kurdistan iracheno : una promessa mancata
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kurdistan iracheno : una promessa mancata
Analysis No. 298, maggio 2016 KURDISTAN IRACHENO : UNA PROMESSA MANCATA Giovanni Parigi La miglior descrizione dell’attuale situazione in Iraq è forse racchiusa in un recente tweet di di Barham Salih, ex primo ministro del parlamento regionale curdo nonché vice primo ministro del governo federale iracheno: “Chaos a Bagdad; è la fine definitiva del sistema di governo nato nel 2003. Non si tratta più di cambiare governo, ma si tratta di cambiare un sistema politico che ha fallito”1. Senonché questo fallimento sistemico non riguarda solo Bagdad, ma anche il Kurdistan iracheno, ormai in profonda crisi. Infatti, il Kurdistan iracheno non è più quell’isola prospera, stabile e felice così come veniva fin di recente descritta. Anzi, oggi gravi difficoltà finanziarie, forti tensioni interne, dinamiche internazionali e il Daesh minacciano pesantemente il futuro del Kurdistan iracheno. Dunque, il paese è investito da una crisi economica e sociale, oltre che politica e militare. ©ISPI2016 Giovanni Parigi, Docente di Cultura araba presso l’Università Statale di Milano 1 https://twitter.com/BarhamSalih/status/726424467807830016 1 The opinions expressed herein are strictly personal and do not necessarily reflect the position of ISPI. The ISPI online papers are also published with the support of Fondazione Cariplo. Economia L’economia e la società curda dipendono quasi esclusivamente dal petrolio. In altri termini, gran parte della popolazione dipende da un pubblico impiego, civile o militare2, e lo stato, a sua volta, dipende dal petrolio. Nonostante la “bonanza” petrolifera degli ultimi anni, l’economia non si è diversificata e settori critici come l’agricoltura sono rimasti molto arretrati; inoltre, quel poco che c’è di settore privato, come costruzioni, servizi e telefonia, è direttamente o indirettamente nelle mani di pochissime famiglie, Barzani e Talabani in primis. Dunque l’economia, sia pubblica che privata, è stata gestita con nepotismo, sviluppando reti di patronaggio familiare e tribale intrecciate col piano politico. Il risultato è che il governo curdo ha quasi 25 miliardi di dollari di debito, e ha dovuto sospendere o ridurre sensibilmente il pagamento degli stipendi dei funzionari pubblici. Il governo sta disperatamente cercando di varare riforme economiche e misure di austerità, ma sono per lo più dirette a ridurre i costi di un bilancio già disastroso; inefficienza e corruzione del governo sono così gravi che a prendersi cura delle finanze curde è stato chiamato un ex ministro libanese, mentre a verificare la regolarità dei conti del ministero del petrolio e a eradicarne la corruzione è stato dato incarico alla britannica Deloitte Accounting. Per inciso, e per rimanere in tema di nepotismo, l’attuale primo ministro Nechirvan Barzani è nipote del presidente Massud, che a sua volta è leader del Kurdistan Democratic Party (PDK); il vice primo ministro Qubad Talabani è invece il figlio dell’ex presidente iracheno Jalal Talabani, ex leader e fondatore della Patriotic Union of Kurdistan (PUK). ©ISPI2016 Il petrolio Senonché, oltre a corruzione e nepotismo, ad azzoppare l’economia curda ha soprattutto contribuito la crisi mondiale del settore petrolifero, peraltro intimamente collegata ad una ulteriore problematica, ovvero le relazioni con il governo centrale di Bagdad in merito alla gestione delle risorse oil & gas. Di fondo il KRG (Kurdistan Regional Government) ha infatti cercato di sviluppare una autonoma politica petrolifera, sia nel settore up-stream che down-stream. Però la costituzione