Viaggio studio a Parigi_Coordinamento Pedagogico Provinciale di

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Viaggio studio a Parigi_Coordinamento Pedagogico Provinciale di
PROVINCIA DI BOLOGNA – ASSESSORATO AI SERVIZI SOCIALI E SANITA’
RESTITUZIONE DEL
VIAGGIO DI STUDIO
A PARIGI
ANNO SCOLASTICO
2008/2009
GIUGNO 2009
COORDINAMENTO PEDAGOGICO PROVINCIALE
DI BOLOGNA
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RIFLESSIONI E
ELEMENTI DI TRASFERIBILITA’
SUDDIVISI PER GRUPPI DI PARTECIPANTI
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GRUPPO A
Bertelli, Iotti, Orsi, Pileri, Restaino, Zannini
Aspetti trasversali
Sono gli aspetti ricorsivi, le costanti, che dalle osservazioni e dal confronto interno nel nostro gruppo sono
emersi; li abbiamo organizzati per punti:
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la grande varietà, eterogeneità delle tipologie di servizio, ma anche le forti differenze tra servizi
della stessa tipologia; lo stile educativo appare molto influenzato dalla presenza di diverse
professionalità e connotato dalla formazione e visione pedagogica del direttore-direttrice del servizio.
Professionalità presenti : assistentes maternelles, puericultrices, educatrices, personale di cucina e per
l’igienizzazione degli ambienti.
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la forte gerarchizzazione, è la direttrice delle creches che predispone il progetto e
caratterizza il servizio, è lei che ne garantisce la continuità a fronte del fortissimo turn over del
personale. In caso di assenza del personale di cui pare difficile avere la sostituzione, è lei che entra in
turno. Il direttore delle écoles maternels predispone un progetto di durata triennale validato da un
ispettore ministeriale. I direttori sono alloggiati, quasi sempre, in appartamenti collocati all’interno
dell’area del servizio che dirigono
-
I servizi 0-3 appaiono altamente flessibili, hanno ampia possibilità di caratterizzazione e di
adattamento alle esigenze delle famiglie, ad es. sui moduli di orario di frequenza; le iscrizioni possono
avvenire già dal sesto mese di gestazione, la gran parte degli inserimenti avviene a settembre, ma
possono esservene anche fino al mese di aprile.
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I progetti del servizio hanno sempre una parte sociale e una pedagogica
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Minore tensione per l’igiene e l’igienizzazione, pur essendo i servizi 0-3 nati in ambito sanitario;
significativa a questo proposito è la frequente presenza di bagni a vista, interni alle sezioni, separati dagli
spazi gioco, solo da un muretto.
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Il diverso modo di gestire eventuali problemi di salute, ai bambini possono essere praticate le prime
cure, quali ad es. la somministrazione di antipiretici in caso di febbre e non sono obbligatoriamente
dimessi in caso di malessere, perchè il personale è formato e sono presenti alcuni farmaci presso la
struttura.
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-
L’assenza dei bambini con deficit nei servizi visitati e comunicazioni non del tutto chiare circa la loro
possibilità di integrazione nei servizi, che, seppur dichiarata come diritto, pare essere valutata a
discrezione del direttore.
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La forte presenza di bambini di origine straniera, ma una comunicazioni multi lingue organizzata per
le famiglie l’abbiamo vista solo nella halte garderie. Mentre in ogni servizio sono presenti spazi per lo
scambio informativo con le famiglie.
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Per quel che concerne gli spazi, un tratto comune riguarda gli spazi esterni piuttosto angusti, spesso
pavimentati o ricoperti dall’antitrauma; sempre presente è anche un locale per il ristoro degli adulti,
molto accogliente dove il personale può consumare il pasto, ma anche rilassarsi nell’ora di pausa tra
orario mattutino e pomeridiano.
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Sembrano non esistere progetti di continuità tra creche e école maternel, mentre possono essere
presenti tra ècole maternel e primaria.
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Il diverso concetto di autonomia, il far da soli dei bambini è per noi spesso un punto di arrivo e
riguarda principalmente l’acquisizione di alcune capacità prassiche o fisiologiche, lì invece, in particolare
in una crèche, l’autonomia pare un presupposto e riguarda non solo il fare, ma l’essere del bambino.
L’espressione della sua volontà. L’esempio più evidente riguarda il pasto. In diversi servizi, il pranzo può
essere proposto dalle 11.30 alle 13.00 a 6 bambini alla volta; sono i bambini che decidono se mangiare o
continuare a giocare e così imparano ad aspettare. Al risveglio un bambino, che è in grado di farlo, può
decidere se vestirsi o meno etc. .
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il clima di grande tranquillità e il “silenzio” che abbiamo ritrovato in tutti i servizi che abbiamo visitato.
Aspetti che ci hanno colpito anche in relazione a possibili percorsi di trasferibilità
Il progetto educativo affiancato da un progetto sociale che tiene conto del contesto nel quale è inserito
il servizio. Questa impostazione comporta un rapporto costante con il territorio e richiede agli operatori di
tenere aperta, nella mente, questa area di ricerca.
Tale approccio permette di dialogare con le esigenze sociali che la comunità esprime e quindi di adottare
pratiche organizzative ed educative mirate alla soddisfazioni di quei particolari bisogni.
Chi ci ha accompagnati nella visita ai servizi ha dato riscontro di questa sensibilità e apertura verso i bisogni
sociali delle famiglie.
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L’iscrizione ai servizi è possibile fin dal sesto mese di gravidanza e gli inserimenti possono avvenire
fino al mese di aprile.
Le famiglie possono contare sulla possibilità di utilizzare in modo continuativo il servizio anche in
caso di piccoli problemi di salute del bambino, infatti, il personale interno può praticare le prime cure
(ad es. la somministrazione di antipiretici in caso di febbre e i bambini non sono obbligatoriamente dimessi
in caso di malessere).
Sono presenti alcuni farmaci presso la struttura.
Nel curricolo formativo del personale vengono approfondite materie di tipo sanitario e nozioni di
pronto soccorso.
Abbiamo osservato la presenza di una elevata eterogeneità di tipologie di servizio che sembrano
rispondere a bisogni diversi. All’interno di una stessa tipologia vi sono diversificazioni ulteriori, anche
organizzative, sempre in relazione a specifici bisogni, ad es. dei lavoratori turnisti.
In questo ambito ci è sembrato particolarmente interessante il servizio dell’halte Garderie, utilizzato
soprattutto da persone di recente immigrazione, disoccupati e studenti.
Si tratta di un servizio di piccole dimensioni, che soddisfa contemporaneamente l’esigenza di molte famiglie e
può rispondere anche alle necessità di inserimenti d’urgenza (vedi scheda).
I servizi per la prima infanzia francesi sono nati in ambito sanitario, eppure abbiamo riscontrato una minor
tensione verso gli aspetti di igienizzazione degli ambienti; questo ci sembra comporti minori vincoli nella
gestione della quotidianità .
Abbiamo osservato un utilizzo differente degli spazi. I servizi sono spesso dotati di piccoli ambienti, che
necessariamente comportano il lavoro per piccoli gruppi, ad es. anche il pasto è consumato in sottogruppi
in momenti diversi.
Sembra ci siano minori vincoli, circa le caratteristiche che gli spazi debbono avere per essere utilizzati come
servizi per la prima infanzia (esempio piccoli spazi esterni ricavati da cortili tra condomini).
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Gruppo B
Angiolini, Di Fabrizio, , Serina, , Raggi, Vannini, Volta
Nel gioco del confronto, nella ricerca delle somiglianze fra i nostri servizi e i loro servizi, nell’usare il viaggio
per riflettere su di loro e soprattutto su di noi: in tutto questo sta la formazione che si collega al viaggio di
studio.
Ed è per questo che ci interessa andare alla ricerca delle somiglianze e delle differenze e mettere in
luce ciò che ci colpisce:
Somiglianze:
Usano come noi l’oggetto transazionale, ma a Parigi ha un nome universalmente compreso – doudou
Abbiamo trovato offerte per i genitori simili a proposte che anche noi facciamo: Dalle 16,30 alle 18,30 una
educatrice accoglie genitori e bambini per leggere una storia ; In un altro servizio hanno inventato il cafè des
parents: i genitori una volta al mese, la mattina, per circa un’ora, quando accompagnano il figlio, si fermano
per parlare, discutere, fare merenda;…..
Abbiamo trovato molti punti di riferimento condivisi: la figura di riferimento, che poi si apre ad altre figure, il
Loczy, la relazione triadica, Dolto (Ci dicono: “abbiamo gli stessi pionieri, maestri”).
Abbiamo ritrovato strumenti utili a rendere riconoscibile l’organigramma del nido: un trenino disegnato con
le foto dei bambini e un cartellone con le foto del personale; su una porta abbiamo visto un cartellone con le
foto del personale presente e i relativi orari. Anche nei nostri nidi a volte vengono impiegate queste
strategie.
