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Tre domande a… Paolo Carrozza, Istituto DIRPOLIS - Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa Lei conosce in modo approfondito, sia come studioso e professionista legale, che come amministratore di un Comune per alcuni anni, il funzionamento della Pubblica amministrazione; avendo come riferimento il welfare locale e regionale, quali sono, secondo lei, i cambiamenti più rilevanti nel rapporto tra Pubbliche amministrazioni e mondo del Terzo settore, in particolare della cooperazione sociale, avvenuti in questi ultimi anni, e come li valuta? Qualcosa è cambiato, ma non quanto ci si aspettava e poteva cambiare. Governi (statali e regionali) molto timorosi di sbagliare e con poca dimestichezza col diritto europeo, magari spinti da pareri di questo o quel Ministero o Consiglio di stato “più realisti del re”, non hanno saputo normare l’affidamento di servizi al Terzo settore e alla cooperazione sociale radicati sul proprio territorio. Solo di recente si è fatto qualche passo avanti, ma ancora troppo poco. Così la politica si riempie la bocca con la nozione di “impresa sociale” o sostenendo (a parole) il Terzo settore, ma una seria legislazione generale sull’affidamento dei servizi al Terzo settore ancora non c’è. Così si impedisce di realizzare (o comunque si rallenta molto) l’ipotesi, che da anni si va facendo, di un pieno coinvolgimento del Terzo settore e della cooperazione sociale nella produzione dell’assistenza sanitaria e sociale pubblica: diminuendo le risorse disponibili (intese come risorse finanziarie di regioni e enti locali), il coinvolgimento di volontariato, cooperazione sociale e in generale del terzo settore ha natura (ancora) troppo occasionale e comunque decisa “dall’alto”, mentre dovrebbe assumere carattere più decisamente sistematico. Il tema dei mercati privati di welfare è sempre più al centro dell’attenzione. In verità si tratta del disvelamento di un dato di fatto che è sempre stato presente nel nostro Paese - pensiamo al compito di tutela delle famiglie e pensiamo che l’emergenza non autosufficienza è stata contenuta proprio attraverso un mercato privato, per lo più informale, di welfare; esso sembra caratterizzarsi con tendenze diverse e non necessariamente convergenti: la riduzione di capacità di assistenza delle famiglie; la impossibilità da parte di pubblico di rispondere, stante le risorse stabili o in calo, a richieste crescenti e sempre più individualizzate/personalizzate; il cambiamento delle modalità del pubblico di rifornirsi/erogare prestazioni. Secondo lei quale può essere il ruolo della cooperazione sociale in questo contesto in forte trasformazione? Mah, i problemi sono molti, ma tutti riconducibili a una questione economico – finanziaria ben nota: in questo Paese, assediato da un deficit sovrano di dimensioni ciclopiche, non è possibile immaginare una crescita della spesa pubblica (redistributiva) né locale, né regionale o nazionale. Il che è diverso da dire che non esistono più i presupposti per una redistribuzione di ricchezza capace, attraverso lo strumento fiscale, di sostenere un welfare universalistico almeno nell’assistenza sociale e sanitaria: però, in attesa che si facciano riforme tributarie (più) efficaci, che attenuino l’evasione ormai giunta a livelli insostenibili, o che qualcuno magicamente convinca i cittadini di altri Paesi europei, ad iniziare dai tedeschi, di farsi carico coi loro risparmi del nostro deficit sovrano, l’impressione è che le risorse destinate al welfare assistenziale siano destinate a calare ulteriormente. Questo non sia preso, però, come giustificazionismo: le politiche di “stretta” finanziaria che hanno spinto alcuni enti locali (non tutti, speriamo…) a dismettere il proprio welfare sono folli e i loro autori andrebbero giudicati da un tribunale del popolo appositamente istituito, tipo quelli che populisticamente spesso invocano