irachena prevede che tutto il petrolio esportato dal paese -incluso quello curdo- sia commercializzato esclusivamente attraverso la SOMO (State Oil Marketing Organisation) e al Kurdistan spetterebbe il 17% dei relativi proventi nazionali. Senonché le sempreverdi divergenze politiche arabo-curde, nonché il fatto che la legislazione irachena su petrolio e gas è incompleta e non chiara, han fatto sì che la norma costituzionale sia stata contestata e oggetto di un continuo braccio di ferro. Del resto, l’esportazione di petrolio è stata la principale leva della politica estera curda e la svolta è stata nel 2013, quando sono stati conclusi con la Turchia diversi accordi sull’esportazione di petrolio e gas, ivi inclusa la realizzazione dei relativi oleodotti. 2 Su una popolazione di circa 5 milioni, gli impiegati nel settore pubblico sono 1.3 milioni 2 Di contro, temendo che ad una indipendenza del settore petrolifero seguisse una indipendenza politica, il governo centrale si è opposto in ogni modo ad una gestione autonoma curda dell’oil & gas; tant’è che nel 2014, lo strumento di coercizione usato dalla capitale è stato quello di sospendere l’allocazione di risorse del bilancio nazionale destinate al KRG. Dunque, complice a livello mondiale la caduta di domanda e prezzo del petrolio, il KRG si è trovato con una fortissima riduzione delle entrate; inoltre, stante la dubbia legittimità giuridica delle sue esportazioni “in proprio”, le autorità curde sono costrette a venderlo concedendo un cospicuo sconto. Peraltro, non essendo uno stato sovrano, a differenza del governo di Bagdad, quello di Erbil non può ricorrere a interventi di politica monetaria sul credito e la finanza, emettere obbligazioni o ricorrere all’aiuto del Fondo Monetario Internazionale, come ha potuto fare Bagdad. Purtroppo però, alla crisi economica si affianca una gravissima crisi politica interna. Politica La scena politica curda irachena è da decenni dominata da due attori, il KDP di Massud Barzani e il PUK fondato da Jalal Talabani. Si tratta di due partiti-movimento con un forte radicamento territoriale, dove le famiglie dei leader hanno un ruolo primario. Nel 1998, al termine di una guerra fratricida, le due forze trovarono un accordo politico, rinnovato nel 2003 con Barzani a capo del Parlamento regionale curdo e Talabani eletto come presidente della repubblica irachena. Senonché questo duopolio cominciò ad incrinarsi nel 2009, con l’apparire di un terzo movimento, il Gorran (Il Cambiamento); non legato a dinamiche tribali o familistiche, federalista e non indipendentista, è promotore della lotta alla corruzione e di un rinnovamento politico che spezzi l’egemonia KDP-PUK, e di fatto ha strappato al PUK la provincia di Sulaimaniya. ©ISPI2016 Infatti, alle ultime elezioni per il Perlemani Kurdistan (parlamento del Kurdistan iracheno) nel 2013, su 111 seggi 38 andarono al KDP, 24 al Gorran, al PUK solo 18; due partiti religiosi sunniti, il Kurdistan Islamic Union e il Kurdistan Islamic Group ne ottennero rispettivamente 10 e 6, mentre il resto finì a partiti minori. Dunque formalmente ci fu il collasso del PUK e l’ascesi del Gorran, che però per la prima volta abbandonò l’opposizione per entrare nel governo nell’aprile 2014. Peraltro, la mossa di associarsi al governo con PUK e PDK causò la disaffezione di moltissimi dei suoi elettori. In ogni caso, ben presto si svilupparono accese tensioni tra il Gorran e il KDP, apertamente accusato di governare illegalmente e in maniera dittatoriale. In particolare, nel 2015, il leader del Gorran Nawshirwan Mustafa chiese con insistenza di modificare la legge sulla Presidenza del KRG, varata dieci anni