Com-posizioni Percorsi di ricerca-formazione
Transcript
Com-posizioni Percorsi di ricerca-formazione
Com-posizioni Percorsi di ricerca-formazione alla relazione di cura Laura Formenti Non conobbi magiche attese, dolci nenie, carezze e baci prima della notte. Nessuno medicò mai, che io ricordi, con un bacio una mia «bua». Salii solo agli onori della cronaca a scuola quando per un taglio in testa mi furono messi due punti ed io stoica non fiatai. Onori, non coccole. Non ho trovato mai chi aprisse le braccia per accogliere le mie delusioni bambine, le mie speranze giovanili. Amici? No: gli amici sono un altro «io». I miei erano coetanei, più o meno lieti, con i quali stavo bene, ma amici… Lo trovai a vent’anni, anche lui orfano e superstite della spagnola e adottato. Me ne innamorai e lo sposai. (Ester Vanni, in Pasini, 2006, p. 66) Ricordo la prima volta in cui sono stato di aiuto a qualcuno. È da lì che nasce la mia «vocazione» di operatore sociale? Con mio fratello si facevano le corse in bicicletta sulle strade di ghiaia del quartiere. Ne aveva una piccola e azzurra che vibrava delle sue pedalate ancora incerte. Poi il ferro del mozzo davanti si stacca e si infila nei raggi. Lui fa un gran volo rigando con la faccia la stradina. Lo prendo in braccio mentre dagli occhi, dalla bocca, dalle mani, i graffi di sangue gridano con la sua voce. Lo porto a casa in braccio di corsa. Mi apre angustiata la zia Lina che abitava sotto di noi, lo medica e pure io medico me stesso raccontando mille volte ciò che era successo. (Pasini, 2006, p. 7) Attraversare la cura Questi due frammenti di storie, scritti da una donna e da un uomo di generazioni diverse, sono originati dallo stesso desiderio: quello di scrivere, di depositare sulla carta le proprie esperienze. Sono scritti per essere letti, e chi legge vive una risonanza emotiva, interrogandosi sulle proprie esperienze di cura. Cura riuscita o fallita, ricevuta o data, cura di azioni e gesti, cura di parole e discorsi. E storie. Nel caso di Ester Vanni, una storia che cura non solo perché scritta e condivisa, ma perché racconta di un vuoto e di un pieno, di un problema e della sua soluzione. Nel caso di Beppe Pasini, una storia che, interrogandosi sulle prime relazioni, connette il desiderio di cura al linguaggio dei sensi e del corpo, al dolore, all’amore, alla narrazione. Autobiografia, formazione e cura Il legame tra scrittura autobiografica e cura non è scontato; merita di essere chiarito partendo innanzitutto dalla portata trasformativa della scrittura di sé1 e dai diversi modi di declinarla in contesti educativi, formativi e/o di lavoro sociale. Che cosa cura nella scrittura di sé? Di quale cura stiamo parlando? Quali pratiche possono essere attuate per tutelare il carattere innanzitutto auto-formativo e generativo del lavoro autobiografico? Come si inserisce l’autobiografia nelle pratiche professionali che si definiscono come curanti e curative (del corpo, della mente, delle relazioni, dell’ambiente)? La formazione autobiografica si realizza nell’intreccio di tre azioni: scrivere, leggere, conversare (Formenti, 1998; 2008). Qualsiasi riflessione teorica, metodologica ed epistemologica sulla cura autobiografica parte da queste tre azioni e dai loro intrecci. La scrittura è, per gli autobiografi, il medium di lavoro, di ricerca e di comunicazione. Alla Libera Università dell’Autobiografia, durante il primo anno tutti scrivono la loro autobiografia. Unica condizione di accesso al percorso è saper leggere e scrivere e avere la motivazione giusta per farlo: l’accento non è sulla formazione professionale o specialistica, e nemmeno su una finalizzazione del percorso