Abbiamo incontrato molta flessibilità sugli orari, come cerchiamo di fare noi, con il rispetto del momento del
pasto e del sonno.
In un nido abbiamo visto l’allestimento di diversi spazi di gioco, con le educatrici che restano fisse a gestire
lo spazio di gioco e i bambini che si muovono liberamente scegliendo dove giocare (anche nella provincia di
Bologna conosciamo un nido con un modello simile).
Differenze
Ambientamento (Adaptation) – 1 o max due settimane. E’ più breve del nostro inserimento, non è di gruppo
ma individuale, anche se ci riferiscono che qualcuno usa anche il modello di gruppo; anche in Francia
scaglionano gli orari per inserire più bambini nello stesso giorno, in orari diversi; all’inizio la coppia madre
bambino viene solo per un’ora, ma due volte nella giornata; all’inizio è la mamma ad offrire il pasto al
bambino, mentre l’educatrice osserva, in seguito si fa il contrario.
Alcune prassi sono abbastanza diverse dalle nostre:
•
•
è la mamma a decidere quando è pronta a lasciare il bambino;
I colloqui sono tutti gestiti dalla direttrice;
•
Le nuove assunte per 15 giorni non toccano niente e nessuno e osservano solo.
•
Si effettuano in corso d’anno passaggi di sezione, assistiti dal personale che segue i bambini e li
accompagna.
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Pasto - Per la lotta all’obesità hanno abolito la colazione a scuola e al nido, dove è previsto solo pranzo e
merenda. Nella creche abbiamo trovato un piatto unico con tre spazi (tipo salsiera).
Sonno - Nei dormitori non c’è il buio; i bambini devono capire la differenza fra il giorno e la notte; esiste
anche una ricerca architettonica mirata: fra la sala dei giochi e quella del sonno c’è una parete tutta vetrata,
che lascia passare la luce.
Abbiamo incontrato molta flessibilità sugli orari del sonno: propongono la nanna, ma i bambini possono
anche restare a giocare in silenzio nella sala a fianco e solo più tardi vengono convinti ad andare a letto;
anche il risveglio è regolato sui ritmi dei bambini.
In Francia esistono le associazioni che gestiscono nidi privati, ma non conoscono l’esistenza della
cooperazione sociale.
Ci hanno riferito di non poter più costruire giocattoli artigianali, ci hanno fatto un esempio di qualcosa che
facevano (bottiglie di plastica piene di sassi, semini, ecc); non possono più farlo per ragioni di sicurezza,
possono solo acquistare i giocattoli da un unico catalogo.
Pasto del personale - Il personale non mangia con i bambini; consuma quello che si porta da casa, nei locali
della cucina, scaldato nel forno a microonde;
Inoltre, ci ha colpito:
Flessibilita'
Ovvero il forte riconoscimento dell'importanza delle esigenze delle famiglie (è importante il plurale), è un
pensiero fortemente radicato nei servizi tanto da poter dire che è parte della storia e della cultura francese.
Forse il nostro sistema di servizi mette molto al centro il bambino, nonostante un pensiero sulla complessità
della presa in carico e le valenze triadiche genitore-bambino-educatrice, ed è come se sullo sfondo restasse
la famiglia: nei servizi francesi è molto presente la figura dei genitori ed è in tale pensiero che si inserisce e
trova senso il servizio della creche. La flessibilità si declina nel favorire i tempi di vita, di lavoro, di
spostamento dei genitori: i bambini sono ammessi in qualsiasi orario, anche nel pomeriggio, a tal proposito
sono favorite le suddivisioni in piccoli gruppi. Colpisce molto il grande rispetto per i tempi dei singoli bambini
(pur dovuto in parte alle entrate scaglionate nell'arco della giornata): ci viene detto che possono mangiare
quando hanno fame, lo stesso per il sonno, altrettanto per il gioco libero, che possono comunque scegliere
durante tutta la loro permanenza nella creche. Gli spazi favoriscono una visione d'insieme del gruppo ma al
contempo specifica: le vetrate che danno sui dormitori non oscurati sono sicuramente una possibilità di
osservare in qualunque momento i bambini durante il riposo, anche sui due piani dei lettini.
La scelta di non oscurare la zona del dormitorio è interessante: sia perché permette un utilizzo multiplo dello
spazio della sezione, sia per la differenziazione tra il sonno diurno dal sonno notturno.
I tempi dei bambini
Nella école maternelle abbiamo notato una rotazione precisa e puntuale (scandita anche dal suono della
campanella) dei bambini sulle diverse attività organizzate. I bambini sono suddivisi in piccoli gruppi: ciascun
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gruppo svolge una diversa attività predisposta in spazi o tavoli diversi nell’aula; i tempi a disposizione per
ciascuna attività sono di 15/20 minuti, al termine del tempo i bambini ruotano e si spostano per svolgere le
altre proposte. La scelta di tempi brevi è interessante e in effetti tiene conto della capacità di mantenere i
tempi di attenzione. Nelle nostre scuole dell'infanzia, solitamente vengono proposte attività che durano al
meno un’ora.
Disabilita'
Abbiamo notato poca chiarezza nel raccontare cosa venga offerto ai bambini disabili e poca uniformità di
risposte sul concetto di integrazione. Ci è parso di cogliere una scarsa esperienza e formazione degli
insegnanti e delle operatrici. E’ un percorso ancora da costruire. Non abbiamo percepito un pensiero sulla
differenza, tale da includere in un'ottica di accoglienza bambini con disagio o con disabilità.
Sguardo transculturale
Si respira un clima di grande apertura e accoglienza nell'hopitale di Avicenne e nella Casa degli Adolescenti..
il pensiero sull'essere abitati dei bambini stranieri, dell'avere "addosso" storie e segni ancestrali, ci porta
sicuramente a considerare una visione molto forte dei bambini dell'immigrazione. Il passaggio di significati
tra generazioni è comunque un pensiero che può essere molto utile al nostro ruolo, anche per il lavoro con i
bambini autoctoni.
Infine:
Molto interessante l’apparato di sostegno alle assistenti materne, più organizzato e strutturato di quello
offerto ai nostri servizi sperimentali, dal quale si potrebbero trarre spunti di trasferibilità che sono stati
evidenziati nella scheda di approfondimento su Assistente Maternelle e creche familiale (vedi pag .28)
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GRUPPO C
Berattino, Casarini, Guerzoni, Lenzi, Maffeo, Quaglia
- ADAPTATION L’APPROCCIO SOCIALE DEI SERVIZI PER LA PRIMA INFANZIA DI PARIGI
PREMESSA
La visita ai servizi educativi per la prima infanzia di Parigi ha dato luogo ad un confronto stimolante fra i
componenti del nostro sottogruppo rispetto all’approccio complessivo del sistema educativo incontrato. E
stata condotta con l’abito mentale del voler percepire le differenze in alcuni ambiti, rilevando gli
aspetti e le azioni che noi ritenevamo migliorativi o più qualificanti.
Durante le visite ai servizi, non abbiamo volutamente soffermato la nostra attenzione sugli aspetti negativi
osservati (e forse non li abbiamo percepiti neppure tanto) e neppure abbiamo voluto muoverci su un piano di
confronto continuo tra “il nostro e il loro “, per garantire invece l’apertura dello sguardo nella direzione
della ricerca e sospendere il giudizio, al fine di evitare l’autoreferenzialità rispetto alla migliore
qualità dei servizi e delle professionalità.
Il nostro obiettivo era quello di ricercare attraverso l’emozione dello stupore ciò che, secondo noi, i colleghi
francesi facevano meglio, per portare a casa qualcosa di utile al nostro lavoro.
Mettere a confronto le due esperienze, in particolare, ci ha dato l’occasione di rileggere anche i nostri servizi
da una prospettiva diversa, in un qualche modo più ampia, dislocando il nostro punto di vista oltre il confine
della quotidianità.
Tutti i servizi per la prima infanzia che abbiamo visitato, fondano le ragioni del loro essere nel complesso
intreccio che si viene a generare fra responsabilità sociale delle istituzioni nei confronti delle famiglie e
dimensione educativa incentrata prima di tutto sul benessere di ogni bambino.
GOVERNARE LA DINAMICITA’ SOCIALE CON LA DIVERSIFICICAZIONE DELL’OFFERTA
Nel corso delle cinque giornate di permanenza a Parigi abbiamo avuto occasione di visitare in prevalenza i
servizi di uno dei 19 arrondissement della città, il 13°, ad eccezione di una crèche che si trova nel 7°.
Sebbene quindi la nostra esperienza sia relativa ad una piccolo spaccato dell’intero universo parigino,
abbiamo avuto modo di provare quanto la dimensione sociale sia significativa nella loro realtà. E’ questa che
determina il senso complessivo del progetto di un servizio, le coordinate spazio temporali, la dimensione di
cura ed educativa nelle proposte alle famiglie.
