Com-posizioni Percorsi di ricerca-formazione

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Com-posizioni Percorsi di ricerca-formazione
Com-posizioni
Percorsi di ricerca-formazione
alla relazione di cura
Laura Formenti
Non conobbi magiche attese, dolci nenie, carezze e baci prima
della notte. Nessuno medicò mai, che io ricordi, con un bacio una
mia «bua». Salii solo agli onori della cronaca a scuola quando per
un taglio in testa mi furono messi due punti ed io stoica non fiatai.
Onori, non coccole.
Non ho trovato mai chi aprisse le braccia per accogliere le mie
delusioni bambine, le mie speranze giovanili. Amici? No: gli amici
sono un altro «io». I miei erano coetanei, più o meno lieti, con i
quali stavo bene, ma amici… Lo trovai a vent’anni, anche lui orfano
e superstite della spagnola e adottato. Me ne innamorai e lo sposai.
(Ester Vanni, in Pasini, 2006, p. 66)
Ricordo la prima volta in cui sono stato di aiuto a qualcuno. È da
lì che nasce la mia «vocazione» di operatore sociale? Con mio fratello
si facevano le corse in bicicletta sulle strade di ghiaia del quartiere.
Ne aveva una piccola e azzurra che vibrava delle sue pedalate ancora
incerte. Poi il ferro del mozzo davanti si stacca e si infila nei raggi.
Lui fa un gran volo rigando con la faccia la stradina. Lo prendo in
braccio mentre dagli occhi, dalla bocca, dalle mani, i graffi di sangue
gridano con la sua voce. Lo porto a casa in braccio di corsa. Mi apre
angustiata la zia Lina che abitava sotto di noi, lo medica e pure io
medico me stesso raccontando mille volte ciò che era successo. (Pasini,
2006, p. 7)
Attraversare la cura
Questi due frammenti di storie, scritti da una donna e da un uomo
di generazioni diverse, sono originati dallo stesso desiderio: quello di
scrivere, di depositare sulla carta le proprie esperienze. Sono scritti per
essere letti, e chi legge vive una risonanza emotiva, interrogandosi sulle
proprie esperienze di cura. Cura riuscita o fallita, ricevuta o data, cura di
azioni e gesti, cura di parole e discorsi. E storie.
Nel caso di Ester Vanni, una storia che cura non solo perché scritta
e condivisa, ma perché racconta di un vuoto e di un pieno, di un problema e della sua soluzione. Nel caso di Beppe Pasini, una storia che,
interrogandosi sulle prime relazioni, connette il desiderio di cura al linguaggio dei sensi e del corpo, al dolore, all’amore, alla narrazione.
Autobiografia, formazione e cura
Il legame tra scrittura autobiografica e cura non è scontato; merita
di essere chiarito partendo innanzitutto dalla portata trasformativa della
scrittura di sé1 e dai diversi modi di declinarla in contesti educativi, formativi e/o di lavoro sociale. Che cosa cura nella scrittura di sé? Di quale
cura stiamo parlando? Quali pratiche possono essere attuate per tutelare
il carattere innanzitutto auto-formativo e generativo del lavoro autobiografico? Come si inserisce l’autobiografia nelle pratiche professionali
che si definiscono come curanti e curative (del corpo, della mente, delle
relazioni, dell’ambiente)?
La formazione autobiografica si realizza nell’intreccio di tre azioni:
scrivere, leggere, conversare (Formenti, 1998; 2008). Qualsiasi riflessione
teorica, metodologica ed epistemologica sulla cura autobiografica parte da
queste tre azioni e dai loro intrecci.
La scrittura è, per gli autobiografi, il medium di lavoro, di ricerca e
di comunicazione. Alla Libera Università dell’Autobiografia, durante il
primo anno tutti scrivono la loro autobiografia. Unica condizione di accesso al percorso è saper leggere e scrivere e avere la motivazione giusta
per farlo: l’accento non è sulla formazione professionale o specialistica, e
nemmeno su una finalizzazione del percorso formativo a obiettivi esterni.
In controtendenza rispetto a un «mercato della formazione» che si fa
sempre più etero-centrato, in questa comunità si privilegiano l’autoformazione, la (ri)significazione personale, la conoscenza e la cura di sé.