formativo a obiettivi esterni. In controtendenza rispetto a un «mercato della formazione» che si fa sempre più etero-centrato, in questa comunità si privilegiano l’autoformazione, la (ri)significazione personale, la conoscenza e la cura di sé. 1 22 Una ricostruzione molto completa e articolata delle ragioni per le quali proporre programmi di formazione e di consulenza nelle crisi esistenziali attraverso la scrittura autobiografica è La scrittura clinica di Duccio Demetrio (2008). Com-posizioni Gli aspetti professionali della formazione autobiografica possono essere affrontati solo dopo aver superato «la prima prova» (scrittura e consegna dell’autobiografia, che assume il sapore quasi di un’iniziazione) e solo per chi lo richiede, nei percorsi di ricerca avanzati. Che cosa produce, a che cosa serve (se proprio deve servire a qualcosa) la scrittura della propria autobiografia? Le risposte a questa domanda sono molte e diverse. Nella letteratura del settore è possibile rilevare una pluralità di riferimenti teorici, di obiettivi e di prospettive. Anche le pratiche sono proliferate in più di vent’anni di esperienze. Ci sono però alcuni punti fermi. Il primo è che scrivere produce distanza, riflessività e dunque pensiero. Il soggetto (autore) (ri)pensa il proprio processo di formazione («come sono diventata/o ciò che sono?») e scopre le possibilità e i vincoli della propria esistenza, compresi quelli insiti nel raccontare, nella prospettiva a partire dalla quale (ri)vede la propria vita, nelle parole e nella grammatica che ha appreso e che condizionano/determinano il suo potersi dire. Il soggetto diventa così un vero e proprio ricercatore di sé per sé, che tenta di comprendere il vivere a partire dalla propria esperienza della vita, prova a costruire un sapere valido a partire dal proprio sapere. Il solco tra sapere personale e saperi accreditati si attenua. Non c’è più una materia di studio «là fuori», ma il modo che ciascuno ha di abitarla, di approcciarla, di ricostruirla integrandola in una pratica. La ricerca autobiografica è sempre partecipativa: cerca le possibilità e i limiti dello sguardo del singolo e del gruppo, li rimette in gioco, in questione. Crea connessioni tra i saperi e l’identità, tra i vissuti e la realtà, mette in luce le relazioni costitutive del conoscere e del saper vivere: tra sé e sé, con gli altri, con il mondo. Scrivere produce anche, a un altro livello, consapevolezza del proprio pensare e pensarsi. Materializza così un principio del costruttivismo radicale: «tutto ciò che è detto è detto da un osservatore» (Maturana, 1993) o anche «per conoscere il tuo punto di vista devi cambiare punto di vista» (von Foerster, 1988). Scrivere crea un punto di vista. Leggere e conversare con e sul testo crea un terzo sguardo. Una pluralità di sguardi. Il gioco tra scrittura, lettura e conversazioni, proprio del laboratorio autobiografico, costruisce un oggetto tridimensionale che altrimenti sarebbe invisibile, inconoscibile, perché ci siamo immersi: la vita come conoscenza, in tutta la sua complessità. Un oggetto che grazie all’autobiografia ridiventa trasformabile. Non è la scrittura in sé a produrre questo oggetto e le sue trasformazioni, ma sono le interazioni generative tra scrittura, lettura e conversazioni. La formazione autobiografica non può dunque essere ridotta, ingenuamente, a una ricostruzione il più possibile fedele del passato, 23 Attraversare la cura né a un’impresa soggettiva e solitaria, tutta autoreferenziale. È, invece, azione formatrice nel presente, in situazione, dentro un contesto: le sue condizioni sono innanzitutto relazionali. E naturalmente, in quanto formazione, è