prima; sostanzialmente, la richiesta era quella di ridurre i poteri del presidente 3 a vantaggio del parlamento; a Mustafa si associarono il PUK e altri movimenti, ma il presidente Barzani ed il suo partito si opposero violentemente: lo scorso 12 ottobre Yussuf Mohamed, presidente del parlamento regionale curdo, fu fermato ad un check point da milizie filo Barzani e gli fu impedito l’ingresso a Erbil, dove ha sede il parlamento. Da tale data, a Mohamed e quattro ministri del governo appartenenti al Gorran, compreso il ministro dei peshmerga Mustafa Sayd Qadir, è stato impedito l’accesso alla capitale. Per inciso, e per dare l’idea delle tensioni, Mustafa è da tempo volato in Inghilterra, ufficialmente per “motivi di salute”. Dunque il parlamento è paralizzato, ma ad aggravare la situazione si aggiunge anche una seconda contesa. Infatti, lo scorso 20 agosto è scaduto il mandato di Massud Barzani quale presidente del KRG. Eletto dal parlamento nel 2005, riconfermato nel 2009 con elezione diretta, nel 2013 ha ottenuto dal parlamento una ulteriore estensione di 2 anni, che però è ormai terminata da tempo. Gorran, PUK e due partiti islamisti si sono uniti nel chiederne le dimissioni, ma Barzani ha risposto accusandoli di essere collusi con gli sciiti iracheni e l’Iran, anche se nel frattempo ha fatto circolare la notizia di avere l’appoggio iraniano per una sua riconferma sino alle prossime elezioni del 2017. ©ISPI2016 A complicare le dinamiche politiche è sopraggiunta la profonda crisi che sta attraversando il PUK. Infatti Jalal Talabani, leader storico e fondatore del PUK, da tempo versa in pessime condizioni di salute e di fatto non partecipa più attivamente alla vita politica. Senza quello che i suoi sostenitori chiamano mem Jalal ,“lo zio Jalal”, il partito si è diviso sulla successione; i papabili sono innanzitutto Hero Khan, moglie di Talabani e favorita alla successione, poi l’ex primo ministro del KRG, Barham Salih, ed infine il vicepresidente del KRG Khosrat Ali. In definitiva, l’attuale quadro politico è estremamente instabile, e l’iniziativa è nelle mani di Barzani che mira a mantenere la presidenza. Infatti da un lato, come vorrebbe il primo ministro Nechivan Barzani, il KDP potrebbe riaprire al Gorran chiedendo ai suoi ministri di reinsediarsi in parlamento, ottenendo in cambio una proroga del mandato presidenziale. Il consigliere per la sicurezza nazionale Masrour Barzani3, del KDP, spinge invece per rinnovare l’alleanza col PUK, formare un nuovo parlamento e tagliar fuori il Gorran; però, in tal caso, l’opposizione capitalizzerebbe sull’ “inciucio” e guadagnerebbe molto sostegno. Dunque i possibili esiti all’attuale impasse possono essere, sotto la forte pressione popolare interna e la minaccia del Daesh, innanzitutto quello di una sorta di governo di unità nazionale KDP-PUK e Gorran. L’alternativa è che quest’ultimo torni all’opposizione, ma si parla persino di un asse col PUK, che però porterebbe ad una forte polarizzazione, col rischio si torni ad una divisione tra cantoni curdi filo KDP nel nord e filo PUK-Gorran nell’est, come era prima del 2003. Questa contrapposizione si coglie ancor meglio a livello di 3 E’ il figlio di Barzani e suo probabile successore al potere 4 politica estera, dove il KDP cerca di rafforzare il rapporto con la Turchia, anche a spese del movimento curdo “fratello” PKK, mentre il PUK è più legato all’Iran ed è più tiepido nel contrastare il PKK. Referendum e indipendenza ©ISPI2016 Probabilmente è proprio per riacquistare un po’ della legittimità e del supporto popolare perduto, che Barzani sta spingendo per indire un referendum – peraltro non vincolante- sulla indipendenza del Kurdistan