L`organizzazione della Pubblica Amministrazione

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L`organizzazione della Pubblica Amministrazione
Articolo L’organizzazione della Pubblica Amministrazione in Italia tra unitarismo e pluralismo, autonomia e decentramento, autarchia e indipendenza (di Giuseppe Pompella ‐ Ministero dell’Interno‐Dipartimento per le Politiche del Personale e per le Risorse Strumentali e Finanziarie ‐ Ufficio VII ‐ Innovazione Organizzativa ‐ Roma). **** Unitarismo e pluralismo Per la realizzazione dei suoi fini istituzionali, la Pubblica amministrazione si può modellare in varie figure organizzatorie. Senza avere la pretesa di trattare tutte le varie figure che storicamente si sono presentate, ci limitiamo a prendere in esame due principi organizzatori che assumono un particolare rilievo negli ordinamenti positivi contemporanei: l’unitarismo (o monismo) e il pluralismo. L’unitarismo, come indica già lo stesso termine, si risolve in una forza centripeta che conduce ad attribuire tendenzialmente i poteri decisionali ad una sola figura soggettiva pubblica, quale il Princeps, lo Stato‐apparato, il Partito, etc. La realizzazione di questo modulo avviene ordinariamente avvalendosi delle figure organizzatorie dell’accentramento, della gerarchia e di vari tipi di controlli verticistici particolarmente penetranti. Al principio dell’unitarismo si contrappone l’altro principio del pluralismo. In linea di approssimazione si intende per pluralismo ‐ nella sua accezione più lata che va dal pluralismo politico, a quello economico, a quello sociale, etc. ‐ quella concezione che propone come modello una società composta da più gruppi o centri di potere, anche in conflitto fra loro, in modo che, oltre l’interesse pubblico generale della comunità massima (lo Stato), trovino riconoscimento anche i più vari interessi pubblici settoriali presenti nella società (ordini professionali, federazioni sportive, etc.). A tal fine, al pluralismo va anche assegnata la funzione di limitare, controllare ed, eventualmente, contrastare il centro di potere dominante, identificato storicamente nello Stato. Così lo Stato pluralistico è quello in cui non esiste una sola fonte di autorità che sia onnipotente e onnicomprensiva. Tralasciando gli altri tipi di pluralismo, soffermiamo la nostra attenzione sul pluralismo amministrativo, il quale, nella sua accezione più diffusa, si concreta nella coesistenza di vari centri riconosciuti dall’ordinamento generale quali titolari di interessi pubblici specifici: così, per esempio, l’Università, nei limiti stabiliti dalla legge dello Stato, gode di un margine di poteri decisionali propri (art. 33, ultimo comma, Cost.). Il pluralismo amministrativo, come vedremo, si realizza ordinariamente attraverso i moduli organizzatori dell’autonomia, del decentramento funzionale, della partecipazione e dell’autogoverno. Ciò che è ora importante sottolineare è che i modelli sopra delineati dell’unitarismo e del pluralismo sono riscontrabili nella loro integralità esclusivamente in teoria. Nella realtà si può parlare soltanto di linee tendenziali, per cui ben difficilmente essi si presentano allo stato puro. Si può anche dire che non esiste oggi sistema politico‐amministrativo che sia esclusivamente orientato verso la massimizzazione dell’una o dell’altra figura. Anche nel nostro ordinamento assistiamo ad una commistione dei due modelli, in quanto la linea tendenziale verso il pluralismo è sempre imperfetta: si pensi all’unitarietà dell’apparato delle forze armate e della funzione giurisdizionale, che si inquadrano nell’ottica dell’art. 5 Cost. nella parte in cui afferma che la Repubblica è unica e indivisibile. Peraltro l’esasperazione dell’uno o dell’altro dei modelli porta a delle degenerazioni: l’unitarismo può portare verso sistemi assolutistici o totalitari; il pluralismo alla disgregazione del tessuto connettivo sociale con tendenze centrifughe prevalenti su quelle centripete e ad una società policratica, cioè a più centri di potere con la prevalenza di interessi settoriali o corporativi sull’interesse generale. Così, una eccessiva libertà può degenerare in anarchia. Ritorna alla mente l’incisiva espressione