rivolta al futuro, al cambiamento o meglio al possibile (Formenti, 2006). La scrittura autobiografica diventa formazione quando riesce a essere immaginativa, generativa, quando apre possibilità. Questo la rende già cura: cura della vita della mente, cura della propria possibilità di cambiamento (Formenti, 2006). Ma tutto questo non è scontato: le condizioni perché ciò avvenga sono insite nella pratica, nelle relazioni concrete, nella materialità del lavoro autobiografico: i corpi, gli sguardi, le voci realizzano quelle condizioni relazionali e di processo che qualifichiamo come formazione o come cura. Le origini biografiche del desiderio di cura Nel percorso formativo Epimeleia (si veda Introduzione) inizio con il chiedere alle persone che hanno già scritto la propria autobiografia di cambiare il focus, di etero-centrarsi per favorire il passaggio dall’ascolto di sé, proprio dell’autobiografia, a quello dell’altro e di sé-con-l’altro, proprio della relazione di cura. Quello che propongo è un percorso di ricerca-formazione individuale e collettivo, che richiede una grande messa in gioco personale. Nell’autobiografia viene enfatizzata la solitudine, inevitabile sul piano esistenziale e concretamente necessaria se si vuole ritrovare se stessi, nel silenzio, nella ricerca delle parole per esprimere fino in fondo ciò che si è. Invece con Epimeleia si entra evidentemente in una dimensione relazionale. Lo considero un approdo: non ci si può prendere davvero cura degli altri se prima non si è assunto il compito di prendersi cura di se stessi. La ricerca parte dalla tesi che il desiderio di cura — di sé, dell’altro, delle storie, del mondo, della vita della mente — nasce e si radica nella storia vissuta, nell’esperienza delle cure ricevute e date. Nasce soprattutto dal dolore per le cure mancate, per i vuoti, gli abusi. Il potere della cura si gioca infatti sempre sul crinale tra assenza ed eccesso. E bisogna farsene carico, con responsabilità e consapevolezza. La cura è la risposta psichica ed emotiva di un soggetto «contaminato»: di un soggetto cioè cosciente della propria «ferita» e della propria insufficienza, che lo espone permanentemente all’alterità e alla ricerca desiderante dell’altro. È infatti capace di cura qualcuno che, in virtù della propria imperfezione e vulnerabilità, sa riconoscere in primo luogo se stesso come bisognoso di cura e che, a partire da questo 24 Com-posizioni riconoscimento, investe l’altro del proprio desiderio e lo «chiama», direbbe Lévinas, a una risposta di attenzione, di appartenenza, di legame. (Pulcini, 2003, p. XXVIII) Il sapere personale sulla cura nasce dalle pratiche e dalle storie dominanti nella propria famiglia, nella professione, nel contesto sociale e culturale. Considero dunque punto di partenza inevitabile, per ciascuno, interrogare la propria autobiografia. Nelle storie che ho ascoltato e raccolto in 15 anni di ricerca, non sempre questo tema è esplicitamente presente. Eppure c’è, sebbene talvolta latente, nascosto tra le righe o scontato. Per molti soggetti, soprattutto donne, la cura è il tema esistenziale per eccellenza, il filo rosso della propria storia, che colora scelte di vita, investimenti professionali, rimpianti, rimorsi, aspirazioni. C’è spesso stupore, quando si indaga a posteriori un’autobiografia alla ricerca delle tracce di cura. La cura fa parte del quotidiano, del familiare, cioè le dimensioni più invisibili nella vita di una persona. Per una donna la passione dell’altro, la capacità di cura (Pulcini, 2003) — anche di sé — possono sembrare scontate, quasi banalizzate. Per un uomo possono apparire concetti estranei o inusuali. E comunque la cura