iracheno. A fronte della crisi economica, politica e di sicurezza che sta investendo il paese, nonché delle probabili implicazioni con Bagdad, Ankara e Teheran, molti osservatori la considerano infatti una boutade diretta a rinvigorire il nazionalismo curdo, piuttosto che un piano effettivamente realizzabile. In realtà alcuni osservatori pensano si tratti di una spregiudicata manovra diretta a creare una moneta politica da scambiare con Bagdad al fine di ottenere il vero obiettivo, ovvero Kirkuk. Quella che viene chiamata la “Gerusalemme curda”, abbandonata dall’esercito iracheno di fronte all’avanzata del Daesh nell’estate del 2014, fu occupata dai peshmerga; in teoria l’art. 1404 della costituzione irachena aveva previsto un meccanismo di voto per decidere se la città fosse da assegnare agli arabi o ai curdi, ma non è mai stato attuato per evitare scontri e tensioni. Ora però, avendone di fatto e in armi il controllo, Barzani minaccia il referendum sull’indipendenza dell’intero Kurdistan per costringere Bagdad a riconoscere la presa di Kirkuk come fatto compiuto. In realtà, riguardo la questione dell’indipendenza, solo una fazione del KDP vorrebbe raggiungerla rapidamente, contando su un presunto appoggio politico turco e sui proventi della vendita indipendente del petrolio; però molti dei politici curdi temono che, in tal modo, il paese diventerebbe un vassallo di Ankara, incapace di una propria politica finanziaria e militare; dunque chiedono una riconciliazione con Bagdad. Inoltre, considerata la posizione russa e iraniana, oltre che irachena, verso esportazioni in proprio di oil & gas verso la Turchia, come minimo il Kurdistan indipendente si troverebbe isolato sul piano internazionale. In ogni caso, il governo curdo sta cercando di salvare capra e cavoli rafforzando i rapporti energetici sia con Ankara che con Teheran; infatti se da un lato il Kurdistan cerca di diventare lo snodo petrolifero di una Turchia che dopo la crisi con la Russia ha un disperato bisogno di diversificare i propri approvvigionamenti, dall’altro sono in corso trattative per aprire una via di esportazione attraverso l’Iran. Considerato che Teheran è contrario sia all’indipendenza del Kurdistan che all’annessione di Kirkuk, l’apertura di una seconda via d’esportazione verso il Golfo Persico sarebbe una iniziativa di bilanciamento diplomatico e di avvicinamento politico con gli ayatollah; in ogni Per Kirkuk e altre aree contese tra arabi e curdi, fu costituzionalmente previsto che vi sarebbe stata una fase di normalizzazione della situazione, per poi effettuare un censimento della popolazione e infine, indire un referendum che ne avrebbe deciso la sorte 4 5 caso però, rimarrebbe il problema che dovrebbe essere Bagdad a decidere dove vanno le esportazioni curde. Del resto, i rapporti con Bagdad sono tesi sia politicamente che sul terreno. Non a caso, le milizie sciite arabe dell’Hashd al Sha‘bi stanno lentamente cercando di strappare al Daesh il controllo della via che da Bagdad conduce a Kirkuk, e nella città stanno cercando di rafforzare la loro presenza. Intanto a Tuz Khormato e in altre aree si sono già verificati pesanti scontri tra milizie sciite e peshmerga. Purtroppo queste tensioni sono facilmente destinate ad aumentare, soprattutto quando sarà liberata Mosul, dove la popolazione è mista arabo-curda. Per ora i curdi, nella lotta al califfato, stanno beneficiando di un forte appoggio militare americano. Non si tratta solo del decisivo appoggio aereo, ma anche truppe di terra come l’artiglieria dei marines della “firebase Bell” a Makhmour. In realtà gli USA sono intervenuti in Kurdistan sia per controbilanciare l’appoggio iraniano alle