “non poteva non saperle” tali. Il fatto che qui il pubblico sia normalmente anonimo, taglia
alle radici, come insiste Habermas introducendo la nozione di pubblico “astratto”, la possibilità di
giustificazioni particolaristiche25.
Vige del resto anche l’obbligo, in determinati contesti (per esempio in una intervista, ma
anche nei confronti di contestazioni pubbliche), di rispondere a domanda – e ciò erode quegli
ambiti di riserbo e di reticenza che altrimenti sono pure permessi e che, quando si è sollecitati a
parlarne, possono essere mantenuti soltanto alla condizione onerosa, legittima solo per alcune
posizioni di autorità, di ricorrere a qualcosa come il “segreto di Stato”. Il parlante in una scena
pubblica non è propriamente un imputato a cui viene concesso il diritto di tacere, ma è un
testimone che è obbligato a rispondere, salvo casi eccezionali, senza reticenza: obbligato alla
risposta, comunque, non a deposizioni spontanee.
Il principio di pubblicità vigente nelle democrazia non obbliga dunque a rendere tutto
pubblico, ma a dichiarare in modo veritiero tutto quello che è pertinente a questioni che
insorgano. Diversamente dalla sfera privata intima, nella quale possono trovarsi innumerevoli
giustificazioni ragionevoli per asserzioni non veritiere che è conveniente ora chiamare bugie
piuttosto che menzogne, sulla scena pubblica vigono solo pochissime giustificazioni per eventuali
comunicazioni intenzionalmente false: esse sono così codificate, ed hanno del resto così precise
circoscrizioni temporali e congiunturali, per esempio dichiarazioni ottimistiche contro il panico o
questioni di sicurezza interna e internazionale, che nel nostro contesto di discorso possono essere
trascurate.
Se le cose stanno in questo modo, ci si potrebbe attendere che nelle moderne democrazie la
rivelazione di menzogne avvenute generi reazioni scandalistiche tanto più profonde quanto più
rilevante sia ciò su cui si è mentito e tanto più in posizioni alte di responsabilità ne siano gli
«Si simula quel che non è, si dissimula quello che è» è la precisa definizione (v. T. Accetto, Della
dissimulazione onesta, ed. critica a cura di S. Nigro, presentazione di G. Manganelli, Genova, Costa & Nolan
1983, 50-51).
24 R. Sennet, Il declino dell’uomo pubblico. La società intimista, Milano, Bruno Mondadori 2006. Ho svolto
considerazioni su tale regressione in F. Rositi, Oscillazioni e turbamenti della distinzione pubblico/privato nella
cultura di massa, in M. Rampazi, a cura, L’incertezza quotidiana, Milano, Guerini 2002.
23
25 Ma lo stesso Habermas (v. del resto anche nota 21) nomina molto raramente la menzogna. Sembra che
questa si risolva, nella sua opera, nel concetto di manipolazione. In R. E. Goodin (Manipulatory Politics,
New Haven¸ Yale University Press 1980) 1980) si dispiega una vasta tipologia dei fenomeni manipolativi,
sia a livello di distorsione dell’informazione, sia a livello di pratiche ingannevoli e di atti linguistici
performativi – e non si tratta dunque di un concetto semplice. Per esempio, esistono “trucchi” retorici,
asserzioni implicite, promesse non realizzate, ma non tutta la retorica, non tutte le asserzioni implicite, non
tutte le promesse non realizzate potrebbe essere legittimamente ascritte all’area semantica della menzogna.
Sono convinto che un approfondimento analitico di tali questioni darebbe buoni risultati se fosse svolto
all’interno dei quadri teorici di Habermas.
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autori. Non solo formuliamo in questo modo una ipotesi empirica, ma la formuliamo anche in
termini di buona verificabilità. Come ho già detto, è difficile conoscere quanta menzogna circoli
in una società, anche per la sola ragione che il mentire su stati di cose complessi (per esempio,
bilancio, confronti internazionali o temporali sulla criminalità, relazioni e patti politici ecc.) lascia
meno tracce visibili di altri delitti più “materiali” ed è un agire strategico che può ottenere
facilmente successo – cosicché, se affermassimo l’ipotesi di una correlazione fra democrazia e
verità, si tratterebbe ancora di una ipotesi empirica, ma resterebbe molto dubbia la sua
verificabilità. Più verificabili sono invece ipotesi sul grado di tolleranza della menzogna rivelata.
