Il buono è la saggezza del gusto

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Il buono è la saggezza del gusto
BUONO
Il buono
è la saggezza
del gusto
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Tre mosse per un gusto
più facile e più libero
di Nicola Perullo
De gustibus non est disputandum?
Il perimetro che abbiamo costruito tra soggettività
e oggettività è sufficiente? Sappiamo riconoscere ciò
che è davvero buono? Come gastronomi, possiamo
decostruire paradigmi divenuti ormai troppo ovvi,
promuovendo uno scenario diverso, positivo
e propositivo. Allora abbozziamo una proposta più
complessa. Per ottenere un risultato più semplice,
ma sicuramente più ricco e profondo.
Vi è un radicato senso comune secondo cui
non vi sarebbe alcuna possibilità di discutere
in modo costruttivo sul buono, inteso come
ciò che piace al gusto. Le discussioni sul buono
si muovono così, molto spesso, dentro il perimetro apparentemente scontato della questione sulla cosiddetta soggettività o oggettività del gusto. E i nostri paradigmi concettuali
si sono andati consolidando attorno all’idea
che il buono, così come il bello, rimandino a
valori puramente individuali e dunque non
siano passibili di condivisione: de gustibus
non est disputandum dice un adagio diventato
ormai un inflazionato luogo comune.
Però vi è anche un senso comune diverso,
secondo cui tutti, almeno in potenza, sarebbero capaci di riconoscere ciò che è davvero
buono. In questo senso, un paragone con la
bellezza viene spesso avanzato. Per esempio:
se la bellezza di chi scrive queste righe venisse messa a confronto con quella di Alain
Delon o di Johnny Depp non vi è dubbio che
dalle giudici e dai giudici non emergerebbe
un giudizio incerto, ma una scelta chiara e
inequivocabile. Se la percezione della bellezza fosse totalmente arbitraria, perché allora
accadrebbe questo? Il problema è complesso.
Oggi si ricorre spesso a categorie culturali e
sociali per avere l’illusione di aver risolto il
problema, ma le cose non stanno così. Concentriamoci allora sul nostro tema, il buono
gastronomico, per cercare di chiarire almeno
sommariamente le questioni fondamentali.
Che il buono come massima espressione del
gusto non rappresenti più l’unico obiettivo
– e talvolta neppure il principale – della gastronomia lo si può osservare da diverse angolature. In un’intervista di qualche anno fa,
René Redzepi dichiarò che lo scopo principale del suo lavoro di cuoco era l’esplorazione di
nuove possibilità gastronomiche per la cucina nordica e la ricerca di combinazioni inedite che provocassero soprattutto interesse
e curiosità. A ciò aggiungeva che la realizza-
zione di cibo “buono” era tutto sommato una
funzione secondaria, essendo il gusto quanto
di più soggettivo e personale, e dunque una
variabile indipendente. Ma che cosa è il gusto?
Quando si discute di cibo, si arriva sempre alla
questione del gusto, il grande problema attorno al quale ruotano tante questioni che stringono la gastronomia in una tenaglia.
Il problema del gusto è il problema del soggetto. Più precisamente: è il problema della
soggettività in quanto coscienza individuale
e identità consapevole. Però questa definizione ha una storia. Il concetto di gusto come
risposta individuale, in termini di piacere e di
conoscenza, a un’esperienza sensoriale esterna (visiva, uditiva o, nel caso del cibo, gusto/
olfattiva) non è infatti un’idea perenne: nasce
nell’alveo della modernità, quando si costituisce un nuovo paradigma della conoscenza
che determina, per l’appunto, la nascita di
qualcosa come una soggettività. Questa va di
pari passo con l’idea che fuori vi sia un mondo,
costituito da oggetti. Il gusto così diviene un
metro per riconoscere qualità ed esprimere
valori: il bello e il brutto, il buono e il cattivo.
