La responsabilità degli amministratori non esecutivi nelle Società
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La responsabilità degli amministratori non esecutivi nelle Società
La responsabilità degli amministratori non esecutivi nelle Società per Azioni: una riflessione tra presente e passato. “Law Point” di Shrinivas Sankaran, licenza CC BY -NC- ND 2.0 da www.flickr.com Premessa Come noto, la riforma del 2003 (1) ha apportato numerosi cambiamenti alla previgente disciplina in materia di diritto societario. È qui, all’interno del tourbillon normativo che ne è derivato, che si colloca – in tema di società per azioni all’interno della quale si sia dato corso alla previsione di cui al comma 2 dell’art. 2381 del codice civile (2) – la rinnovata figura degli amministratori non delegati. Nello specifico, la questione che si sta ad affrontare in tal sede concerne il tema della responsabilità di questi ultimi – e del connaturato potere di controllo conferitogli – nei confronti degli atti compiuti dal comitato esecutivo, ovverosia uno o più amministratori a cui si siano delegate – entro i limiti previsti dall’art. 2381 comma 4 c.c. (3) – la funzioni gestorie dell’ente. Ora, prima di comprendere quale sia stato il cambiamento apportato dal legislatore del 2003, appare necessario – con scopo comparatistico – prendere atto di quale fosse la disciplina ai sensi della normativa storica. II. I poteri di informazione degli amministratori non esecutivi secondo il codice del 1942 Anzitutto, è bene mettere alla luce il dato per cui – stando alla lettera del codice ante riforma – numerose questioni rimanevano prive di soluzione pratica. In virtù di quanto, per far fronte alla carenza ex tabulas, la giurisprudenza ha tradizionalmente preso le mosse da due principi di estremamente generali, quali: – I delegati devono rendere informazioni al consiglio d’amministrazione; – I non esecutivi hanno il diritto di ottenere delle informazioni. Come si desume, siffatti postulati non erano in grado di risolvere quale fosse il concreto rapporto intercorrente fra le due categorie di soggetti, quali gli organi delegati da un lato e gli amministratori non esecutivi dall’altro. Al di là degli elementi costitutivi della fattispecie, a destare maggiori perplessità era la mancanza di un impianto legislativo che contribuisse a disciplinare le modalità tramite cui gli amministratori senza deleghe potessero esercitare il proprio potere di controllo nei confronti del comitato esecutivo. Ma, partendo da lontano, a quale esigenza corrispondeva – e corrisponde – il potere di cui in parola? Muovendosi dall’assunto generale per cui il soggetto delegato – ove consentitogli – trasferisca a terzi l’esecuzione della prestazione che gli viene conferita dal soggetto delegante (in questo caso, l’assemblea), risponda a pieno titolo nei confronti di quest’ultimo, il diritto ed il dovere di controllo nei confronti dell’esecutivo risiede nelle regime di responsabilità che si desume dalla fallace esecuzione della funzione gestoria da parte di “uno o più dei suoi componenti” (i quali, dunque, sono titolari di poteri di natura derivata e non originaria). In effetti, l’art. 2392 c.c. disponeva l’esistenza di una culpa in vigilando nei confronti dei consiglieri non esecutivi che non avessero vigilato “sul generale andamento della gestione” da parte del comitato esecutivo. Più precisamente, il codice asseriva che gli amministratori non esecutivi “sono solidalmente responsabili se non hanno vigilato sul generale andamento della gestione o se, essendo a conoscenza di atti pregiudizievoli non hanno fatto quanto potevano per impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose”. Secondo questa impostazione normativa, peraltro, all’indiscutibile esistenza di una esplicita fonte di responsabilità in capo agli amministratori senza deleghe, la legge non forniva alcun tipo di riferimento utile a specificare come tale responsabilità potesse atteggiarsi rispetto al caso concreto. In altre parole, non essendovi indicazione