cinque-stellati e leghisti. Non solo queste politiche hanno fatto danni irreparabili (la vendita delle Rsa è solo uno dei tanti esempi …), ma, soprattutto, si sono rivelate del tutto inutili e inidonee a fermare la crescita della spesa pubblica nazionale, che è continuata a crescere grazie ad un “centro” non soggetto ad alcun patto di stabilità o ad apprezzabili controlli della spesa; un “centro” che, però, non eroga welfare, ormai quasi interamente (quello assistenziale sanitario e sociale) prodotto e comunque sostenuto in ambito regionale e locale. Così la spesa pubblica è cresciuta al “centro” (gli apparati centrali sono rimasti quelli che erano negli anni Novanta: l’ultimo tentativo di dar loro un’apparente razionalità risale alla riforma Bassanini del 1997…), ma senza prendere la strada del welfare assistenziale, che non passa più per il “centro”, salvo alcuni “fondi” disciplinati nella legge di stabilità. Siamo dunque all’assurdo: si è impedito alla “periferia” di sostenere il welfare e la redistribuzione; ma non si è coperto il “buco” che si creato con la stretta finanziaria agli enti locali, attivando il “centro” (posto che sia possibile produrre ed erogare una politica assistenziale dal “centro”). Dunque la svolta centralista indotta dalla crisi economico - finanziaria ha significato riduzione della spesa per la produzione ed erogazione di welfare, accrescendo e talvolta rendendo intollerabili le diseguaglianze. Contemporaneamente, grazie alla riforma Del Rio degli enti locali, l’abolizione delle province è stata l’occasione di una nuova (e inaspettata) neo-centralizzazione regionale: le regioni, ormai da anni non abituate ad erogare e produrre servizi, a fare, insomma, “sportello”, avendo storicamente concentrato i loro sforzi sull’attività di indirizzo e di governo, ora si sono messe a gestire direttamente alcuni servizi, con esisti a dir poco tragicomici (l’esito della gara sul trasporto pubblico locale in Toscana è un esempio fin troppo facile…). Occorre una riforma profonda, occorre ripensare al ruolo di Stato, Regioni ed enti locali nel welfare immaginando la non - crescita della spesa pubblica disponibile, cercando di razionalizzare per quanto possibile l’assistenza sanitaria e sociale prodotta o comunque regolata dalla sfera pubblica. Il che significa (anche) coinvolgere quanto più possibile il Terzo settore e le stesse famiglie sin dalla fase ideativa e di programmazione dei servizi assistenziali, facendo finalmente attenzione al territorio e alle risorse che esso esprime, a quella che in Toscana si chiama “sanità territoriale”, al suo intreccio con l’attività assistenziale, immaginando la ricomposizione unitaria dei servizi (su base locale – territoriale) alle persone e alla famiglia. Non si tratta di imporre questo o quel modello, di attribuire alle Regioni piuttosto che agli enti locali o alle ASL il governo di siffatto apparato: si tratta, prima di tutto, di chiarire obiettivi e strategie di una riunificazione dei servizi alla persona, a prescindere dalla titolarità originaria (la “competenza”) e dalla titolarità della spesa (le risorse impiegate); è innegabile che vengano in considerazione attività di Comuni, aziende e istituzioni comunali (dove ancora esistono), Regioni, ASL e organismi rappresentativi del Terzo settore e della cooperazione sociale. Tutto questo deve, oggi più che mai, “stare insieme” in un’attività di progettazione e programmazione delle azioni, che sappia individuare i bisogni, le risorse, le opportunità, le priorità, e sappia poi guidare l’erogazione dei servizi alle persone e alle famiglie coinvolgendo adeguatamente le professionalità interessate e le stesse famiglie. Evito, volutamente, di dare un nome ad un simile organismo, perché, alla fine, sembra essere diventata una discussione ideologica, che fa discendere dal nome la titolarità, il “cappello” politico e istituzionale. Però è vero che molti – specie in