101028 Milano è una cozza Feltrinelli

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101028 Milano è una cozza Feltrinelli
Presentazione del libro
“Milano è una cozza”
Storie di trasformazioni
a cura di Luca Doninelli
Collana “Le nuove meraviglie di Milano”
Edito da Guerini e Associati
intervengono
Giovanni Castiglioni
Salvatore Carrubba
Luca Doninelli
Camillo Fornasieri
Fabio Greco
Libreria Feltrinelli,
Piazza Duomo, Milano
Giovedì 28 ottobre 2010

Via Zebedia, 2 20123 Milano
tel. 0286455162-68 fax 0286455169
www.cmc.milano
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C. FORNASIERI: Un caro benvenuto a tutti, cominciamo la presentazione del libro “Milano è una
cozza”: abbiamo qui alcuni autori e commentatori che l’hanno creato. Il professor Camillo
Fornasieri, direttore del Centro culturale di Milano, che ha partecipato all’ideazione di questo libro
che è però un progetto narrativo, una scommessa narrativa; abbiamo chiamato Luca Doninelli che è
il curatore del libro. É un libro che non guarda alla storia del passato della nostra città, non andrebbe
collocato nelle librerie in settori quali turismo storico o artistico della nostra città, ma qualcosa di
più innovativo che riguarda la contemporaneità. Dico solo due parole su che cos’è questo libro per
poi ascoltare un maggior approfondimento dai nostri ospiti. É solo per Doninelli, lo spiegherà anche
lui, la necessità, la spinta di trovare parole per “dire” questa città oggi nella sua trasformazione in
corso. È vero che come ogni cosa anche Milano vive nel presente in modo cangiante, ma negli
ultimi tempi ha molto più accentuata questa caratteristica e poco si dice di lei da questo punto di
vista. Il libro è un prodotto interessante perché nasce da più mani: lavoratori e giovani studenti
universitari e professionisti, che, raccolti attorno a due poli, uno la scuola di scrittura del centro
culturale di Milano e l’altro il corso di etnografia narrativa che Doninelli tiene all’Università
Cattolica, hanno accolto la proposta di guardare questa città e di proporre delle storie che raccontino
territori, situazioni, attese, ferite, cambiamenti, tutte intessute di memorie e di descrizioni dei
fenomeni, quindi una conoscenza indiretta della città, tanto che si è voluto poi inviare il libro, il
primo volume della collana, anche alle autorità cittadine, pubbliche e private oltre che essere
patrimonio per tutti i rettori. Infatti è il primo volume di una collana intitolata “Le nuove meraviglie
di Milano”, riecheggiando il libro di Bonvesin de la Riva, ma questo “le nuove” significa che è la
narrazione di persone che non sono scrittori per mestiere, ma che, grazie ad un lavoro insieme, lo
diventano e diventano responsabili di quello che dicono- io credo con un esito artistico bello-; oltre
che di notizia e di racconto di chi siamo oggi, sono nuove perché raccontano un tutto, che non è
solo la selezione dell’eccellenza o dei singoli, ma anche delle periferie accennavo, di un territorio
che è molto di più della Milano delle cerchie o delle tangenziali, ma arriva a paesi limitrofi intorno.
Abbiamo qui tra noi Luca Doninelli che è romanziere e autore e che da un po’ di anni ci sollecita
con passione sulla nostra città. Ha scritto un libro che ha destato anche molta attenzione, “il Crollo
delle aspettative” con Garzanti. Abbiamo anche con noi – li dico in ordine di intervento – Salvatore
Carruba, figura di spicco nella nostra città per tanti motivi: per Il Sole 24 Ore, di cui è stato
direttore, ed è direttore delle strategia di comunicazione di Motto e culture, e tiene a Radio24 la
seguitissima trasmissione “Un libro tira l’altro”,dove mi pare abbia già introdotto questo libro.
Salvatore ha pubblicato anche lui un libro “Postmilano. Riflessioni e pregiudizi su una città che
vuole rimanere grande”, per cui anche lui che ha poi vissuto una stagione amministrativa come
assessore in questa, ha a cuore questo nostro destino comune e credo che sia appropriato ascoltarlo
e incontrarlo in quest’occasione. E poi due dei dodici autori, creatori dei dodici racconti che
compongono il volume: abbiamo con noi Fabio Greco e Giovanni Castiglioni, di ognuno dei due
poli. Giovanni Castiglioni dell’Università Cattolica, è sociologo, tra l’altro appena laureato, e Fabio
Greco invece è professionista lavoratore con grandi doti di scrittura- tra l’altro la frase “Milano è
una cozza”, che appartiene al suo racconto, è il titolo del suo racconto. Quindi io ho fatto un po’ un
cerchio sintetico che indica un metodo, un gruppo che lavora, che si incontra venendo da storie
diverse, che non è unito da una strategia o da un’unica visione, ma che da questo lavoro insieme
diventa unitaria. Ora Luca raccontaci un po’ queste nuove meraviglie di Milano e qual è anche la
continuazione, perché mi pare che andremo avanti. A te la parola.
