testo Claudia Gioia

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testo Claudia Gioia
A tutti noi
Claudia Gioia
Amanti a distanza
Nel 1972 Joseph Beuys si fece fotografare mentre camminava. Un andare semplice. Non la
dimensione collettiva e celebrativa del Quarto Stato (Pellizza da Volpedo, 1901), piuttosto la
zoomata su un unico attore che con incedere sicuro testimonia la rivoluzione possibile. Il
cambiamento agito nella pratica quotidiana.
In un'altra fotografia un ragazzo fermo in mezzo alla strada punta una pistola. Via De Amicis,
Milano, 1977. Il capitolo è sempre lo stesso: la rivoluzione siamo noi. Anche questo ragazzo,
come Beuys, nella foto è solo, ma nessuno dei due lo è veramente, anzi, con loro avevano un
mondo. Entrambi calzano stivali, Beuys porta il cappello di feltro, il ragazzo un
passamontagna, ma la sicurezza nell'agire è la medesima.
L'arte interviene e rivoluziona. Tutti coloro che intervengono sono artisti e questa è la
rivoluzione. Pensava così Beuys quando sfidava il coyote nella stanza (I like America and
America likes me, 1974) rievocando forze arcaiche; quando è tra i fondatori del movimento
verde Die Grünen e a Documenta (Kassel 1982) propone il progetto di piantare 7000 querce
per dare manforte alla natura e praticare un'azione di responsabilità verso l'ambiente. Una
rivoluzione più "piccola" a confronto di quello che si sperava, una rivoluzione agita a partire da
sé e dai comportamenti. L'unica, diranno poi in molti. Senza frittate da fare e quindi senza
tante uova da rompere.
A fianco del ragazzo con il passamontagna si sviluppa la galassia del movimento antagonista.
Si radicalizza il conflitto sociale ma si sperimenta anche la partecipazione collettiva come
incubatore di un'altra società possibile. Anche l'arte, senza manifesti programmatici, si trova a
declinare la politicità creativa e ad accentuare la sua valenza esperienziale.
La mostra Live in Your Head. When Attitudes Become Form (a cura di Harald Szeemann,
Berna, 1969) aveva già messo in scena una rivoluzione culturale con opere che parlano una
accanto all'altra dell'urgenza di uscire dagli schemi espositivi, forzare il pensiero e interrogare
le aspettative, le rappresentazioni e il tempo. Lavori, concetti, processi e situazioni in bilico, in
un'osmosi tra arte e idee foriera di nuove tensioni e relazioni. Azioni individuali, di artisti che
insieme e forse senza volerlo sottolineano la forza di un agire radicale e senza mediazioni. Il
momento storico è quello giusto.
È la medesima urgenza che spinge a scendere in piazza e a prendere parola su tutti gli aspetti
della vita sociale, sulla politica internazionale e sui diritti. Parola politica che fa fatica a
rimanere nell'alveo dei partiti rappresentati; partiti che a loro volta fanno fatica a capire perché
stanno iniziando a non rappresentare più.
Certo il ragazzo con il passamontagna ha una pistola in mano e nel succedersi delle
manifestazioni e dei cortei il numero delle pistole aumenta ma non si può cancellare la
fotografia di Valie Export seduta su una sedia a gambe aperte. I pantaloni con un taglio a "V"
sull'inguine, i genitali in vista e un mitra tra le mani (Genital Panic, 1969). Un'irriducibile della
lotta femminista nell'arte contemporanea. E non si riesce a scacciare via come una mosca
neanche l'immagine di Salvador Allende con l'elmetto e la pistola in mano (11 settembre 1973)
al portone della Moneda prima che il suo governo sia spazzato via.
Renato Guttuso ha in mente La morte di Marat (Jacques-Louis David, 1793) e quando disegna
su un cartoncino Il Neruda morente (1973) indica senza giri di parole i mandanti della morte,
anche, del suo amico e poeta cileno Pablo Neruda.
Tutto è connesso.
