La responsabilità degli amministratori non esecutivi nelle Società

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La responsabilità degli amministratori non esecutivi nelle Società
La responsabilità degli amministratori
non esecutivi nelle Società per
Azioni: una riflessione tra presente e
passato.
“Law Point” di Shrinivas Sankaran, licenza CC BY -NC- ND 2.0 da
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Premessa
Come noto, la riforma del 2003 (1) ha apportato numerosi cambiamenti alla
previgente disciplina in materia di diritto societario.
È qui, all’interno del tourbillon normativo che ne è derivato, che si colloca
– in tema di società per azioni all’interno della quale si sia dato corso
alla previsione di cui al comma 2 dell’art. 2381 del codice civile (2) – la
rinnovata figura degli amministratori non delegati. Nello specifico, la
questione che si sta ad affrontare in tal sede concerne il tema della
responsabilità di questi ultimi – e del connaturato potere di controllo
conferitogli – nei confronti degli atti compiuti dal comitato esecutivo,
ovverosia uno o più amministratori a cui si siano delegate – entro i limiti
previsti dall’art. 2381 comma 4 c.c. (3) – la funzioni gestorie dell’ente.
Ora, prima di comprendere quale sia stato il cambiamento apportato dal
legislatore del 2003, appare necessario – con scopo comparatistico – prendere
atto di quale fosse la disciplina ai sensi della normativa storica.
II. I poteri di informazione degli amministratori non esecutivi secondo il
codice del 1942
Anzitutto, è bene mettere alla luce il dato per cui – stando alla lettera del
codice ante riforma – numerose questioni rimanevano prive di soluzione
pratica. In virtù di quanto, per far fronte alla carenza ex tabulas, la
giurisprudenza ha tradizionalmente preso le mosse da due principi di
estremamente generali, quali:
–
I delegati devono rendere informazioni al consiglio
d’amministrazione;
–
I non esecutivi hanno il diritto di ottenere delle informazioni.
Come si desume, siffatti postulati non erano in grado di risolvere quale
fosse il concreto rapporto intercorrente fra le due categorie di soggetti,
quali gli organi delegati da un lato e gli amministratori non esecutivi
dall’altro. Al di là degli elementi costitutivi della fattispecie, a destare
maggiori perplessità era la mancanza di un impianto legislativo che
contribuisse a disciplinare le modalità tramite cui gli amministratori senza
deleghe potessero esercitare il proprio potere di controllo nei confronti del
comitato esecutivo. Ma, partendo da lontano, a quale esigenza corrispondeva –
e corrisponde – il potere di cui in parola? Muovendosi dall’assunto generale
per cui il soggetto delegato – ove consentitogli – trasferisca a terzi
l’esecuzione della prestazione che gli viene conferita dal soggetto delegante
(in questo caso, l’assemblea), risponda a pieno titolo nei confronti di
quest’ultimo, il diritto ed il dovere di controllo nei confronti
dell’esecutivo risiede nelle regime di responsabilità che si desume dalla
fallace esecuzione della funzione gestoria da parte di “uno o più dei suoi
componenti” (i quali, dunque, sono titolari di poteri di natura derivata e
non originaria). In effetti, l’art. 2392 c.c. disponeva l’esistenza di una
culpa in vigilando nei confronti dei consiglieri non esecutivi che non
avessero vigilato “sul generale andamento della gestione” da parte del
comitato esecutivo. Più precisamente, il codice asseriva che gli
amministratori non esecutivi “sono solidalmente responsabili se non hanno
vigilato sul generale andamento della gestione o se, essendo a conoscenza di
atti pregiudizievoli non hanno fatto quanto potevano per impedirne il
compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose”. Secondo questa
impostazione normativa, peraltro, all’indiscutibile esistenza di una
esplicita fonte di responsabilità in capo agli amministratori senza deleghe,
la legge non forniva alcun tipo di riferimento utile a specificare come tale
responsabilità potesse atteggiarsi rispetto al caso concreto. In altre