L. DONINELLI: Dico proprio rapidamente l’idea da cui nasce questo libro e da cui nasce questo
progetto, perché il progetto è di farne sei di libri. Il primo spunto è del 2004 quando, partecipando a
un premio letterario in Abruzzo, a Scanno che è un posto veramente difficile da raggiungere...
C. FORNASIERI: E hai vinto un premio?
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L. DONINELLI: Sì, avevo vinto questo premio, infatti mi trovavo a Scanno solo per questo. E lì ho
avuto un’illuminazione: scoprendo che a Scanno c’è una tradizione orafa che risale a prima del
Mille, ho avuto questa folgorazione e mi sono reso conto che questa Italia su cui si faceva tanta
retorica - il mio libro su Milano l’avevo già scritto, ma io considero il mio libro “Il crollo delle
aspettative” precedente a questa avventura, quindi non le metto insieme le due cose -, l’ “Italietta”,
l’Italia piccola che tutti tra politici, giornalisti sembra che cerchiamo di rimpicciolire sempre di più,
in realtà è un paese sterminato, un paese di cui io ho scoperto di non sapere nulla; piccolo forse se
noi osserviamo il mappamondo ma un millimetro di Italia vale dieci chilometri di Canada, quindi è
enorme. Ed è nata in me la necessità, cioè il sogno folle, quello di riunire scrittori, gente a cui
piaceva scrivere di tutta Italia e proporre di fare una sorta di mappatura del paesaggio umano e
anche del paesaggio vero e proprio dell’Italia. Il secondo flash è stata la percezione che ho sempre
di più, soprattutto nelle grandi città e soprattutto a Milano, di una specie di divaricazione sempre
maggiore tra la città mentale e la città reale. Se facciamo un’inchiesta tra i milanesi, chiediamo
proprio ai milanesi medi che idea si sono fatti di posti come Quarto Oggiaro o di Ponte Lambro,
secondo me- anche perché io l’ho fatta questa prova-, vi diranno cose che riguardano Quarto
Oggiaro, Ponte Lambro, Rozzano ecc. di quindici vent’anni fa, non quella di oggi. Perché? Perché
per capire com’è quella di oggi bisogna andarci. Allora mi sono reso conto che ci sono delle
trasformazioni in questi anni - per questo il sottotitolo del libro è “Storie di trasformazioni”- che
probabilmente sono ancora più grandi di quelle che vediamo: per esempio adesso stanno
ristrutturando le grandi aree e altri ce ne saranno, adesso sono partiti i city-life, Porta Nuova, ma
pensate a Carlo Farini, pensate alla zona Vittoria ecc. Però queste riconversioni sono solo la parte
visibile di un cambiamento che è molto più profondo. Io faccio sempre l’esempio di Busto Arsizio:
se Busto Arsizio viveva sul tessile fino a quindici anni fa, adesso tutta l’area del tessile è un’area
che è stata riconvertita in museo del tessile, biblioteca, centro commerciale ecc., quindi non è più un
posto da cui viene la ricchezza di Busto Arsizio, ma è un posto dove gli abitanti di Busto Arsizio
vanno a spendere i soldi, quindi vuol dire che i soldi li prendono da qualche altra parte, allora è un
cambiamento molto più in profondità della società, del lavoro... Per cui quella che chiamiamo
Pianura Padana, che chiamiamo Lombardia e per quanto mi riguarda che chiamiamo Milano
dobbiamo sempre riscoprirla. Per cui io non ho una mia ideologia su cosa Milano deve essere - l’ho
scritto appunto sul libro “Il crollo delle aspettative” che è un libro del 2004-2005 e lo lascio a
quell’epoca lì anche se era scritto bene -, ma il mio interesse è andato un po’ avanti, nel senso che io
stesso desideravo capire certe cose. Io sono uno che va in giro con penna e taccuino e amo
osservare le cose che di solito non si osservano. Se vedo in una zona periferica un negozio di
porcellane antiche, io mi chiedo come mai qui c’è un negozio di porcellane antiche; se vedo una
strana curva che sembra non avere senso in una via, mi domando come mai c’è questa curva. Cioè,
a me piace scoprire la città pezzettino per pezzettino perché ha tante cose da raccontarci. Non solo,
ma le persone hanno tantissime cose da raccontare, addirittura, secondo me, abitare nell’hinterland e
abitare nel centro di Milano sono due idee di abitare completamente diverse. Per questo a un’autrice
di questo libro ho chiesto il sacrificio di parlare della propria casa, perché abita in una casa dove si
va e si viene solo in macchina, mentre io da casa mia posso uscire e raggiungere il centro a piedi o
con cinquantamila mezzi e questo cambia molto il rapporto tra il dentro e il fuori. Infatti, se leggete
il suo scritto, vedrete che nessun milanese parla della propria casa in quei termini lì. A me è
sembrato che in questo periodo di grande trasformazione appunto forse più ancora di quanto noi ci
rendiamo conto, non solo urbanistica, anche antropologica, fosse il caso di fare come una fotografia
di questi anni e fare una serie di libri che non pretendono evidentemente di dire l’ultima parola su
Milano, ma che ci scattino come dei flash, che ci aiutino a renderci conto di questo cambiamento e
di come questo cambiamento incide profondamente sulle nostre biografie. Ultima cosa: io sono
direttore di una scuola di scrittura, ma detesto fare i corsi di scrittura creativa – infatti li faccio
sempre fare ad altri che secondo me sono molto più bravi di me – e invece qui ho usato un metodo
completamente diverso. Io non cerco gente che voglia fare lo scrittore, anche se sono inciampato in
qualcuno che non è che volesse fare lo scrittore perché era uno scrittore, ma che lo è e lo era sempre