Per quel che so, la relazione fra menzogna rivelata e scandalo, o in altri termini il grado di
tolleranza della menzogna, non ha eccitato la ricerca sociologica empirica26. Già soltanto l’analisi
di alcuni casi opportunamente selezionati di menzogna rivelata e delle reazioni che ne sono
registrabili nell’opinione pubblica, in una serie di paesi democratici e di momenti storici,
potrebbe essere molto utile. Il mio contributo si limita qui a disegnare gli argomenti di una
possibile ipotesi.
Riferendomi a ciò che è più comunemente noto dalla lettura della stampa e avendo in
mente in particolare il caso italiano che a prima vista può sembrare particolarmente grave, ma
evitando di portare esempi la cui improvvisazione e la cui imprecisa definizione potrebbero
ingiustamente indebolire sul nascere i miei argomenti, avanzo in una prima provvisoria
formulazione l’ipotesi che il grado di tolleranza della menzogna rivelata è direttamente
proporzionale, sulla scena pubblica e più propriamente politica, al grado di dissociazione fra parti
politiche. Più si ha dissociazione, più si tollera non solo ovviamente la menzogna della propria
parte, ma anche quella della parte nemica o radicalmente avversaria. Il meccanismo che vedo
all’opera consiste semplicemente nel fatto che, se la situazione è definita in termini di ostilità, la
menzogna del nemico-avversario è attesa, e dunque, se pure rivelata, non può generare scandalo.
Se Benjamin Constant sostenne, ragionevolmente e con la disapprovazione di Kant, che
«dire la verità è un dovere, ma solo nei confronti di chi ha diritto alla verità», potremmo
aggiungere che la sottrazione reciproca di tale diritto rende superflua, perfino inconcludente, la
condanna della menzogna. Va solo precisato che il problema classico della filosofia morale che si
è impegnata su questo tema – il diritto di mentire nei confronti di chi non ha diritto alla verità,
per esempio nei confronti di un potenziale assassino – si complica notevolmente quando si parla
di scena pubblica nelle moderne democrazie: qui, quando si mente, si mente davanti a un
pubblico, a una generica audience, e di certo lo si fa con voluntas fallendi, ma la voluntas nocendi non è
necessariamente rivolta verso questo stesso pubblico (si può ritenere perfino che, ingannandolo,
si faccia il suo bene), ma verso la parte avversa, sottraendole consenso. Sebbene qui
Nella sociologia italiana ho trovato solo spunti per questa tematica in F. Battisti, Sociologia dello scandalo,
Bari, Laterza 1982; ancora più marginali i riferimenti nella pur interessante analisi di P. P. Giglioli, S.
Cavicchioli e G. Fele, Rituali di degradazione, anatomia del processo Cusani, Bologna, Il Mulino 1997. Di
maggior rilievo è la letteratura teorica sulla fiducia, e qui devo purtroppo trascurarla (v. in particolare D.
Gambetta, a cura di, Trust. Making and Breaking Cooperative Relations, New York, Basil Blackwell 1988; A.
Mutti, Le inerzie della fiducia sistemica, in “Rassegna italiana di sociologia”, 2004, n° 3 e A. Mutti (2006),
Sfiducia, in “Rassegna italiana di sociologia”, 2006, n° 2. Può infine essere utile ricordare che negli ultimi
tempi hanno qualche buona frequenza in Italia le denunce pubblicistiche della cattiva informazione (cfr.
G. Bosetti, Spin. Trucchi e tele-imbrogli della politica, Padova, Marsilio 2007; M. Travaglio, La scomparsa dei fatti,
Roma, Editori Riuniti 2007; F. Colombo, Postgiornalismo. Notizie sulla fine delle notizie, Roma, Editori Riuniti
2007 e varie traduzioni, fra cui G. Vidal, Le menzogne dell’impero e altre tristi verità, Roma, Fazi 2002). Se sul
web italiano si cerca alle voci “Bush” e “menzogna”, si ottengono oggi più di 200 mila segnalazioni. Il
Center for Public Integrity e il Fund for Indipendence in Journalism hanno documentato 935 bugie dette,
nei due anni seguiti all’11 settembre 2001, da esponenti della Casa Bianca (1,2 al giorno: Bush 260; Powell
244; Rumsfeld 109; Rice 56; Cheney 48 ecc. Cfr. www.iraqbodycount.org. Cfr. anche D. Kellner, Lying in
Politics. The Case of George W. Bush and Iraq, in “Cultural Studies ↔ Critical Methodogies”, 2007, 2).