Anche i servizi che più assomigliano a quelli nostri tradizionali, ovvero le crèche collective, prevedono in
realtà un arcipelago di opportunità che si differenziano sulla base dei bisogni delle famiglie di quella
circoscritta realtà sociale e territoriale. Ancora più ampio e dinamico è il panorama se si osservano
complessivamente le tipologie di servizio offerte dalla municipalità parigina, tanto che risulta a prima vista
addirittura disorientante comprenderle tutte o individuarne il comune denominatore che le raccoglie sotto un
unico appellativo: sistema dei servizi educativi per l’infanzia.
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Ogni visita compiuta è stata preceduta da un momento introduttivo in cui la responsabile della struttura ha
presentato il servizio che avremmo visitato, soffermandosi sugli aspetti più pregnanti dell’esperienza. Fra
questi, ognuna di esse ha sempre fatto riferimento al luogo in cui la struttura si colloca, descrivendo
brevemente la storia e la composizione sociale del territorio di appartenenza del servizio oggetto di visita,
che ha dato ragione del particolare progetto previsto in quella realtà.
Da queste descrizioni abbiamo appreso che la scelta della presenza in un determinato contesto di un
particolare
servizio
è
definita
dal
bisogno
delle
persone
di
quel
territorio.
La
responsabilità
dell’amministrazione, relativamente a questo ambito, è quella di identificare i bisogni delle persone
facilitando, attraverso l’istituzione dei servizi, il superamento delle eventuali loro difficoltà come entità singole
a svolgere la loro funzione primaria, ovvero prendersi cura dei propri figli. L’inserimento di un bambino in un
servizio piuttosto di un altro è frutto quindi di una scelta che l’istituzione decide insieme la famiglia, sulla
base dei bisogni globali di quest’ultima.
L’ammissione del bambino al servizio viene definita da una commissione mista, di tecnici e amministratori
dell’Arrondissement a cui appartiene anche un rappresentante del SME (Servizio Materno Infantile). Ciò
consente di collocare meglio i bisogni del bambino in continuità con quelli dei propri genitori e di assecondare
le scelte delle famiglie orientandole verso i servizi più adeguati.
Abbiamo pertanto visitato una parte delle diverse tipologie di servizi educativi che la città di Parigi offre ai
bambini fino ai sei anni, costruite in ragione del modificarsi del tessuto sociale e della flessibilità imposta agli
adulti dal mondo del lavoro.
In prevalenza si tratta di servizi per i genitori che, appunto, lavorano e che accolgono i bambini con
continuità dal lunedì al venerdì, per tutto il giorno, dodici mesi all’anno (Crèche collective di rue d’Estrées e
quella di rue de Fontane a Mulard); altri analoghi sono aperti per meno mesi nel corso dell’anno ma sono
collegati ai primi da progetti ponte che consentono ai bambini, qualora le famiglie ne avessero necessità, di
andare, nei periodi di chiusura, in queste realtà che invece rimangono sempre funzionanti. Altre strutture
visitate sono definite “multisistemiche” e accolgo i bambini per parte della settimana e/o della giornata,
sempre in funzione dell’orario di lavoro dei genitori (Crèche intergénérationnelle Péan di rue del la Santè).
Ai servizi educativi per i genitori occupati si affiancano quelli istituiti per i genitori in cerca di occupazione o
che hanno bisogno di dedicare tempo a sé stessi o alla cura delle proprie faccende personali e famigliari
(Halte-Garderie di rue Caillaux). Infine vi sono servizi (jardin Maternel di avenue d’Italie) dedicati
espressamente a quelle famiglie con particolari svantaggi sociali e che non hanno avuto modo di scolarizzare
il proprio figlio fino ai due anni. L’obiettivo prevalente di questa tipologia di servizi è di prevenire, in un
tempo brevissimo (un anno) lo svantaggio, determinato dall’isolamento, prima che il bambino acceda, al
compimento dei tre anni, al sistema scolastico nazionale (scuola dell’infanzia).
Sempre su questa linea si collocano quei servizi come il “jardin d’enfants OPAC” di rue Albin Haller, dedicato
principalmente alla presa in carico della famiglia attraverso un lavoro continuativo sul bambino dai primi anni
di vita fino ai sei anni; l’obiettivo in questi casi è quello di monitorare, in rete con i servizi sociali, le condizioni
famigliari, per far sì che non influenzino la crescita e l’acquisizione di competenze nei bambini, necessarie
affinché ognuno possa avere pari opportunità, indipendentemente dalla propria condizione sociale di origine.
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L’ADAPTATION
In tutte le strutture visitate e sopra descritte abbiamo osservato la grande consapevolezza e
responsabilità degli operatori rispetto alle finalità sociali. Infatti ognuna di esse ha un proprio progetto
che evidenzia lo scopo sociale e le azioni messe in campo per raggiungerlo.
In un ipotetico elenco degli scopi sociali, parecchi aspetti sottolineano il valore e l’importanza degli interventi
di sostegno alle difficoltà socio-economiche e culturali delle famiglie. Davanti ai nostri occhi abbiamo visto
trasformato il concetto di “servizio assistenziale”, diventato una necessità sostenibile, degna di essere accolta
proprio per realizzare l’efficacia educativa del servizio. Ci siamo resi conto così che culturalmente abbiamo
preso molta distanza, nei nostri servizi, dalla parola assistenza, forse da quando abbiamo voluto
superare l’esperienza OMNI. Abbiamo costruito i servizi ponendo al centro del pensiero educativo il bambino
e i suoi bisogni, come per difenderlo dal concetto di “dover essere collocato al nido solo per garantire alla
madre la partecipazione al mondo del lavoro”. E’ vero che la priorità rispetto alla necessità delle madri di
lavorare è accolta nei regolamenti di accesso dei Comuni ed è tema di discussione, soprattutto politica, ma
nei progetti dei nostri nidi e scuole dell’infanzia lo scopo sociale dei servizio non viene mai esplicitato. Le
nostre educatrici ed
insegnanti
non hanno la stessa consapevolezza delle colleghe francesi di dover
realizzare un’azione non solo con il bambino, ma di dover accogliere, contemporaneamente, le necessità
indicate dalla famiglia come prioritarie rispetto alla cura del piccolo. In sintesi abbiamo riportato
alla memoria alcune priorità, la storia di una lettura dei bisogni che spesso diamo per scontata ed acquisita.
IL RIFERIMENTO RELAZIONALE DI UN’ UNICA FIGURA
I servizi visitati hanno sistemi di garanzia della continuità relazionale con un adulto conosciuto:
un'unica puericultrice è responsabile di un gruppo di bambini e della relazione diretta con le loro famiglie.
Un'unica puericultrice garantisce una dimensione molto intima, rilassata, in spazi contenuti ed adeguati
alle esigenze individuali, nella ricerca della massima tranquillità. (Spesso questi spazi intimi si discostano
fortemente dall’idea di sezione che troviamo nei nostri nidi.)
La relazione con l’adulto viene mantenuta
anche in caso di assenza della figura di riferimento principale, in quanto il personale viene organizzato
garantendo la presenza di un'altra figura già conosciuta dai bambini, che sostituirà la titolare del piccolo
gruppo in caso di malattia o ferie o altro…
Quest’intimità relazionale è un aspetto forte del concetto di adattamento alle esigenze dei
bambini, ma anche della capacità di entrare in una relazione più profonda con le madri e i padri.
Ogni famiglia ha come interlocutore principale una puericultrice, a cui rivolgere richieste che riguardano la
sfera relazionale, basate quindi molto più su un una fiducia nella persona e meno sul ruolo istituzionale che
ricopre. Rispetto alla nostra suddivisione in gruppi sezione, mediamente di 12-18 bambini, nei nidi visitati un
gruppo è composto da 6-8 bambini al massimo, si presenta quindi come una piccola comunità in cui i
bambini raggiungono un grado di profondità relazionale fra loro e con l’adulto che rispecchia la possibilità di
coinvolgere la famiglia, quotidianamente, con restituzioni degli eventi evolutivi e pedagogici attenti e
profondi. Questa atmosfera di intimità e di relazione profonda con i bambini si evince anche dalla serenità
osservata nella relazione adulto –bambino e dalle scelte organizzative di uso dello spazio
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L’AUTOVALUTAZIONE REGOLATRICE
Nei nostri servizi, l’aspetto collegiale, il collettivo, ha una funzione di confronto che si traduce anche nel
modulare l’operatività quotidiana diretta ai bambini e alle famiglie. Nei servizi francesi visitati, seppure
presente una equipe di lavoro pluriprofessionale (si veda a questo proposito il punto sull’equipe di lavoro e le
professionalità) si percepisce una maggiore personalizzazione dell’intervento di cura, che è meno
programmato collegialmente, ma nasce da una relazione molto profonda, come sopra riportato, fra adulto e
bambino. Il piano della collegialità è gestito settimanalmente per la programmazione delle attività,
organizzate attraverso la presenza di educatrici con il compito di condurle. Annualmente, nelle tre giornate
pedagogiche, l’équipe del servizio sottopone a verifica il proprio piano d’azione, attraverso l’osservazione e
l’analisi, definite come “processo necessario per riaggiustare il tiro attraverso un’autovalutazione regolatrice
del gruppo”. Nei nostri servizi questo piano collegiale si trasforma spesso in un’organizzazione di tipo
gestionale, da cui nascono una serie di prescrizioni organizzative esplicitate come norme regolamentari del
gruppo. I servizi che abbiamo visitato hanno una minor pianificazione organizzativa ed educativa, ma la
situazione più ristretta, riservata, del rapporto con un piccolo gruppo di bambini, sembra poter riportare il
percorso di verifica ad una dimensione di consapevolezza presente e non regolata da elementi
prescrittivi.