si declina in modi idiosincratici nelle singole storie, assumendo valori ora positivi ora negativi. Tutti pregiudizi, preconcetti, immagini da indagare, certamente da sfidare e decostruire per poterne leggere le implicazioni più silenziose, per poter andare oltre l’idea preconcetta. Per ridiventare attenti. Uno dei primi focus di attenzione nella formazione alla cura è ampliare ed estendere la nostra idea dell’«altro» quale oggetto di cura: «l’altro di cui aver cura non può più essere identificato soltanto con l’amico, il figlio o l’amato, vale a dire con qualcuno che ci è noto e familiare; ma deve poter includere l’altro remoto e sconosciuto, di cui non si conosce né il volto né il nome e che purtuttavia si impone per la sua concretezza» (Pulcini, 2003, pp. XXVII-XXVIII). L’abitudine di ricondurre l’altro al noto (familizzarlo, maternizzarlo), per potersene prendere cura, non funziona quando si entra nei territori minati della sofferenza e della marginalità. L’oblatività, l’empatia, la sospensione del giudizio sono concetti da rimettere in discussione, se non si vuole che si trasformino in simulacri vuoti. L’obiettivo della formazione è risvegliare l’attenzione per la relazione, per sé e l’altro in relazione, e insieme costruire una teoria soddisfacente, per quanto provvisoria, di ciò che si fa nella cura. Come ogni percorso autobiografico, l’esito è una costruzione discorsiva, una «teoria», secondo un’accezione personale e locale di questo termine, come vedremo più avanti. 25 Attraversare la cura La cura in immagini e parole La scrittura si nutre di tutto ciò che c’è. La costruzione di una teoria della cura si avvale di tutte le esperienze. In genere, per arrivare a una scrittura mobile, generativa, è indispensabile affiancare al lavoro mentale un lavoro più emozionale, favorito dai linguaggi estetici. Per introdurre il tema della cura, un’immagine vale più di mille discorsi. Spesso propongo un’attività di photolangage o simili per entrare in argomento. In queste occasioni si lavora in silenzio, corpo a corpo, soli nel gruppo, ma uniti dalle stesse immagini, e questo favorisce già, di per sé, un senso di cura, un contesto relazionale denso di risonanze. Il silenzio in questi momenti non è mai vuoto, è uno spazio libero che dà la possibilità di sentire e di vedere, di pensare. Fotolinguaggio2 1SWXVSEPGYRIMQQEKMRMHMEQFMIRXMREXYVEPMIERXVSTMGM 3KRYRSWGIKPMIPEJSXSKVE´EGLIVETTVIWIRXEPEWYEMHIEHMGYVE 4SMWGVMZI ,SWGIPXSP«MQQEKMRITIVGLq 0ETEVSPEGLIQMIZSGEr 0IKKMEQSWIR^EGSQQIRXS 0ITEVSPIXVSZEXIWSRSGSTTMIHMSTTSWXMWEPMXEHMWGIWEJEXMGE EQSVIEXXIWEWSPMXYHMRIZIVFMEZZSPKIVIGSPXMZEVIWXIQTIVEVI EWGSPXEVWMRSQMGSRGVIXMQIXEJSVI FVYGMEXYVEVMJYKMSVEHMGM GSHMGIGSWXVY^MSRIGSPSVIRSQMEWXVEXXMHEPZSGEFSPEVMSHIPPE QIRXI§WGIPXEXVEWJSVQE^MSRIGEQFMEQIRXSTMIRI^^ETVIWIR^E EXXIR^MSRIWGSTIVXE§IHEPZSGEFSPEVMSHIPPEVIPE^MSRI§EGGS KPMIR^EWGEQFMSMQTIKRSEGGSQTEKREQIRXSVMWTIXXSZMGMRER^E EFFVEGGMSYRRSQITVSTVMS-VIRI Le immagini evocano situazioni, relazioni, concetti, in un tutt’uno, in un approccio della mente che non conosce ancora l’ordine razionale, le raffinate distinzioni intellettuali, la logica stringente della negazione. L’immagine può solo affermare, non sa negare. Ogni parola pescata con questa attività diventa una porta per entrare in una storia, per raccontare un ricordo che possa catturare il concetto di cura. Ognuna di queste pa2 26 Il seminario cui faccio riferimento in queste pagine ebbe luogo ad Anghiari nel luglio 2007. Ringrazio Barbara Sangiovanni e Leonora Cupane che mi affiancavano nella formazione e Ludovica Danieli che ha documentato il percorso con un prezioso report. Com-posizioni role segna un momento presente, il qui