milizie volontarie sciite, che per aiutare i curdi messi militarmente in crisi dal califfato. La debacle curda era la conseguenza delle divisioni politiche che si traducevano in mancato coordinamento sul terreno tra le diverse unità peshmerga, oltre al fatto che corruzione e crisi economica si traduceva in mancanza di salari e munizioni ai combattenti. Per inciso, il ministro dei peshmerga era in quota Gorran e fu rimosso lo scorso ottobre; dunque gli USA stanno direttamente provvedendo con fondi per i combattenti, ma solo per quelli di unità miste KDP-PUK. Conclusioni ©ISPI2016 Per Obama, a fine anno, ci saranno le condizioni per la riconquista di Mosul; verosimilmente ciò comporterà la caduta o quanto meno una profonda crisi del Daesh come stato. Dunque in Medio Oriente si riaprirà un vuoto di potere, aprendo ad un nuovo scenario incerto e complesso. Una delle variabili più rilevanti è proprio quella curda. In semplificazione le possibili traiettorie del Kurdistan iracheno sono l’indipendenza, l’autonomia e l’implosione. L’indipendenza da Bagdad sarebbe innanzitutto malvista dagli USA e dall’Iran, oltre a presentare inevitabili pesanti implicazioni conflittuali come il controllo di Kirkuk, Mosul e Khanaqin, e comporterebbe il rischio di fare del Kurdistan un vassallo energetico turco; inoltre, senza istituzioni solide e una robusta economia, l’indipendenza è un pericoloso azzardo. L’autonomia, ovvero il permanere dello stato federale iracheno, parrebbe l’opzione più bilanciata e maggiormente auspicata, senonché richiede la realizzazione di due difficili accordi, uno di stabilizzazione in seno alle forze politiche curde, l’altro di riavvicinamento con Bagdad sia trovando un accordo sulla gestione delle risorse petrolifere, che una soluzione per il destino di Kirkuk. La terza opzione dell’implosione è forse quella che rischia di verificarsi se non si avverano le due precedenti. Infatti, se si polarizza 6 l’impasse politico attuale e se procede la rischiosa politica estera in corso, c’è il rischio che il Kurdistan si divida al suo interno, o che –nel peggiore dei casipersino si riaccendano i fuochi della guerra civile. In ogni caso, per ciascuno dei tre scenari è essenziale il ruolo di Barzani. E’ lui ad avere la forza per imporre possibili geometrie di stabilità politica che riattivino il parlamento, escludendo o meno il Gorran. Ma è in politica estera dove ci sono maggiori indizi per leggere i disegni del politico curdo; infatti i consolidati e ottimi rapporti con la Turchia di Erdogan, e i pessimi rapporti con Bagdad, escludono un avvicinamento al progetto di una confederazione con le entità curde di Siria e una politica conciliante con l’Iran e con i suoi alleati sciiti iracheni. Dunque oltre Ankara sono le petro-monarchie sunnite del Golfo, nemiche di Teheran e dei suoi alleati sciiti in Iraq e Siria, a fornire la sponda politica per Barzani. Non stupisce che recentemente il contestato presidente curdo si sia recato nel Golfo dove pare abbia ottenuto il rinvio di pagamenti dovuti dal KRG; in cambio sembrerebbe abbia promesso appoggio sia in merito all’approvazione della legge sulla guardia nazionale, in discussione al parlamento di Bagdad e fortemente richiesta dai sunniti iracheni, che in merito ad una politica filo-sunnita nella futura fase post-Daesh. ©ISPI2016 Forse però, a far traballare il trono di Barzani e ad appannare il Roj5, più che il califfato o le milizie sciite saranno la bancarotta finanziaria, la corruzione e la delegittimazione politica, che se non risolte potrebbero addirittura portare ad una sorta di “primavera curda”, magari cavalcata dal Gorran. 5 E’ il sole al centro della bandiera curda 7