Quando Anselm Kiefer inizia il ciclo di opere Besetzungen (1969) e si fa fotografare con il
braccio alzato nel saluto hitleriano, ovviamente viene accusato di filonazismo. In realtà,
manifestava la necessità di confrontarsi con la storia della Germania nazista troppo
velocemente rimossa e alimento del senso di colpa delle nuove generazioni che negli anni '60 e
'70 si chiedono come evitare che un regime totalitario torni al potere. Sono le medesime
domande che Ulrike Meinhof si pone con i suoi compagni della RAF, cercando di rappresentare
la Germania migliore e vergognandosi dei loro padri e nonni che non avevano saputo
affrontare una colpa storica insopportabile.
Nel 1988, quando tutti gli "oltrepassamenti" sono stati dichiarati e il tempo sta maturando
l'abbattimento anche dell'ultimo Muro, Gerhard Richter ritiene che non si possa non guardare
alla storia del suo paese e dipinge il ciclo di opere Oktober 19, 1977. Quindici tele collegate ai
fatti della Baader-Meinhof1 e alla morte dei suoi componenti nel carcere di Stammheim in
Germania. La sua pittura gioca sulla sfocatura alterando la leggibilità delle immagini ma al
contempo insiste lo sguardo sulle alterazioni della memoria e sul suo uso politico in relazione
alla storia contemporanea.
Gino De Dominicis nel 1980 realizza Sbarre violate. Un'opera emblematica, quasi giocosa, dove
le sbarre piegate sottolineano come in un'esistenza non debbano esserci limiti. I manifesti dei
CUB, Comitati Unitari di Base, che tra gli anni '60 e '70 venivano affissi ai cancelli della FIAT,
già utilizzavano quell'immagine di sbarre da cui si doveva evadere. E familiare lo è stata
almeno fino alla fine degli anni '80 quando lo spazio limitato da sbarre è apparso come l'unico
epilogo possibile per la storia di molti.
Il ragazzo con il passamontagna, se ancora vivo, certamente si sarà meravigliato di queste
connessioni, ma la storia procede così.
La storia la facciamo e l'artista, che tesse le invisibili trame tra le cose, rende la storia
permanente.
L'arte non è niente se non vuole essere tutto e se si resta nell'ideologia estetica nulla può
significare per davvero. La cultura fa la sua parte declinando, proteggendo, forzando o
abbattendo il tempo a cui si riferisce e probabilmente non ha molto senso cercare altre
spiegazioni al legame con la vita reale che non sia l'accadere.
Eugenio Montale è contro la guerra e le dittature ma la sua resistenza sarà soprattutto quella
di salvaguardare la poesia e la cultura dalla barbarie.2 Molti artisti, negli anni '70, hanno invece
rischiato il carcere per il loro sostegno ai movimenti antagonisti. Ma questo cambia poco.
Chi nel 1937 era sul fronte spagnolo certo non si curava del Guernica3 di Picasso ma, a
distanza di tempo, quel dipinto ricorda al mondo l'orrore delle guerre civili; Sartre parlava al
Maggio francese4 e le sue parole non solo echeggiavano forti durante gli scontri in piazza, ma
ancora ne conservano la memoria.
Pier Paolo Pasolini era un intellettuale impegnato ma non fu simpatico quando diede del
reazionario5 a chi si opponeva alle cariche della polizia. E certamente anche il ragazzo con il
passamontagna non l'ha amato. Tuttavia il suo essere "contro" è ancora carico di significati.
Chi agisce ha della politica un'idea troppo stringente per prendersi il tempo dell'accadere. Deve
essere per questo che la politica attiva e l'arte, la cultura, benché necessari l'una all'altra, per
lo più si amano e si guardano a distanza.
La storia è una materia complicata quasi mai obiettiva e l'artista disegna connessioni. Si tuffa
nella storia tutta, quella conosciuta, e cerca di dare forma. Per la scienza e la politica, l'arte
non ha un immediato uso tangibile eppure senza arte rimane poco. E, che si sia stati
indifferenti al lavoro dell'artista o del poeta, quando tutto sarà finito, l'arte continuerà.