di Crisafulli: <<Di libertà si muore>>. Sul terreno della dicotomia unitarismo‐pluralismo si agita in realtà l’eterno problema della dialettica autorità‐libertà. Una società di qualunque specie, solo attraverso un armonico contemperamento di questi due elementi, raggiunge infatti il giusto equilibrio. Autonomia e decentramento L’autonomia è una figura organizzatoria che assume particolare rilievo negli ordinamenti pluralistici e così essa ha trovato attuazione nel nostro ordinamento fondato sul pluralismo (v. art. 2 Cost.). La nozione ha un valore relativo e storicistico non essendo possibile racchiuderla in una definizione assoluta ed astratta, atemporale ed aspaziale, in quanto essa varia secondo i sistemi politico‐
istituzionali e le trasformazioni socio‐economiche. Basti pensare che i principi autonomistici non trovarono spazio in Italia durante il processo di unificazione, in quanto si riteneva che potessero incrinare quell’unità amministrativa, imposta come “corollario” dell’unità politica. Quindi i tentativi operati nel senso di creare livelli di autonomia fallirono (progetti Minghetti, Crispi ed altri). Occorre fra l’altro considerare che nello Stato di diritto (del secolo XIX) vigeva il dogma della c.d. statualità del diritto. Tale dogma trovava fondamento nella teoria (risalente all’esaltazione hegeliana dello Stato come “realtà dell’idea etica”) che vedeva nello Stato il deus ex machina della vita del diritto e tutto il diritto riconduceva allo Stato. Era consentita tutt’al più una posizione di pseudo‐indipendenza circoscritta alla diversificazione soggettiva (fondata cioè sul fatto che esistono soggetti diversi dallo Stato) ed alla c.d. autarchia configurata nel senso che le finalità di tali enti dovevano coincidere con quelle dello Stato‐apparato. Pertanto ogni attività era soggetta a rigidi controlli anche di merito: in tal senso si andava formando una visione spuria dell’autonomia, ed infatti alcune figure soggettive (tipici gli enti locali) godevano semplicemente di poteri definiti e concessi graziosamente dall’autorità centrale. Dopo l’esperienza fascista, che accentua i connotati centralistici dello Stato, con l’avvento della Costituzione repubblicana (1948) l’impostazione si ribalta ed infatti il principio autonomistico viene accolto in tutta la sua estensione ed elevato a principio fondamentale dell’ordinamento dello Stato. Basti pensare alla formula dell’art. 5: <<La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi e i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento>>. Questa disposizione è di particolare rilevanza perché si ammette che le autonomie sono “riconosciute” dall’ordinamento statuale, che esse cioè hanno un proprio diritto di essere. Ciò naturalmente non significa che gli enti autonomi siano dotati della originarietà (nel qual caso sarebbero enti sovrani) in quanto nei loro confronti necessita sempre un riconoscimento dell’ordinamento statuale, dal quale deriva la loro natura di soggetti dell’ordinamento (cfr. Benvenuti, L’ordinamento repubblicano, Venezia, 1975). Oltre che nell’art. 5 Cost. sopracitato l’autonomia trovò, nella Carta fondamentale, la sua affermazione negli artt. 115, relativo all’autonomia regionale, 116, che assicura alle regioni a statuto speciale “forme e condizioni particolari di autonomia”, 119, relativo all’autonomia finanziaria regionale, 128, sulle autonomie comunali e provinciali, 33, sulla potestà di istituti di alta cultura, università ed accademie di darsi “ordinamenti autonomi”, etc.. Con l’entrata in vigore della Costituzione lo Stato dunque non è più egemone, ma conserva ancora un accentuato predominio nei confronti delle altre amministrazioni pubbliche. Vedremo, nel prosieguo, come la situazione si evolverà. °°°°° Tornando al concetto di autonomia, va precisato che oggi il termine <<autonomia>> in senso proprio viene usato per indicare la posizione di maggiore o minore dipendenza di una figura giuridica soggettiva (per esempio, Comuni, Province, etc.) nei confronti di altra figura soggettiva ad essa collegata (per esempio Stato). La dottrina giuspubblicistica tradizionale, riallacciandosi al significato etimologico del termine (dal greco autòs = se stesso e nòmos = legge), inizialmente identificava l’autonomia con la sola autonomia normativa. Successivamente, attraverso un’analisi più approfondita mise esattamente in rilievo che l’autonomia normativa ‐ pur conservando un’importanza fondamentale ‐ costituiva solo una species dell’ampio genus dell’autonomia, nel quale sono da ricomprendere diverse accezioni. A seconda dei casi, infatti, è possibile individuare vari tipi di autonomia: una politico‐