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Una ricostruzione molto completa e articolata delle ragioni per le quali proporre programmi di
formazione e di consulenza nelle crisi esistenziali attraverso la scrittura autobiografica è La scrittura
clinica di Duccio Demetrio (2008).
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Gli aspetti professionali della formazione autobiografica possono essere
affrontati solo dopo aver superato «la prima prova» (scrittura e consegna
dell’autobiografia, che assume il sapore quasi di un’iniziazione) e solo per
chi lo richiede, nei percorsi di ricerca avanzati.
Che cosa produce, a che cosa serve (se proprio deve servire a qualcosa) la scrittura della propria autobiografia? Le risposte a questa domanda sono molte e diverse. Nella letteratura del settore è possibile rilevare
una pluralità di riferimenti teorici, di obiettivi e di prospettive. Anche le
pratiche sono proliferate in più di vent’anni di esperienze. Ci sono però
alcuni punti fermi. Il primo è che scrivere produce distanza, riflessività e
dunque pensiero. Il soggetto (autore) (ri)pensa il proprio processo di formazione («come sono diventata/o ciò che sono?») e scopre le possibilità
e i vincoli della propria esistenza, compresi quelli insiti nel raccontare,
nella prospettiva a partire dalla quale (ri)vede la propria vita, nelle parole
e nella grammatica che ha appreso e che condizionano/determinano il
suo potersi dire. Il soggetto diventa così un vero e proprio ricercatore di
sé per sé, che tenta di comprendere il vivere a partire dalla propria esperienza della vita, prova a costruire un sapere valido a partire dal proprio
sapere. Il solco tra sapere personale e saperi accreditati si attenua. Non
c’è più una materia di studio «là fuori», ma il modo che ciascuno ha di
abitarla, di approcciarla, di ricostruirla integrandola in una pratica.
La ricerca autobiografica è sempre partecipativa: cerca le possibilità
e i limiti dello sguardo del singolo e del gruppo, li rimette in gioco, in
questione. Crea connessioni tra i saperi e l’identità, tra i vissuti e la realtà,
mette in luce le relazioni costitutive del conoscere e del saper vivere: tra
sé e sé, con gli altri, con il mondo.
Scrivere produce anche, a un altro livello, consapevolezza del proprio pensare e pensarsi. Materializza così un principio del costruttivismo
radicale: «tutto ciò che è detto è detto da un osservatore» (Maturana,
1993) o anche «per conoscere il tuo punto di vista devi cambiare punto
di vista» (von Foerster, 1988). Scrivere crea un punto di vista. Leggere e
conversare con e sul testo crea un terzo sguardo. Una pluralità di sguardi.
Il gioco tra scrittura, lettura e conversazioni, proprio del laboratorio autobiografico, costruisce un oggetto tridimensionale che altrimenti sarebbe
invisibile, inconoscibile, perché ci siamo immersi: la vita come conoscenza, in tutta la sua complessità. Un oggetto che grazie all’autobiografia
ridiventa trasformabile. Non è la scrittura in sé a produrre questo oggetto
e le sue trasformazioni, ma sono le interazioni generative tra scrittura,
lettura e conversazioni.
La formazione autobiografica non può dunque essere ridotta,
ingenuamente, a una ricostruzione il più possibile fedele del passato,
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Attraversare la cura
né a un’impresa soggettiva e solitaria, tutta autoreferenziale. È, invece, azione formatrice nel presente, in situazione, dentro un contesto:
le sue condizioni sono innanzitutto relazionali. E naturalmente, in
quanto formazione, è rivolta al futuro, al cambiamento o meglio al
possibile (Formenti, 2006). La scrittura autobiografica diventa formazione quando riesce a essere immaginativa, generativa, quando apre
possibilità. Questo la rende già cura: cura della vita della mente, cura
della propria possibilità di cambiamento (Formenti, 2006). Ma tutto
questo non è scontato: le condizioni perché ciò avvenga sono insite
nella pratica, nelle relazioni concrete, nella materialità del lavoro autobiografico: i corpi, gli sguardi, le voci realizzano quelle condizioni
relazionali e di processo che qualifichiamo come formazione o come
cura.
