guido cavalcanti e la passione dell`anima

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guido cavalcanti e la passione dell`anima
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FRONTIERA DI PAGINE
P OESIA A NTICA
GUIDO CAVALCANTI
E LA
PASSIONE DELL’ANIMA
DI ANDREA GALGANO
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Prato, 12 luglio 2012
Le
poche notizie certe su
Guido
Cavalcanti
(1258-
1300),
nel
magma
leggendario che attornia la sua figura, sono
oggetto del ritratto che ne fa Guido Orlandi in
un suo sonetto: «Amico, i’saccio ben che
sa’limare/ con punta lata maglia di coretto, / di
palo in frasca come uccel volare, / con grande
ingegno gir per loco stretto, // e largamente prendere e donare, / salvar lo guadagnato
(ciò m’è detto), accoglier la gente, terra guadagnare. / In te non trovo mai ch’uno
difetto: // che vai dicendo intra la savia gente / faresti Amore piangere in tuo stato …».
Oltre a questo ritratto vivido, importanti sono le testimonianze di Compagni, - che
mettono in luce il carattere altero e una sorta di sdegno magnatizio - (“Un giovane
gentile, figlio di messer Cavalcante Cavalcanti, nobile cavaliere, cortese e ardito ma
sdegnoso e solitario e intento allo studio”), di Villani, ma soprattutto di Boccaccio, che
nel Comento scrive: “uomo costumatissimo e ricco e d’alto ingegno e seppe molte
leggiadre cose fare meglio che alcun nostro cittadino; e oltre a ciò, fu nel suo tempo
reputato ottimo loico e buon filosofo”, e poi nel Decameron: “un de’migliori loici che
avesse il mondo ed ottimo filosofo naturale … leggiadrissimo e costumato e parlante
uom molto”.
Successivamente, Lorenzo de’ Medici ne compone un ritratto umano denso e di
spessore: “[…] come del corpo fu bello e leggiadro, come di sangue gentilissimo, così ne'
suoi scritti non so che più degli altri bello, gentile e peregrino rassembra, e nelle
invenzioni acutissimo, magnifico, ammirabile, gravissimo nelle sentenze, copioso e
rilevato nell'ordine, composto, saggio e avveduto, le quali tutte sue beate virtù d'un
vago, dolce e peregrino stile, come di preziosa veste, sono adorne”.
Nato a Firenze poco prima del 1260, figlio di Cavalcante Cavalcanti che Dante
incontrerà nel X canto dell’Inferno tra gli eretici e epicurei, di nobile famiglia guelfa,
nonostante sdegnasse di partecipare alle cariche pubbliche e di iscriversi nella
corporazione delle Arti, la sua posizione preminente non lo esimette dal partecipare a
incontri e trattati, e di essere invischiato nei tumulti di Firenze, con i suoi agoni e le sue
lotte intestine.
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II
Annota Maria Corti, in un’analisi sul background cavalcantiano: “Le ricerche
tendono a illustrare il concretizzarsi di un ideale stilnovistico dell’amore angelicato, la
trasfigurazione metafisica dell’immagine della donna, oppure, partendo da una
posizione averroistica di Guido, accentuano il carattere irrazionale, sensibile e violento
dell’amore in questa poesia, di un amore passione dell’anima, averroisticamente intesa,
e appetito del cuore, donde trarrebbe origine il pessimismo cavalcantiano e la
concezione del nefasto influsso amoroso proveniente da Marte”.
Dei cinquantadue testi pervenutici, nella canzone Donna me prega, intrisa di quel
che il Favati chiama “neoaristotelismo scolastico”, si compie la sua dinamica affettiva,
che parte sì da Aristotele, ma viene ‘revisionata’, per così dire, sui dettami di san
Tommaso o, secondo altri, sulle proposizioni averroistiche, appunto.
L’amore, in sostanza, viene «dalla virtù che sente, ch’è perfezione dell’uomo,
secondo che si ritiene» e rappresenta l’itinerario perfetto di una passione di sensi: «Vèn
da veduta forma che s’intende, / che prende – nel possibile intelletto, / come in subietto,
- loco e dimoranza. / In quella parte mai non ha possanza/ perché da qualitate non
descende».