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stato e quindi questa è stata una fortuna e un valore aggiunto, ma il mio lavoro somiglia molto più
invece a quello di una redazione giornalistica che, invece di fare il giornale tutti i giorni, fa un libro
all’anno; quindi noi ci troviamo per fare un libro. Anche ai ragazzi dell’università ho detto: “I testi
che io vi faccio scrivere sono testi – naturalmente non tutti – che io voglio mettere su dei libri, se
naturalmente meritano, se hanno questo valore; sono testi quindi dai quali non pretendo valore
letterario, alcuni però sono scritti splendidamente”. Qui abbiamo Fabio Greco, l’autore del testo che
dà il titolo al libro e devo ringraziarlo perché è stato un titolo molto indovinato e che ha inciso
molto secondo me nella fortuna del libro, tant’è vero che molti ne hanno parlato senza averlo letto
discutendo se Milano è o no una cozza. Per cui adesso ci spiegherà lui perché Milano è una cozza.
Secondo me questo, per esempio, ha avuto un’ottima ricaduta all’Università, perché, in un’epoca
come questa di depressione all’università, dove i ragazzi che vi studiano non sanno se gli servirà o
meno per trovare un lavoro o se si tratta solo di un’area di parcheggio, il fatto di vedere un
pezzettino del loro lavoro che ha una finalità, che va a finire su un libro, ha uno scopo e, quindi, in
qualche modo realizza. Lo scopo è piccolo, non è che sia uno scopo particolare però è una metafora
positiva, cioè le cose che facciamo possono essere utili e io a questo tengo molto perché ho pensato
a questi libri con uno spirito abbastanza umile, cioè quello di rendere un servizio, di far sentire una
voce che di solito viene eliminata dalle statistiche, invece le statistiche non bastano a capire che
voce c’è sotto! Questo è quanto, grazie.
C. FORNASIERI: Ricordiamo che l’editore che ha scommesso su questa collana è Guerini, casa
editrice di saggi, di romanzi e anche di avanguardie di idee, che reca sulla copertina una foto che ci
ha regalato Gabriele Basilico. Siamo partiti da un simbolo che è San Lorenzo che poi diventerà
importante nel 2013. Ecco, Carruba, uno stile giornalistico come équipe e come lavoro, ma mi pare
che la parola sia questa chiave narrativa. Mi viene in mente un po’ l’esempio di quando in America
c’è stata la depressione negli anni Trenta (1932-33), pensare che il governo americano mandò per
conoscere cosa c’era in tutta la distesa dell’America fotografi, scrittori e artisti; fotografarono tutta
l’America della povertà e delle città. Questo è un po’ lo stesso metodo che credo che condividiamo
più in piccolo con Doninelli, e con questa parola e questo stile.
S. CARRUBBA: Sì, speriamo che in questo caso il reportage non si accompagni a una crisi così
drammatica come quella del 1929, che comunque fu un’epoca di straordinaria cultura artistica. In
effetti, come avete capito dalle parole di Luca e di Camillo, c’è in questo libro, primo della serie, un
taglio e un approccio che a me ha molto incuriosito e che ho molto apprezzato, e questa è la ragione
per la quale ho accettato l’invito che mi è stato fatto di essere qui con voi questa sera a commentarlo
Perché c’è, dicevo, l’approccio che viene contemplato nel titolo di questa serie, “Le nuove
meraviglie di Milano”, che contrasta un pochino, anzi molto, con un atteggiamento molto lamentoso
e drammatico e millenaristico, che ha preso piede nella nostra città e che individua nel futuro della
nostra città un futuro di esclusivo degrado e di irreparabile declino, atteggiamento che io non
condivido e che non ho condiviso anche in opere recenti, anche fortunate come nella letteratura
milanese, e la pubblicistica milanese è molto improntata a questo stile. Non perché a Milano non ci
siano problemi o perché a Milano non ci sia il degrado. Io parto dalla fine a commentare questo
libro, dalle pagini finali, nelle quali a un certo punto Luca Doninelli scrive: “In tutto questo di per sé
non c’è degrado”. Si parla appunto di “uomini e di donne qualcuno con mazzi di fiori, altri a
comprare sacchetti di aglio e di cipolla e basilico e conversano assonnati sotto un filobus, cercano di
vivere la loro vita: e un uomo che cerca di vivere la sua vita non comunica un’idea di degrado”. Io
condivido questo approccio e questo atteggiamento, cioè anche quando faceva riferimento Luca alla
storia delle nostre periferie, che ancora noi ci ostiniamo a leggere come nella “possibilizzazione”
delle nostre immagini legata a venti o trent’anni fa o semplicemente a quindici quando il degrado
magari c’era veramente, non è così, e il degrado di cui Milano si deve preoccupare è quel nuovo
degrado che secondo Doninelli cresce dentro di noi e che “non riguarda la dignità di chi vive in quei
luoghi, ma un pensiero non pensiero, un’ombra di pensiero, la sua sagoma nera che si allarga in
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noi”. E infatti Doninelli spiega che il vero degrado di cui aver paura a Milano è proprio legato a
quest’aspetto che richiamava adesso Camillo che è un rischio più che una realtà, cioè il fatto che
questa trasformazione profonda che sta avendo luogo a Milano, che può piacere o non piacere, è
però una trasformazione profondissima, epocale, fisica che sconvolge quella configurazione stessa
della città che, come è spiegato nelle vostre righe, convergeva intorno alla Madonnina, al Duomo.