alcuna su quali dovessero i comportamenti da assumere rispetto ad una gestione che lasciasse presagire effetti dannosi nei confronti della società, il ruolo di controllo si esauriva in una tanto generale quanto ampio duty to monitor che, ove mancante, avrebbe ingenerato un regime di responsabile solidale fra gli amministratori deleganti e comitato esecutivo. Anche per questo, la giurisprudenza ha talvolta interpretato (4) l’azione di controllo come uno strumento che avesse lo scopo principe di eludere ogni forma di coinvolgimento in eventuali azioni di responsabilità. Dunque, assumendo tale prospettiva teleologica, sembra lecito ritenere che la ratio dell’istituto ex art. 2392 soleva a volte declinarsi in una visione uti singoli anziché rivolgersi alla salvaguardia dell’interesse sociale. Tuttavia, a destare più perplessità all’interno della dottrina (5) era l’eccessiva ampiezza della piattaforma di responsabilità sulla quale gli amministratori senza deleghe – in assenza di certezza da parte della legge – finivano per barcamenarsi. Infatti – essendovi un obbligo di vigilanza vertente “sul generale andamento della gestione” – la mancanza di specialità celava una sostanziale forma di responsabilità oggettiva che, come sottolineato dal legislatore all’interno della relazione illustrativa del decreto legislativo fonte della summenzionata riforma societaria, finiva per allontanare “le persone più consapevoli dall’accettare o mantenere incarichi in società o in situazioni in cui il rischio di una procedura concorsuale le esponeva a responsabilità praticamente inevitabili”. È in questo contesto in cui il legislatore, constatato il tasso di insicurezza che affettava l’architettura riformistico. normativa in questione, è intervenuto con intento III. L’attuale regime di responsabilità degli amministratori non esecutivi Dall’approfondimento della nuova disciplina – che, come detto, è figlia di quel più esteso intervento riformatore intercorso nel 2003 – si possono cristallizzare alcuni punti chiave, quali da un lato l’introduzione di un obbligo, per gli amministratori non esecutivi, di “agire in modo informato” (a), nonché – dall’altro – l’impegno teso a procedimentalizzare i flussi informativi tra amministratori non esecutivi ed organi delegati (b). Infine, con scopo salomonico – rivolto al superamento dei limiti evinti dalla precedente disciplina – si deve rilevare lo sforzo legislativo di circoscrivere l’ambito materiale che forma l’oggetto della funzione di controllo, e quindi della responsabilità, appartenente agli amministratori senza deleghe (c). a) In materia di responsabilità degli amministratori, una delle novità maggiormente rilevanti è rappresentata dal concetto per il quale – stando all’espressione contenuta nell’art. 2381 comma 6 del codice civile – gli amministratori siano tenuti ad “agire in modo informato”, evidentemente in relazione alla propria funzione di supervisione nei confronti del comitato esecutivo. Orbene: a scanso di interpolazioni, è il legislatore medesimo (6) che – facendo immediatamente chiarezza sulla locuzione in parola, per cui le scelte degli amministratori devono essere “informate e meditate, basate sulle rispettive conoscenze e frutto di un rischio calcolato, e non di irresponsabile o negligente improvvisazione – aiuta a riempirne efficacemente il contenuto. Peraltro – a differenza di quanto si accennerà in relazione alla legislazione speciale del T.U.B. – non pretende che gli stessi amministratori “debbano necessariamente essere periti in contabilità, in materia finanziaria, e in ogni settore della gestione e dell’amministrazione dell’impresa sociale”. Il grande pregio di una simile specificazione si sostanzia, quindi, nell’attitudine della legge a determinare con sufficiente precisione quale sia la soglia di diligenza al di sotto della quale gli amministratori senza deleghe non possono scendere ove vogliano preservare una condizione di inattaccabilità rispetto ad eventuali illeciti posti in essere dagli organi delegati. (b) Passando