sede politica nazionale si riempiono la bocca discernendo di politiche di sostegno alla famiglia e di “impresa sociale”, ma nessuno sembra prospettare che proprio in relazione al calo generale di risorse pubbliche disponibili occorre più che mai ricomporre unitariamente la regia, la programmazione e l’erogazione del complesso dei servizi alla persona; occorre guardare al governo e alla erogazione dei servizi alla persona coinvolgendo tutte le risorse disponibili sul territorio, dalle stesse famiglie al Terzo settore e alla cooperazione sociale. È possibile dire, senza offendere nessuno, che il modello ASL inventato nel 1978 (fondato sulla stretta dipendenza della sanità ospedaliera e territoriale dalla regione) può forse essere ancora adatto all’organizzazione della cura “acuta” (ospedalità), ma appare totalmente inadatto a costituire lo strumento organizzativo per ricomporre unitariamente su base territoriale i servizi alla persona (dalla cura all’assistenza, ma non solo), coinvolgendo per quanto necessario, superando la frammentazione delle responsabilità e delle “competenze”, l’azione di comuni e soggetti del terzo settore, cooperazione sociale, famiglie? Facciamo degli esempi pratici. Anni fa si parlava di “percorsi” individuali e collettivi di cittadinanza: ma nella civilissima Toscana più della metà della domanda di asili e di nidi per le famiglie con donne che lavorano (o con anziani disabili) rimane non soddisfatta; forse bisognerebbe introdurre questo dato (domande di nido e/o asilo insoddisfatte) quanto si fanno le classifiche sulle città dove si vive meglio, invece di considerare la quantità di musei e di biblioteche o di verde pubblico, dati che faranno forse gonfiare il petto di orgoglio a qualche amministratore, ma se il welfare locale cala non sono in grado di sostituirlo... E forse bisognerebbe partire da questo dato, che intreccia molteplici competenze (alcuni asili sono statali, altri comunali, i nidi sono comunali, molti asili e nidi sono privati convenzionati, le regioni sovvenzionano – quando possono e vogliono – la costruzione di asili, che poi però vanno gestiti ecc.) per capire che la frammentazione delle competenze e delle responsabilità fa male al welfare… È evidente che in simile contesto anche la cooperazione sociale può avere un ruolo decisivo e, per molti aspetti, avrà uno spazio crescente: forse, per ragioni che potremmo dire strutturali, proprio dalla cooperazione sociale può venire un messaggio solidaristico che promuova l’unitarietà delle politiche di assistenza alle persone e alle famiglie e la necessità di fondare forme unitarie e condivise di progettazione ed erogazione di assistenza. In particolare, intravede, e in quali forme, modalità di collaborazione tra pubblico e privato rispetto all’affrontare i mercati privati di cura? Il ragionamento sui mercati privati di cura e di assistenza va ricondotto ad un ragionamento più complessivo e più complesso sul futuro del nostro welfare. Se vogliamo mantenere un modello universalista di assistenza sociale e sanitaria, ben difficilmente possiamo immaginare una sua espansione ulteriore, intesa come la copertura di tutte le forme di assistenza sociale e tutte le forme di assistenza sanitaria. Del resto, un mercato privato della cura e dell’assistenza è sempre esistito, e con una regolazione minima, insolita per il nostro Paese, dove tutto è abbondantemente regolato e protetto, nonostante il principio comunitario di libera concorrenza: tale regolazione consiste nelle regole – variabili da regione a regione – sull’attività extra moenia dei dipendenti del SSN e nell’attività calmieratrice costituita dalle convenzioni di questa o quella assicurazione malattie con questo o quel complesso clinico organizzato. La verità è che l’invecchiamento della popolazione e la difficoltà a mantenere alta l’efficienza e la qualità del sistema pubblico (non solo quanto a copertura di assistenza e