amministrativa (quando ad un ente viene riconosciuto il potere di darsi un indirizzo‐politico amministrativo diverso da quello del governo centrale, come nel caso degli enti che rappresentano collettività, in quanto ad investitura popolare, quali le regioni, le province e i comuni), una normativa (quando ad un ente viene riconosciuto il potere di darsi norme rilevanti per il sistema generale delle fonti del diritto, come ad esempio i regolamenti comunali di polizia urbana, di igiene, edilizi, ecc.), una organizzatoria (quando ad un ente viene riconosciuto un regime giuridico parzialmente diverso rispetto a quello ordinario al quale sono assoggettate le figure giuridiche similari, sì da costituire una deroga ad una regola generale, in ordine al tipo di rapporto con gli organi superiori) una organizzativa o statutaria (quando ad un ente viene riconosciuto il potere di definire, con uno statuto, il proprio assetto strutturale interno per la parte non definita primaria, nonché le regole per il proprio funzionamento) una regolamentare (quando ad un ente viene riconosciuto il potere di adottare regolamenti organici, del personale, di contabilità o di servizio) una finanziaria (quando ad un ente viene riconosciuto il potere di finanziarsi autonomamente, attraverso la percezione di proventi derivanti dallo svolgimento di una propria attività, amministrandoli direttamente), una contabile (quando ad un ente viene riconosciuto il potere di tenere una propria contabilità in base a norme che derogano la disciplina di contabilità generale) e una tributaria (quando ad un ente viene riconosciuto il potere di assicurarsi entrate proprie attraverso l’imposizione di tributi, come nel caso degli enti locali, a norma dell’art. 119 cost.). Comunque si potrebbe ancora continuare con altre distinzioni e sottodistinzioni ma esse hanno una rilevanza più circoscritta ovvero hanno carattere meramente descrittivo. In ogni caso, quale che sia la forma in cui essa si manifesta, l’autonomia si sostanzia sempre in un quid irriducibile, che consiste nella capacità di autodeterminazione consentita al soggetto autonomo, al fine di poter provvedere alla cura di interessi propri e quindi di godere e disporre dei mezzi necessari al riguardo. °°°° L’attenzione va invece fermata sul concetto di autonomia politica (o politico‐amministrativa), che è divenuta un modo di essere della Repubblica. Ed infatti, il modello organizzatorio che maggiormente esprime i valori più ampi dei principi autonomistici è senz’altro l’autonomia politica. Essa consiste nella potestà degli enti esponenziali di collettività territoriali locali di perseguire un proprio indirizzo politico, eventualmente anche divergente da quello del Parlamento e del Governo nazionale, purchè non contrastante con i principi dell’ordinamento costituzionale della Repubblica. Tale tipo di autonomia propria solo delle Regioni, dei Comuni (ed in misura più limitata) delle Province, trova fondamento nel fatto che tali enti (che sono governati da organi rappresentativi) sono esponenziali di collettività personificate, anche se di dimensioni locali. Gli enti territoriali derivano così l’indirizzo politico non dallo Stato, ma dalla loro comunità (o, meglio, dalla maggioranza della loro comunità) con la conseguenza che tale indirizzo, può essere divergente da quello dello Stato centrale e perfino contrastare con esso, allorchè non si abbia corrispondenza di maggioranza fra il governo centrale e quello degli enti territoriali. Ciò fa si che gli enti territoriali, nel quadro del sistema dei poteri pubblici, hanno una posizione del tutto peculiare nei confronti di ogni altro soggetto dell’ordinamento, cioè nei confronti di ogni altro potere non statale. Il potere di darsi un