Abbiamo amato tanto la rivoluzione
"Che si debba parlare di nuova arte […] di lotta per una 'nuova cultura' e non per una 'nuova
arte' (in senso immediato); pare evidente. Forse non si può neanche dire, per essere esatti,
che si lotta per un nuovo contenuto dell'arte, perché questo non può essere pensato
astrattamente, separato dalla forma. Lottare per una nuova arte significherebbe lottare per
creare nuovi artisti individuali, ciò che è assurdo perché non si possono creare artificiosamente
gli artisti".
Antonio Gramsci6
"La tensione per cui restiamo coscienti della distanza cronologica e storica, eppure ritroviamo
direttamente, in personaggi e destini da tempo scomparsi, qualcosa che ci riguarda, e
sentiamo che in essi, nostra causa agitur, si riferisce a questo aspetto storico-temporale
dell'esteticità come autocoscienza dell'umanità. Essa è insieme […] la sua memoria […] in
gioco [è] la sua funzione centralizzante, attualizzante – quella che la memoria condivide con la
coscienza morale. Questa convergenza rivela una profonda connessione tra l'estetica e l'etica".
György Lukács7
Parlare di arte politica suona comunque come una forzatura se si vuole dare all'arte il potere di
cambiare il mondo, ma certo può sognarlo e contribuire a crearlo un altro mondo.
Nell'incertezza del tempo contemporaneo l'arte continua ad assolvere alla sua funzione di
produzione di essere. Nella sua febbrile riorganizzazione di materiali, idee, suggestioni attorno
ad un'attesa di qualcosa ancora non codificato, l’arte si manifesta come accadimento
inaspettato e nuovo. E si pone non come una differenza tra le tante ma come qualcosa di più.
Chiedersi cosa sarà l’arte oggi è come chiedersi cosa sarà del mondo ora che tutte le grandi
narrazioni si sono esaurite e la possibilità di prevedere l'andamento della storia è venuta meno
insieme alle certezze. La visione lineare che ha sorretto il paradigma di sviluppo, proprio del
periodo dell'industrializzazione, è collassata ed ha lasciato il posto ad un secolo di orfani a
metà tra la ripetizione del secolo scorso e qualcosa che non si sa cosa sia. La ripetizione ha
inscenato la drammatizzazione di tutti gli aspetti della vita sociale e l'arte, che è sempre stata
il contrario della banalizzazione, oggi, quando si manifesta in forme ripetitive, si innamora della
politica e si piega sulla memoria prossima, rischia di invischiarsi in un gioco che più che di
politica sa di cronaca, di luogo comune e di muffa.
Alfredo Jaar è uno di quegli artisti che fa eccezione. La dimensione etica del suo lavoro artistico
è nelle cose e non c'è bisogno né di andare a cercarla né di forzarla perché viene avanti. Il
clarinetto che ha iniziato a suonare anni fa (Opus 1981, Andante Desesperato, 1981) ancora
diffonde il suo suono perché c'è sempre una ragione per la cultura di farsi mondo, disturbare i
racconti già troppo ascoltati e invitare a prendere parte alle cose, scrivendone di nuovi.
L'immagine del guerrigliero sandinista a cui si ispira (foto di Susan Meiselas, 1979) che poggia
il fucile e impugna il clarinetto, potrebbe anche essere andata persa ma non importa se la
memoria trova altre strade e altre immagini per parlare al presente. Il suono può comunque
arrivare perché la cultura non smetta di interrogarsi, interpellare ed essere presente. ¿Es usted
feliz? (Estudios sobre la Felicidad, 1979-1981) è una domanda sempre attuale. Non occorre
essere a Santiago del Cile e in piena dittatura per comprenderla. Non è solo una domanda
filosofica ma si intreccia alla vita di tutti e misura il grado di riconoscimento nel legame sociale
ma anche nelle realizzazioni individuali. Niente è più attuale oggi di fronte allo spettacolo di
tanta politica e cultura.