cura, quindi) stanno producendo un decisivo ulteriore ampliamento del mercato privato dell’assistenza, che in questi ultimi tempi si va organizzando e riorganizzando mostrando tutte le sue potenzialità. Facciamo degli esempi: anche in Toscana si vedono sempre più frequentemente pubblicità di cooperative o società di medici – per lo più specialisti – che offrono al pubblico le proprie prestazioni in competizione (facile) col SSN, garantendo visite immediate (altro che CUP…) ad un prezzo corrispondente, grosso modo, al ticket. È chiaro, però, che, sul medio-lungo periodo, la crescita del mercato privato dell’assistenza rischia di accrescere le diseguaglianze tra i cittadini, dal momento che la possibilità di rivolgersi alle strutture private – a parte l’esempio appena fatto – dipende essenzialmente da una questione di disponibilità di risorse individuali e quindi dal reddito. Ma i danni, se così ci si può esprimere, non finiscono qui, poiché il rischio è anche che le cure ad alta specializzazione e efficienza si spostino vero il mercato (e dunque verso gli alti redditi), mentre il sistema pubblico dell’offerta tenda a decadere, a perdere appropriatezza, qualità ed efficienza, finendo così per rivolgersi tendenzialmente ad un “non mercato”, ad una domanda rigida: quella di chi non ha i mezzi per rivolgersi al mercato. Ma è la stessa tecnica di finanziamento del sistema pubblico dell’assistenza (sanitaria e sociale) ad aver perso efficienza (e forse addirittura senso logico – costituzionale). Non è, infatti, solo un problema di frammentazione delle competenze a rendere difficile la riunificazione dei servizi alla persona: la L. n. 833/19878 e la L. n. 265/2001, istituendo un sistema universalistico prima di assistenza sanitaria e poi di assistenza sociale, istituiscono fondi nazionali, alimentati anno dopo anno dalla cosidetta legge di stabilità, fondi che costituiscono una forma di redistribuzione del reddito su base nazionale, e dunque, almeno in teoria, una forma di redistribuzione facilmente leggibile e misurabile politicamente. Sennonché l’assistenza sociale (o, come forse sarebbe più corretto dire, l’erogazione di servizi alla persona) è alimentata anche da fondi regionali e locali, che a loro volta si alimentano con i prelievi fiscali regionali e con risorse locali derivanti da trasferimenti statali, da tributi propri e da trasferimenti regionali (almeno quando le regioni erano un po’ più ricche …); i sistemi sanitari regionali possono poi essere alimentati da risorse regionali sia trasferite dallo stati a mo’ di perequazione, sia derivanti da tributi propri. A ciò si aggiunga la beffa del ticket, beffa in quanto tutte le risorse poco sopra descritte derivano dal prelievo fiscale, mentre il ticket colpisce il reddito non in funzione progressiva della sua consistenza (art. 53 Cost.), bensì in funzione del consumo, cioè del bisogno, dell’erogazione concreta del servizio, costringendo le regioni (per non essere accusate di forme di prelievo incostituzionali) ad immaginare esenzioni (i malati cronici…) e addirittura a prevedere ticket crescenti per fasce di reddito, come se si trattasse di forme di prelievo fiscale: assurdo logico (e costituzionale) poiché i cosiddetti ticket in Francia dove sono nati, hanno funzione “moderatrice”, diretta ad evitare consumi inutili, e così doveva essere anche da noi, mentre oggi sono diventati un’ulteriore forma di prelievo fiscale, legata al consumo, palesemente non progressiva e perciò incostituzionale quanto odiosa per chi la subisce. Ecco che, di nuovo, uscire da tale guazzabuglio, ormai difficile da gestire e spiegare politicamente, dagli effetti perversi e incontrollabili (se cooperative di medici specialisti offrono le loro prestazioni al prezzo di un ticket…) richiede una visione d’insieme, che tenga conto di tutti i fattori in gioco e della complessità che essi contribuiscono a generare. Benché i termini con cui si definisce