e ora di ciascuno dei partecipanti al gioco. Le parole indicano anche i criteri epistemologici che potremo adottare per avviare la nostra indagine: contrapposizioni logiche (sulle coppie hegeliane torneremo più avanti), azioni, metafore, vocabolari (e i loro orizzonti di senso), esperienze personali. Si tratta di dimensioni del sapere che entrano in gioco ogni volta che cerchiamo di costruire un discorso sulla cura. L’approccio com-posizionale Da qualche tempo la com-posizione (Formenti, 2008) è diventata la cifra della mia teoria della cura e della formazione. Suo orizzonte è la complessità del vivere, che trova nello sguardo com-posizionale un rispecchiamento. Le radici di questo approccio sono la prospettiva bioeco-sistemica (Formenti, 1998; 2003), grandemente influenzata dal pensiero di Gregory Bateson (1976), la psicologia culturale e l’epistemologia operativa (Fabbri e Munari, 2005), le ricerche e pratiche autobiografiche (Demetrio, 1996; 2000; 2008; Josso, 1991; 2000; Pineau, 1998; 2000), la pedagogia del corpo (Gamelli, 2005; Formenti e Gamelli, 1998) ma anche, in anni più recenti, le pratiche filosofiche (Màdera e Tarca, 2003), la psicologia junghiana, la pedagogia interculturale. Si tratta di un approccio integrato e pluralistico, che ha trovato nella parola com-posizione il suo attrattore. La com-posizione può essere intesa in diversi modi. C’è innanzitutto il con-porsi sul piano relazionale e interattivo: ogni relazione richiede un «prendere posizione» rispetto a sé e all’altro, oltre che alla relazione stessa e al contesto. Possiamo intendere questi posizionamenti in senso fisico — le posture e i gesti dei corpi nello spazio dicono molto sulla relazione in corso — oppure possiamo intenderli in senso metaforico e cercare di comprendere come la relazione reale, concreta rimandi sempre anche a simboli, a significati più profondi. Mettersi davanti, dietro, sopra, sotto, accanto a qualcuno sono metafore spaziali che usiamo nel linguaggio per qualificare e definire le nostre relazioni (Lakoff e Johnson, 1998). Esprimono una gerarchia: solitamente chi cura sta sopra e chi è curato sta sotto. Ma può essere anche il contrario: chi è curato sta sopra, si impone al curante, gli dà indicazioni su come vuole essere curato. A volte diventa esigente, manipolatorio, petulante. A volte semplicemente chiede di poter scegliere la cura per sé. La reciprocità della relazione di cura, come di ogni relazione, mette in evidenza che si tratta ogni volta di com-porsi e non di scegliere a priori quale sia la postura migliore. 27 Attraversare la cura Un secondo aspetto della composizione riguarda le parole e la sintassi: la scrittura connette concetti, idee, emozioni e valori dentro un testo. Quando gli adulti raccontano l’esperienza biografica, sperimentano la fatica di comporre parole che possono apparire scollegate, se non opposte. Nella stessa esperienza narrata convivono luci e ombre; nei racconti c’è la costante ricerca di un equilibrio sensato e di una «bella storia» che armonizzi significati diversi. Questa ricerca di equilibrio apparentemente esteriore, che si dà nella sua materialità, riflette processi analoghi di ricerca di equilibrio che avvengono nella mente e nel corpo, ma anche nella relazione mente/ mondo e significati/contesti (Contini, Fabbri e Mannuzzi, 2006). La composizione autobiografica è anche estetica, nel senso batesoniano di una «struttura che connette» in modo significativo, armonico, i vissuti, il sensibile, il mentale e il mondo come si presenta, l’osservatore e gli eventi. Il sentimento della bellezza, proprio di ogni composizione ben riuscita, lungi dall’essere un’esperienza