L'intellettuale è inutile? (Questions, Questions, Milano, 2008-2009). Sì, ogni volta che la parola
è di convenienza, allineata, senza prospettiva né leggerezza. No, ogni volta che un articolo, un
romanzo, una poesia, un quadro fanno dire che non tutto è perduto, che la cultura è più forte e
coraggiosa. Ogni fatto umano è cultura. Jaar tra i suoi riferimenti indica Antonio Gramsci che,
nonostante sia finito in "una macchina mostruosa che schiaccia e livella", ne I quaderni dal
carcere (1929-1935), scrive di tutto ciò che concorre alla coscienza sociale. E certamente da
qui parte la sua idea di doppio legame tra intellettuale e responsabilità.
Non ci sono scorciatoie. E l'originalità, la trovata, non risolvono da sole l'afonia di una cultura
lontana, distratta, che non riconosce valore a se stessa.
Searching for Gramsci (2004), Pessimism and Optimism (2010) nascono da una ricerca
necessaria, non dal rimpianto ma dall'urgenza di trovare altri riferimenti e interlocutori. Altre
pagine da leggere, altre azioni ed idee da discutere e criticare.
Per questo, Jaar scavalca un muretto che delimita l'accesso ad una sala del Dia Art Foundation
di New York e deposita, sul pavimento ricoperto di terra (Walter De Maria, The New York Earth
Room, 1977) la bandiera cilena (Untitled, 1982) compiendo un gesto coraggioso ed
esercitando la critica della cultura.
Anche Pier Paolo Pasolini, poeta, scrittore e regista, figura poliedrica e politica è tra i
riferimenti di Jaar. Il mondo delle vite complicate di Ragazzi di vita (1955), non facili ma anche
straordinarie di Teorema (1968).
Il riferimento alla necessità di avere orizzonti credibili è forte: mi chiederai tu morto disadorno
d'abbandonare questa insana passione di essere nel mondo? Ma io con il cuore cosciente di chi
soltanto nella storia ha vita potrò mai più con pura passione operare se so che la nostra storia
è finita?8 (For PPP, 2005). Torna Gramsci e una passione non piegata per le cose del mondo.
Un'attenzione vigile e un'immersione totale nella vita com'era uso Pasolini. Perché che operare
è se non si crede più in niente e niente riesce a toccare? Che arte è se non parla, non scuote,
non crea interferenze e non sollecita a pensare, a guardare? La morte stessa di Pasolini è
emblematica di un'ansia di vita, rischiosa certo. L'opacità non si addice alla cultura e l'assenza
di curiosità non produce mai nulla di interessante da dire.
La storia intesa non solo come accadimento ma come memoria è un altro aspetto importante
del lavoro di Jaar. Niente a che fare con la ripetizione, la memoria è invece come il suono del
clarinetto, costante, più o meno acuto, un retropensiero sempre attivo che impedisce di
scivolare nella smemoratezza circa gli effetti ma anche le cause delle cose. Che richiama alla
parte costitutiva della storia di ciascuno e ne forma i tasselli. Non il fardello delle cose
consumate ma il lascito delle cose vissute. Niente angeli sterminatori per Jaar, piuttosto gli
occhi aperti sulle azioni degli uomini, sulle responsabilità e le connivenze. Non c'e ritualità nella
moltiplicazione della data 11 settembre 1973 (1974). La scarnità di un calendario interrotto e
che si ripete come un disco incantato è sufficiente ad evocare tutto il dolore e le connessioni
possibili tra passato e presente senza necessità di aggiungere e spiegare altro.
I volti (Faces, 1982) si sovrappongono nell'album della storia e la paura, lo sgomento che si
legge negli occhi attraversa tutto il XX secolo quando questo ha significato guerra e
prevaricazione.