Il gruppo di lavoro dei colleghi francesi riflette collegialmente sulle competenze e le capacità di accoglienza
del servizio, che deve sempre tener conto della richiesta delle famiglie.
LA CURA DEL BAMBINO
In molti servizi il personale ha una formazione infermieristica (si veda a questo proposito il punto “L’equipe di
lavoro e le professionalità”), è prevista la consultazione rapida di un medico e la possibilità di somministrare
farmaci in caso di necessità. Ciò permette di garantire la frequenza dei bambini anche quando manifestano
alcuni sintomi o malesseri che nei nostri servizi darebbero origine alle
dimissioni immediate.
E’ offerto un servizio che si caratterizza con una presa in carico del bambino
anche malato, quando i genitori non riescono ad assentarsi dal lavoro. I servizi chiedono solitamente che i
genitori si occupino del bambino, quando possono, nella sola fase acuta della malattia. I bambini sono quindi
lasciati in un contesto in cui è offerta una dimensione di cura con presa in carico della malattia e della
somministrazione dei farmaci.
In più servizi abbiamo visto la presenza di un ufficio medico, dedicato alla visita del bambino. Ogni bambino
ha una sua cartella con i dati relativi alla crescita, compilata dalla direttrice fin dal momento dell’ammissione
al nido. Questa dimensione sanitaria è giustificata dalle colleghe francesi come un’attenzione alla salute, che
favorisce un’equilibrata azione preventiva rispetto ai bambini che presentano difficoltà di crescita, di
alimentazione o di cura derivanti anche da situazioni di disagio socio-economico.
L’INSERIMENTO E I RAPPORTI CON LE FAMIGLIE
L’inserimento dei bambini viene pensato come processo da avviare con la famiglia gradualmente e in un
tempo precedente. E’ preparato con una buona comunicazione con la famiglia che nasce dalla disponibilità
da parte degli operatori a farsi carico della rappresentazione della separazione che i genitori si
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prefigurano prima che questa avvenga. L’inserimento si realizza in un evento fluido quando le famiglie
acquistano la fiducia necessaria per affidare il bambino. Gran rilievo è dato quindi alla comunicazione prima
dell’inserimento, che spesso avviene nella casa del bambino. Mediamente nei servizi abbiamo rilevato un
tempo di circa una settimana di lavoro per l’inserimento con la famiglia e una settimana di completamento.
C’è un percorso di aiuto per le famiglie che hanno difficoltà a separarsi dai bambini, c’è una
presa in carico del bambino quando la famiglia non riesce ad averne cura. Gli operatori hanno
dichiarato che, quando la famiglia ha delle difficoltà, può essere dedicato all’inserimento anche un solo
giorno ma l’organizzazione del personale prevede sempre che un adulto conosciuto sia presente
nel
contesto, al fine di garantire sicurezza al bambino.
Emerge con chiarezza una differenza che vale la pena rimarcare, mentre nei servizi visitati gli operatori
individuano più spesso quale interlocutore del servizio, l’intera famiglia, nei nostri servizi, pur avendo
la consapevolezza che così dovrebbe essere,
attribuiamo, anche per ragioni culturali, maggiore
responsabilità alle madri, che riteniamo principali figure di riferimento per i bambini. Quindi le
richieste, le comunicazioni, sono indirizzate maggiormente alle madri e anche i rapporti con i servizi fanno
eco al peso che le madri sostengono già, da sole, nella cura dei figli. Nei servizi francesi la famiglia è
un’entità da riconoscere anche nel quotidiano. Nelle graduatorie prima di ogni altro criterio di accesso è data
priorità ai fratelli di bambini già frequentanti. I fratelli e i fratelli-gemelli sono inseriti nello stesso gruppo. La
famiglia è rievocata nel quotidiano come una presenza quando si parla del lavoro dei genitori. Sono presenti
nei servizi fotografie dei bambini con i loro genitori e i loro fratelli.
L’ALLEGGERIMENTO E LA PREVENZIONE
Tutti i servizi che abbiamo visitato, in particolare l’Halte-Garderie di rue Caillaux, hanno dichiarato un’azione
di sostegno rivolta alle famiglie che presentano problemi. Alcuni problemi sono stati definiti oggettivamente,
in quanto segnalati dai servizi territoriali come lo SME; questi servizi prendono in carico i bambini i cui
genitori non lavorano, quelli le cui famiglie hanno difficoltà economiche e/o che presentano problemi psicoaffettivi, bambini i cui genitori si separano nei primi due anni di vita, bambini che è bene stiano meno
possibile a casa.
I nostri servizi socio sanitari, solitamente fanno segnalazioni per chiedere, nelle nostre graduatorie d’accesso
ai servizi, di dare priorità ai bambini che necessitano di sostegno o aiuto. Le graduatorie d’accesso, infatti, si
rivolgono soprattutto alle famiglie in cui entrambi i genitori lavorano, per garantire il mantenimento del
lavoro. Nei servizi francesi visitati abbiamo percepito una grande consapevolezza da parte degli operatori
rispetto ai problemi delle famiglie, e alle azioni che i servizi devono mettere in campo per affrontarli. Le
difficoltà che derivano dalle differenze socio-culturali, la disoccupazione, così come la difficoltà di separazione
dal bambino della madre, sono considerati non in termini di assistenza, ma come un problema portato dalla
famiglia che ha diritto ad una risposta sia essa di tipo materiale che relazionale. Una direttrice intervistata
racconta che “ la gestione del bambino a volte è un problema, il servizio è un alleggerimento
rivolto alla famiglia per sostenere il legame in un altro modo”.
Nei nostri servizi quando si rileva che una famiglia ha difficoltà di cura, si attiva spesso un richiamo per una
maggiore responsabilità rispetto al bambino. Alcuni servizi francesi, invece, dichiarano di voler dare più
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tempo alle madri per occuparsi della casa, di se stesse, anche se sono disoccupate. Madri in difficoltà, che
noi vedremmo con qualche pregiudizio negativo e i cui figli forse non rientrerebbero mai nelle graduatorie
d’accesso. I servizi francesi collaborano con le famiglie cercando di rimuovere gli ostacoli alla cura e
questo fa parte della loro missione: è una presa in carico sociale delle difficoltà dovute ai problemi economici
della famiglia o delle differenze culturali, che mira ad una ricerca di compensazione esplicitata negli scopi
sociali. Ecco un esempio: nel “Jardin d’enfants” visitato l’insegnante sottolinea che è un servizio nato come
luogo di sostegno alla famiglia negli anni “20, dove l’approccio è più educativo e meno didattico. Visitandolo
abbiamo scoperto che i bambini sono indirizzati all’apprendimento della lettura e della pre-scrittura a cinque
anni. Il tutto avviene nel massimo della dolcezza, (i bambini arrivano a scrivere apprendendo attraverso il
corpo, ricercano gradualmente il gesto rotondo attraverso la psicomotricità) fino a quando sono indirizzati al
riconoscimento delle lettere. Non siamo riusciti ad ignorare tutti i cartelloni scritti rispetto ai nomi, regole,
spazi dedicati alle attività ecc. che tappezzano la scuola. Stona nella nostra percezione l’idea che questa
scuola dell’infanzia sia considerata come educativa e poco didattica rispetto alle altre. Poi emerge lo scopo
sociale di questa scuola: scoprire i problemi per cui si può bloccare il processo di apprendimento dei bambini.
Le difficoltà di apprendimento dovute allo svantaggio sociale e culturale vengono compensate nell’ambito
della didattica intensificando l’acquisizione della lettura e della pre-scrittura, per evitare un successivo,
“prevedibile” insuccesso scolastico.
Ci siamo fatti questa domanda: rispettare i tempi di gioco dei bambini, così come noi facciamo nelle nostre
scuole dell’infanzia, lasciando poi che i bambini che presentano disagi sociali e culturali si scontrino con la
mancanza dei propri pre-requisiti, quando arrivano alla scuola elementare, è il modo migliore per difenderli?