Gran parte del pensiero moderno ha proposto
varie soluzioni per garantire al gusto così inteso una sua legittimazione: per esempio, il
filosofo Immanuel Kant volle separare il gusto in senso metaforico, il gusto del bello, dal
gusto fisico, quello del palato. Secondo Kant,
solo il gusto del bello può essere condivisibile e dunque universalizzabile, non quello del
palato, perché quest’ultimo non consentirebbe la sua oggettivazione. Il fatto che noi assimiliamo e incorporiamo materia dall’esterno
comporterebbe un’estrema individualizzazione
dell’esperienza percettiva, pregiudicandone il
valore universale.
La domanda è: come gastronomi, possiamo
decostruire questo paradigma divenuto ormai troppo ovvio, promuovendo uno scenario diverso, positivo e propositivo? Sì, e abbozziamo una proposta in tre mosse.
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MACROARGOMENTO
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: mostrare la complessità
del gusto rivendicandone l’expertise (l’esperienza, il know-how, la competenza). Intanto,
è chiaro che si può ragionare di gusto separando il riconoscimento di qualità condivise e socialmente costituite dal piacere
individuale. Si dice che dei gusti non si può
disputare, ma attorno ai nostri gusti si discute molto frequentemente, e questo ha un significato. Con gusto non deve intendersi solo
il piacere individuale per un cibo, ma anche
il riconoscimento delle sue qualità. La differenza tra piacere e riconoscimento dipende
dalle capacità percettive del fruitore: nella
gastronomia è attraverso l’acquisizione di
una certa expertise che è possibile scindere
il “mi piace” come espressione di preferenza
dal “buono” come giudizio qualitativo.
L’expertise svolge dunque un ruolo importante: chi non è capace di questo sdoppiamento
percettivo non saprà cogliere la differenza
tra piacere e bontà; ma chi ne dispone, potrà
discutere di un cibo di qualità anche senza
amarlo personalmente. L’expertise dunque ci
fa compiere un primo passo importante nella comprensione del senso del “buono”, in
chiave sociale e storica. Il buono non è soltanto ciò che piace, ma un valore culturale
e negoziale. Lévi-Strauss aveva individuato
nella relazione tra “buono da mangiare” e
“buono da pensare” la chiave di volta per la
comprensione dei modelli di gusto: è buono
da mangiare ciò che risulta buono da pensare. Il grande antropologo assegnava dunque
all’etica un ruolo prioritario e fondante nella
costituzione del valore del buono di gusto.
: tornare a uno sguardo
sul gusto “dal basso”, poiché tutti si mangia.
L’idea che il gusto sia cultura è una conquista importante, ma ancora non spiega tutto.
Cosa significa essere un esperto – o una persona “coltivata” – in un dominio immerso
per sua natura nella necessità e nella quotidianità? La peculiarità percettiva della relazione con il cibo consiste nell’essere sempre un’assimilazione interessata: tale dato,
assieme alla specificità di una relazione
quotidiana che avviene attraverso processi,
gesti ordinari e memorie incorporate, rende estremamente problematica l’individuazione di figure di esperti in senso pieno. Si
tratta dunque di comprendere che il riconoscimento e l’apprezzamento gustativo,
legittimati secondo codici culturalmente e
socialmente condivisi, non sono separabili
dall’assimilazione interessata e devono essere articolati e compresi all’interno di essa.
Insomma, anche il più raffinato critico gastronomico è, alla fine, uno di noi; viceversa, ciascuno di noi potrà essere un esperto,
almeno di certi cibi. Questa articolazione
di piani differenziali non delegittima il gusto, al contrario. Proprio per questo esso
ha un’enorme potenzialità e reclama il più
grande interesse. Il gusto è un dispositivo
multimodale e flessibile, utilizzato in modo
diverso nelle più varie circostanze della vita
quotidiana. Assaggiare una bevanda per verificarne la tossicità non è come assaggiare
un vino pregiato: la percezione gustativa è
infatti sempre orientata in base a compiti
e progetti stabiliti dal degustatore in base
all’ambiente, alla situazione in cui si trova.