Tutto questo sta finendo e può sì portare degrado, dice Doninelli, se non c’è un progetto, se non c’è
una messa a tema, un contenuto culturale chiaro e condiviso in qualche modo dalla città intera.
Quindi il degrado, secondo me, in questo momento è sì un rischio - molto più un rischio che una
realtà - legato proprio a questa trasformazione fisica della città, che si accompagna ad una
trasformazione sociale che non è rappresentata soltanto dal motivo degli immigrati, ma anche dal
fatto che cambia completamente il mix sociale delle periferie della città. Si stanno creando tanti
nuovi centri in una città che è stata rigidamente monocentrica e accentrata intorno a piazza Duomo,
che porteranno a trasformazioni di carattere sociale e non soltanto fisico. Dobbiamo pertanto
pensare che in tutto questo vorticare di gru cui stiamo assistendo non c’è soltanto la fattura di nuovi
quartieri e di nuove case, ma c’è la fattura di una nuova città e di una nuova cultura che dobbiamo
essere tutti in grado di costruire. Questa mappa è una prima tappa di un percorso che va fatto
insieme per capire in che direzione la città si sta muovendo. E queste prove di etnografia narrativa,
come sono definite, dimostrano che c’è questo sforzo e l’importanza di questo. Volevo richiamare il
titolo “Milano è una cozza” e spiegare perché, lo farà appunto adesso molto meglio di me Fabio
Greco. Nelle intenzioni di Greco di paragonare Milano a una cozza con tutto ciò che di positivo e di
negativo ha la cozza quando la si mangia, c’è - e lo capirete da quello che dirà lui - un’immagine
secondo me fortunata e intelligente sulle prospettive e sui rischi che attraversa la nostra città. Il
punto è la questione del degrado culturale, intellettuale, del possibile degrado della città; è
affrontato in un saggio che anch’esso ho trovato molto interessante di Paola Caronni, la quale parla
ad un certo punto di disimpegno civile. Ad esempio mette alla berlina le giunte socialiste che leggo dal suo saggio - “prese dalla frenesia di un’onnipotenza civile dettero l’incarico di seppellire
il cuore verde ortolano del paese sotto un peso insopportabile, un vero spreco”: in questo
atteggiamento individua l’inizio del tempo di disimpegno civile che ha rappresentato l’inizio di
questo disfacimento nella progettualità complessiva della città che ha avuto luogo negli ultimi anni
e dalla quale faticosamente cerchiamo adesso di uscire, senza illuderci naturalmente che possano
bastare le gru e le nuove costruzioni. In realtà in questo disimpegno civile io riconosco
l’abdicazione, che c’è stata a Milano, alla tradizione della cultura sociale-riformista che è stata la
chiave dominante della cultura politica della nostra città, che ha avuto diverse sfaccettature: quella
dei cristiani sociali, dei comunisti, dei socialisti, dei liberali, tutti però accomunati da un approccio e
da un atteggiamento alla politica e al bene comune che ha fatto la differenza e ha caratterizzato in
parte la classe politica della nostra città. Questa cultura riformista sociale oggi è muta, o meglio,
non ha un’espressione politica organizzata, non ha più una voce nei palazzi dove si fanno le scelte
politiche. Il grosso rischio che Milano sta correndo è appunto quello di abdicare a un pezzo di
cultura politica, che non appartiene a un partito o a un ex partito, ma a un pezzo di storia della città,
che oggi sta rimanendo senza voce politica e senza rappresentanti. Il libro ci permette di avvicinarci
alla città e ai suoi fenomeni anche con un tono leggero, ma sempre approfondito, perché supportato
da autentiche ricerche di carattere sociale sul campo, che sono interessanti e che ci permettono
anche di recuperare alcuni tratti di vita quotidiana. Per esempio c’è questo capitolo sul canale
Villoresi di Maria Luisa Frigerio, che io ho trovato straordinariamente interessante, proprio perché
ci richiama innanzitutto a una vocazione, quella a Milano delle acque e a una progettualità possibile
legata all’Expo. Se voi andate sul canale Villoresi – io l’ultima volta che ci sono andato era ancora
estate, ho fatto una lunga passeggiata in bicicletta con mia moglie e siamo tornati che era buio, e nel
buio del canale non abbiamo mai avuto paura perché nel parco, che ad un certo punto si sviluppa
intorno a Greco per arrivare a Pesce dei Poveri -, c’era un movimento di famiglie tutte
extracomunitarie, papà, mamma e i figli che passeggiavano e sembrava di farci tornare alla Milano
degli anni Cinquanta. Non era una Milano finta, era una Milano vera, solo che invece di essere
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gente della Lucania, della Basilicata, era gente del Maghreb piuttosto che del Marocco; una Milano
viva, sicura, in cui la gente passeggiava tranquillamente, si godeva il fresco del canale Villoresi e
del parco ed era una Milano che giustamente non arriva sui giornali, di cui i milanesi non hanno
conoscenza se non vivendo lì con loro e convivendo tranquillamente con loro. E quindi anche