al secondo profilo d’interesse, si deve notare che l’art. 2381 – così come interpretato – non si limita a dettare un regolamento a cui il profilo e la condotta dell’amministratore non esecutivo devono conformarsi, ma – a mente del comma 5 del medesimo articolo – la disciplina compie un gran passo in avanti in un’ottica di procedimentalizzazione dei flussi informativi tra organi deleganti ed organi delegati, in quanto fornisce elementi utili a determinare il cronotopo nel quale l’attività di controllo deve concretamente esperirsi. Infatti, è il consiglio di amministrazione il contesto in cui, almeno ogni sei mesi – trimestralmente nelle quotate, e comunque salva diversa previsione statutaria – gli organi delegati deve adempiere al loro onere informativo nei confronti del C.d.A. e del Collegio sindacale, i quali devono essere destinatari di una relazione che verta “sul generale andamento della gestione e sulla sua prevedibile evoluzione nonché sulle operazioni di maggior rilievo, per le loro dimensioni o caratteristiche, effettuate dalla società e dalle sue controllate”. Si deduce, pertanto, che è la sede consigliare il luogo dove il ruolo di controllo degli amministratori senza deleghe si condensa, e questo sia in un’accezione passiva – nella misura cui hanno il diritto ed il dovere di ricevere, analizzare e valutare “l’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società”, nonché – quando elaborati – di esaminare “i piani strategici, industriali e finanziari della società” ed infine, di considerare “sulla base della relazione degli organi delegati, il generale andamento della gestione” (art. 2381 comma 3) – sia in una dimensione attiva, in quanto – alla luce del c.d. “agire informato” e con lo stesso obiettivo previsto dal predetto comma 3 dell’art. 2381 – gli amministratori devono provvedere a richiedere un’integrazione dell’informazione prodotta dal comitato esecutivo ove questa sia lacunosa e non in grado di assolvere alla funzione attribuitile dalla legge. Tuttavia, per intendere pienamente la portata del risvolto proattivo del nuovo regime di responsabilità previsto dalla riforma, occorre leggere l’art. 2381 in maniera coordinata rispetto la nuova formulazione dell’art. 2392, il quale secondo comma dispone che gli amministratori “sono solidalmente responsabili se, essendo a conoscenza di fatti pregiudizievoli, non hanno fatto quanto potevano per impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose”. Dal combinato delle due disposizioni si ricava allora un messaggio forte e diretto: nell’ipotesi in cui gli amministratori siano a conoscenza dell’esistenza di fatti pregiudizievoli (componente passiva) o comunque avrebbero dovuto essere a conoscenza della loro esistenza (componente attiva), incappano in responsabile solidale con gli organi delegati ove agiscano in conformità con il “quantum di diligenza” (7) che l’art. 2381 comma 6 – in combinato con l’art. 2392 comma 1 – richiede loro. Per riassumere questo punto, la novella del 2003 ha qualitativamente riformato il regime di responsabilità degli amministratori in un duplice senso: – da una parte, lasciando intatta la dimensione passiva della c.d. culpa in vigilando, poiché – sulla base delle informazioni a disposizione – gli amministratori hanno il compito di impedire, eliminare od attenuare le conseguenze dannose frutto dell’attività gestoria degli organi delegati; – dall’altro, sulla base dell’introduzione del dovere di “agire in modo informato”, gli amministratori debbono – in virtù del loro qualità soggettive e del loro commitment nei confronti dell’incarico svolto – individuare un’eventuale carenza nei flussi informativi di cui sono destinatari e/o prevenire il warning che la dinamica gestionale potrebbe lasciar sottintendere. Invece, per assumere un punto di vista diverso – che è quello dell’elemento soggettivo quale parametro di valutazione, a livello qualitativo, del sistema normativo precedente e successivo alla riforma – si può ricorrere alle parole della Corte di Cassazione: “Nel