saluto alle bandiere - Rotary Club Arezzo Est

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saluto alle bandiere - Rotary Club Arezzo Est
Alberto Nocentini*
Chi ha dato i nomi alle cose?
La curiosità etimologica è un sentimento istintivo, che si può manifestare fino dall’infanzia. La mia figliola
più grande, che non andava ancora a
scuola ma aveva già uno scilinguagnolo da radiocronista sportivo, mi
chiese un giorno senza preavviso:
Ma perché la sedia si chiama così e
non in un altro modo?
Per uno che esercita la professione di
glottologo o linguista che dir si voglia
sarebbe stato imbarazzante restare a
corto di argomenti davanti ad un quesito a prima vista così elementare. In
realtà la domanda dall’apparenza ingenua nasconde una questione cruciale, che nell’antichità divise i filosofi
del linguaggio in due correnti di pensiero contrapposte.
Da una parte gli anomalisti, sostenitori dell’origine “per natura” e dall’altro
gli analogisti, sostenitori dell’origine
“per convenzione”. Riducendo agli
estremi le due posizioni, secondo i
primi la forma di ogni parola è motivata dal suo significato, è una sorta di
immagine di ciò che rappresenta. La
domanda allora va riformulata in questi termini:
Qual è la causa per cui una cosa assume un determinato nome?
Per i secondi, invece, fra la forma e il
significato, fra la parola e ciò che
rappresenta non c’è alcun rapporto di
somiglianza né di necessità.
Se avessero ragione gli anomalisti, le
parole sarebbero icone sonore da cui
traspare immediatamente il significato. Parole che rispondono a questo requisito esistono in tutte le lingue e
fanno parte di quella sfera particolare
che è nota come onomatopea. Ognuno
si può immaginare da sé che genere di
conversazione sarebbe quella portata
avanti a forza di gulp, crack, splash,
pluff e patapunfete!, come in un fumetto di Topolino.
Inoltre le parole sarebbero universali
nel senso che si somiglierebbero in
tutte le lingue. Anche in questo caso
esistono parole universali e sono
quelle che imitano il balbettio infantile, come mama, papa, tata e che ricorrono dovunque con leggere variazioni
di forma e di significato.
Ma anche in questo caso la nostra lingua resterebbe al “pappo e’l dindi” di
dantesca memoria e i suoi parlanti si
esprimerebbero come il fanciullino
invecchiato evocato da Carlo Lapucci
nella sua divertente parodia pascoliana:
“che chiama la pupa ed il tato
per fare mao mao e pio pio
con un orsacchiotto;
che vuole per fare la cacca,
le chicche col mommo e col totto,
poi tira nel muso la pappa
al nonno che dorme in salotto”.
Non ci resta che accettare la posizione
degli analogisti, ma bisogna prima di
tutto intendersi su che cosa vuol dire
“per convenzione”. Il termine sembra
alludere ad un accordo fra parlanti e
con un po’ d’immaginazione ci possiamo figurare una scena avvenuta in
un momento imprecisato della preistoria: gli anziani della tribù si riuniscono e, come una sottocommissione
dell’UNESCO, stabiliscono di comune accordo i nomi da dare alle cose.
Niente di tutto questo. Con convenzione s’intende dire che fra le cose e
le parole che le designano, come fra i
significati e le forme che li esprimono, non c’è nessun rapporto di causa
ed effetto. Parlare una lingua vuol dire accettare le sue convenzioni, che
sono diverse dalle convenzioni di tutte le altre lingue. La domanda cruciale
va riformulata nei termini seguenti:
Come si è formata la parola che designa un determinato oggetto?
Tornando all’ingenua domanda iniziale, la risposta non è complicata: il
nome della sedia, attraverso la forma
intermedia sieda, risale alle voci del
verbo sedere che hanno l’accento sulla radice e quindi il dittongo, come il
presente siedo, siedi, siede. L’aspetto
curioso della faccenda è che la forma
secondaria sedia, frutto di uno spostamento - metatesi per la precisione -
della semivocale i dalla prima alla seconda sillaba, è stata assunta nella
lingua letteraria, non per meriti speciali, ma di nuovo per convenzione.
La forma primaria sieda è rimasta
confinata nella campagna toscana e i
parlanti che ancora la usano vengono
scherniti per il loro “errore”.
Le vicende di sedia si concludono
qui, ma l’appetito vien mangiando: e
allora il verbo sedere? In questo caso
l’italiano non basta più in quanto sedere è la continuazione diretta del latino sedēre. Ma nemmeno il latino
ci dice molto di più, se non che sedēre
si compone della radice sed- e della
desinenza –ēre, che conferisce all’
azione il valore continuativo di “stare
seduto”. Il latino rappresenta il limite
ultimo, il finis terrae della nostra documentazione. Andando oltre si apre
uno scenario dagli sviluppi imprevedibili.
La prospettiva si allarga mediante la
comparazione del latino colle lingue
dell’Europa e dell’Oriente che si rivelano disponibili ci dischiude l’accesso
alla preistoria. Si scopre così che la
radice di sedēre ha corrispondenze
precise nell’inglese sit, nel tedesco sitzen, nel russo sidat’, nel lituano sedeti e, più ancora lontano, nel sanscrito
sadati.
Queste corrispondenze si compendiano in una formula di comodo e si fanno discendere dalla radice indoeuropea *sed- ‘stare seduto’, dove il ter-
mine “indoeuropeo” si riferisce alla
distribuzione geografica delle lingue
in gioco e l’asterisco indica che si
tratta di una forma ricostruita e quindi
ipotetica.
Qui fissiamo le nostre colonne
d’Ercole, che non rappresentano
l’origine del linguaggio ma ci permettono di giungere al millennio anteriore ai primi documenti scritti. Il risultato della ricerca è tutt’altro che trascurabile: partendo dall’italiano sede-
re, abbiamo scoperto che la sua radice
mantiene una continuità di forma e
significato per il tempo biblico di almeno quattromila anni, attraversando
indenne ogni genere di eventi naturali
e umani e resistendo più a lungo di
qualsiasi istituzione politica.
Relazione tenuta il 10 dicembre 2015
*
Professore ordinario in pensione
Dipartimento di Lettere e Filosofia
Glottologia e linguistica,
Università degli Studi di Firenze