Le origini biografiche del desiderio di cura
Nel percorso formativo Epimeleia (si veda Introduzione) inizio con
il chiedere alle persone che hanno già scritto la propria autobiografia di
cambiare il focus, di etero-centrarsi per favorire il passaggio dall’ascolto
di sé, proprio dell’autobiografia, a quello dell’altro e di sé-con-l’altro,
proprio della relazione di cura. Quello che propongo è un percorso di
ricerca-formazione individuale e collettivo, che richiede una grande messa in gioco personale. Nell’autobiografia viene enfatizzata la solitudine,
inevitabile sul piano esistenziale e concretamente necessaria se si vuole
ritrovare se stessi, nel silenzio, nella ricerca delle parole per esprimere
fino in fondo ciò che si è. Invece con Epimeleia si entra evidentemente
in una dimensione relazionale. Lo considero un approdo: non ci si può
prendere davvero cura degli altri se prima non si è assunto il compito di
prendersi cura di se stessi.
La ricerca parte dalla tesi che il desiderio di cura — di sé, dell’altro,
delle storie, del mondo, della vita della mente — nasce e si radica nella
storia vissuta, nell’esperienza delle cure ricevute e date. Nasce soprattutto
dal dolore per le cure mancate, per i vuoti, gli abusi. Il potere della cura si
gioca infatti sempre sul crinale tra assenza ed eccesso. E bisogna farsene
carico, con responsabilità e consapevolezza. La cura è
la risposta psichica ed emotiva di un soggetto «contaminato»: di
un soggetto cioè cosciente della propria «ferita» e della propria
insufficienza, che lo espone permanentemente all’alterità e alla ricerca
desiderante dell’altro. È infatti capace di cura qualcuno che, in virtù
della propria imperfezione e vulnerabilità, sa riconoscere in primo
luogo se stesso come bisognoso di cura e che, a partire da questo
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Com-posizioni
riconoscimento, investe l’altro del proprio desiderio e lo «chiama»,
direbbe Lévinas, a una risposta di attenzione, di appartenenza, di
legame. (Pulcini, 2003, p. XXVIII)
Il sapere personale sulla cura nasce dalle pratiche e dalle storie
dominanti nella propria famiglia, nella professione, nel contesto sociale
e culturale. Considero dunque punto di partenza inevitabile, per ciascuno, interrogare la propria autobiografia. Nelle storie che ho ascoltato e
raccolto in 15 anni di ricerca, non sempre questo tema è esplicitamente
presente. Eppure c’è, sebbene talvolta latente, nascosto tra le righe o
scontato. Per molti soggetti, soprattutto donne, la cura è il tema esistenziale per eccellenza, il filo rosso della propria storia, che colora scelte di
vita, investimenti professionali, rimpianti, rimorsi, aspirazioni.
C’è spesso stupore, quando si indaga a posteriori un’autobiografia
alla ricerca delle tracce di cura. La cura fa parte del quotidiano, del familiare, cioè le dimensioni più invisibili nella vita di una persona. Per una
donna la passione dell’altro, la capacità di cura (Pulcini, 2003) — anche
di sé — possono sembrare scontate, quasi banalizzate. Per un uomo
possono apparire concetti estranei o inusuali. E comunque la cura si
declina in modi idiosincratici nelle singole storie, assumendo valori ora
positivi ora negativi. Tutti pregiudizi, preconcetti, immagini da indagare,
certamente da sfidare e decostruire per poterne leggere le implicazioni
più silenziose, per poter andare oltre l’idea preconcetta. Per ridiventare
attenti.
Uno dei primi focus di attenzione nella formazione alla cura è ampliare ed estendere la nostra idea dell’«altro» quale oggetto di cura: «l’altro
di cui aver cura non può più essere identificato soltanto con l’amico, il
figlio o l’amato, vale a dire con qualcuno che ci è noto e familiare; ma
deve poter includere l’altro remoto e sconosciuto, di cui non si conosce
né il volto né il nome e che purtuttavia si impone per la sua concretezza»
(Pulcini, 2003, pp. XXVII-XXVIII). L’abitudine di ricondurre l’altro
al noto (familizzarlo, maternizzarlo), per potersene prendere cura, non
funziona quando si entra nei territori minati della sofferenza e della
marginalità. L’oblatività, l’empatia, la sospensione del giudizio sono
concetti da rimettere in discussione, se non si vuole che si trasformino
in simulacri vuoti.