parole, non essendovi indicazione alcuna su quali dovessero i comportamenti
da assumere rispetto ad una gestione che lasciasse presagire effetti dannosi
nei confronti della società, il ruolo di controllo si esauriva in una tanto
generale quanto ampio duty to monitor che, ove mancante, avrebbe ingenerato
un regime di responsabile solidale fra gli amministratori deleganti e
comitato esecutivo. Anche per questo, la giurisprudenza ha talvolta
interpretato (4) l’azione di controllo come uno strumento che avesse lo scopo
principe di eludere ogni forma di coinvolgimento in eventuali azioni di
responsabilità. Dunque, assumendo tale prospettiva teleologica, sembra lecito
ritenere che la ratio dell’istituto ex art. 2392 soleva a volte declinarsi in
una visione uti singoli anziché rivolgersi alla salvaguardia dell’interesse
sociale. Tuttavia, a destare più perplessità all’interno della dottrina (5)
era l’eccessiva ampiezza della piattaforma di responsabilità sulla quale gli
amministratori senza deleghe – in assenza di certezza da parte della legge –
finivano per barcamenarsi. Infatti – essendovi un obbligo di vigilanza
vertente “sul generale andamento della gestione” – la mancanza di specialità
celava una sostanziale forma di responsabilità oggettiva che, come
sottolineato dal legislatore all’interno della relazione illustrativa del
decreto legislativo fonte della summenzionata riforma societaria, finiva per
allontanare “le persone più consapevoli dall’accettare o mantenere incarichi
in società o in situazioni in cui il rischio di una procedura concorsuale le
esponeva a responsabilità praticamente inevitabili”. È in questo contesto in
cui il legislatore, constatato il tasso di insicurezza che affettava
l’architettura
riformistico.
normativa
in
questione,
è
intervenuto
con
intento
III. L’attuale regime di responsabilità degli amministratori non esecutivi
Dall’approfondimento della nuova disciplina – che, come detto, è figlia di
quel più esteso intervento riformatore intercorso nel 2003 – si possono
cristallizzare alcuni punti chiave, quali da un lato l’introduzione di un
obbligo, per gli amministratori non esecutivi, di “agire in modo informato”
(a), nonché – dall’altro – l’impegno teso a procedimentalizzare i flussi
informativi tra amministratori non esecutivi ed organi delegati (b). Infine,
con scopo salomonico – rivolto al superamento dei limiti evinti dalla
precedente disciplina – si deve rilevare lo sforzo legislativo di
circoscrivere l’ambito materiale che forma l’oggetto della funzione di
controllo, e quindi della responsabilità, appartenente agli amministratori
senza deleghe (c).
a) In materia di responsabilità degli amministratori, una delle novità
maggiormente rilevanti è rappresentata dal concetto per il quale – stando
all’espressione contenuta nell’art. 2381 comma 6 del codice civile – gli
amministratori siano tenuti ad “agire in modo informato”, evidentemente in
relazione alla propria funzione di supervisione nei confronti del comitato
esecutivo. Orbene: a scanso di interpolazioni, è il legislatore medesimo (6)
che – facendo immediatamente chiarezza sulla locuzione in parola, per cui le
scelte degli amministratori devono essere “informate e meditate, basate sulle
rispettive conoscenze e frutto di un rischio calcolato, e non di
irresponsabile o negligente improvvisazione – aiuta a riempirne efficacemente
il contenuto. Peraltro – a differenza di quanto si accennerà in relazione
alla legislazione speciale del T.U.B. – non pretende che gli stessi
amministratori “debbano necessariamente essere periti in contabilità, in
materia finanziaria, e in ogni settore della gestione e dell’amministrazione
dell’impresa sociale”. Il grande pregio di una simile specificazione si
sostanzia, quindi, nell’attitudine della legge a determinare con sufficiente
precisione quale sia la soglia di diligenza al di sotto della quale gli
amministratori senza deleghe non possono scendere ove vogliano preservare una
condizione di inattaccabilità rispetto ad eventuali illeciti posti in essere
dagli organi delegati.