Una cena in casa di amici attiva processi di
attenzione e di giudizio nei confronti del
cibo diversi da quelli che entrano in gioco
Prima mossa
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Seconda mossa
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BUONO
in un ristorante premiato con tre stelle Michelin. Il gusto è sia piacere sia conoscenza;
in certi casi il buono è solo piacere, in altri
solo conoscenza, più spesso è insieme piacere e conoscenza. Dunque il buono si riferisce
a una grammatica di valori dove reclamano
spazio tanto i codici sociali e culturali quanto l’istinto e il vissuto personale.
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Terza mossa: al di là del paradigma sog-
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getto/oggetto, concepire il gusto come sistema ecologico. Proprio l’ultima osservazione ci consente di compiere l’ultimo passo
in questa direzione. Mi collego con quanto
ricordavo all’inizio: la questione della soggettività dei gusti nasce in ambito moderno
proprio quando emerge un’epistemologia
antropocentrica secondo cui l’essere umano
è misura di tutte le cose, soggetto che conosce, valuta e giudica oggetti. Si tratta ora di
concepire il gusto secondo un paradigma
diverso, recuperando in parte quella visione
più ampia e che può essere definita senz’altro come olistica, sistemica oppure – io preferisco questa dicitura – ecologica.
In altri termini, il gusto è un sistema percettivo complesso, nel senso di un dispositivo multimodale ecologico; non si deve cioè
concepire secondo il dualismo tra soggetto
e oggetto (l’essere umano che assapora da
un lato, l’oggetto assaporato dall’altro) ma
in quelli di una relazione ecologica, cioè uno
scambio di informazioni tra elementi immersi in un ambiente. In questo modello, il
buono va al di là della questione soggettivo/
oggettivo perché esso si riferisce sempre a
esperienze contestuali, ad atmosfere in cui
il soggetto si trova collocato e inserito. Il
buono è dunque esito di una triangolazione
tra chi percepisce, ciò che viene percepito e
l’ambiente – il contesto, l’atmosfera – in cui
questa relazione avviene. Ciò ci consente di
concepire situazioni ed esperienze differenziate. Possiamo distinguere almeno quattro
famiglie di casi.
In sintesi: 1) quella in cui il buono (sensoriale) fa (il) bene (morale). Ci sono casi in cui
legittimamente abbiamo desiderio di provare piacere per certi cibi, e questo desiderio
corrisponde a uno stato legittimo che aiuta
a farci stare meglio dal punto di vista morale. 2) quella in cui il bene fa il buono, nel
senso di un apprezzamento etico del cibo
che guida la nostra educazione sensoriale e
culturale al piacere. 3) quella in cui il buono
corrisponde al rassicurante e al noto, a qualcosa rispetto a cui ci sono punti di riferimento. 4) quella in cui il buono corrisponde
al noto, all’esotico, all’emozione per l’ignoto
che non ci offre termini di confronto.
Ciascuno di questi casi è legittimato all’interno di una percezione consapevole e coerente.
Questa consapevolezza la chiamo saggezza
gustativa. La saggezza del gusto è quell’atteggiamento flessibile ed elastico che segue all’acquisizione della capacità percettiva delle differenze, delle contaminazioni
e delle dinamiche complesse poste in essere nei contesti dell’esperienza gustativa.
È una capacità percettiva che recepisce le
variabili dell’esperienza e le accorda a un
sentire consapevole e appagato. La saggezza è il frutto di un percorso di sensibilizzazione lungo e complesso ed essa stessa
non è una condizione statica: è quasi un’idea limite, da intendersi più come guida
per l’esplorazione dell’esperienza che come
stato perfettamente realizzato. La saggezza è la consapevolezza delle molteplicità di
variabili dell’esperienza del gusto del cibo,
e dunque delle variabili del buono, assieme
alla capacità di attraversarle, di transitare
tra esse con apertura e flessibilità. Il grande
Montaigne, che pure era un attento e raffinato degustatore, invitava proprio a questa
saggezza quando affermava: «Se basate il
vostro piacere sul bere un vino gradevole,
vi obbligate al dolore di berne talvolta di
sgradevole. Bisogna avere il gusto più facile
e più libero».
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