Ci sono altri modi?
Anche questo è un argomento di riflessione.
L’EQUIPE DI LAVORO E LE PROFESSIONALITA’
Nella visita ai servizi abbiamo anche cercato di indagare, la scelta delle istituzioni parigine, di affidare a
professionalità apparentemente molto diverse da quelle presenti nei nostri servizi, il compito di accudimento
e crescita dei bambini.
La famiglia per i motivi più diversi, di origine sociale, culturale, economica, può non esercitare direttamente
per un determinato tempo nel corso della giornata, la funzione di cura dei propri figli, che viene delegata
dalla famiglia stessa all’istituzione accogliente. L’attenzione del professionista che abbiamo incontrato è volta
a comprendere non solo i bisogni del bambino bensì e prioritariamente ad individuare quali sono le necessità
della famiglia riferite alla cura del proprio figlio. Pertanto nei dispositivi di accoglienza del bambino sono
condivise con i genitori una serie di pratiche volte prima di tutto ad accertare i bisogni che portano con sé le
famiglie e in questo ambito le condizioni dei propri bambini.
Storicamente, in Francia, la formazione del personale che lavora nei servizi per la prima infanzia è di natura
sanitaria, e la prevalenza delle operatrici che abbiamo incontrato sono infatti puericultrici (ausiliarie di
puericultura) appartenenti anche funzionalmente al sistema sanitario nazionale e non a quello scolastico ed
educativo. L’approccio pertanto, almeno per quanto riguarda la formazione di base, parrebbe essere
improntato ad una forte attenzione agli aspetti di cura e di salute dei bambini. Abbiamo riscontrato che nella
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quotidianità questa attenzione viene confermata, lo testimoniano: i protocolli sanitari che sono istituiti per
ogni bambino fin dal suo ingresso in comunità; la varietà e quantità di informazioni alle famiglie presenti
nelle bacheche e relative all’ ambito sanitario; il fermo principio di non dimettere i bambini, fatto salvo i casi
di effettiva necessità per cure individualizzate, e sostenibile grazie alla preparazione sanitaria di queste figure
professionali; la centralità che hanno anche nella disposizione degli arredi e degli ambienti, quelli riferiti ai
momenti delle routine e del cambio.
Dal confronto con le diverse persone incontrate abbiamo però compreso che queste operatrici hanno una
preparazione e un mandato istituzionale più ampio e che il confine di competenza fra la loro funzione e
quella delle colleghe, presenti oggi nei servizi per l’infanzia, ovvero le educatrici, è sempre più sfumato e
integrato. Mentre nello specifico le prime si occupano della presa in carico del bambino singolo o in gruppo,
rispondendo ai sui bisogni e alle sue sollecitazioni, assicurando la sorveglianza e le cure di cui necessita, le
educatrici valorizzano prevalentemente la funzione educativa del loro intervento con i bambini.
In particolare le peculiarità professionali emerse dalle situazioni specifiche descritte da parte di chi ci ha
ospitato, confrontate con la nostra realtà, evidenziano la seguente situazione:
La puericultrice è la persona che sta realmente e costantemente con i bambini, quella che li cura e
che realizza il progetto educativo. Ha competenze specifiche sul piano della cura e realizza il piano
educativo, sostenuta dalle educatrici.
All’educatrice viene affidata la responsabilità di definire le attività educative, la loro realizzazione e
documentazione, non solo in prima persona ma anche con funzione di supervisione e
coordinamento delle azioni educative quotidiane svolte dalla puericultrice. Sono numericamente
inferiori nel numero rispetto alle colleghe puericultrici pertanto il loro rapporto diretto con i bambini
è prevalentemente orientato alla gestione dei momenti di attività.
Il passaggio da puericultrice ad educatrice è possibile ed è auspicato dalle stesse educatrici che
dicono: “noi siamo soufflé di sostegno all’evoluzione delle puericultrici”. Ciò evidenzia il fatto che
nella pratica non vi è una forte differenza nella suddivisione delle mansioni ma è diversa la
responsabilità rispetto alla funzione professionale esercitata.
Pertanto l’asse portante del sistema che accoglie i minori e le famiglie è bipolare; ogni polo, apporta nel
sistema quanto è di sua pertinenza, rispetto alle competenze che gli sono proprie ma complessivamente tutti
gli aspetti di cui un bambino ha bisogno per crescere vengono salvaguardati, grazie al lavoro che viene
condiviso in equipe e poi realizzato insieme.
Oltre alle due professionalità preminenti, l’educatrice e l’ausiliaria di puericultura, l’equipe di lavoro (istituita
secondo quanto previsto dal decreto n°2000-762 dell’agosto 2000) di ogni struttura è composta da :
responsabile del servizio (può essere una puericultrice o una educatrice), che ha la funzione di
assicurare gli indirizzi, l’organizzazione e la gestione complessiva del servizio;
medico pediatra che assicura le visite di ammissione e promuove le azioni necessarie a favorire con
regolarità la prevenzione e il controllo sanitario dei bambini inseriti nella comunità;
psicologa; professionista di supporto per le famiglie e per l’equipe, rispetto al buon inserimento dei
bambini nel servizio;
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psicomotricista; altra figura di supporto all’equipe del servizio e che propone anche direttamente
laboratori ai bambini
CONCLUSIONI
Nei servizi francesi visitati si osserva una maggiore concretezza nell’accoglienza dei bisogni sociali dei
bambini. Appare chiara una capacità di adattamento che permette la trasformazione degli stessi in forme
differenziate, più flessibili e adeguate ad un realtà individuale e sociale che cambia, che porta problematicità
diverse ogni anno.
Sono servizi con una grande capacità di trasformazione organizzativa e ci
impongono un’ analisi approfondita del significato di “ mettere il bambino in primo piano”. Sicuramente le
nostre esperienze portano a valorizzare e potenziare lo sviluppo di competenze, rivolgendo al bambino
attività sempre più sofisticate. Ma una maggiore “adaptation” potrebbe, anche da noi, mettere il
bambino al centro dei servizi educativi attraverso una migliore accoglienza dei problemi portati
dalla sua famiglia, considerandoli ostacoli da rimuovere per la sua cura. Forse potremmo rivedere
la nostra rigidità mentale in merito al ruolo assistenziale del nido. Potremmo declinare il concetto di
assistenza trasformandolo in accoglienza, cercandone gli aspetti utili a rendere il personale dei nostri
servizi capace di maggior consapevolezza nell’accogliere le difficoltà delle famiglie. Ritrovare l’orgoglio
professionale di riuscire a contribuire ad alleggerire l’impegno di cura delle famiglie per far stare meglio i
bambini. Non si tratta di ritornare indietro rispetto all’evoluzione dei nostri nidi, ma di usare la professionalità
di lettura dei bisogni in modo più ampio, comprendendo i bisogni di cura che sono necessari ad ogni famiglia.
Ma forse per fare questo è necessario motivare le nostre educatrici su un piano relazionale più accogliente,
di maggiore “intimità” con bambini e famiglie.
Una riflessione va quindi subito alla formazione dei nostri operatori. Alcune Leggi Nazional hanno portato,
nel nostro paese, una rivoluzione culturale nei servizi sociali, trasformando concettualmente il significato del
termine assistenza e le azioni di intervento per il sostegno alle situazioni di difficoltà sociale, quali per
esempio la L.285/97 e la L.328/2000 che sono rimaste ancora fuori dalle mura dei nostri servizi.
Ancora distanti sono i temi o meglio le ricadute operative dei concetti di
integrazione tra
promozione dell’agio e prevenzione del disagio.
La distanza con i servizi sociali è stata presa per riavvicinarci, con una identità più forte, ai servizi per
l’infanzia come servizi educativi. E’ stata una distanza preziosa, che ha permesso, nella maggioranza dei
Comuni della nostra Regione, di ricercare la nostra identità nell’appartenenza dei Servizi educativi, scolastici e
formativi agli Assessorati alla Pubblica Istruzione. Sappiamo rappresentarci il minore in un percorso evolutivo
unico, pensato dai 0 ai 18 anni ma spesso lo vediamo isolato dalla rete di relazioni sociali e famigliari, che
rimangono marginali nei nostri servizi.
Alcuni principi ispiratori delle Leggi Nazionali sopra riportate che
hanno penetrato la cultura dei servizi sociali ma non la cultura professionale dei servizi per la prima infanzia,
potrebbero essere oggetto d’attenzione delle nostre educatrici, che per esempio orientano ogni anno la loro
richiesta formativa all’acquisizione di tecniche per gestire laboratori rivolti ai bambini.
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La Legge 285/97 ha sancito il principio che le politiche sociali devono essere politiche di aiuto alla
normalità della vita delle persone, e non solo politiche che aiutano situazioni di crisi e di disagio.