Di quanta storia abbiamo bisogno? Ma anche, di quale tipo di storia? "L'atto di memoria è un
atto di verità" (Paul Ricœur), ma la memoria non è sempre giusta. Perché la storia si liberi
della sua hybris e sia davvero perturbante ha bisogno di scoprire il passato che la memoria
porta in sé, quello che si nasconde fuori dal suo campo. L'arte sembra riuscirci quando con una
inventio (Maurice Merleau-Ponty), lavorando sul nascosto e sul dimenticato, apre ad un nuovo
mondo che è il nostro mondo.
Per il suo progetto alla Fondazione Merz di Torino, Alfredo Jaar sceglie il riflesso e la riflessione
sulla storia degli anni '60 e '70. Compie un tratto di strada con Mario Merz, costruisce una
quadreria chiamando al suo fianco i lavori di alcuni artisti che in questa avventura sente affini
e illumina la memoria perché ci si possa rispecchiare in un "noi" che si credeva non più
pronunciabile. Una storia complicata ma nostra.
Abbiamo amato tanto la rivoluzione implica un "noi". Anche se oggi qualcuno se ne vergogna,
anche se c'è già stata una gara a diminuire il coinvolgimento, anche se sono stati fatti tutti i
distinguo possibili, anche se di alcuni fatti non bisogna parlare, anche se alcuni non li si
vorrebbe più far parlare, anche se si è già deciso che i responsabili sono tutti da una parte,
quella storia ci appartiene. Il clarinetto torna a suonare, richiama l'attenzione e il suono diviene
una guida nella penombra dei ricordi. Un atto di volontà dell'artista, con un invito a modificare
la percezione delle cose.
La luminosità delle parole scritte con il neon indica il confine labile della verità, il procedere non
lineare del pensiero e la necessità di prepararsi all'attraversamento.
Jaar ci porta ad attraversare fisicamente un paesaggio di detriti vetrosi. Un paesaggio a prima
vista desolato, che sale e scende con improvvise fughe di luce e riflessi. Complice il vetro, il
paesaggio ha anche la liquidità e la trasparenza dell'acqua e, in un battito di ciglia, dalla
superficie ci possiamo portare al fondo del mare e poi di nuovo in superficie. Che sia immerso
o emerso, il paesaggio suggerisce, tuttavia, un'immagine di abbandono, di distruzione e
macerie e disturba l'idea di doversi inoltrare senza sapere verso dove. Un disturbo necessario
per suggerire domande: su quali macerie camminiamo, sono le macerie del passato o le
macerie di un presente già degradato? Ci si potrà rispondere lungo il percorso, intanto si può
provare a pensare che quelle macerie siano anche il nostro oblio, la nostra notte, la nostra
esperienza che si è oscurata.
Sulla parete sale il coccodrillo di Mario Merz con la sua scia luminosa di numeri, simbolo
biologico di un instabile passaggio e di conquista di una nuova realtà. Il chiarore del riflesso dei
vetri rimanda alla luminosità dei numeri di Fibonacci, la cui progressione matematica ci sottrae
alla caducità del tempo. E un nuovo slogan (Mario Merz, Sciopero generale azione politica
relativa proclamata relativamente all'arte, 1970) è pronto a rischiarare il buio totale di una
nostra stanza segreta dove quasi per caso si arriva attraverso la strada di detriti. Il buio si
somma ma non riesce a mitigare il senso di urgenza che le parole trasmettono; l'uso magico e
luminoso della parola che si specchia nell'acqua nera e riflette l'indicibilità della sua verità.
Come in una nuova declinazione del mito platonico della caverna, i riflessi che ormai ci
arrivano da ogni parte spingono a riattivare la memoria, a guardare ancora tra quelle macerie
che trasfigurano, filtrano la distanza del tempo e riportano in superficie quei fatti, quei
"reperti" che hanno valore e possono riattivare il presente stesso.
