Il buono è la saggezza del gusto
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Il buono è la saggezza del gusto
BUONO Il buono è la saggezza del gusto 32 Tre mosse per un gusto più facile e più libero di Nicola Perullo De gustibus non est disputandum? Il perimetro che abbiamo costruito tra soggettività e oggettività è sufficiente? Sappiamo riconoscere ciò che è davvero buono? Come gastronomi, possiamo decostruire paradigmi divenuti ormai troppo ovvi, promuovendo uno scenario diverso, positivo e propositivo. Allora abbozziamo una proposta più complessa. Per ottenere un risultato più semplice, ma sicuramente più ricco e profondo. Vi è un radicato senso comune secondo cui non vi sarebbe alcuna possibilità di discutere in modo costruttivo sul buono, inteso come ciò che piace al gusto. Le discussioni sul buono si muovono così, molto spesso, dentro il perimetro apparentemente scontato della questione sulla cosiddetta soggettività o oggettività del gusto. E i nostri paradigmi concettuali si sono andati consolidando attorno all’idea che il buono, così come il bello, rimandino a valori puramente individuali e dunque non siano passibili di condivisione: de gustibus non est disputandum dice un adagio diventato ormai un inflazionato luogo comune. Però vi è anche un senso comune diverso, secondo cui tutti, almeno in potenza, sarebbero capaci di riconoscere ciò che è davvero buono. In questo senso, un paragone con la bellezza viene spesso avanzato. Per esempio: se la bellezza di chi scrive queste righe venisse messa a confronto con quella di Alain Delon o di Johnny Depp non vi è dubbio che dalle giudici e dai giudici non emergerebbe un giudizio incerto, ma una scelta chiara e inequivocabile. Se la percezione della bellezza fosse totalmente arbitraria, perché allora accadrebbe questo? Il problema è complesso. Oggi si ricorre spesso a categorie culturali e sociali per avere l’illusione di aver risolto il problema, ma le cose non stanno così. Concentriamoci allora sul nostro tema, il buono gastronomico, per cercare di chiarire almeno sommariamente le questioni fondamentali. Che il buono come massima espressione del gusto non rappresenti più l’unico obiettivo – e talvolta neppure il principale – della gastronomia lo si può osservare da diverse angolature. In un’intervista di qualche anno fa, René Redzepi dichiarò che lo scopo principale del suo lavoro di cuoco era l’esplorazione di nuove possibilità gastronomiche per la cucina nordica e la ricerca di combinazioni inedite che provocassero soprattutto interesse e curiosità. A ciò aggiungeva che la realizza- zione di cibo “buono” era tutto sommato una funzione secondaria, essendo il gusto quanto di più soggettivo e personale, e dunque una variabile indipendente. Ma che cosa è il gusto? Quando si discute di cibo, si arriva sempre alla questione del gusto, il grande problema attorno al quale ruotano tante questioni che stringono la gastronomia in una tenaglia. Il problema del gusto è il problema del soggetto. Più precisamente: è il problema della soggettività in quanto coscienza individuale e identità consapevole. Però questa definizione ha una storia. Il concetto di gusto come risposta individuale, in termini di piacere e di conoscenza, a un’esperienza sensoriale esterna (visiva, uditiva o, nel caso del cibo, gusto/ olfattiva) non è infatti un’idea perenne: nasce nell’alveo della modernità, quando si costituisce un nuovo paradigma della conoscenza che determina, per l’appunto, la nascita di qualcosa come una soggettività. Questa va di pari passo con l’idea che fuori vi sia un mondo, costituito da oggetti. Il gusto così diviene un metro per riconoscere qualità ed esprimere valori: il bello e il brutto, il buono e il cattivo. Gran parte del pensiero moderno ha proposto varie soluzioni per garantire al gusto così inteso una sua legittimazione: per esempio, il filosofo Immanuel Kant volle separare il