sistema generale delineato dalla riforma del 2003, elemento costitutivo della fattispecie integrante la responsabilità degli amministratori non esecutivi (..) è infatti quello della colpa, i cui caratteri risultano dal sistema medesimo: la fattispecie omissiva precisata dal nuovo art. 2392 c.c. ha inteso così effettivamente superare ogni possibile riconduzione della responsabilità degli amministratori non esecutivi alla mera carica ricoperta, avendola ancor più esplicitamente condizionata all’elemento della colpa” (8). In aggiunta a quanto precisato, è opportuno – come accennato in apertura – non trascurare un ulteriore effetto apportato dal restyling degli articoli 2381 e 2392. In tal senso, a rilevare è la demarcazione materiale che – insieme all’appropriato rinvio operato dal secondo comma dell’art. 2392 – il comma 3 dell’art. 2381 compie. Difatti, ai sensi di quest’ultimo, Il Consiglio di amministrazione è tenuto: – a valutare l’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società; – ad esaminare, se elaborati, i piani strategici, industriali e finanziari della società; – a valutare, sulla base della relazione degli organi delegati, il generale andamento della gestione e le operazioni di maggior rilievo. Con una simile formulazione – che risulta ben integrata con il successivo comma 6 nella misura in cui la valutazione sul generale andamento della gestione viene effettuata “sulla base della relazione degli organi delegati” – si sventa allora lo spettro di quella responsabilità onnicomprensiva che il precedente dettato legislativo aveva portato “al risultato insoddisfacente di una indiscriminata estensione della responsabilità agli amministratori deleganti” (9). A titolo di completezza, dopo aver messo in risalto gli effetti positivi che la riforma societaria ha apportato in materia di responsabilità degli amministratori senza deleghe, si deve però rilevare che la produzione dottrinale che ne è seguita non ha mancato di sottolineare la permanenza di alcune zone d’ombra, specie in merito ai singoli poteri degli amministratori. Per questo, in assenza di una esplicita previsione normativa, la dottrina maggioritaria, nonché parte della giurisprudenza, escludono che il potere di controllo possa esercitarsi singolarmente da parte di ogni amministratore, rimettendo quindi ogni forma di interrogazione, ispezione, controllo all’azione collegiale del C.d.A. (dalla quale, tuttavia, il comma 3 dell’art. 2392 permette al singolo di dissentire e dunque di proteggersi da eventuali responsabilità). Inoltre, tra le altre questioni alle quali la riforma non ha provveduto a fornire adeguata risposta – e su cui la dottrina più attenta ha serrato le file – vi sono, da una parte, il dubbio su quale sia il genere di informazioni che i consiglieri sono nella posizione di potere richiedere e, dall’altro, il grado d’invasività che l’azione di controllo possa raggiungere, questione che assume più rilevanza se si contempla la figura dell’amministratore indipendente. IV. Riflessioni conclusive La nuova disciplina in materia di responsabilità di amministratori privi di deleghe – oltre ad assolvere uno scopo di carattere generale, ovverosia di certezza e completezza, a cui la legge ha la funzione di ambire – sembrerebbe orientata all’obiettivo professionalizzare la carica di quei soggetti che, a differenza degli organi delegati, non ricoprono una funzione sostanziale sotto il profilo organizzativo e gestionale dell’impresa. Tale tensione – dando per assunto che si accetti un simile punto di vista – potrebbe allora corrispondere a due esigenze antitetiche: – in primo luogo, a tutela di interessi particolari, fungerebbe da monito nei confronti di coloro che si trovassero nell’atto di accettare l’incarico di amministratore all’interno di un ente in cui la disciplina in esame trova applicazione. Infatti, il legislatore – sempre nella relazione preordinata alla emanazione del d.lgs. 6/2003 – precisava come ad astenersi dall’accettare o mantenere incarichi in società (per i rischi