oggettivabile, ci parla di un «riconoscimento» (Dallari, 2005), di un legame profondo che viene a crearsi tra l’osservatore (membro di una comunità di osservatori) e l’osservato. La parola epimeleia in greco significa attenzione. Evoca una cura che si radica nei sensi, nella presenza a sé e al mondo. Se siamo anestetizzati non possiamo diventare attenti. La scrittura autobiografica nasce da una soggettività/intersoggettività incarnata, che si risveglia al mondo. Un soggetto che scriva tutto ripiegato su di sé, in un eccesso di introspezione o psicologizzazione, finirà per stare male. L’attenzione per il fuori è altrettanto necessaria dell’attenzione per il dentro. La ricerca della bellezza non mette in opposizione il dentro e il fuori. In senso psicologico, filosofico ed epistemologico, la composizione può essere intesa come una disciplina del discorso e dell’azione (Arendt, 2008); un movimento deliberato volto a (ri)comporre gli opposti, i molteplici, cercando un’unità più ampia. Un esercizio per armonizzare gli opposti sul piano concettuale è quello delle complementarità cibernetiche (Keeney, 1985): in presenza di una coppia hegeliana (dentro/fuori, bene/ male, parola/silenzio), non si tratta di annullare il negativo con il positivo, ma di comporli riconoscendo la distinzione. Ricercare attivamente quel concetto più ampio o processo o luogo nel quale gli opposti possono essere ri-compresi (si veda Sangiovanni, infra, pp. 300-305) è un’esercitazione all’incontro con il negativo, con ciò che non piace, che fa male, che si presenta come difficile o incomprensibile. Il lavoro artistico è un esempio di armonizzazione sul piano estetico e pre-verbale: nell’opera d’arte convivono gli opposti, grazie al pensiero abduttivo (Bateson, 1976). L’arte «è soprattutto affresco di differenze, ed è dall’incontro con 28 Com-posizioni testi differenti, capaci di porsi come paradigmi di senso ma anche di problematizzarsi a vicenda, che può nascere la possibilità di concepire e produrre a nostra volta testi, e di dar forma a originali visioni del mondo» (Dallari, 2005, p. 226). La formazione alla cura insiste sull’affinamento dell’attenzione, come forma di disciplina della mente che si apre all’accadere degli eventi, e sul primato della relazione. La relazione è connessa circolarmente all’autobiografia: raccogliere la storia di qualcuno preoccupandosi prevalentemente del metodo o della finalità o del contenuto e perdendo di vista le relazioni che danno senso alla narrazione, perché ne costituiscono il contesto, significa perdere di vista il processo di cura. E invece la cura ha bisogno di orientarsi continuamente sul senso: «Che cosa sto/stiamo facendo? E perché? Che senso ha e per chi?». La ricerca-formazione interroga la cura sperimentata in prima persona, sia nella posizione di chi la offre, sia nella posizione di chi la riceve. L’esperienza dell’essere curati e del curare diventa competenza di cura quando è possibile riflettere sull’esperienza, tradurla in discorso e quindi in saperi riconosciuti. L’invito a rileggere i testi autobiografici, a ripensare le proprie competenze/incompetenze nella cura e a come sono state acquisite nella storia di vita è un invito a ri-apprenderle, per mobilizzarle e arricchirle di una dimensione di scelta. È anche un invito a com-porle con le inevitabili incompetenze, con i vuoti e gli abusi, con i bisogni e i desideri di cura frustrati. Composizioni plurali, dunque: – di parole nella scrittura autobiografica; – di concetti, valori, azioni in un sapere biografico e biograficamente fondato; – di riferimenti teorici multidisciplinari che illuminano dimensioni diverse dell’esperienza di cura; – di