questo capitolo mi ha dato la testimonianza di una trasformazione in positivo della città, della
prosecuzione di una tradizione della città a cambiare in positivo che è molto significativa. L’altro
capitolo divertente è quello sull’happy hour. Gli autori di questo capitolo sono tre e devo andare a
ricordarli, Giovanni Castiglioni - che è qui con noi -, Arianna Cavenardo a Daniela Rossetti. E
anche in questo fenomeno dell’happy hour, che spesso leggiamo con approccio snobistico sui
giornali come segno del degrado e della decadenza di Milano, io ho trovato il senso di una socialità
nuova e diversa che i giovani riscoprono, adesso voi ce lo spiegherete se è vero o non è vero, se è
una mia illusione di vecchio, che è una cosa positiva. Per cui si dice “negli happy hour si mangia
male”, ma chi se ne frega! Io alla fine trovo che la gente che ha un modo, che inventa, perché
giustamente dicono loro che è una cosa tutta milanese l’happy hour, inventa un sistema per stare
insieme, per passare la serata, per progettare non soltanto il weekend, ma anche la giornata
lavorativa successiva, io la trovo una cosa positiva; e se le tartine sono un pochino sfatte, ma chi se
ne frega, è una prova di libertà rispetto alla tirannia della USL. Alla fine per me è più positivo
questo che non appunto il clima compassato dei cocktail di una volta o dei bar di una volta. E anche
il capitolo sul sushi, che hanno studiato Camilla Motta e Federica Sasci, anche questo è molto
interessante, perché dà il senso di una cultura che non diventa esclusivamente espressione di un
atteggiamento “fighetto”- non so se si usano queste parole ma questo è il senso -, ma che diventa il
sintomo di un acculturamento di una città intorno a delle culture anche culinarie diverse nelle quali i
giapponesi non vengono a fare i colonizzatori, ma a loro volta diventano in qualche modo milanesi
e, non dico che fanno il sushi alla milanese, ma comunque danno luogo a delle contaminazioni che
danno il senso di una città che si trasforma e di culture che si incontrano. Ecco allora che forse tutti
questi aspetti, secondo me molto positivi, possono apparire contraddittori con le ultime parole di
Doninelli, quelle con le quali si chiude il libro...
L. DONINELLI: Però è il testo più vecchio questo.
S. CARRUBA: Questo è il testo più vecchio, ma tu l’hai messo qua, quindi lo prendo per buono, e
tu dici “Milano deve recuperare quest’attitudine alla grandezza, alla progettualità comune, alla
condivisione del destino della città; è necessario che noi milanesi torniamo al centro della storia
presente. Una mostra di Monet e di Hopper..” (però questo l’ha scritto di recente)...
L. DONINELLI : é vero, pensavo fosse l’altro.
S. CARRUBBA: “...é la benvenuta, ma si tratta di mera importazione di qualcosa che non ci
appartiene e che può soddisfare il nostro privato di arte; ma una città acquista respiro mondiale solo
se pone quello che lei stessa fa di fronte al mondo. Milano ha prodotto il Duomo perché ha la
capacità di produrre prospettive, idee, innovazioni”. Io credo che da questo derivi la conferma di
una mia convinzione profonda sulla quale sto scrivendo un altro libriccino a mia volta, che Milano
ha ancora questa grandezza e che sia da recuperare proprio questa dimensione come ci permettono
questi contributi. Concludo con una notazione polemica nei confronti di Doninelli, il quale ad un
certo punto scrive: “I responsabili culturali hanno le loro grandi colpe, poiché hanno trasformato la
cultura in una specie di religione o di moda e, al tempo stesso, hanno lasciato cadere i loro tesori
nella polvere: per cui, per fare un esempio tutti corrono a vedere Caravaggio e nessuno si ricorda
più che esiste Tiziano”. É vero. Però c’è stata anche una linea, forse minoritaria, di politica culturale
fatta in questa città negli ultimi anni che ha cercato di aggredire proprio questa questione, cioè di
non fare della politica culturale un fatto di moda. Ho notato, nello sforzarmi di fare questo tentativo
nei miei anni ormai remoti di amministrazione, come questo sforzo di arricchire il significato
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dell’intervento nella cultura [liberandolo] dall’aspetto puramente “modaiolo” che molto spesso
assume colpevolmente ha un’eco nella città e quindi che questa domanda di cultura intesa nel senso
in cui probabilmente la intendiamo insieme è una domanda che nella città esiste. Quindi fai bene,
diciamo, a sottolineare che sbagliano molti responsabili della politica culturale a ridurre tutto a
quella dimensione, però non dimentichiamo che in fondo qualcuno ci ha provato, ci abbiamo
provato e che abbiamo avuto delle risposte. La città quindi è pronta anche a raccontare questa sfida
e a considerare quello che è effettivamente l’intervento di cultura, un investimento non in moda ma
un investimento in progetto, in progettualità condivisa: è questo, credo, che il libro della “cozza” ci
permette di scoprire. Grazie.