gusto in senso metaforico, il gusto del bello, dal gusto fisico, quello del palato. Secondo Kant, solo il gusto del bello può essere condivisibile e dunque universalizzabile, non quello del palato, perché quest’ultimo non consentirebbe la sua oggettivazione. Il fatto che noi assimiliamo e incorporiamo materia dall’esterno comporterebbe un’estrema individualizzazione dell’esperienza percettiva, pregiudicandone il valore universale. La domanda è: come gastronomi, possiamo decostruire questo paradigma divenuto ormai troppo ovvio, promuovendo uno scenario diverso, positivo e propositivo? Sì, e abbozziamo una proposta in tre mosse. 33 MACROARGOMENTO 1 2 : mostrare la complessità del gusto rivendicandone l’expertise (l’esperienza, il know-how, la competenza). Intanto, è chiaro che si può ragionare di gusto separando il riconoscimento di qualità condivise e socialmente costituite dal piacere individuale. Si dice che dei gusti non si può disputare, ma attorno ai nostri gusti si discute molto frequentemente, e questo ha un significato. Con gusto non deve intendersi solo il piacere individuale per un cibo, ma anche il riconoscimento delle sue qualità. La differenza tra piacere e riconoscimento dipende dalle capacità percettive del fruitore: nella gastronomia è attraverso l’acquisizione di una certa expertise che è possibile scindere il “mi piace” come espressione di preferenza dal “buono” come giudizio qualitativo. L’expertise svolge dunque un ruolo importante: chi non è capace di questo sdoppiamento percettivo non saprà cogliere la differenza tra piacere e bontà; ma chi ne dispone, potrà discutere di un cibo di qualità anche senza amarlo personalmente. L’expertise dunque ci fa compiere un primo passo importante nella comprensione del senso del “buono”, in chiave sociale e storica. Il buono non è soltanto ciò che piace, ma un valore culturale e negoziale. Lévi-Strauss aveva individuato nella relazione tra “buono da mangiare” e “buono da pensare” la chiave di volta per la comprensione dei modelli di gusto: è buono da mangiare ciò che risulta buono da pensare. Il grande antropologo assegnava dunque all’etica un ruolo prioritario e fondante nella costituzione del valore del buono di gusto. : tornare a uno sguardo sul gusto “dal basso”, poiché tutti si mangia. L’idea che il gusto sia cultura è una conquista importante, ma ancora non spiega tutto. Cosa significa essere un esperto – o una persona “coltivata” – in un dominio immerso per sua natura nella necessità e nella quotidianità? La peculiarità percettiva della relazione con il cibo consiste nell’essere sempre un’assimilazione interessata: tale dato, assieme alla specificità di una relazione quotidiana che avviene attraverso processi, gesti ordinari e memorie incorporate, rende estremamente problematica l’individuazione di figure di esperti in senso pieno. Si tratta dunque di comprendere che il riconoscimento e l’apprezzamento gustativo, legittimati secondo codici culturalmente e socialmente condivisi, non sono separabili dall’assimilazione interessata e devono essere articolati e compresi all’interno di essa. Insomma, anche il più raffinato critico gastronomico è, alla fine, uno di noi; viceversa, ciascuno di noi potrà essere un esperto, almeno di certi cibi. Questa articolazione di piani differenziali non delegittima il gusto, al contrario. Proprio per questo esso ha un’enorme potenzialità e reclama il più grande interesse. Il gusto è un dispositivo multimodale e flessibile, utilizzato in modo diverso nelle più varie circostanze della vita quotidiana. Assaggiare una bevanda per verificarne la tossicità non è come assaggiare un vino pregiato: la percezione gustativa è infatti sempre orientata in base a compiti e progetti stabiliti dal degustatore in base all’ambiente, alla situazione in cui si trova. Una cena in casa di amici attiva processi di attenzione e di giudizio nei confronti del cibo diversi da quelli che entrano in gioco Prima mossa 34 Seconda mossa 35 BUONO in un ristorante premiato con tre stelle Michelin. Il gusto è sia piacere sia conoscenza; in certi casi il buono è solo piacere, in altri solo conoscenza, più spesso è insieme piacere e conoscenza. Dunque il buono si riferisce a una grammatica di valori dove reclamano spazio tanto i codici sociali e culturali quanto l’istinto e il vissuto personale. 