indirizzo è posseduto da ogni soggetto (pubblico e privato); tuttavia allorchè il soggetto è un ente esponenziale di un ordinamento politico, tale potere è necessariamente potere di indirizzo politico perché la comunità non emette che delle manifestazioni politiche nel senso scientifico del termine (e cioè attinenti alla condotta di un gruppo associato stanziato su di un territorio e costituito in ordinamento) (Galateria ‐ Stipo, Manuale di diritto Amministrativo, Vol. I, Parte Generale, UTET, 1992). Si può rilevare che tale indirizzo politico è sempre relativo incontrando limiti più o meno penetranti. Ciò ‐ come è stato osservato (Cuocolo, Commento Statuto Liguria, Milano, 1973) ‐ incide più sul quantum che non sull’an perché lo stesso potere politico statale (che certamente è più ampio) è oggi variamente delimitato (si pensi solo ai condizionamenti che derivano dall’ordinamento comunitario e dall’ordinamento internazionale). È evidente quindi che non si può escludere la “politicità” ove sussistano limiti, dovendosi soltanto riconoscere una “graduazione” dell’indirizzo politico la cui intensità oggi storicamente è massima nello Stato‐ente sovrano i cui fini, in astratto, sono virtualmente illimitati. Con l’<<autonomia politica>> qualunque fine e qualunque interesse dell’ente territoriale si pone con parità di valore nei confronti dei fini e degli interessi dello Stato‐persona, tutti assommandosi nell’ordinamento complessivo (Benvenuti, cit.). Con l’entrata in vigore della Costituzione, Regioni, Province, Comuni non possono essere più considerati enti autarchici (nel senso tradizionale della nozione di autarchia) e neanche enti ausiliari dello Stato. Essi cioè non sono in posizione di aiuto rispetto allo Stato ma costituiscono ordinamenti autonomi con libertà di autodeterminazione, concorrendo così in posizione di pari dignità con lo Stato‐persona a raggiungere con esso i fini dell’ordinamento comunitario complessivo. L’autonomia politica è così espressione e strumento di democrazia; nel suo significato autentico può esistere solo negli ordinamenti democratici e avvalendosi, a sua volta, di congegni democratici. Ove tali condizioni manchino, l’autonomia politica è solo apparente o addirittura non esiste affatto (come, per esempio, nei nostri enti territoriali durante il fascismo). Nel nostro ordinamento, quindi, sono dotati d’indirizzo politico lo Stato (il più importante ente esponenziale della collettività) ma anche le Regioni, i Comuni e le Province. Tra tali soggetti, certo, esistono delle differenze sostanziali, cionondimeno il nostro ordinamento repubblicano si snoda su questi quattro ordini di enti. °°°° Con la Costituzione Regioni, Province e Comuni divengono dunque rappresentativi di una nuova sistemazione politico‐giuridica delle strutture pubbliche, la quale non può non investire necessariamente anche lo Stato, il quale da Stato di diritto accentrato si trasforma, secondo l’incisiva espressione del Berti, in Stato sociale delle autonomie (cfr. Berti, Commento all’art. 5 Cost., in Commentario alla Costituzione a cura di G. Branca, Principi Fondamentali, Bologna‐Roma, 1975). L’evoluzione del quadro organizzativo attiene, pertanto, alla modificazione dell’originario corpo amministrativo compatto e complessivamente riferibile allo Stato in una serie di corpi separati; e ciò in conseguenza del mutare dei rapporti tra lo Stato e gli enti territoriali minori, i quali da una posizione di subordinazione gerarchica rispetto allo Stato vengono elevati ad enti ad esso equiordinati (cfr. Scoca, Diritto Amministrativo, Giappichelli Editore, Torino, 2008). Il punto di arrivo di questo lungo processo, di cui le riforme dell’ultimo decennio del secolo scorso ed ‐ in particolare ‐ la legge n. 59/1997 (cd. legge Bassanini) costituiscono parte fondamentale, si ha con la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3. Tale legge, che ha profondamente modificato l’impianto del Titolo V della parte II della Costituzione, rappresenta per il sistema delle autonomie locali e regionali una importante attuazione dei principi fondamentali dell’art. 5 Cost. e sancisce definitivamente l’assetto policentrico della Repubblica e un modo nuovo di