La legge 328/2000 ci dice che ogni cittadino è attore del suo progetto di vita, gli operatori sociali
non l’assistono ma l’accompagnano nella realizzazione del progetto.
Il concetto di assistenza esce quindi da una collocazione dei cittadini in categorie di bisogni, altrimenti si
corre il rischio di ritornare alla rigida divisione tra agio e disagio che non prevede alternative, come se la
difficoltà fosse una condizione, uno stato non modificabile o superabile fin dai primi anni di vita.
I servizi per l’infanzia possono svolgere un ruolo prezioso nell’ accogliere la cultura innovativa dei servizi
sociali, lasciandosi coinvolgere in un’azione di prevenzione mirata a rimuovere precocemente gli ostacoli che
determinano nelle famiglie carenze educative e di cura, siano essi ostacoli di carattere economico, culturale
o sociale. La comunicazione con le famiglie potrebbe aprirsi all’ascolto di alcune richieste che non sempre
rientrano nei piani organizzativi pensati in collettivo. La professionalità delle educatrici potrà gestire le
richieste
rifiutandole, qualora non rientrino nel piano organizzativo pensato, o ancora riportando in
collettivo la domanda di una maggiore autonomia organizzativa sugli aspetti di bisogno evidenziati
da bambini e famiglie.
PUNTI DI RIFLESSIONE DA CONSIDERARE PER MIGLIORARE IL NOSTRO MODO DI LAVORARE
Si riprendono gli aspetti per i quali a nostro avviso potrebbe valere la pena fare un approfondimento rispetto
all’esperienza vissuta a Parigi, rimandando all’intero documento (vedi elaborato sull’adaptation) per uno
sguardo più di dettaglio su questi aspetti.
•
nei progetti dei nostri nidi e scuole dell’infanzia lo scopo sociale dei servizio non viene mai esplicitato.
Le nostre educatrici ed insegnanti non hanno la stessa consapevolezza delle colleghe francesi di
dover realizzare un’azione non solo con il bambino, ma di dover accogliere, contemporaneamente, le
necessità indicate dalla famiglia come prioritarie rispetto alla cura del piccolo.
•
Rispetto alla nostra suddivisione in gruppi sezione, mediamente di 12-18 bambini, nei nidi visitati un
gruppo è composto da 6-8 bambini al massimo, si presenta quindi come una piccola comunità in cui i
bambini raggiungono un grado di profondità relazionale fra loro e con l’adulto che rispecchia la
possibilità di coinvolgere la famiglia, quotidianamente, con restituzioni degli eventi evolutivi e
pedagogici attenti e profondi.
•
I nostri servizi socio sanitari, solitamente fanno segnalazioni per chiedere, nelle nostre graduatorie
d’accesso ai servizi, di dare priorità ai bambini che necessitano di sostegno o aiuto. Le graduatorie
d’accesso, infatti, si rivolgono soprattutto alle famiglie in cui entrambi i genitori lavorano, per
garantire il mantenimento del lavoro. Nei servizi francesi visitati abbiamo percepito una grande
consapevolezza da parte degli operatori rispetto ai problemi delle famiglie, e alle azioni che i servizi
devono mettere in campo per affrontarli. Le difficoltà che derivano dalle differenze socio-culturali, la
disoccupazione, così come la difficoltà di separazione dal bambino della madre, sono considerati non
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in termini di assistenza, ma come un problema portato dalla famiglia che ha diritto ad una risposta
sia essa di tipo materiale che relazionale.
•
Diversificazione dei servizi: ai servizi educativi per i genitori occupati si affiancano quelli istituiti per i
genitori in cerca di occupazione o che hanno bisogno di dedicare tempo a sé stessi o alla cura delle
proprie faccende personali e famigliari. Infine vi sono servizi dedicati espressamente a quelle
famiglie con particolari svantaggi sociali e che non hanno avuto modo di scolarizzare il proprio figlio
fino ai due anni.
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Gruppo D
Bartolini, Benedetti, Gamberini, Mastrapasqua, Santucci
1) Premessa
Nel passaggio dall’analisi individuale a quella di gruppo (D) abbiamo trovato molti punti comuni e questo
conferma che pur con percorsi e servizi diversi, i coordinatori (sia pubblici che privati) sono arrivati a visioni
simili della cultura dell’infanzia (non uguali fortunatamente) e questo grazie alla storia dei servizi, alla
legislazione regionale e al confronto nel CPP.
2) Che cosa ci ha colpito di più soprattutto nell’ottica della diversità rispetto alla nostra
esperienza
- la formazione di base (di accesso) del personale (puericultrici e personale paramedico); e la constatazione
che questa diversa formazione da quella italiana all’apparenza non ha portato a servizi molto diversi; (ci
siamo domandati: è possibile che affidare il proprio bambino a qualcuno che sa trattare la sua salute possa
favorire la fiducia nell’affido in sede di inserimento?)
- la presenza all’interno dei servizi di personale di varie etnie come scelta per avvicinare ed accogliere in
modo più adeguato le famiglie
- la diversità dell’offerta di servizi all’utenza (diversità di orario, di gestione ed organizzazione del servizio)
- servizi con orari dilatati (nido associativo 5.30 – 23.00)
- la frequenza d’urgenza (possibilità per i genitori di accedere ad un servizio in situazioni di emergenza e in
tempi molto brevi )
- il progetto pedagogico suddiviso in progetto educativo e in progetto sociale (anche se non risulta dalla
documentazione in nostro possesso, infatti non abbiamo visto un materiale di documentazione dei nidi
pubblici che si possa identificare come il “progetto” educativo, o di presentazione del servizio)
- l’ausiliaria di accoglienza che accoglie al mattino tutti i genitori
- l’attenzione posta al rapporto con i genitori che abbiamo sentito come autentica e non formale
- la flessibilità nell’organizzazione. Una flessibilità “pensata, strutturata” che non presta il fianco ad
improvvisazioni sterili, disorientamenti e/o conflitti.
- la competenza e la disponibilità della maggior parte delle persone che ci hanno accolto
- gli spazi piccoli, stretti, e poco areati
- gli spazi pieni di arredi e materiali
- l’arredo al soffitto e alle parete per abbassare il rumore ed esaltare i suoni
- i lettini a castello
- il lettino preparato dai genitori, con i “paraspigoli avvolgenti” come in neonatologia
- i bambini a piedi nudi
- le maniglie in alto
- i piatti con gli scomparti per le diverse portate
- l’autonomia nel momento del pasto per i più grandi e l’uso e la collocazione nello spazio per il momento del
pasto dei più piccoli.
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- i direttori: nonostante le differenze, dovute soprattutto all’esperienza, nel complesso evidenziamo
competenza e chiarezza espositiva in chi ci ha accolto; abbiamo percepito anche senso di appartenenza e un
certo orgoglio (ma questo forse è culturale o stimolato da uno stipendio per noi inaccessibile?); ci siamo
chiesti come il loro ruolo, autorevole e presente costantemente all’interno della struttura, influisca sulla vita
del servizio e soprattutto nelle relazioni con le famiglie oltre all’utilità di alleggerire il personale dagli aspetti
gestionali
- le strutture/gli spazi/gli arredi: il modello su più piani con seminterrato per i servizi e spazio passeggini
(funzionale in quanto servono aree di minori dimensioni più facilmente reperibili e meno costose); spazi a
volte angusti (rispetto alla nostra percezione, ma crediamo che ai bambini non dispiacciano) ma molto curati
i particolari (vedi porte antischiacciamento o maniglie alte, oppure i lettini personalizzati); meno attenzione
all’aspetto igienico nelle sezioni e nei bagni - nonostante l’impostazione sanitaria….(a parte le cucine che
sono a norma con le direttive europee)
- in estate e a Natale resta aperto un nido per ogni quartiere, con il personale proveniente dai nidi chiusi.
- 1 educatrice per nido che si occupa delle provocazioni pedagogiche per tutte le sezioni e agisce come un
coordinatore pedagogico: ma ha una competenza di gestione dei gruppi? E come si pone l’educatrice con la
direttrice?
- 1 psicologo e 1 psicomotricista (al bisogno)
- l’ambientamento dura una settimana (o due, quando possibile)
- i progetti di continuità sono quasi inesistenti
- l’ approccio medico-sanitario come comunica con gli aspetti educativi ?