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concretamente/materialmente si realizzi quel «crimine contro l’intera umanità» che Kant ha
indicato nella menzogna (la genericità della audience produce ora oggettivamente umanità
generale), tuttavia l’intenzione malevola si concentra su interlocutori specifici, gli avversari che
competono sulla scena pubblica. Affinché la rivelazione della menzogna non generi scandalo,
occorre comunque che o l’intero pubblico abbia forti e quasi-belligeranti appartenenze partigiane
(ma in questo caso i guadagni della menzogna sarebbero scarsi) o che la condizione di ostilità sia
propria soprattutto di quelli che hanno diritto o potere di parola sulla scena pubblica (politici,
giornalisti, opinionisti ecc.), cioè degli stessi che potrebbero disporre dei mezzi più adatti per
sollevare scandalo di fronte a episodi di menzogna. Si tratta ovviamente di due casi ipotetici
estremi – e nella realtà, probabilmente, le condizioni intermedie sono le più frequenti.
Non so quanto controintuitiva sia una ipotesi così provvisoriamente espressa, ma è certo
che, per renderla più credibile e meritevole di indagine, occorrono alcune precisazioni.
Innanzitutto può sembrare opportuno limitarsi ai casi di grande scena pubblica, sostanzialmente
ai casi di opinione pubblica nazionale. Esistono ovviamente anche scene pubbliche più limitate,
entro specifiche organizzazioni, per esempio una facoltà universitaria o una corporazione
professionale. Come è probabilmente vera l’ipotesi di Olson che la strategia del free rider incontra
maggiori difficoltà nei piccoli gruppi, così forse la rivelazione della menzogna è sempre molto
dannosa in piccoli ambienti (escluse comunque, per quanto già detto, le sfere di intimità privata):
innanzitutto perché sono molto bassi i costi che chi solleva lo scandalo deve sostenere, almeno a
livello della mobilitazione della voice; in secondo luogo perché piccole organizzazioni non
facilitano la formazione di parti o “partiti” rigidamente definiti, più facilmente prevedono
“cordate” o “aggregazioni” dai confini incerti e continuamente superabili almeno dagli attori più
intraprendenti, cosicché è più difficile costruire simulacri o “fantasmi” pubblici e coerenti del
nemico-avversario e quindi stabilizzare le aspettative ostili nei suoi confronti. Ovviamente anche
in piccoli gruppi e associazioni gli individui sono soggetti e oggetti di attività fantasmatiche, ma la
costruzione di stereotipi, da parte loro e nei loro confronti, resta una attività idiosincratica, che
può generare attese pubbliche negative e stabilizzate solo in casi estremi.
In secondo luogo va meglio definito il concetto di dissociazione fra parti politiche. È stato
già notato che il concetto di conflitto nella tradizione sociologica, a parte la grande apertura della
definizione weberiana, è andato voltandosi verso l’idea di conflitto regolato, cosicché la
complessa tipologia ne resta inesplorata. Né è sufficiente cavarsela con una variabile continua
come quella di radicalità del conflitto, che non può cogliere alcune importanti distinzioni
qualitative. Nella tradizione della filosofia politica è viceversa antica la cura di pensare a diversi
tipi di conflitto. Già per esempio i romani distinguevano nettamente fra cose come tumultus,
secessio, seditio ecc.; Machiavelli sembra molto interessato a definire le condizioni perché le lotte
civili siano «moderate» o violente, così Spinoza, così altri27.