coniugare unità del sistema e ruolo delle autonomie per le quali viene espressamente riconosciuta la compartecipazione a pieno titolo all’unità e all’indivisibilità della Repubblica, ma anche l’obbligo per la legislazione repubblicana di adeguare i suoi principi e metodi alle esigenze dell’autonomia e del decentramento. Questi principi trovano un più pregnante inquadramento nel riconoscimento, ai sensi del nuovo art. 114 Cost., della pari dignità costituzionale di Comuni, Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, quali elementi costitutivi della Repubblica. Ed in effetti, l’idea base della legge di riforma è stata quella di rovesciare in maniera completa l’andamento nella costruzione/ricostruzione del nuovo ordinamento dei pubblici poteri muovendo dal basso verso l’alto, partendo dalle istituzioni più prossime ai cittadini, anzi dalle istituzioni/formazioni sociali (secondo il principio di sussidiarietà in senso orizzontale) e poi via via risalendo a quelle di livello più elevato (secondo la logica del principio di sussidiarietà verticale), portando a compimento il disegno di riforma avviato con il decentramento delle funzioni amministrative (legge n. 59/1997). Meglio di qualsiasi altra formula, il senso del ribaltamento di prospettiva ci è offerto dal confronto fra le due formulazioni dell’art. 114. Il primo, quasi riecheggiando la formula di apertura del vecchio t.u. della legge comunale e provinciale del 1934, secondo cui il Regno si ripartiva in Province e Comuni, affermava che “La Repubblica si riparte in Regioni, Province e Comuni”, mentre nel nuovo testo la prospettiva viene completamente invertita ‐ “La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato” ‐ offrendo uno schema organizzativo il cui nucleo centrale va ravvisato nelle autonomie locali alle quali viene riconosciuto un complesso grado di autonomia. È opportuno richiamare anche il secondo comma dell’art. 114, il quale precisa che “i Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione”. In tal modo, il principio autonomistico non viene più soltanto enunciato, sia pure con solennità, ma coerentemente disciplinato nelle sue linee essenziali. Esso si realizza in concreto attraverso l’attribuzione agli enti autonomi sia della potestà statutaria, sia di un’ampia potestà regolamentare; con conseguente riduzione dell’ambito riservato alla legge dello Stato e delle Regioni in ordine al disegno organizzativo di Comini e Province. A prescindere dalle Regioni ‐ che hanno anche potestà legislativa (estesa ora, in forza della nuova formulazione dell’art. 117, comma 4, <<ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato>>) e non hanno altri limiti nel disegnare la loro organizzazione, le loro attribuzioni e il loro modo di operare, oltre quelli previsti dalla Costituzione ‐ anche Comuni, Province e le non ancora istituite Città metropolitane sono dotati, oltre che di potestà statutaria, di potestà regolamentare in ordine alla disciplina della loro organizzazione e dello svolgimento delle loro funzioni (Scoca, cit.). In definitiva, gli articoli 5 e 114 Cost., che affermano e tutelano il principio del decentramento e quello dell’autonomia degli enti locali territoriali, stanno a testimoniare la dissoluzione della funzione centralizzatrice dello Stato e, allo stesso tempo, l’affermazione di un sistema multiorganizzativo che è diretta espressione del pluralismo sociale sancito dall’art. 2 Cost. Ed infatti, le disposizioni costituzionali, per un verso, definiscono i principi che devono presiedere all’espletamento della funzione organizzativa. Per l’altro, presupponendo l’esistenza di più soggetti pubblici che agiscono autonomamente al servizio di specifiche comunità, si prospettano, in termini generali, come elemento di unificazione di una realtà giuridica sempre più differenziata (Cassese, Istituzioni di Diritto Amministrativo, Giuffrè, Milano, 2004). °°°° Dall’autonomia politico‐amministrativa si distinguono l’autogoverno, il decentramento e la deconcentrazione. L’autogoverno (il termine è la traduzione della parola inglese selfgovernment) si ha quando un ente, nel proprio ambito territoriale, viene dotato, oltre che di autonomia, anche di tutte le