corpi/menti in interazione dentro e fuori il laboratorio autobiografico o la situazione di cura; – di tutte quelle distinzioni e differenze, molteplici, cangianti, a più livelli che sono generate dall’azione costruttiva del percorso di formazione autobiografica. Oltre la scrittura: i sensi La cura ha bisogno di smussare le «asperità della mente» (Mortari, 2002) per realizzare forme di contatto con se stessi e con il mondo, connotate dall’apertura, dall’ascolto, per ammorbidire gli sbarramenti che 29 Attraversare la cura ciascuno si è creato per necessità o per diletto e che diventano ostacoli al con-porsi. Il contatto con il sé più autentico nasce sia attraverso una scrittura che si fa via via più affinata e attenta, che ricerca la profondità e l’inesprimibile, sia ricorrendo a linguaggi diversi che aiutano ad andare oltre i limiti delle parole. Nel percorso di ricerca-formazione cerco una messa in gioco totale del soggetto, non solo con la mente ma con il corpo, per svegliare i sensi e suscitare emozioni, che devono poter essere sentite, lette, riconosciute, abbandonando (o almeno posponendo) ogni idea di controllo, di spiegazione razionale, di finalizzazione. Propongo dunque al gruppo un’esperienza guidata con il colore, per ascoltare le emozioni senza interpretarle. Le emozioni sono nostre alleate nella cura, nella vita. Possiamo esplorarle con i linguaggi estetici; in questo caso ho scelto il colore, per il suo potere di evocare i sensi, il corpo, in modo silenzioso — senza parole.3 9RJSKPMSFMERGS ¦8VSZSYRETSWM^MSRIGSQSHEVIWTMVSPMFIVEQIRXIVMQERIRHSE SGGLMGLMYWM1MEWGSPXS 'IVGLIVIQSYRKIWXSMPTMTYVSTSWWMFMPIHETIRWMIVMGSWvGSQI JERRSMFEQFMRM'LIRSRWMEMPGIVZIPPSEQYSZIVIMPGSVTSPEQERS QEMPGSPSVI ¦3VEVMIZSGSYRVMGSVHSHMGYVEHEXESVMGIZYXE2SRQMGIRWYVS MPTVMQSGLIZMIRIrUYIPPSGLIGSRXE2IVMZMZSPIWIRWE^MSRMPI IQS^MSRM ¦%TVSKPMSGGLM(EZERXMEQIMGSPSVM7GIPKSUYIPPSGLIIWTVMQI PEQMEIQS^MSRIPIKEXEEUYIPVMGSVHS ¦)WTVMQSGSRYRKIWXSP«IQS^MSRIWYPJSKPMSGSRMPGSPSVIWGIPXS %SGGLMGLMYWM8VSZSMPQMSKIWXSTIVIWTVMQIVIPEQMEIQS^MSRI 9RKIWXSPMFIVSHIPPEQERSIPSVMTIXS´RGLqRILSEFFEWXER^E 4IVXYXXSMPXIQTSRIGIWWEVMS ¦5YERHSRILSEFFEWXER^EETVSKPMSGGLMIMRGSRXVSMPQMSWIKRS MPQMSKIWXSRIPGSPSVI ¦7YYREPXVSJSKPMSWGVMZSHMKIXXS§GLIGSWEWYWGMXEUYIWXEMQ QEKMRI#'LIGSWELSTVSZEXSTVMQEIGLIGSWETVSZSSVEGLIPE ZIHS# Tutti i fogli con i colori vengono accostati, guardati. Quali sono i gesti manifestati? Che cosa suscitano in noi? Ci sono cerchi, linee, ghirigori… solchi profondamente incisi nel foglio o tracce così lievi da 3 30 Questa attività è ispirata al metodo di lavoro sulle storie messo a punto da Puviani (2006). Si veda anche Puviani, infra, pp. 311-325. Com-posizioni essere quasi invisibili… ci sono i rossi, i blu, i verdi, i viola… gli sguardi del gruppo vagano, si soffermano sui particolari: differenze, somiglianze, ridondanze nelle forme, nei colori. C’è un forte senso di appagamento. Un gesto libero — su un foglio bianco, sulla sabbia, su qualsiasi supporto — è la preistoria della scrittura, dell’«io sono». La tentazione dell’interpretazione è forte («se ho/hai disegnato così, allora significa che…»), ma allontana dalla fenomenologia dell’evento, dai vissuti originari. Eppure questa curiosità è anche buona: c’è tutto il desiderio di capire, dietro queste domande. Per fortuna ci sono le scritture. Possiamo ascoltare in silenzio le parole scritte a caldo da ciascuno e questo ci permette di riconoscere che le risposte alle nostre domande sono già lì, che c’è qualcosa di prezioso, un attimo prima dell’interpretazione, su cui si tende a sorvolare. È in questo interstizio tra l’esperienza e la parola, in questo spazio sospeso, che si sviluppa l’auto-guarigione. Un