La guerra può essere considerata un caso estremo di conflitto, ma il fatto particolare che
essa riguardi normalmente gruppi che hanno costruito una stabile e quasi-totale estraneità
reciproca fa pensare, nonostante von Clausewitz e Schmitt, più a un tipo specifico che al polo di
un continuum. Del resto in guerra la menzogna si risolve praticamente in inganno e va perduta la
prestazione che è tipica del mentitore e che consiste nell’esibizione, mentre si mente, di buona
fede: se vogliamo che il nemico abbia false informazioni, non dobbiamo dirgliele noi stessi, ma
fargli credere che lui è riuscito a sottrarcele. Sulla scena pubblica resta invece essenziale, come si è
già detto, che il mentitore continui ad apparire come partecipante di un comune spazio di
discussione: solo dopo la rivelazione si potrà dire che quel comune spazio, almeno per qualche
sua rilevante caratteristica, non c’era.
Ho letto a questo riguardo l’interessante saggio di F. Del Lucchese, Sedizione e modernità, in “Quaderni
materialisti”, 2006, n° 5.
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Ci si può giovare di una riflessione sulla tipologia del conflitto che è stata avanzata da
Gaspare Nevola28: sulla scorta di una proposta di Poggi29 (1965), Nevola esplora la distinzione fra
conflitti intra-unit e conflitti extra-unit. Più che a una tassonomia, egli si orienta in senso
propriamente tipologico e mette in campo un ridotto numero di dimensioni30. Un conflitto extraunit è precisamente caratterizzato da 6 proprietà, delle quali a me sembrano rivelanti, ai fini del
nostro tema, soltanto due: a) assenza o sottodeterminazione di orientamento
normativo/autoritativo condiviso dalle parti; b) mix di conflitto e cooperazione31.
Come possiamo dunque immaginare una situazione in cui il sistema normativo sia debole o
addirittura indeterminato e ci sia nello stesso tempo, accanto al conflitto, cooperazione? A me
sembra che una situazione del genere possa essere caratterizzata innanzitutto dal fatto che gli
attori in conflitto escludano la guerra: anzi che essere una dimensione latente o «potenziale»
(Miglio), come alcuni teorici schmittiani pensano per qualsivoglia conflitto politico, la guerra (nel
caso guerra civile) è qui esclusa. A ciò si aggiunga che per gli attori, o per almeno alcuni degli
attori, democrazia significa esclusivamente o quasi esclusivamente una serie di procedure
deliberative atte a evitare la violenza in senso proprio: non è uno spazio comune, non costituisce
dunque una sfera pubblica, è quella che possiamo chiamare “democrazia al grado zero”32. Se gli
attori pensano in questo modo la democrazia, è perché comunque non desiderano interrompere
cooperazioni possibili in una serie di comparti e di istituzioni della vita sociale (economia,
amministrazione, scuola, giustizia), da cui privatamente traggono risorse. Possono anche
animatamente scontrarsi sull’assetto presente (o futuro) di questi comparti, ma in nessun caso
desiderano che il loro funzionamento si interrompa. In un certo senso, e se ci si vuole concedere
una immagine estrema, siamo perfino al di qua dell’ambito che Hannah Arendt ha chiamato della
«biopolitica»: ciò che interessa non è tanto la gestione efficiente e conservatrice della vita, né
ovviamente, al contrario, l’introduzione di inedite forme di vita (ciò che per la Arendt è la buona
politica), ma la pura gestione del potere entro questa esistente, indisturbata quotidianità33.
G. Nevola, Confltto e coercizione. Modello di analisi e studio dei casi, Bologna, Il Mulino 1994.
G. Poggi, Appunti critici sulla tematica dominante della sociologia contemporanea, in “Rassegna Italiana di
Sociologia”, 1965, n° 6.
30 Si tratta dunque di un modello davvero parsimonioso. H. M. jr. Blalock, Power and Conflict. Toward a
General Theory, London, Sage 1989 ha messo invece in campo ben 40 variabili e dimensioni e, annota
Nevola (p. 64n), ha avuto bisogno di ulteriori specificazioni.
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Dirò qui in nota perché le altre 4 dimensioni mi sembrano trascurabili: «Risorse scarse in assoluto come
posta in gioco» è una condizione quasi tautologica se si sta considerando la risorsa “potere”;
«incompatibilità di interessi, obiettivi, valori» è quasi-deducibile dal punto a) per quanto riguarda i valori, e
comunque compatibile con il punto b) per quanto riguarda la trama degli scambi di interesse; infine,
«intenzionalità del conflitto» e «pluralità di opzioni di azione» servono a escludere casi speciali che qui non
considereremo.