funzioni pubbliche, ad eccezione di quelle concernenti la difesa e i rapporti con l’estero. Esso consiste, pertanto, in quella struttura organizzativa propria di taluni Stati (ad es. gli ordinamenti anglosassoni) secondo la quale la titolarità di uffici ed organi di carattere locale dello Stato è conferita non mediante nomina da parte di autorità centrali, bensì mediante elezione da parte di cittadini aventi sede nella circoscrizione amministrativa dell’organo (per esempio organi come i Prefetti, i Questori, gli Intendenti di finanza, etc., oggi di nomina governativa, in un sistema di autogoverno, verrebbero eletti dalla popolazione locale). Allorchè tale figura organizzatoria è attuata, si realizza una delle massime espressioni del pluralismo in quanto si sottraggono agli organi centrali i poteri relativi ad uffici periferici, che assumono la configurazione di organi delle comunità locali (si tratta tuttavia di un modello ormai superato, la cui realizzazione storica si è avuta solo in Gran Bretagna fino agli anni trenta del secolo scorso). Il decentramento (figura organizzatoria che si contrappone ‐ come si è visto ‐ al modello organizzativo centralistico) consiste nella devoluzione di funzioni da uffici centrali a uffici locali, che le esercitano sotto il controllo della rispettiva collettività e non più del centro (è quanto si è verificato, ad esempio, con i decentramenti operati con il d.P.R. n. 616/1977 e con la citata legge n. 59/1997). Spettano così agli enti centrali ‐ in ordine alle materie di cui gli enti decentrati siano attributari ‐ soltanto poteri di alta vigilanza e di coordinamento (ciò non esclude che in casi di disfunzione degli enti decentrati competano agli organi centrali poteri repressivi, quali, per esempio, lo scioglimento degli organi ordinari di amministrazione). Si tratta comunque di un concetto complesso e multisfaccettato, che abbraccia una varietà di tipologie con differenti caratteristiche e implicazioni politiche. Inteso nella accezione sopracitata di riorganizzazione che contempla il trasferimento delle competenze e dei poteri di un ente centrale agli enti periferici, il decentramento svolge la funzione di alleggerimento del carico di lavoro centrale e di potenziamento delle unità organizzative locali. Nell’attuale fase di riforme istituzionali, battezzata con il nome di federalismo amministrativo, la formula del decentramento amministrativo (secondo cui le decisioni vengono prese non più al vertice, ma ai livelli più bassi e pertanto <<più vicini>> ai centri da cui scaturiscono i problemi da risolvere) è sembrata quella più congeniale all’esigenza di un’attività amministrativa meno rigida ed uniforme in risposta ai diversi bisogni e contesti sociali . Con la deconcentrazione (il termine deriva dalla dottrina francese) infine si realizza un trasferimento di funzioni da uffici centrali ad uffici periferici, che dipendono sempre dall’amministrazione statale. Essa, pertanto, non realizza, se non apparentemente, una forma di pluralismo, in quanto si sostanzia in realtà in una decongestione dell’attività dagli organi dell’amministrazione centrale agli organi periferici, rimanendo formalmente invariato il rapporto gerarchico, che viene invece a mancare nel decentramento di funzioni. Nel nostro ordinamento una notevole deconcentrazione si è avuta con la legge 11 marzo 1953, n. 150, con la quale il Governo venne delegato ad emanare decreti legislativi in varie materie, come i lavori pubblici, la sanità, il turismo, etc. Autarchia e indipendenza Sul concetto di autarchia occorre bene intendersi. Appare opportuna una previa analisi linguistica. Vari autori hanno chiarito una confusione di carattere terminologico che ha viziato, per molto tempo, un’esatta comprensione di questo concetto. Infatti, una cosa è autarchia (dal greco autarchìa = comando di sè stesso, ossia capacità di governarsi da sé) altra è autarcia (da autarcheìa = autosufficienza economica, bastare a sé stessi). Va evidenziato, altresì, che inizialmente per autarchia, come si è accennato, si intendeva quella figura organizzatoria che comportava una coincidenza fra i fini dello Stato e i fini degli enti pubblici cd. autarchici, con la conseguenza