C. FORNASIERI: Come sovente gli interventi di Carruba sono davvero profondi ed esaustivi. Mi
pare che il quadro di questo lavoro sia quasi intero ormai. Ascoltiamo ora Fabio Greco, poi
Giovanni Castiglioni anche per sentire che esperienza è stata partecipare - con un esito anche
visibile, che è una sorpresa anche per loro stessi - quale sfida hanno sentito e anche quale difficoltà
rispetto al descrivere un volto di un vivere, di un convivere attraverso un punto di vista così
particolare. Prego.
F. GRECO: Inizio io a rispondere. Buonasera a tutti. Inizio partendo dal lavoro che abbiamo fatto
con Luca; per spiegare questa tipologia di lavoro mi rifaccio alla storiella del Nonno Pesce che ogni
giorno racconta le storie ai nipotini pesci. Una volta il nonno pesce domanda ai nipotini pesci:
“Com’è l’acqua?”. I nipotini rispondono: “Che cos’è l’acqua?”. É un modo molto particolare per
capire quanto la realtà in cui siamo immersi spesso ci sfugge da sotto, in particolare in un periodo
come quello attuale, in cui il mondo corre molto più velocemente delle nostre esperienze, corre
molto più velocemente del tempo e dello spazio in cui stiamo vivendo. Quindi la sfida che abbiamo
raccolto da Luca è stata quella di metterci in gioco con le nostre biografie, con le nostre storie, per
raccontare una città in continua trasformazione. Per raccontare una città è necessario capire il tesoro
interiore della città, quindi essere partecipi della città; il sentimento spaziale della città è costituito
da rapporti associativi che ci fanno intuire quel tesoro interiore che ci permette di dire della città che
siamo suoi cittadini. Quindi questa è una cosa importante ed è necessario mettere in campo se stessi
per poter appunto raccontare una città, che altrimenti cambia troppo rapidamente. Per quanto
riguarda “Milano è una cozza” ormai forse è giunto il momento di spiegare il titolo: Milano è una
cozza è una frase che pronuncia il protagonista del racconto. Il protagonista è Pippi, uno dei tanti
meridionali venuti al Nord per lavoro. Egli è sempre vissuto in una zona – in particolare io l’ho
ambientato nel Salento – con grandi spazi, con grandi orizzonti, con il mare, con le distese di ulivi,
ma si ritrova catapultato in una realtà come quella milanese con una ristrettezza di spazio. Questa è
una cosa molto particolare di Milano: il cielo di Milano è un cielo edificato, i palazzi di Milano, ho
scritto nel testo, “sono tutti vicini vicini a ciciarare”, quindi sembrano tante comari che fanno
comunella. Tutto quello che sta al di là di questa cerchia viene escluso dalla vita; questo è uno dei
motivi per cui Pippi si ritrova a dire “Milano è una cozza, signore, brutta come una cozza”. Quindi
il motivo per cui Milano è una cozza è proprio questo: Milano è brutta come una cozza.
Probabilmente l’unica apertura di spazio si ha nelle piazze, in particolare qua al Duomo, proprio
perché il Duomo ha sempre rappresentato, proprio come adesso diceva Carruba, quell’orizzonte che
ai milanesi manca e, più che una linea d’orizzonte, è un punto d’orizzonte, un punto di fuga. Pippi
nel racconto dice: “Milano è una cozza, signore, è brutta come una cozza”, ma poi: “Signore, è
anche buona come una cozza”. Detto da un pescivendolo quale è Pippi naturalmente è un grande
motivo di orgoglio, perché all’interno di questa cozza che può essere anche brutta è possibile
trovare delle perle, degli atteggiamenti, dei luoghi che esulano e travalicano tutta questa “bruttura”
che potrebbe impressionare una persona che viene da fuori; sì, è una città bellissima...
L. DONINELLI: Siamo in polemica io e te!
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F. GRECO: ...no, però è molto ostile come approccio. Poi nel conoscerla naturalmente si scoprono
quelle bellezze che la caratterizzano. Quindi la motivazione del titolo è proprio questa, direi che
questo è tutto. Un’altra cosa importante sempre riguardo a Pippi: per parlare di questo racconto ho
sempre difficoltà a trovare la trama e ho scoperto che la trama di questo racconto è un
innamoramento di Pippi per la città, lo sforzo che Pippi compie per conoscere la città e quello
sforzo che premia Pippi con un amore per la città.