L’obiettivo della formazione è risvegliare l’attenzione per la relazione, per sé e l’altro in relazione, e insieme costruire una teoria soddisfacente, per quanto provvisoria, di ciò che si fa nella cura. Come ogni
percorso autobiografico, l’esito è una costruzione discorsiva, una «teoria»,
secondo un’accezione personale e locale di questo termine, come vedremo
più avanti.
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Attraversare la cura
La cura in immagini e parole
La scrittura si nutre di tutto ciò che c’è. La costruzione di una
teoria della cura si avvale di tutte le esperienze. In genere, per arrivare
a una scrittura mobile, generativa, è indispensabile affiancare al lavoro
mentale un lavoro più emozionale, favorito dai linguaggi estetici.
Per introdurre il tema della cura, un’immagine vale più di mille
discorsi. Spesso propongo un’attività di photolangage o simili per entrare
in argomento. In queste occasioni si lavora in silenzio, corpo a corpo,
soli nel gruppo, ma uniti dalle stesse immagini, e questo favorisce già,
di per sé, un senso di cura, un contesto relazionale denso di risonanze. Il
silenzio in questi momenti non è mai vuoto, è uno spazio libero che dà
la possibilità di sentire e di vedere, di pensare.
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Le immagini evocano situazioni, relazioni, concetti, in un tutt’uno,
in un approccio della mente che non conosce ancora l’ordine razionale,
le raffinate distinzioni intellettuali, la logica stringente della negazione.
L’immagine può solo affermare, non sa negare. Ogni parola pescata con
questa attività diventa una porta per entrare in una storia, per raccontare
un ricordo che possa catturare il concetto di cura. Ognuna di queste pa2
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Il seminario cui faccio riferimento in queste pagine ebbe luogo ad Anghiari nel luglio 2007. Ringrazio
Barbara Sangiovanni e Leonora Cupane che mi affiancavano nella formazione e Ludovica Danieli
che ha documentato il percorso con un prezioso report.
Com-posizioni
role segna un momento presente, il qui e ora di ciascuno dei partecipanti
al gioco. Le parole indicano anche i criteri epistemologici che potremo
adottare per avviare la nostra indagine: contrapposizioni logiche (sulle
coppie hegeliane torneremo più avanti), azioni, metafore, vocabolari (e
i loro orizzonti di senso), esperienze personali. Si tratta di dimensioni
del sapere che entrano in gioco ogni volta che cerchiamo di costruire un
discorso sulla cura.
L’approccio com-posizionale
Da qualche tempo la com-posizione (Formenti, 2008) è diventata
la cifra della mia teoria della cura e della formazione. Suo orizzonte è
la complessità del vivere, che trova nello sguardo com-posizionale un
rispecchiamento. Le radici di questo approccio sono la prospettiva bioeco-sistemica (Formenti, 1998; 2003), grandemente influenzata dal pensiero di Gregory Bateson (1976), la psicologia culturale e l’epistemologia
operativa (Fabbri e Munari, 2005), le ricerche e pratiche autobiografiche
(Demetrio, 1996; 2000; 2008; Josso, 1991; 2000; Pineau, 1998; 2000),
la pedagogia del corpo (Gamelli, 2005; Formenti e Gamelli, 1998) ma
anche, in anni più recenti, le pratiche filosofiche (Màdera e Tarca, 2003),
la psicologia junghiana, la pedagogia interculturale. Si tratta di un approccio integrato e pluralistico, che ha trovato nella parola com-posizione
il suo attrattore.