che questi ultimi venivano a trovarsi sostanzialmente in una posizione di pressochè totale subordinazione nei confronti dello Stato stesso. Oggi, invece, si è pressochè concordi nel ritenere che l’autarchia sia un attributo, una qualità, una particolare attitudine di vari soggetti pubblici. Essa consiste infatti nella potestà che vari enti pubblici hanno di emanare in corrispondenza ai propri bisogni e fini da soddisfare atti amministrativi aventi la stessa natura e gli stessi effetti degli atti amministrativi dello Stato. In altri termini, tali enti possono emanare atti e provvedimenti amministrativi di contenuto vario (certificativo, disciplinare, sanzionatorio, organizzativo, etc.) quali espressioni di potestà pubbliche autoritative. L’autarchia, ovviamente, è attribuita in misura diversa a seconda dei tipi di ente (pubblico). Enti pubblici dotati di autarchia sono in primis tutti gli enti territoriali investendo la più gran parte dell’attività da essi svolta (si pensi, per esempio, ad un ordine di demolizione di una casa pericolante, emesso da un Sindaco ovvero ad un provvedimento di espropriazione per pubblica utilità emanato dal Presidente della Giunta regionale, etc.); per gli enti diversi da quelli territoriali, l’autarchia riguarda in genere singole potestà ed è assente o quasi assente negli enti pubblici economici la cui attività è disciplinata ordinariamente dal diritto privato. L’autarchia, in ultima analisi, è tanto più ridotta quanto meno esteso è il settore di attività in cui l’ente agisce secondo il regime di diritto pubblico. Sandulli sostiene che non vi è ente pubblico che non sia dotato di un minimum di potestà pubblica (quanto meno di una potestà di certificazione e di minimum di poteri pubblici di autoorganizzazione) e quindi secondo questa tesi l’autarchia appare come un connotato essenziale della personalità pubblica (cfr. Sandulli , Manuale di diritto Amministrativo, Jovene Editore, 1989, Napoli). Ma si osserva al riguardo (Cassese, cit.) che se è vero che, nell’attuale diritto positivo, il più delle volte alla personalità di diritto pubblico si accompagna l’attribuzione dell’autarchia, sia pure limitatamente ad alcuni atti, la coesistenza necessaria di autarchia e personalità pubblica non è rinvenibile né sul piano della logica giuridica né sul piano del diritto positivo stesso: basti pensare come sia pacifico che per curare interessi pubblici non è certo necessario usare degli strumenti autoritativi pubblicistici. Per il Cassese, quindi, il concetto di autarchia ha perso di importanza negli ordinamenti contemporanei, dove la capacità di emanare provvedimenti amministrativi viene riconosciuta in via generale a tutti gli uffici pubblici e, talvolta, anche ai privati. °°°° Il concetto di indipendenza si pone ad un livello di astrazione superiore rispetto a quello di autonomia, anche se a questo è strettamente correlato. La migliore analisi sul punto è quella svolta da Cassese. Secondo questo autore, la realtà dei rapporti tra soggetti pubblici è particolarmente complessa e, dunque, di difficile interpretazione. Infatti, da una parte, le norme non provvedono ad alcuna tipizzazione e, dall’altra, il ricorso agli istituti del diritto amministrativo non sempre è sufficiente, a causa della loro relatività. Non vi è dubbio, però, che il principio di autonomia può trovare attuazione solamente tra soggetti posti in posizione di equiordinazione, al fine di regolarne i rapporti, con portata diversa a seconda della qualificazione che di volta in volta può essergli riconosciuta. Esso, dunque, presuppone l’esistenza di un rapporto, non importa se effettivo o anche solo virtuale, tra soggetti differenti, rapporto che, in qualche misura, si vuole delimitare. Diversamente, sembra che il principio di indipendenza debba essere utilizzato in tutte quelle ipotesi nelle quali sia necessario evitare che si possano sviluppare relazioni tali da incidere sull’esercizio della funzione di un soggetto, in qualche modo condizionandola. Da questo punto di vista, l’autonomia, nelle sue diverse espressioni, diventa un elemento necessario ai fini dell’affermazione dell’indipendenza. Quest’ultima non può dirsi realizzata se non in