3 Terza mossa: al di là del paradigma sog- 36 getto/oggetto, concepire il gusto come sistema ecologico. Proprio l’ultima osservazione ci consente di compiere l’ultimo passo in questa direzione. Mi collego con quanto ricordavo all’inizio: la questione della soggettività dei gusti nasce in ambito moderno proprio quando emerge un’epistemologia antropocentrica secondo cui l’essere umano è misura di tutte le cose, soggetto che conosce, valuta e giudica oggetti. Si tratta ora di concepire il gusto secondo un paradigma diverso, recuperando in parte quella visione più ampia e che può essere definita senz’altro come olistica, sistemica oppure – io preferisco questa dicitura – ecologica. In altri termini, il gusto è un sistema percettivo complesso, nel senso di un dispositivo multimodale ecologico; non si deve cioè concepire secondo il dualismo tra soggetto e oggetto (l’essere umano che assapora da un lato, l’oggetto assaporato dall’altro) ma in quelli di una relazione ecologica, cioè uno scambio di informazioni tra elementi immersi in un ambiente. In questo modello, il buono va al di là della questione soggettivo/ oggettivo perché esso si riferisce sempre a esperienze contestuali, ad atmosfere in cui il soggetto si trova collocato e inserito. Il buono è dunque esito di una triangolazione tra chi percepisce, ciò che viene percepito e l’ambiente – il contesto, l’atmosfera – in cui questa relazione avviene. Ciò ci consente di concepire situazioni ed esperienze differenziate. Possiamo distinguere almeno quattro famiglie di casi. In sintesi: 1) quella in cui il buono (sensoriale) fa (il) bene (morale). Ci sono casi in cui legittimamente abbiamo desiderio di provare piacere per certi cibi, e questo desiderio corrisponde a uno stato legittimo che aiuta a farci stare meglio dal punto di vista morale. 2) quella in cui il bene fa il buono, nel senso di un apprezzamento etico del cibo che guida la nostra educazione sensoriale e culturale al piacere. 3) quella in cui il buono corrisponde al rassicurante e al noto, a qualcosa rispetto a cui ci sono punti di riferimento. 4) quella in cui il buono corrisponde al noto, all’esotico, all’emozione per l’ignoto che non ci offre termini di confronto. Ciascuno di questi casi è legittimato all’interno di una percezione consapevole e coerente. Questa consapevolezza la chiamo saggezza gustativa. La saggezza del gusto è quell’atteggiamento flessibile ed elastico che segue all’acquisizione della capacità percettiva delle differenze, delle contaminazioni e delle dinamiche complesse poste in essere nei contesti dell’esperienza gustativa. È una capacità percettiva che recepisce le variabili dell’esperienza e le accorda a un sentire consapevole e appagato. La saggezza è il frutto di un percorso di sensibilizzazione lungo e complesso ed essa stessa non è una condizione statica: è quasi un’idea limite, da intendersi più come guida per l’esplorazione dell’esperienza che come stato perfettamente realizzato. La saggezza è la consapevolezza delle molteplicità di variabili dell’esperienza del gusto del cibo, e dunque delle variabili del buono, assieme alla capacità di attraversarle, di transitare tra esse con apertura e flessibilità. Il grande Montaigne, che pure era un attento e raffinato degustatore, invitava proprio a questa saggezza quando affermava: «Se basate il vostro piacere sul bere un vino gradevole, vi obbligate al dolore di berne talvolta di sgradevole. Bisogna avere il gusto più facile e più libero». 37