abbiano un certo appeal democratico, che molto piace alla sinistra qualunquista, come tutte le forme di welfare “monetario” il cosiddetto reddito di cittadinanza o simili ha natura distruttiva del welfare universalistico: esso contribuisce a spingere l’assistenza e l’erogazione di servizi operata dalla sfera pubblica – in tutte le loro forme – verso il mercato, contribuendo a generare i danni che poco fa si sono descritti. Esso può dunque avere solo natura temporanea e eccezionale, per l’aiuto di alcune particolari categorie di soggetti, come ad esempio per l’inserimento dei giovani nel lavoro, degli stranieri, dei perdenti lavoro di difficile reinserimento ecc.). Ma è letale per il welfare inteso come produzione ed erogazione redistributiva di servizi a carico della sfera pubblica e fondato sul prelievo fiscale. Piuttosto, occorre distinguere (anche se il mondo del Terzo settore e la cooperazione, non solo sociale, sono interessate ad entrambi i versanti) tra organizzazione della domanda e organizzazione dell’offerta. Può forse apparire paradossale, ma, proprio sotto il profilo dell’offerta, lo sviluppo di un mercato dell’assistenza può far bene al SSN, specie dove esso è organizzato in forma pressoché totalmente pubblica, come accade in molte regioni: si tratta di offrire, in forma generalizzata e convenzionata, l’attività intra moenia ai soggetti che gestiscono la domanda di assistenza privata. La concorrenzialità di questa potenziale offerta – se solo venisse adeguatamente valorizzata e sviluppata – è evidente: gli investimenti sono già stati fatti (in formazione, professionalità e attrezzature), si tratterebbe solo di organizzare l’erogazione in forma sistematica e non casuale delle stesse attività che si producono e si erogano per il SSN; oppure di sviluppare ulteriormente ambiti di attività attualmente poco sviluppati e organizzati (si pensi alla stomatologia, ai “dentisti”, per intenderci). Sotto il profilo della domanda, si tratta, per usare uno slogan, di “riscoprire Bismarck”: “riscoprire” la possibilità di organizzare forme mutualistiche fra cittadini (o categorie di cittadini: i soci di una cooperativa, i dipendenti di un’azienda, gli iscritti ad un sindacato o ad un’associazione di tutela ecc.) in modo da consentire ai “mutuati” di poter accedere a servizi di cura o di assistenza a condizioni vantaggiose. Rese vantaggiose dallo stesso meccanismo mutualistico e dall’economia di scala, dalla possibilità di scontare dalle strutture pubbliche e private condizioni particolarmente vantaggiose proprio in virtù della logica dei grandi numeri. Questa forma di welfare “mutualistico” sarebbe particolarmente vantaggiosa ove si sviluppasse soprattutto verso forme e tipi di assistenza sanitaria e sociale non coperti (o poco coperti) dal SSN o comunque dall’intervento pubblico: se così avvenisse, in questa sorta di imprevedibile mix tra Beveridge e Bismarck, il mercato privato dell’assistenza sanitaria e sociale si potrebbe facilmente integrare con l’assistenza pubblica sanitaria e sociale, alle persone e alle famiglie. È chiaro che perché ciò avvenga, e perché dunque il mercato privato dell’assistenza sanitaria e sociale si sviluppi in una forma non concorrenziale, bensì integrata con i servizi pubblici di assistenza, è opportuno e indispensabile che soggetti interessati all’organizzazione dell’offerta e soggetti “portatori” di un numero potenzialmente illimitato di utenti (le famiglie) si incontrino e si siedano ad un tavolo per valutare le opportunità, i costi, le strategie di un siffatto progetto di integrazione. Più che grandi leggi, qui servono pazienza e umiltà, doti sempre più rare: incontrare, spiegare, condividere, progettare insieme, regioni e soggetti portatori dei potenziali “mutuati”, può e deve essere una strategia vincente, una delle poche in grado di salvare – sempre che lo si voglia salvare… – il nostro welfare assistenziale universalistico.