(b) Passando al secondo profilo d’interesse, si deve notare che l’art. 2381 –
così come interpretato – non si limita a dettare un regolamento a cui il
profilo e la condotta dell’amministratore non esecutivo devono conformarsi,
ma – a mente del comma 5 del medesimo articolo – la disciplina compie un gran
passo in avanti in un’ottica di procedimentalizzazione dei flussi informativi
tra organi deleganti ed organi delegati, in quanto fornisce elementi utili a
determinare il cronotopo nel quale l’attività di controllo deve concretamente
esperirsi. Infatti, è il consiglio di amministrazione il contesto in cui,
almeno ogni sei mesi – trimestralmente nelle quotate, e comunque salva
diversa previsione statutaria – gli organi delegati deve adempiere al loro
onere informativo nei confronti del C.d.A. e del Collegio sindacale, i quali
devono essere destinatari di una relazione che verta “sul generale andamento
della gestione e sulla sua prevedibile evoluzione nonché sulle operazioni di
maggior rilievo, per le loro dimensioni o caratteristiche, effettuate dalla
società e dalle sue controllate”. Si deduce, pertanto, che è la sede
consigliare il luogo dove il ruolo di controllo degli amministratori senza
deleghe si condensa, e questo sia in un’accezione passiva – nella misura cui
hanno il diritto ed il dovere di ricevere, analizzare e valutare
“l’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile della
società”, nonché – quando elaborati – di esaminare “i piani strategici,
industriali e finanziari della società” ed infine, di considerare “sulla
base della relazione degli organi delegati, il generale andamento della
gestione” (art. 2381 comma 3) – sia in una dimensione attiva, in quanto –
alla luce del c.d. “agire informato” e con lo stesso obiettivo previsto dal
predetto comma 3 dell’art. 2381 – gli amministratori devono provvedere a
richiedere un’integrazione dell’informazione prodotta dal comitato esecutivo
ove questa sia lacunosa e non in grado di assolvere alla funzione
attribuitile dalla legge. Tuttavia, per intendere pienamente la portata del
risvolto proattivo del nuovo regime di responsabilità previsto dalla riforma,
occorre leggere l’art. 2381 in maniera coordinata rispetto la nuova
formulazione dell’art. 2392, il quale secondo comma dispone che gli
amministratori “sono solidalmente responsabili se, essendo a conoscenza di
fatti pregiudizievoli, non hanno fatto quanto potevano per impedirne il
compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose”. Dal combinato
delle due disposizioni si ricava allora un messaggio forte e diretto:
nell’ipotesi in cui gli amministratori siano a conoscenza dell’esistenza di
fatti pregiudizievoli (componente passiva) o comunque avrebbero dovuto essere
a conoscenza della loro esistenza (componente attiva), incappano in
responsabile solidale con gli organi delegati ove agiscano in conformità con
il “quantum di diligenza” (7) che l’art. 2381 comma 6 – in combinato con
l’art. 2392 comma 1 – richiede loro. Per riassumere questo punto, la novella
del 2003 ha qualitativamente riformato il regime di responsabilità degli
amministratori in un duplice senso:
– da una parte, lasciando intatta la dimensione passiva della c.d. culpa in
vigilando, poiché – sulla base delle informazioni a disposizione – gli
amministratori hanno il compito di impedire, eliminare od attenuare le
conseguenze dannose frutto dell’attività gestoria degli organi delegati;
– dall’altro, sulla base dell’introduzione del dovere di “agire in modo
informato”, gli amministratori debbono – in virtù del loro qualità soggettive
e del loro commitment nei confronti dell’incarico svolto – individuare
un’eventuale carenza nei flussi informativi di cui sono destinatari e/o
prevenire il warning che la dinamica gestionale potrebbe lasciar
sottintendere. Invece, per assumere un punto di vista diverso – che è quello
dell’elemento soggettivo quale parametro di valutazione, a livello
qualitativo, del sistema normativo precedente e successivo alla riforma – si
può ricorrere alle parole della Corte di Cassazione: “Nel sistema generale
delineato dalla riforma del 2003, elemento costitutivo della fattispecie
integrante la responsabilità degli amministratori non esecutivi (..) è
infatti quello della colpa, i cui caratteri risultano dal sistema medesimo:
la fattispecie omissiva precisata dal nuovo art. 2392 c.c. ha inteso così
effettivamente superare ogni possibile riconduzione della responsabilità
degli amministratori non esecutivi alla mera carica ricoperta, avendola ancor
più esplicitamente condizionata all’elemento della colpa” (8).