L’intelletto dello spirito amante non si limita al vagheggiamento di ciò che ama, ma
astrae dalle sembianze dell’oggetto amato l’idea di bellezza, compenetrando il suo
sguardo, vivendolo, affiggendolo.
L’anima, pertanto, subisce un turbamento veemente che la scuote con desideri
intensi. La passione, per visibilia ad invisibilia, unisce la vicenda amorosa alla figura, in
un processo unico di personalizzazione.
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La mente, l’anima il cuore si spartiscono i ruoli, offrono il loro spartito acceso e la
loro ampia trasformazione.
L’immagine di questa bellezza profonda genera la perdita del dominio razionale,
recando una vera e propria morte e l’amore diviene filiazione dell’anima sensitiva, come
scrive Favati: “Insomma, per Guido l’oggetto del nuovo canto dovrà essere non già
Ovidio, cioè l’amore in quanto esternantesi, ma l’amore in sé, veduto nella sua
condizione essenziale e nelle sue manifestazioni fenomenologiche”.
Nell’istante in cui germina la folgorazione amorosa lo spirito perde il potere di
riconoscere le qualità della donna, prolungando il suo vagheggiamento, in un’immagine
ricolma e rigogliosa di virtù e valore.
Eccolo il meccanismo del soffio: penetra visivamente la sua ferita – altior et subtilius
– attraverso gli occhi, e desta lo spirito, che si trova nelle celle del cervello, lo informa
IV
con l’immagine della donna, e da questo spirito nasce l’amore con le sue saette.
Non si rinviene una limitazione dell’esperienza all’anima sensitiva, ma l’eros
phantasmaticus è la risultante di un compimento nell’unione dell’individuo con
l’intelletto.
L’origine del fatalismo cavalcantiano si situa nella sua inquietudine, nell’angoscia, e
come annota perfettamente Giorgio Petrocchi: “Quando avverte lo squilibrio tra
quell’intelletto che riceve e quello che resta sordo; e quando il disinganno si sostituisce
all’illusione, cade l’immagine così pura e idealizzata della donna, sorge un’altra e ben
diversa sembianza dell’amata, e la ragione prevale sulla intenzione”.
L’amore e il dolore si annodano nei sospiri, si uniscono negli atteggiamenti
femminili, laddove le esortazioni all’Amore e all’oggetto amato, la disperazione e il
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pianto, la personificazione delle trame affettive nelle dolci e violente rapide
cavalcantiane, divengono il regno di uno sgomento sbigottito, di un’anima persa ed in
pena.
La trama lessicale, incentrata su desaventura e disfatta, con tutte le simbologie
affini, recano il disegno di una rarefazione e una stasi di chi subisce i colpi di una
vivezza drammatica, di una genesi di illusione e morte che non è cosmogonia letteraria,
ma vicenda personale e urto.
Il tremore di un’anima inquieta che si pasce nei dipinti della sua mente, che fa
riaffiorare l’idea di amore come forza inestirpabile e messa a nudo del proprio essere che,
nell’altro, trova e desidera compimento, protende il suo senso, immagina universi.
Un misticismo che erompe in un vigore arcano e ineffabile, che pone l’impossibilità
di dire, se non attraverso il sospiro di un paradigma, la propria anima, che sente il peso
V
leggero di un limite e salta sull’abisso del mondo.
Noi siàn le triste penne isbigotite,
le cesoiuzze e ‘l coltellin dolente,
ch’avemo scritte dolorsamente
quelle parole che vo’ avete udite.
Or vi diciàn perché noi siàn partite
e siàn venute a voi qui di presente:
la man che ci movea dice che sente
cose dubbiose nel core apparite;
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le quali hanno destrutto sì costui
ed hannol posto sì presso a la morte,
ch’altro non v’è rimaso che sospiri.
Or vi preghiàn quanto possiàn più forte
che non sdegn[i]ate di tenerci noi,
tanto ch’ un poco di pietà vi miri.
(dalle Rime, 18)
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