presenza della prima, la quale deve essere considerata come strumentale. Per tale motivo, il concetto di indipendenza assume carattere relativo ed è difficilmente configurabile in termini precisi, perché varia di volta in volta a seconda delle singole fattispecie. D’altra parte, osserva il Cassese, una simile soluzione non è nuova nel nostro ordinamento. Una posizione di indipendenza verso gli altri poteri dello Stato e, in particolar modo, verso quello governativo, infatti, è riconosciuta anche alla magistratura. Tuttavia il principio sancito dall’art. 101 Cost., secondo il quale <<i giudici sono soggetti soltanto alla legge>>, non si realizzerebbe concretamente se non fosse prevista una serie di garanzie volte ad escludere ogni forma di ingerenza nell’amministrazione della giustizia (disciplina della selezione e dell’assunzione, delle modalità di carriera, dell’inamovibilità, per un verso, e previsione di un organo di autogoverno, per l’altro). Tali garanzie assumono una funzione strumentale nei rispetti dell’estraneità del giudice rispetto agli interessi oggetto delle controversie che vengono sottoposte al suo esame, secondo una impostazione del tutto simile a quella utilizzata nei confronti delle autorità indipendenti (si pensi, per es., all’Autorità garante della concorrenza e del mercato o al Garante per la protezione dei dati personali, etc.). In definitiva, il principio di indipendenza si rivela molto simile a quello di imparzialità. Ambedue i principi operano in modo simile, come strumenti di garanzia dell’azione amministrativa. Essi tendono ad assoggettare l’autorità pubblica alle disposizioni di legge che individuano la funzione dell’ufficio e i doveri dei soggetti che ne sono titolari. In questa maniera, è possibile neutralizzare sia le ingerenze interne che quelle esterne: si evitano contrasti con quanto stabilito dalle norme, si eliminano discriminazioni ai danni delle parti più deboli, si impedisce, con varie modalità, una non esatta conoscenza della realtà e così via. Conclusioni Il sistema della Pubblica Amministrazione in Italia ha, nel nostro tempo, struttura pluralistica; e si tratta di un pluralismo di vasta dimensione e varia configurazione e articolazione. Accanto alle amministrazioni statali, vengono ad acquisire rilevanza altri pubblici poteri (regioni, province, comuni, enti pubblici, autorità indipendenti, ecc.) che agiscono seguendo itinerari diversi e con problematiche differenti. In altre parole, l’amministrazione pubblica si presenta come una organizzazione articolata su più poli e centri di imputazione, collocati in aree diverse (regionali, statali e sopranazionali), che ‐ caratterizzandosi per la estrema differenziazione ‐ viene anche definita come amministrazione <<multiorganizzata>>, cioè appunto ordinata in diversi centri di potere e secondo diversi modelli organizzativi. Il pluralismo autonomistico è la formula che meglio di altre riassume l’evoluzione dell’organizzazione della pubblica amministrativa, che, con l’avvento della Costituzione (prima) e con le riforme dell’ultimo ventennio (poi), ha segnato il passaggio da un tipo di amministrazione tutta concentrata nello Stato, secondo il modello dell’accentramento tipico degli Stati centralistici, al sistema attuale, caratterizzato dalla larga attuazione del principio autonomistico. Occorre, tuttavia, evidenziare ‐ sul terreno della dicotomia unitarismo‐pluralismo ‐ che l’art. 5 della Costituzione, nell’enunciare il pluralismo autonomistico tra i principi fondamentali, lo pone accanto a quello dell’unità ed indivisibilità della Repubblica. Ciò significa, da un lato, che il riconoscimento di autonomia agli enti territoriali non deve pregiudicare l’unità dello Stato italiano e che pertanto le Regioni, le Province ed i Comuni sono chiamati ad operare nell’ambito di una cornice istituzionale ed ordinamentale unitaria; dall’altro, che l’unità della Repubblica non deve soffocare il pluralismo delle autonomie territoriali e quindi l’ordinamento statale complessivo deve “alimentarsi” anche attraverso la differenziazione delle scelte operate a livello locale (ovviamente nelle forme e con gli strumenti che la stessa Costituzione prevede). Giuseppe Pompella