L. DONINELLI: Con una vittoria in una partita a bocce.
F. GRECO: Con una vittoria in una partita a bocce. La sua milanesità la scopre proprio in una
partita a bocce nella cosiddetta bocciofila Cavallino, un luogo reale. La bocciofila si trova a sud di
Milano in via…mi son scordato.
F. GRECO - L. DONINELLI: riva di Trento.
L. DONINELLI: quindi è un luogo reale, con la cronaca niente popò di meno che di Gianni Brera e
quindi anche di un singolo di Milano. La bocciofila Cavallino è stata un luogo dove si facevano
campionati nazionali di bocce negli anni ’70, dopodiché è andata in disuso. Ancora è possibile
vedere i punteggi delle ultime partite che sono state fatte, e permane e rimane ancorata, come se
fosse un luogo della resistenza, chiamiamolo così. Quindi permette, cioè continua a rimanere e ad
avere la sua importanza nonostante tutti i cambiamenti che avvengono lì.
F. GRECO: c’è anche uno strappo di dieci anni!
L. DONINELLI: Quindi in questa partita a bocce simbolica ed inedita, chiamiamola così, Pippi si
ritrova a dover…
F. GRECO: scusa, perché è una partita a bocce tra milanesi puro sangue ed emigrati.
L. DONINELLI: ed emigrati, quindi…
F. GRECO: quindi conquistano, vincendo la partita a bocce, il loro diritto a essere milanesi.
L. DONINELLI: esatto, Pippi riscopre la sua milanesità o si rende conto della sua milanesità, pur
diversa dalla milanesità di un milanese, però si sente partecipe comunque della città e questo
naturalmente gliela fa apprezzare. Questo penso che sia la motivazione principe per cui è stato fatto
questo lavoro e per cui Luca ci abbia indotto ad andare in giro a raccontare questa Milano,
insomma.
C. FORNASIERI: Bene. Ed ora da studente adesso laureato continuerai a scrivere?
G. CASTIGLIONI: Beh, sicuramente questo è stato un inizio. Partiamo un attimo anche dalla
riflessione sul nome del corso. Era il corso di etnografia narrativa; il ruolo dell’etnografo è quello
appunto di andare sul campo per scoprire la realtà, per indagare. Per noi, comunque, facendo parte
di un corso di sociologia, non c’è niente di più bello che andare sul campo e scoprire un fenomeno
sociale. Però poi nel termine si parla appunto di narrativa. Quindi, in questo caso, quello che noi
abbiamo indagato – in questo caso l’happy hour – l’abbiamo dovuto raccontare in un modo non
troppo scientifico, ma portando prima di tutto la nostra esperienza. E allora abbiamo iniziato a
riflettere un po’ sull’alimentazione. Dato che poi il tema dell’Expo è “Nutrire il pianeta, energia per
la vita”, ci siamo chiesti: ma cosa si mangia, dove si mangia oggi a Milano? E poi in prima persona,
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parlando tra di noi, abbiamo detto: sì, ma noi abitualmente andiamo a fare l’happy hour, noi stessi
siamo quei consumatori dell’happy hour.
E poi quando andiamo a fare l’happy hour non solo beviamo il nostro cocktail, ma mangiamo,
perché l’happy hour a Milano – come appunto viene poi spiegato – ha una sua tradizione italiana
(possiamo dire anche milanese), su cui l’happy hour si impianta. Il termine viene usato in
Inghilterra per dire quando si possono bere due cocktail al prezzo di uno. Qua da noi, a Milano, si
beve un cocktail, ma si può mangiare quanto si vuole: questa è la componente italiana, quella del
mangiare, che la città di Milano poi ha acquisito, facendola sua. L’happy hour poi diventa, lo è
tuttora, un momento dove ci si aggrega, dove si socializza. Noi giovani abitualmente ne facciamo
uno o due al mese. Ma è un fenomeno assolutamente diffuso nella nostra città, perché ogni sera ci
sono almeno duecento locali che lo propongono. E allora, parlando anche tra di noi, abbiamo
pensato: ma nessuno - almeno non l’abbiamo trovato, anche se c’è addirittura una guida a Milano
che viene pubblicata, la guida all’happy hour, che contiene alcuni locali con le descrizioni di com’è
l’happy hour –l’ha mai raccontato. Allora siamo andati sul campo. È stata una cosa assolutamente
facile.