- il “silenzio” dei bambini e la mancanza di una ( per noi forse sana ) “rumorosità infantile”
3) Che cosa ci portiamo a casa e che cosa pensiamo di poter trasferire nella nostra realtà
lavorativa
- la consapevolezza di aver potuto fare, ancora una volta, una esperienza molto interessante ed arricchente
- la conoscenza più approfondita di alcune/i colleghe/i, ed aver avuto la possibilità di apprezzare qualcuno/a
in modo particolare
- alcune conferme al nostro modo di operare professionale
- stimoli per perseverare in alcuni obiettivi di formazione con gli educatori soprattutto sul tema della
gestione del rapporto con i genitori
- alcuni spunti per l’accoglienza di famiglie straniere, o con disagio;
- l’importanza di proporre ai genitori info anche di argomenti “non solo inerenti all’infanzia”
- l’attenzione all’alimentazione e agli oggetti del pasto (piatti a scomparto e tabelloni per i bimbi con le foto
degli alimenti)
- i cartelloni con “oggi i bimbi li accoglie …. e la foto della persona che si occupa dell’ accoglienza”
- il quadro con le foto del gruppo di lavoro… da piccole!
- una riflessione reale sui percorsi interculturali.
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- essere anche contenti e soddisfatti per quello che abbiamo come spazi educativi e come strutture nella
nostra realtà e di quello che in tanti anni di lavoro abbiamo tutti quanti costruito nei vari ambiti (legislativo,
pedagogico/progettuale, sociale, educativo…….)
- accendere un dibattito ancora più approfondito con gli educatori sul tema del rapporto con le famiglie. Un
rapporto che è, a volte, ancora conflittuale. Sul tema dell’accoglienza come modalità, stili ed
organizzazione. Sul tema della flessibilità come valore aggiunto e non come ulteriore concessione
alle esigenze altrui. Sul tema della restituzione alle famiglie di ciò che il bambino vive al nido. Ancora
troppe volte le educatrici pensano agli scambi ed ai colloqui con le famiglie come un percorso unilaterale,
come un ricevere informazioni che servono alla giornata vissuta nel servizio o come dare suggerimenti ai
genitori per migliorare la qualità della relazione con i propri figli; e in questo sono abbastanza
autoreferenziali. Si mettono raramente nella posizione di chiedere e/o ricevere suggerimenti dai genitori o
di dare una puntuale restituzione di come il bambino ha passato la giornata nel servizio. Ed è un passaggio
che al genitore manca, vuole sapere, vuole dire, vuole dare, cerca di conoscere quello che il bambino ancora
non riesce a raccontargli e cerca di conoscerlo tramite il racconto delle educatrici. Per questo è importante
continuare a cercare di strutturare una documentazione il più possibile a due o più voci. (Anche se
non abbiamo abbastanza elementi sulla realtà francese per poter dire che il rapporto nido-famiglia sia
percepito come positivo anche dai genitori, infatti la relazione ci è stata rappresentata da un solo
componente della diade. Tutto si gioca sul tavolo della documentazione. Su questo tema stiamo investendo
parecchio con la consapevolezza che i risultati positivi o negativi dipendono molto dalle sensibilità del
personale).
- altro aspetto che ci piacerebbe molto indagare e portare avanti già da tempo (ma credo che attualmente
sia più facile attuarlo nel nido privato) è un utilizzo flessibile e studiato degli orari del nido.
- ci piacerebbe molto dare la possibilità (se il personale ausiliario lo concede) alle madri di preparare i lettini
dei propri figli e di personalizzarli (anche con paraspigoli avvolgenti) (Consapevoli che nel nostro territorio
questo è un tema complesso, perché dove è stato attivato, in alcuni nidi, ha prodotto nei genitori la
percezione che “il personale non ha voglia di lavorare”)
- fondamentale, per diminuire il rumore all’interno delle sezioni, l’arredo e l’allestimento del soffitto e delle
pareti.
- la riflessione sull’uso della voce dell’adulto
- il sostegno anche “pratico”- materiale alle famiglie (giochi, vestiti, oggetti usati a disposizione)
- ulteriore riflessione sul percorso di autonomia / sicurezza del bambino, che non passa solo attraverso la
concezione di uno spazio sicuro e a misura di bambino.
- una riflessione con i collettivi dei nidi sulla nostra “ansia” di FARE cose, attività, laboratori con i bambini
- i cartelloni con la scritta “a noi piace leggere questo…”.con la copertina dei libri più richiesti dai bimbi
4) Gran finale
A livello personale portiamo a casa la piacevole sensazione, nonostante l’età e le fatiche del quotidiano, di
aver mantenuto una sana curiosità e uno sguardo laico sull’altrove.
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Rileviamo anche il valore aggiunto delle nuove conoscenze “italiane”, anche se farlo a Parigi sembra un po’
dispendioso….
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Sottogruppo etnopsichiatria e transculturalità
Per il gruppo:
Simona Serina, Roberto Maffeo, Daniela Orsi
Trasferibilità possibili
Premessa:
L’approccio transculturale non riguarda e non è rivolto solo alle persone migranti, ma coinvolge e
riguarda tutte le persone, tutti i servizi educativi-sociali-culturali-sanitari etc..
Nell’ottica di restare nel nostro ambito lavorativo, avviando riflessioni “etnopedagogiche”, ovvero sul come
poter calare tali conoscenze ed esperienze nei nostri contesti educativi, la questione dei legami tra discipline
ed ambiti differenti resta fondante nella progettazione degli interventi educativi e di sostegno alla
genitorialità. Una sorta di pensiero meticcio che dovrebbe accompagnare le pratiche educative, sempre
nell’ottica di considerare la comunità educante quale contesto di prevenzione oltre che di promozione del
benessere e dell’incontro.
Ci si è chiesti a partire dalle sollecitazioni francesi quali elementi, considerati i diversi contesti nazionali e
situazioni territoriali, possono essere trasferibili nella nostra Regione in ambito in particolare educativo
considerando il contesto multiculturale nel quale ci muoviamo, con il desiderio e lla forte intenzione che
diventi sempre più interculturale.
Equipe interdisciplinare
Un’intera giornata del viaggio studio a Parigi è stata dedicata ad incontrare Marie Rose Moro, la sua
èquipe e conoscere la “Maison des adolescents” e l’ospedale Avicenne1 a Bobigny( Il centro visitato a
Bobigny si occupa di consulenza atnopsichiatrica oltre che di etnosistemica per le tossicodipendenze). La
professoressa Moro, etnopsichiatra ed etnopsicoanalista
lavora per aiutare l’infanzia e l’adolescenza in
difficoltà grazie ad un approccio transculturale2. E’, quindi, in una dimensione di complementarismo e di
decentramento che questa clinica plurale va a declinarsi in un approccio transculturale in cui il lavoro di
gruppo permette alle esperienze degli uni e degli altri di potenziarsi nella ricerca di una pratica di métissage.
L'incontro con l'équipe di Marie Rose Moro A partire dagli stimoli offerti da questa nostra esperienza, le
discussioni che ne sono nate sono state molto interessanti: riflessioni sulla differenza di contesto tra Italia e
1
L’ospedale è stato intitolato a un filosofo e medico musulmano Avicenne per sottolineare il suo interesse verso
la diversità
2
Moro e la sua équipe si occupano della sofferenza di bambini e adolescenti figli di migranti e affrontano la
consultazione etnopsichiatrica in un setting di una consultazione composto da vari terapeuti di origini culturali e
linguistiche molteplici, di cui uno è il terapeuta principale che conduce la seduta e gli altri sono definiti co-terapeuti che
fanno riferimento al terapeuta principale, inoltre è presente la famiglia, l’èquipe medica della famiglia e un mediatore
linguistico per utilizzare la lingua materna del paziente e il passaggio da una lingua ad un’altra. Tutti i presenti
confrontano le proprie rappresentazioni culturali sulla sofferenza del paziente in modo da avere vari sguardi sul disagio di
cui ci si occupa. Nel setting, la presenza di tanti terapeuti permette di portare nuove aperture, nuovi sguardi. la cultura
diventa così un insieme dinamico di rappresentazioni mobili in continua trasformazione, incastrate le una nelle altre, un
sistema aperto e coerente con il quale il soggetto è in costante interazione.
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Francia
rispetto
al
processo
migratorio
e
sulla
presenza
numerosa
in
etnopsicologi/psichiatri etc, francesi a tutti gli effetti, terapeuti di seconda/terza
Francia
di
specialisti,
generazione, *ovvero
originari di altre culture, nati in Francia e ben integrati nella comunità, che hanno studiato in Francia ed
hanno fatto un percorso formativo solido e di alto livello. Sono degli specialisti francesi a tutti gli effetti ma
con un grande valore aggiunto: una cultura di origine viva e che li mette in connessione con le persone, con
i loro pazienti.
Qui da noi, di un equipe specialistica in grado di facilitare l'ingresso e la comunicazione in senso ampio, se ne
parla ma non esiste. Attualmente la realtà è che nella maggior parte dei casi la prise en charge è
completamente a carico del coordinatore (che rischia di dover essere un tuttologo sul quale si coinvolgano
tutte le richieste di soluzione e presa in carico del disagio, con alti livelli di frustrazione da parte dello stesso).