M'illumino d'immenso (2009, dalla poesia di Giuseppe Ungaretti, Mattina, 1917) si apre sulla
mattina chiara della nostra memoria ed esperienza. Decine di immagini, fotografie, opere e
parole si affollano davanti agli occhi come un grande tablet su cui cliccare e far partire una
storia. Lo scenario è quello degli anni '60 e '70 e ogni storia, senza sconti, concorre ad una
memoria collettiva dove il Leap Into the Void (Yves Klein, 1960) non faceva paura, in parte
perché ancora non se ne conosceva il prezzo; ma soprattutto perché tante e forti erano le
spinte, in tutto il mondo, a cambiare, che ognuno faceva della cultura, della parola e
dell'azione la propria misura d'esistenza. Questa misura oggi è smarrita e a saperlo non sono
solo i reduci ma le nuove generazioni che cercano prospettive e quando non decidono di
andare altrove rimangono impigliati nella ripetizione. Per questo il clarinetto sta suonando, per
questo si chiede ancora "Cultura dove sei?" Non è necessario riconoscersi in tutte le storie di
quegli anni, anzi le si può aver avversate, ma chi può scommettere sulla positività di un
panorama piatto e questo davvero di macerie? Chi non può desiderare un nuovo rinascimento
culturale e una nuova passione per le cose del mondo?
Per questo la parola critica è la memoria.
Per questo Abbiamo amato tanto la rivoluzione.
Note
1. Organizzazione armata appartenente alla RAF Rote Armee Fraktion, che nasce in Germania nel maggio
del 1970.
A Gregorio Magnani che ritiene di leggere "una certa pietà" nei dipinti della nota serie, Gerhard Richter
risponde: "C'è del dolore, ma spero che si possa interpretare come un dolore per delle persone morte così
giovani, ed in maniera così folle, per nulla. Le rispetto e rispetto anche le loro aspirazioni, o meglio il
potere delle loro aspirazioni. Perché hanno cercato di cambiare le cose stupide del mondo". ("Interview
with Gregorio Magnani, 1989", in Gerhard Richter: Text. Writings, Interviews and Letters 1961-2007,
Thames & Hudson, London 2009, p. 222).
2. Questo che a notte balugina / nella calotta del mio pensiero, / traccia madreperlacea di lumaca / o
smeriglio di vetro calpestato, / non è lume di / chiesa o d'officina / che alimenti / chierico rosso, o nero. /
Solo quest'iride posso / lasciarti a testimonianza / d'una fede che fu combattuta, / d'una speranza che
bruciò più lenta / di un duro ceppo nel focolare. […] Non è un'eredità, un portafortuna / che può reggere
all'urto dei monsoni / sul fil di ragno della memoria, / ma una storia non dura che nella cenere / e
persistenza è solo l'estinzione. / Giusto era il segno: chi l'ha ravvisato / non può fallire nel ritrovarti. /
Ognuno riconosce i suoi: l'orgoglio / non era fuga, l'umiltà non era
vile, il tenue bagliore strofinato / laggiù non era quello di un fiammifero. (Da La bufera e altro, parte VII,
Neri Pozza, Venezia 1956).
3. Titolo del dipinto realizzato da Pablo Neruda nel 1937 a seguito del bombardamento della città di
Guernica durante la guerra civile spagnola e presentato durante l'Esposizione internazionale di Parigi. Per
volere di Picasso il quadro non è rientrato in Spagna fino alla caduta del regime franchista.
4. Nel 1968, durante i fatti di maggio, Jean-Paul Sartre prende parte alle lotte studentesche, allineandosi
alle posizioni politiche di alcuni gruppi della sinistra extraparlamentare. Più tardi ribadirà questo
orientamento aspramente critico nei confronti del Partito Comunista Francese.
5. A seguito degli scontri a Valle Giulia, Roma, 1968, Pier Paolo Pasolini scrisse la poesia Il PCI ai giovani
in cui si schierò dalla parte dei poliziotti.
6. Antonio Gramsci, Letteratura e vita nazionale, Einaudi, Torino 1972, p. 9.
7. György Lukács, Estetica, Einaudi, Torino 1970, vol. I, p. 488.
8. Pier Paolo Pasolini, Le ceneri di Gramsci, 1954.