In aggiunta a quanto precisato, è opportuno – come accennato in apertura –
non trascurare un ulteriore effetto apportato dal restyling degli articoli
2381 e 2392. In tal senso, a rilevare è la demarcazione materiale che –
insieme all’appropriato rinvio operato dal secondo comma dell’art. 2392 – il
comma 3 dell’art. 2381 compie. Difatti, ai sensi di quest’ultimo, Il
Consiglio di amministrazione è tenuto:
– a valutare l’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e
contabile della società;
– ad esaminare, se elaborati, i piani strategici, industriali e finanziari
della società;
– a valutare, sulla base della relazione degli organi delegati, il generale
andamento della gestione e le operazioni di maggior rilievo.
Con una simile formulazione – che risulta ben integrata con il successivo
comma 6 nella misura in cui la valutazione sul generale andamento della
gestione viene effettuata “sulla base della relazione degli organi delegati”
– si sventa allora lo spettro di quella responsabilità onnicomprensiva che il
precedente dettato legislativo aveva portato “al risultato insoddisfacente di
una indiscriminata estensione della responsabilità agli amministratori
deleganti” (9). A titolo di completezza, dopo aver messo in risalto gli
effetti positivi che la riforma societaria ha apportato in materia di
responsabilità degli amministratori senza deleghe, si deve però rilevare che
la produzione dottrinale che ne è seguita non ha mancato di sottolineare la
permanenza di alcune zone d’ombra, specie in merito ai singoli poteri degli
amministratori. Per questo, in assenza di una esplicita previsione normativa,
la dottrina maggioritaria, nonché parte della giurisprudenza, escludono che
il potere di controllo possa esercitarsi singolarmente da parte di ogni
amministratore, rimettendo quindi ogni forma di interrogazione, ispezione,
controllo all’azione collegiale del C.d.A. (dalla quale, tuttavia, il comma 3
dell’art. 2392 permette al singolo di dissentire e dunque di proteggersi da
eventuali responsabilità). Inoltre, tra le altre questioni alle quali la
riforma non ha provveduto a fornire adeguata risposta – e su cui la dottrina
più attenta ha serrato le file – vi sono, da una parte, il dubbio su quale
sia il genere di informazioni che i consiglieri sono nella posizione di
potere richiedere e, dall’altro, il grado d’invasività che l’azione di
controllo possa raggiungere, questione che assume più rilevanza se si
contempla la figura dell’amministratore indipendente.
IV. Riflessioni conclusive
La nuova disciplina in materia di responsabilità di amministratori privi di
deleghe – oltre ad assolvere uno scopo di carattere generale, ovverosia di
certezza e completezza, a cui la legge ha la funzione di ambire – sembrerebbe
orientata all’obiettivo professionalizzare la carica di quei soggetti che, a
differenza degli organi delegati, non ricoprono una funzione sostanziale
sotto il profilo organizzativo e gestionale dell’impresa. Tale tensione –
dando per assunto che si accetti un simile punto di vista – potrebbe allora
corrispondere a due esigenze antitetiche:
– in primo luogo, a tutela di interessi particolari, fungerebbe da monito nei
confronti di coloro che si trovassero nell’atto di accettare l’incarico di
amministratore all’interno di un ente in cui la disciplina in esame trova
applicazione. Infatti, il legislatore – sempre nella relazione preordinata
alla emanazione del d.lgs. 6/2003 – precisava come ad astenersi
dall’accettare o mantenere incarichi in società (per i rischi discendenti
dalla responsabilità ex art. 2392 c.c.) fossero “le persone più consapevoli”,
lasciando trapelare che – probabilmente – tale percezione non fosse comune a
chiunque. Dunque, elevando gli standard richiesti per ottemperare alla
diligenza minima richiesta dalla legge, la riforma spingerebbe i meno
avveduti a meglio ponderare l’accettazione di un incarico consigliare
all’interno di un’entità complessa quale una società per azioni.