concetto controverso, quello di auto-guarigione: viviamo in un’epoca che considera malattia e salute due opposti, l’epistemologia dominante attribuisce la guarigione a una causa agente esterna al corpo, al soggetto. Se si considera l’esistenza come processo e il corpomente — o il soggetto — come un intero dotato di senso, di una sua logica, la guarigione è la piena realizzazione di tale logica. Una trasformazione interna al processo, circolare e non lineare. In un eccesso di terapia, di interpretazione, di linearità, ma anche di fretta nel dare risposte, l’auto-guarigione viene ostacolata. Cura è coltivare le proprietà autocurative di ogni sistema, di ogni mente. Tornando all’azione con il colore, essa propone un’esperienza sensoriale vissuta in prima persona. Cerco, nella ricerca-formazione, di proporre prima di tutto un’esperienza; talvolta risulta spiazzante per soggetti adulti essere chiamati ad agire senza cornici di riferimento teoriche. Non c’è l’abitudine a farlo, al contrario in genere, specialmente nel contesto accademico, prima viene la teoria. Così ci hanno educati. E invece tra l’esperienza e la costruzione di una teoria a partire dall’esperienza succede qualcosa di molto importante dal punto di vista cognitivo. Se spiegassi prima le ragioni di tutto questo, le mie premesse, le ragioni della proposta, forse sarei più rassicurante, ma impedirei alle menti4 di vivere lo scarto, di dare il loro significato, di inventare il senso, di affidarsi con fiducia all’esperienza. 4 Devo questa intuizione al mio lungo apprendistato con i metodi dell’epistemologia operativa. Fedeli al motto di Piaget «Insegnare qualcosa a qualcuno significa impedirgli di scoprirlo da solo», Fabbri e Munari (2005) fondano gran parte delle loro attività di formazione non sull’insegnare a pensare, ma sulla possibilità di creare contesti di reale scoperta e insight cognitivo. 31 Attraversare la cura Una lettura provvisoria: la spirale della cura Qualche anno fa (Formenti, 2005) ho ripreso gli scritti di Bateson sul sacro per approfondire il problema umano della dis-connessione: corpo vs mente, soggetto vs ambiente… Bateson invita ad abbracciare una visione complessa — il pensare per storie, la doppia descrizione — per riconnettere ciò che la cultura separa. Uno studioso di Bateson (Reason, 1993) descrive la ricerca ricompositiva e collaborativa attraverso quattro movimenti (esperienza, rappresentazione, comprensione, azione), che possono essere intesi come un modello universale nella ricerca di una teoria/pratica rispettosa della complessità e dunque nella relazione di cura, nella formazione, nel lavoro sociale, nella terapia e in generale nel dare senso alle esperienze di vita. Vedo questi quattro passaggi in una forma dinamica a spirale (si veda la figura 1). La vita può essere vista come una spirale che procede verso un futuro aperto: finché si vive tutto può accadere... passaggi che oggi possono essere carichi di dolore e sofferenza lasciano tracce e cicatrici, apprendimenti e risorse per affrontare passaggi successivi. Nelle autobiografie è spesso così. La spirale è un archetipo, un’immagine che tutti abbiamo dentro di noi. Onnipresente in natura (nella forma delle conchiglie, ad esempio), mostra uno sviluppo che è allo stesso tempo circolare e lineare, come la vita. Nella spirale della cura non c’è inizio né fine: si può partire da uno qualsiasi dei quattro passaggi. Il loro ordine è dunque dettato solo dalla linearità del linguaggio verbale. Potremmo anche immaginare un ordine inverso, de-costruttivo. )WTIVMIR^EEYXIRXMGE %^MSRIHIPMFIVEXE 6ETTVIWIRXE^MSRIIWXIXMGE 'SQTVIRWMSRIMRXIPPMKIRXI Fig. 1 32 La spirale della cura.