32 Per molti aspetti l’idea di “democrazia al grado zero” ci rimanda all’idea liberale di una democrazia che
esclude un ethos collettivo e deve soltanto mantenere, attraverso la legge, la libera circolazione di scambi
fra cittadini privati. Ma si sa come la tradizione liberale abbia dovuto complessificarsi davanti ai rischi di
arbitrio del potere politico e delle fazioni (Madison): rischi esistenti sia nella stessa produzione di leggi, sia
nella definizione e nella gestione, non completamente regolabili per via giuridica, dei beni pubblici. Ma
credo che si possa dire che i meccanismi individuati dalla tradizione teorica liberale per attenuare tali rischi
(divisione dei poteri, pluralismo diffuso degli interessi, ecc.) non siano centrati sul controllo di quei
processi di formazione dell’opinione pubblica che più si approssimano all’area della formazione di etica
collettiva.
33 Non siamo neppure nel «caso-limite», pensato da Max Weber (Saggi sul metodo delle scienze storico-sociali, tr.
di P. Rossi , Milano, Comunità 2000, p. 531) di una «lotta priva di qualsiasi specie di accomunazione con
l’avversario».
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29
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Si può dire che in questo caso la democrazia è delegittimata? Si tratta probabilmente di un
caso che da una parte può essere attribuito alla riduzione della legittimità in legalità, dall’altra però
detiene una sua legittimazione positiva che consiste precisamente nell’esclusione di un animus
bellandi in senso proprio. In tale situazione non solo la menzogna su fatti di rilevanza pubblica
non contraddice alcun ordinamento normativo, ma essa è attesa da tutti gli attori della scena
pubblica, come normale strategia per la conquista del consenso34. La regola del gioco non
consiste qui, ovviamente, nel non mentire, ma nel successo di credibilità del mentitore. Rivelare
una menzogna può essere un successo per chi ne avrebbe patito le conseguenze, ma non può
generare scandalo.
Può accadere che solo alcuni degli attori della scena pubblica vivano integralmente entro lo
spazio della democrazia al grado zero, o almeno siano comunemente considerati come
appartenenti a questo spazio; accanto a loro, altri attori continuano a riferirsi agli ideali
democratici in modi più comprensivi, sulla base di una più larga fondazione etico-politica o
perfino in riferimento a un contesto universalistico e ideale di società (o almeno siano così
comunemente considerati essere): questo caso rivelerebbe forse il paradosso, se la nostra ipotesi
divenisse plausibile, che quelli che pagano un costo maggiore di scandalo per la rivelazione
pubblica di loro menzogne, sarebbero proprio questi ultimi: decisivo è, semplicemente, che da
loro è attesa più verità che dai primi.
Il grado di attesa di verità è dunque, secondo questa ipotesi, inversamente proporzionale
alla tolleranza della menzogna. A sua volta il grado di attesa di verità è inversamente
proporzionale all’intensità del conflitto politico (non in genere, ma) fra parti estranee e pur
determinate a convivere. Forse esistono altre componenti che interpretano logicamente il
variabile grado di tolleranza della menzogna in diverse situazioni, per esempio una particolare
tradizione etico-politica orientata da un tollerante scetticismo, o facilitazioni derivanti da un
particolare assetto del potere sui media, o ancora, più generalmente, una cultura in cui la
fabulazione immaginaria sia diventata preponderante e abbia per così dire indebolito il realismo
del senso comune35, ecc., ma si potrebbe ragionevolmente proporre che queste altre componenti
vadano innanzitutto definite, a livello concettuale, nella loro intrinseca relazione con il tipo di
conflitto osservabile: ciò che alla fine è decisivo, secondo la nostra ipotesi, è il tipo di conflitto.