– in secondo luogo, ed a fortiori, l’estensione della componente attiva della
funzione dell’amministratore non esecutivo – riassunta nella locuzione “agire
in modo informato” testé menzionata – contribuirebbe ad avvilire quel
fenomeno comune che è la “spartizione delle poltrone” all’interno dei
consigli di amministrazione, che spesso conduce all’assembramento di organi
sociali i cui membri non hanno nessuna competenza – o peggio interesse – per
assumere decisioni e comportamenti in grado di assecondare gli interessi
sociali. Infatti, è inevitabile mettere in evidenza come – in riferimento
alle attività di “valutazione” e “vigilanza” – non si possa prescindere da
un background di conoscenze quantomeno sufficiente, per quanto gli
amministratori non “debbano necessariamente essere periti in contabilità, in
materia finanziaria e in ogni altro settore della gestione e
dell’amministrazione dell’impresa sociale”. A meglio rappresentare questa
necessità di tecnicizzazione, è la legislazione speciale del T.U.B. che, sia
per ragioni legate alla complessità della materia, sia per la rilevanza
pubblicistica che l’art. 47 Cost. attribuisce al settore bancario, pretende
che i componenti del board rispondano ad una numerosa lista di requisiti,
siano essi tecnici e meno (tra cui il rispetto dei limiti al cumulo degli
incarichi). Per concludere, si vuole porre l’accento su un ulteriore effetto
– o finanche “rischio” – a cui il trend riformistico delineato nella presente
analisi potrebbe condurre. Infatti, anche considerando che la stragrande
maggioranza delle compagini azionarie nostrane continua ad operare sulla base
del sistema di corporate governance quale quello tradizionale, un’eccessiva
responsabilizzazione e elitarizzazione degli amministratori non esecutivi –
delegittimando il ruolo del Collegio sindacale, le cui funzioni finirebbero
per risultare duplicate – darebbero piede ad un processo di allineamento con
i sistemi monistico e dualistico (10) che, come evidente, metterebbero in
crisi l’identità e la razionalità giuridica del sistema d’amministrazione più
diffuso in Italia. Se poi questo sia un male, è un altro discorso.
PAOLO PICCIRILLI
NOTE
(1) D.lgs. del 17 gennaio 2003, n.5 e n.6 in attuazione della legge delega n.
366/2001.
(2) Se lo statuto o l’assemblea lo consentono, il consiglio di
amministrazione può delegare proprie attribuzioni ad un comitato esecutivo
composto da alcuni dei suoi componenti, o ad uno o più dei suoi componenti.
(3) Non possono essere delegate le attribuzioni indicate negli articoli 2420
ter, 2423, 2443, 2446, 2447, 2501 ter e 2506 bis.
(4) Tribunale di Milano, sentenza del 20 febbraio 2003, in Società, 2003,
1268 ss.
(5) Uno su tutti: R. Sacchi, Amministratori deleganti e dovere di agire in
modo informato, in Giur. Comm. 2008, p. 383 ss.
(6) Come si ricava dalla già citata relazione illustrativa preordinata
all’emanazione del d.lgs. 6/2003.
(7) G. Giannelli, Poteri di controllo degli amministratori non esecutivi, in
“L’attività gestoria nelle società di capitali. Profili di diritto societario
italiano e spagnolo a confronto”, 2010, p. 213 ss.
(8) Cass. Civ. Sez. I, sentenza n. 22848 del 9 novembre 2015.
(9) R. Sacchi, op. cit.
(10) In cui, contrariamente al sistema tradizionale, la funzione di controllo
è affidata ad un comitato di controllo eletto in seno al C.d.A. (sistema
monistico o one-tier system) ovvero al Consiglio di sorveglianza, il quale
poi elegge il Consiglio di gestione (sistema dualistico o two-tier system).
BIBLIOGRAFIA
www.bancaditalia.it
www.businessjus.com
www.academia.edu
www.iusexplorer.it