La com-posizione può essere intesa in diversi modi. C’è innanzitutto il con-porsi sul piano relazionale e interattivo: ogni relazione
richiede un «prendere posizione» rispetto a sé e all’altro, oltre che alla
relazione stessa e al contesto. Possiamo intendere questi posizionamenti
in senso fisico — le posture e i gesti dei corpi nello spazio dicono molto
sulla relazione in corso — oppure possiamo intenderli in senso metaforico e cercare di comprendere come la relazione reale, concreta rimandi
sempre anche a simboli, a significati più profondi. Mettersi davanti, dietro, sopra, sotto, accanto a qualcuno sono metafore spaziali che usiamo nel
linguaggio per qualificare e definire le nostre relazioni (Lakoff e Johnson,
1998). Esprimono una gerarchia: solitamente chi cura sta sopra e chi è
curato sta sotto. Ma può essere anche il contrario: chi è curato sta sopra,
si impone al curante, gli dà indicazioni su come vuole essere curato. A
volte diventa esigente, manipolatorio, petulante. A volte semplicemente
chiede di poter scegliere la cura per sé. La reciprocità della relazione di
cura, come di ogni relazione, mette in evidenza che si tratta ogni volta
di com-porsi e non di scegliere a priori quale sia la postura migliore.
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Attraversare la cura
Un secondo aspetto della composizione riguarda le parole e la
sintassi: la scrittura connette concetti, idee, emozioni e valori dentro un
testo. Quando gli adulti raccontano l’esperienza biografica, sperimentano la fatica di comporre parole che possono apparire scollegate, se non
opposte. Nella stessa esperienza narrata convivono luci e ombre; nei
racconti c’è la costante ricerca di un equilibrio sensato e di una «bella
storia» che armonizzi significati diversi.
Questa ricerca di equilibrio apparentemente esteriore, che si dà
nella sua materialità, riflette processi analoghi di ricerca di equilibrio
che avvengono nella mente e nel corpo, ma anche nella relazione mente/
mondo e significati/contesti (Contini, Fabbri e Mannuzzi, 2006).
La composizione autobiografica è anche estetica, nel senso batesoniano di una «struttura che connette» in modo significativo, armonico, i
vissuti, il sensibile, il mentale e il mondo come si presenta, l’osservatore
e gli eventi. Il sentimento della bellezza, proprio di ogni composizione ben riuscita, lungi dall’essere un’esperienza oggettivabile, ci parla di
un «riconoscimento» (Dallari, 2005), di un legame profondo che viene
a crearsi tra l’osservatore (membro di una comunità di osservatori) e
l’osservato. La parola epimeleia in greco significa attenzione. Evoca una
cura che si radica nei sensi, nella presenza a sé e al mondo. Se siamo
anestetizzati non possiamo diventare attenti. La scrittura autobiografica
nasce da una soggettività/intersoggettività incarnata, che si risveglia al
mondo. Un soggetto che scriva tutto ripiegato su di sé, in un eccesso di
introspezione o psicologizzazione, finirà per stare male. L’attenzione per
il fuori è altrettanto necessaria dell’attenzione per il dentro. La ricerca
della bellezza non mette in opposizione il dentro e il fuori.
In senso psicologico, filosofico ed epistemologico, la composizione
può essere intesa come una disciplina del discorso e dell’azione (Arendt,
2008); un movimento deliberato volto a (ri)comporre gli opposti, i molteplici, cercando un’unità più ampia. Un esercizio per armonizzare gli
opposti sul piano concettuale è quello delle complementarità cibernetiche
(Keeney, 1985): in presenza di una coppia hegeliana (dentro/fuori, bene/
male, parola/silenzio), non si tratta di annullare il negativo con il positivo, ma di comporli riconoscendo la distinzione. Ricercare attivamente
quel concetto più ampio o processo o luogo nel quale gli opposti possono
essere ri-compresi (si veda Sangiovanni, infra, pp. 300-305) è un’esercitazione all’incontro con il negativo, con ciò che non piace, che fa male,
che si presenta come difficile o incomprensibile. Il lavoro artistico è un
esempio di armonizzazione sul piano estetico e pre-verbale: nell’opera d’arte convivono gli opposti, grazie al pensiero abduttivo (Bateson,
1976). L’arte «è soprattutto affresco di differenze, ed è dall’incontro con
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Com-posizioni
testi differenti, capaci di porsi come paradigmi di senso ma anche di
problematizzarsi a vicenda, che può nascere la possibilità di concepire e
produrre a nostra volta testi, e di dar forma a originali visioni del mondo»
(Dallari, 2005, p. 226).