discendenti dalla responsabilità ex art. 2392 c.c.) fossero “le persone più consapevoli”, lasciando trapelare che – probabilmente – tale percezione non fosse comune a chiunque. Dunque, elevando gli standard richiesti per ottemperare alla diligenza minima richiesta dalla legge, la riforma spingerebbe i meno avveduti a meglio ponderare l’accettazione di un incarico consigliare all’interno di un’entità complessa quale una società per azioni. – in secondo luogo, ed a fortiori, l’estensione della componente attiva della funzione dell’amministratore non esecutivo – riassunta nella locuzione “agire in modo informato” testé menzionata – contribuirebbe ad avvilire quel fenomeno comune che è la “spartizione delle poltrone” all’interno dei consigli di amministrazione, che spesso conduce all’assembramento di organi sociali i cui membri non hanno nessuna competenza – o peggio interesse – per assumere decisioni e comportamenti in grado di assecondare gli interessi sociali. Infatti, è inevitabile mettere in evidenza come – in riferimento alle attività di “valutazione” e “vigilanza” – non si possa prescindere da un background di conoscenze quantomeno sufficiente, per quanto gli amministratori non “debbano necessariamente essere periti in contabilità, in materia finanziaria e in ogni altro settore della gestione e dell’amministrazione dell’impresa sociale”. A meglio rappresentare questa necessità di tecnicizzazione, è la legislazione speciale del T.U.B. che, sia per ragioni legate alla complessità della materia, sia per la rilevanza pubblicistica che l’art. 47 Cost. attribuisce al settore bancario, pretende che i componenti del board rispondano ad una numerosa lista di requisiti, siano essi tecnici e meno (tra cui il rispetto dei limiti al cumulo degli incarichi). Per concludere, si vuole porre l’accento su un ulteriore effetto – o finanche “rischio” – a cui il trend riformistico delineato nella presente analisi potrebbe condurre. Infatti, anche considerando che la stragrande maggioranza delle compagini azionarie nostrane continua ad operare sulla base del sistema di corporate governance quale quello tradizionale, un’eccessiva responsabilizzazione e elitarizzazione degli amministratori non esecutivi – delegittimando il ruolo del Collegio sindacale, le cui funzioni finirebbero per risultare duplicate – darebbero piede ad un processo di allineamento con i sistemi monistico e dualistico (10) che, come evidente, metterebbero in crisi l’identità e la razionalità giuridica del sistema d’amministrazione più diffuso in Italia. Se poi questo sia un male, è un altro discorso. PAOLO PICCIRILLI NOTE (1) D.lgs. del 17 gennaio 2003, n.5 e n.6 in attuazione della legge delega n. 366/2001. (2) Se lo statuto o l’assemblea lo consentono, il consiglio di amministrazione può delegare proprie attribuzioni ad un comitato esecutivo composto da alcuni dei suoi componenti, o ad uno o più dei suoi componenti. (3) Non possono essere delegate le attribuzioni indicate negli articoli 2420 ter, 2423, 2443, 2446, 2447, 2501 ter e 2506 bis. (4) Tribunale di Milano, sentenza del 20 febbraio 2003, in Società, 2003, 1268 ss. (5) Uno su tutti: R. Sacchi, Amministratori deleganti e dovere di agire in modo informato, in Giur. Comm. 2008, p. 383 ss. (6) Come si ricava dalla già citata relazione illustrativa preordinata all’emanazione del d.lgs. 6/2003. (7) G. Giannelli, Poteri di controllo degli amministratori non esecutivi, in “L’attività gestoria nelle società di capitali. Profili di diritto societario italiano e spagnolo a confronto”, 2010, p. 213 ss. (8) Cass. Civ. Sez. I, sentenza n. 22848 del 9 novembre 2015. (9) R. Sacchi, op. cit. (10) In cui, contrariamente al sistema tradizionale, la funzione di controllo è affidata ad un comitato di controllo eletto in seno al C.d.A. (sistema monistico o one-tier system) ovvero al Consiglio di sorveglianza, il quale poi elegge il Consiglio di gestione (sistema dualistico o two-tier system). BIBLIOGRAFIA www.bancaditalia.it www.businessjus.com www.academia.edu www.iusexplorer.it