F. GRECO: Eravate invidiati!
G. CASTIGLIONI: Sì, sì, eravamo invidiati dagli altri nostri compagni di corso. Abbiamo appunto
fatto un punto delle riflessioni pensando: l’happy hour è un momento anche di socializzazione però
è particolare, è diverso dal classico aperitivo. Noi siamo nati negli anni ’80, quindi quando si
iniziava a parlare della “Milano da bere”. La “Milano da bere” c’è ancora, però nello stesso il
termine happy hour viene collegato al termine “degrado”. Ogni anno c’è il solito appuntamento
estivo in cui si inizia a parlare comunque della movida milanese, quindi di questi locali che
vengono aperti, tanto che poi Milano in alcuni articoli viene addirittura chiamata “la città degli
happy hour”. Ma Milano non è solo questo. L’happy hour rimane uno spaccato della città, però lo
fanno tutti, saltando dai più giovani fino ai più anziani. L’happy hour quindi è quello che, anche
perché ha un’accessibilità, ha un prezzo contenuto, e soprattutto non ha dei vincoli. Ha dei vincoli
minori rispetto alla cena, perché l’happy hour può essere un pre-cena, può essere comunque una
cena stessa, si può stare solamente per il momento di un cocktail o si può stare lì per ore a
chiacchierare, a parlare, tanto che poi nell’ultima parte del racconto si parla appunto di
processualità. Siamo stati ad un happy hour di avvocati che appunto, nel corso dell’aperitivo,
progettano la giornata di lavoro successiva. Poi Milano, città del lavoro. Si parla anche di “business
hour” sotto alcuni aspetti. Ci sono delle aziende che, per presentarsi ai neo-laureati, utilizzano
l’aperitivo, quindi forse hanno intuito che questo per i giovani è un momento di socializzazione, in
cui magari vengono anche più spontaneamente e si trovano in un ambiente un po’ più tranquillo, più
rilassato rispetto ad un’area in azienda. E stavo dicendo appunto degli avvocati: quello per esempio
è un momento in cui dei professionisti si ritrovano. Noi siamo andati venerdì sera, c’era chi parlava
di organizzare il week-end, chi pensava anche, dato che era un gruppo di amici, di organizzare
magari delle uscite, delle vacanze insieme.
F. GRECO: Adesso non lo raccontare tutto, altrimenti la gente non lo legge.
G. CASTIGLIONI: Arrivo alla fine per dire che da una cosa molto semplice: dall’opportunità di
raccontare, è venuto fuori questo racconto. Io ringrazio Luca Doninelli di questa opportunità e
speriamo appunto che questo sia il primo di una serie di libri che potranno raccontare Milano,
quelle parti, quelle caratteristiche, quelle realtà che spesso non vengono raccontate della nostra città.
F. GRECO: Volevo finire con un’idea. Scusate, perché quando Carrubba ha polemizzato con me, io
gli spiegavo sottovoce…
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S. CARRUBBA: Scherzosamente.
F. GRECO: Sì sì, però io gli spiegavo sottovoce che realmente mi è venuto il mal di fegato quando
sono andato a vedere la mostra su Goya, perché in una città, qui a Palazzo Reale, una città come
Milano che per la prima volta nella sua storia ospita una mostra su Goya, vuol dire su uno dei pittori
più grandi che ci siano mai stati, o fa una grandissima mostra su Goya, una mostra memorabile o
tentativamente memorabile - poi si può anche sbagliare ovviamente, però con un grande desiderio e
forte - o fare una mostra così che grida vendetta al cospetto di Dio, scusatemi. Adesso io la vedo
così. Volevo concludere e dire l’ultimo pensiero che è questo: che differenza c’è tra un lavoro così e
la ricerca sociale? La differenza sta nell’io. Io dicevo al corso: se voi prendete due indagini sociali
fatte da due gruppi diversi sullo stesso oggetto, usando lo stesso metodo, vengono comunque due
lavori diversi: prima di tutto perché la sociologia non è una scienza e quindi due più due non fa
sempre quattro, oppure c’è da discuterne, e secondo perché esiste un fattore imponderabile di cui le
statistiche o la campionature, oppure il modo con cui vengono elaborate le interviste, non può
tenere conto. Questo invece è un elemento tattico di cui si servono le vite degli uomini anche per
tenersi un pochino a distanza dal potere. Quando parlo di potere non parlo tanto e soltanto di quello
politico, ma quello della moda, della pubblicità, eccetera. Su questi meccanismi di difesa, in questa
libreria, troverete da qualche parte edito dalle edizioni del Lavoro il libro “L’invenzione del
quotidiano” di Michel Disertau, uno degli autori che io amo di più, in cui vedrete come lui spiega
questa preminenza di tutta una parte della società, di cui le analisi sociali non riescono a parlare. Io
spero di poter continuare, che noi insieme possiamo continuare. Qui ci sono diversi altri autori, non
ci sono solo loro due, sia autori del libro che abbiamo esaurito, sia autori dei libri prossimi, dei libri
futuri. Io devo solo ringraziare, ringraziare tantissimo Salvatore per quello che ha detto, perché
secondo me ha capito alcune cose di questo libro che, come sempre, chi fa poi le cose ci arriva un
po’ dopo.
C. FORNASIERI: Allora ci congediamo. Grazie. A me colpisce il racconto di Castiglioni ed è da
leggere, perché rimane un’immagine di qualcosa che viviamo, che è più forte della semplice
conoscenza descrittiva. Il progetto è interessante e ha dentro qualcosa che ha la forza di “canzoni di
realtà” e che solo l’arte sa sintetizzare. È già pronto il prossimo numero che uscirà a breve.
Grazie ancora a tutti.
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