La formazione alla cura insiste sull’affinamento dell’attenzione, come
forma di disciplina della mente che si apre all’accadere degli eventi, e sul
primato della relazione. La relazione è connessa circolarmente all’autobiografia: raccogliere la storia di qualcuno preoccupandosi prevalentemente
del metodo o della finalità o del contenuto e perdendo di vista le relazioni
che danno senso alla narrazione, perché ne costituiscono il contesto,
significa perdere di vista il processo di cura. E invece la cura ha bisogno
di orientarsi continuamente sul senso: «Che cosa sto/stiamo facendo?
E perché? Che senso ha e per chi?». La ricerca-formazione interroga la
cura sperimentata in prima persona, sia nella posizione di chi la offre, sia
nella posizione di chi la riceve. L’esperienza dell’essere curati e del curare
diventa competenza di cura quando è possibile riflettere sull’esperienza,
tradurla in discorso e quindi in saperi riconosciuti.
L’invito a rileggere i testi autobiografici, a ripensare le proprie
competenze/incompetenze nella cura e a come sono state acquisite nella
storia di vita è un invito a ri-apprenderle, per mobilizzarle e arricchirle
di una dimensione di scelta. È anche un invito a com-porle con le inevitabili incompetenze, con i vuoti e gli abusi, con i bisogni e i desideri
di cura frustrati.
Composizioni plurali, dunque:
– di parole nella scrittura autobiografica;
– di concetti, valori, azioni in un sapere biografico e biograficamente fondato;
– di riferimenti teorici multidisciplinari che illuminano dimensioni diverse
dell’esperienza di cura;
– di corpi/menti in interazione dentro e fuori il laboratorio autobiografico
o la situazione di cura;
– di tutte quelle distinzioni e differenze, molteplici, cangianti, a più livelli
che sono generate dall’azione costruttiva del percorso di formazione
autobiografica.
Oltre la scrittura: i sensi
La cura ha bisogno di smussare le «asperità della mente» (Mortari,
2002) per realizzare forme di contatto con se stessi e con il mondo, connotate dall’apertura, dall’ascolto, per ammorbidire gli sbarramenti che
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Attraversare la cura
ciascuno si è creato per necessità o per diletto e che diventano ostacoli
al con-porsi. Il contatto con il sé più autentico nasce sia attraverso una
scrittura che si fa via via più affinata e attenta, che ricerca la profondità e
l’inesprimibile, sia ricorrendo a linguaggi diversi che aiutano ad andare
oltre i limiti delle parole. Nel percorso di ricerca-formazione cerco una
messa in gioco totale del soggetto, non solo con la mente ma con il corpo,
per svegliare i sensi e suscitare emozioni, che devono poter essere sentite,
lette, riconosciute, abbandonando (o almeno posponendo) ogni idea di
controllo, di spiegazione razionale, di finalizzazione.
Propongo dunque al gruppo un’esperienza guidata con il colore,
per ascoltare le emozioni senza interpretarle. Le emozioni sono nostre
alleate nella cura, nella vita. Possiamo esplorarle con i linguaggi estetici;
in questo caso ho scelto il colore, per il suo potere di evocare i sensi, il
corpo, in modo silenzioso — senza parole.3
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Tutti i fogli con i colori vengono accostati, guardati. Quali sono
i gesti manifestati? Che cosa suscitano in noi? Ci sono cerchi, linee,
ghirigori… solchi profondamente incisi nel foglio o tracce così lievi da
3
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Questa attività è ispirata al metodo di lavoro sulle storie messo a punto da Puviani (2006). Si veda
anche Puviani, infra, pp. 311-325.
Com-posizioni
essere quasi invisibili… ci sono i rossi, i blu, i verdi, i viola… gli sguardi
del gruppo vagano, si soffermano sui particolari: differenze, somiglianze,
ridondanze nelle forme, nei colori.
C’è un forte senso di appagamento. Un gesto libero — su un foglio
bianco, sulla sabbia, su qualsiasi supporto — è la preistoria della scrittura,
dell’«io sono». La tentazione dell’interpretazione è forte («se ho/hai disegnato così, allora significa che…»), ma allontana dalla fenomenologia
dell’evento, dai vissuti originari. Eppure questa curiosità è anche buona:
c’è tutto il desiderio di capire, dietro queste domande.