™™™
Alcuni ritengono che il tipo di conflitto emergente nel nostro paese sia anomalo rispetto a
un “normale” svolgimento della dialettica democratica: da un lato dispersione degli attori politici,
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Ciò implica che non tutta la popolazione appartiene agli schieramenti belligeranti – e che residua una quota di
popolazione che è “conquistabile”. Se per assurdo tutti fossero schierati, probabilmente la menzogna perderebbe
la sua utilità. Si può dunque ipotizzare che maggiore è il numero dei conquistabili, maggiore è l’utilità della
menzogna, salva la precisazione che, se gli schieramenti avversi sono alla pari, anche un piccolo numero di
conquistabili diventa rilevante: così in Italia l’elevata stabilità del voto, variamente rilevata (v. da ultimo Itanes,
Dov’è la vittoria, Il Mulino, Bologna 2006), accentua il conflitto attorno alla piccola ma decisiva schiera che i
due schieramenti, partendo press’a poco alla pari, possono conquistare per aggiudicarsi la vittoria elettorale.
35 Escluderei comunque che la diffusione di una mentalità relativista abbia rilievo sul grado di tolleranza
della menzogna. Anche nell’ipotesi che per primo espresse Tocqueville, esserci relazione fra uguaglianza e
quel particolare relativismo che è nel trionfo dell’opinione (misurata, quest’ultima, non su parametri di
verità, ma sul consenso), si prevede propriamente che nella sfera pubblica non si cerchi verità e dunque,
solo un po’ paradossalmente, che le menzogne non siano neppure mai rivelate (R. Boudon, Il senso dei
valori, Bologna, Il Mulino 2000, pp. 191 e sgg. ha dedicato alcune pagine a questi luoghi di Tocqueville).
Quel che qui invece propriamente ci interessa è il tipo di reazioni a eventi che consistono nella rivelazione
di menzogne e che pur continuano a accadere sulla scena dell’opinione pubblica: una serie di
microscandali che incidono poco sull’opinione pubblica e che, in definitiva, non suscitano sanzioni.
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dall’altro delegittimazioni reciproche estreme. Si susseguono pertanto gli appelli a modelli
bipartisan, a non “demonizzare” gli avversari, a restaurare un comune orizzonte di vita e di
partecipazione, a ritrovare cosiddetti “valori comuni”. Tuttavia, se la condizione è questa, e se, in
un ambiente ancora pervaso dagli echi dell’ideale democratico, esistono volenterosi che
desiderano uscire da questa flemmatica belligeranza, si dovrebbe porre maggiore attenzione alla
diffusione di atteggiamenti tolleranti verso la menzogna rivelata. Si può dire a tale riguardo che la
tolleranza della menzogna nasce da una democrazia a grado zero, ma che a sua volta ne è
l’incunabolo e una potente conferma.
Avere l’obiettivo di soluzione giuridiche del tipo di quelle che vigono nella sfera economica
(falso in bilancio, aggiotaggio ecc.) non sembra la cosa migliore, sebbene certe procedure
americane per l’impeachment andrebbero attentamente considerate36. Vige comunque, con buoni
argomenti, l’antico timore di una “ragione di Stato”.
Più produttivo potrebbe essere assumere finalmente in tutta la sua rilevanza il problema del
sistema informativo e collegarlo a un ideale e a una pratica di fondamentale e autentica “terzietà”.
Trovo particolarmente interessanti due episodi avvenuti di recente sulla scena delle democrazie europee:
l’approvazione in prima lettura da parte del parlamento francese, con 106 voti a favore e 19 contrari, in
data 12 ottobre 2006, di una legge che punisce, con la reclusione fino a un anno e con una multa fino a 45
mila euro, chi neghi il genocidio degli armeni intrapreso dal governo turco nel 1915 (probabilmente questa
legge non sarà più ripresa e resa definitiva dal parlamento francese; si ricorderà che in Francia lo studioso
del Medio Oriente Bernard Lewis fu trascinato in giudizio nel 1994 per aver negato il genocidio; cfr. G.
Lewy, Il massacro degli armeni, Torino, Einaudi 2006, pp. 344 e sgg.); la sentenza con cui la Corte d’Assise di
Vienna ha condannato (20 febbraio 2006) lo storico David Irving per le sue tesi “negazioniste”
dell’Olocausto. Se le ragioni di chi ha valutato negativamente questi due episodi sono chiare, non sono
però sufficienti a riflettere sul significato che essi hanno come segnalazione di un campo di problemi sul
quale le democrazie dovranno pur un giorno impegnarsi.
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