Per fortuna ci sono le scritture. Possiamo ascoltare in silenzio le
parole scritte a caldo da ciascuno e questo ci permette di riconoscere che
le risposte alle nostre domande sono già lì, che c’è qualcosa di prezioso,
un attimo prima dell’interpretazione, su cui si tende a sorvolare.
È in questo interstizio tra l’esperienza e la parola, in questo spazio
sospeso, che si sviluppa l’auto-guarigione. Un concetto controverso,
quello di auto-guarigione: viviamo in un’epoca che considera malattia
e salute due opposti, l’epistemologia dominante attribuisce la guarigione a una causa agente esterna al corpo, al soggetto. Se si considera
l’esistenza come processo e il corpomente — o il soggetto — come
un intero dotato di senso, di una sua logica, la guarigione è la piena
realizzazione di tale logica. Una trasformazione interna al processo,
circolare e non lineare. In un eccesso di terapia, di interpretazione, di
linearità, ma anche di fretta nel dare risposte, l’auto-guarigione viene
ostacolata. Cura è coltivare le proprietà autocurative di ogni sistema,
di ogni mente.
Tornando all’azione con il colore, essa propone un’esperienza sensoriale vissuta in prima persona. Cerco, nella ricerca-formazione, di proporre prima di tutto un’esperienza; talvolta risulta spiazzante per soggetti
adulti essere chiamati ad agire senza cornici di riferimento teoriche. Non
c’è l’abitudine a farlo, al contrario in genere, specialmente nel contesto
accademico, prima viene la teoria. Così ci hanno educati. E invece tra
l’esperienza e la costruzione di una teoria a partire dall’esperienza succede
qualcosa di molto importante dal punto di vista cognitivo. Se spiegassi
prima le ragioni di tutto questo, le mie premesse, le ragioni della proposta, forse sarei più rassicurante, ma impedirei alle menti4 di vivere lo
scarto, di dare il loro significato, di inventare il senso, di affidarsi con
fiducia all’esperienza.
4
Devo questa intuizione al mio lungo apprendistato con i metodi dell’epistemologia operativa. Fedeli
al motto di Piaget «Insegnare qualcosa a qualcuno significa impedirgli di scoprirlo da solo», Fabbri
e Munari (2005) fondano gran parte delle loro attività di formazione non sull’insegnare a pensare,
ma sulla possibilità di creare contesti di reale scoperta e insight cognitivo.
31
Attraversare la cura
Una lettura provvisoria: la spirale della cura
Qualche anno fa (Formenti, 2005) ho ripreso gli scritti di Bateson
sul sacro per approfondire il problema umano della dis-connessione: corpo vs mente, soggetto vs ambiente… Bateson invita ad abbracciare una
visione complessa — il pensare per storie, la doppia descrizione — per
riconnettere ciò che la cultura separa. Uno studioso di Bateson (Reason,
1993) descrive la ricerca ricompositiva e collaborativa attraverso quattro
movimenti (esperienza, rappresentazione, comprensione, azione), che
possono essere intesi come un modello universale nella ricerca di una
teoria/pratica rispettosa della complessità e dunque nella relazione di
cura, nella formazione, nel lavoro sociale, nella terapia e in generale nel
dare senso alle esperienze di vita. Vedo questi quattro passaggi in una
forma dinamica a spirale (si veda la figura 1).
La vita può essere vista come una spirale che procede verso un futuro aperto: finché si vive tutto può accadere... passaggi che oggi possono
essere carichi di dolore e sofferenza lasciano tracce e cicatrici, apprendimenti e risorse per affrontare passaggi successivi. Nelle autobiografie
è spesso così.
La spirale è un archetipo, un’immagine che tutti abbiamo dentro di
noi. Onnipresente in natura (nella forma delle conchiglie, ad esempio),
mostra uno sviluppo che è allo stesso tempo circolare e lineare, come la
vita.
Nella spirale della cura non c’è inizio né fine: si può partire da uno
qualsiasi dei quattro passaggi. Il loro ordine è dunque dettato solo dalla
linearità del linguaggio verbale. Potremmo anche immaginare un ordine
inverso, de-costruttivo.
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Fig. 1
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La spirale della cura.