Ad esempio si può pensare alla difficoltà di gestire semplicemente una riunione di sezione, un colloquio che
non sia solo informativo in un contesto transculturale, bambini in processo migratorio in situazione di forte
disagio ecc...
Ravvisiamo la necessità della presenza di un gruppo di persone preparate di taglio non solo psicologico,
anzi piuttosto pedagogico non delegabile al centro clinico per la prima infanzia di Bologna, centro con alte
competenze specifiche ma a impronta prettamente psicologica.
Sottolineiamo l'importanza del lavoro di prevenzione che sostenga le strutture "normali", nel nostro caso i
servizi educativi 0-6.
Nell'ottica della rete dei servizi in ambito socio-educativo-sanitario, una grande risorsa potrebbe essere la
presenza sul territorio di un apparato specializzato in grado di condividere con il pedagogista/il servizio 0-6,
l'analisi della situazione, del disagio e costruire insieme, possibili vie da percorrere.
-Adolescenti
l'unica trasferibilità sia un impegno verso i ragazzi stranieri più mirato soprattutto nelle scuole, con un
supporto specialistico che non hanno e si devono arrangiare con pochi soldi. Certo la Moro lavora con
adolescenti problematici ma prima di arrivare lì sarebbe utile un lavoro di prevenzione che oggi è poco
presente nelle scuole.
Alcuni spunti di trasferibilità per noi dei servizi 0-6
- Costruzione dell'identità
Un primo grande aspetto che un coordinatore pedagogico, ma anche il personale educativo dei servizi può
tenere in considerazione è l’aspetto che riguarda la costruzione dell’identità in una situazione di
transculturalità, di migrazione, di espatrio, di esilio, di sradicamento, di meticciato. Tenere presente che gli
effetti della migrazione sono sentiti da tutti i membri della famiglia, (di prima, seconda o anche terza
generazione) può avviare ulteriori riflessioni sui temi pregnanti dell’accoglienza, della prise en charge.
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-Valorizzazione del bilinguismo
L’ interesse di Moro è diretto a come aiutare i bambini dei migranti, che a differenza dei loro genitori che
arrivano con la propria lingua e la propria cultura, sono bambini migranti in questo mondo francese e in una
società plurale. Spesso parlano esclusivamente la lingua francese, ma è essenziale siano bilingue perché essi
sono di due mondi: il mondo dell’accoglienza (francese) e quello trasmesso dai loro genitori (lingua e cultura
di origine). L’équipe della Moro interviene raccontando la storia dei genitori nelle due lingue ( di origine e in
francese)3 in modo che quei bambini comprendano che i loro genitori sono persone coraggiose, che hanno
un sapere, una cultura che può essere portata nella scuola e percepita come una ricchezza. L’équipe di Moro
lavora sulla diversità dei linguaggi e sul rapporto che il bambino può avere con quei differenti linguaggi, il
loro lavoro consiste anche affinché si vedano queste difficoltà. Marie Rose Moro, sottolinea come le ricerche
scientifiche e la realtà clinica mostrano che non sia un problema per i bambini essere bilingue; al contrario,
c’è un apprendimento migliore e più veloce se a casa hanno appreso la lingua materna e conoscono solo
nella scuola la lingua francese. I bambini bilingue, inoltre, sono meglio strutturati e più creativi, risulta che
meglio siano in grado di passare da un mondo all’altro serenamente e riescano meglio negli apprendimenti
scolastici; tutto questo perché sono bambini che non hanno rinunciato alla lingua materna, che struttura,
che permette loro di far dialogare il mondo interno con quello esterno.
Durante l’incontro con noi, Marie Rose Moro ha evidenziato l’importanza di promuovere l’utilizzo della lingua
madre nell’intimo della famiglia e che sia lasciato alla scuola – luogo sociale - l’immersione nella lingua
francese. Anche da noi si promuove questo, ma vi sono ancora tante insegnanti che consigliano ai genitori
di parlare in italiano con i propri figli, senza pensare che così facendo possono andare a ledere l’identità di
quel bambino che si sente sradicato e non riconosciuto, che non si sente di appartenere né ad una cultura né
ad un’altra; mentre invece potrebbe godere di una identità culturale della famiglia e di una identità sociale
che non sarebbero in antitesi, ma si intreccerebbero, potendo il bambino passare dall’una all’altra senza
rinunciare a nessuna parte di sé.
-Il nome
Un altro esempio molto significativo è quello del nome. Nelle culture africane ad esempio, non è
possibile dare il nome al bambino prima di avere sotterrato la placenta, qui in Francia viene dato dopo 3
giorni dalla nascita: è il nome della società. Per la famiglia il vero nome arriva dopo una settimana dall’Africa:
è’ il ritorno dell’antenato. A scuola il primo nome del bambino è il nome del fuori-società, a casa il bambino
viene chiamato con il vero nome. Questi bambini sono sospesi tra il dentro ed il fuori.
Nei colloqui iniziali è bene chiedere da dove giunge questo nome, offrendo la possibilità ai genitori di
raccontare la storia del loro bambino, dando voce e rispettando le rappresentazioni di ogni famiglia.
3
Durante l’incontro Marie rose Moro ci racconta che nel Corso per conseguire la Laurea pluridisciplinare in
Transculturalità, è stata fatta una ricerca che riguardava la difficoltà e il fallimento scolastico di bambini 7 anni. In 30
classi con 25 bambini è’ stato proposto un atelier settimanale durante il quale ogni mamma racconta una storia nella sua
lingua materna. Tutti i genitori raccontano una storia, soprattutto le mamme, ma anche i padri. Non importa se i bambini
non capiscono, ascoltano e poi viene tradotto: infatti l’incontro è bilingue, nel senso che è presente un traduttore che
dalla lingua materna riporta alla lingua autoctona. L’obiettivo è di far ritrovare la fierezza di se stessi ai bambini,
rinforzando la loro stima di sé e della cultura di provenienza, in particolare coinvolgendo le famiglie dove vi era molta
squalifica in questo senso, attraverso il riconoscimento e la valorizzazione della diversità culturale; creare una
rappresentazione positiva della diversità.
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-genitori e bambini: valorizzazione pluriappartenenze culturali
Nei nostri servizi ci relazioniamo con genitori che possono avere un vissuto segnato dal processo
migratorio, processo che può mettere in discussione il ruolo parentale e produrre quindi una sofferenza
identitaria. Genitori che non parlano la lingua del paese che li accoglie, che si sentono isolati per via degli
scarsi legami sociali, possono essere molto vulnerabili. Può mancare un riconoscimento del loro sapere, della
propria cultura e della loro lingua madre che li può portare a sentirsi sminuiti di fronte ai proprio figli.
Recentemente nei nostri servizi socio-educativi sta emergendo un dato preoccupante: stanno aumentando i
casi di rimpatrio di genitori migranti, anche con figli minori a carico, non solo in conseguenza diretta della
crisi economica e per incapacità reddituali legati alla perdita del lavoro, ma anche a causa del
sopraggiungere di malattie mentali e di disagio psichico.
Così come nell’ambito dell’accoglienza quotidiana, della prevenzione del disagio, del sostegno alla
genitorialità è sempre più indispensabile procurarsi conoscenze, riferimenti rituali e comunicativi di altre
culture. Ad esempio per poter gestire al meglio eventuali malintesi culturali durante i colloqui con i genitori
stranieri può essere utile sapere che in alcune comunità africane lo sguardo diretto non è sempre segno di
rispetto. Più spesso capita che i genitori provenienti dai Paesi dell’Africa Occidentale (Senegal, Ghana,
Guinea) tendano a voltarsi di profilo rispetto al proprio interlocutore, a mostrare il fianco perché stanno
“porgendo l’orecchio” in senso di rispetto e con l’intenzionalità di comunicare la loro massima volontà di
ascolto.
A noi il compito di avviarci verso una sorta di nomadismo culturale, in un percorso formativo che ci permetta
di “viaggiare” tra le modalità culturali differenti, che ci porti a contatto con modalità di comunicazione ed
accoglienza degne di essere riconosciute; saper sostare, o meglio so-stare, saper stare accanto, mettersi a
disposizione per poter accogliere la differenza e inserirla in un proprio patrimonio di conoscenza e
competenza. Sospendendo il giudizio nell’ottica di trasmettere un messaggio di incoraggiamento, di
interezza, piuttosto che di mancanza o di frammentarietà.
-Maggiore competenza interculturale
Si sottolinea la necessità di FORMAZIONE specifica, approfondita e continua in ambito transculturale per il
personale dei servizi, per i coordinatori pedagogici e tutte le persone che fanno parte della rete educativa.
Con ricaduta la possibilità di condivisione di elementi con i genitori stessi dei bambini frequentanti i servizi.
Si evidenzia quanto potrebbe essere costruttivo continuare ad approfondire questo approccio transculturale,
che si può adottare per riflettere su ogni problematica e non solo su quelle in cui è coinvolto chi ha cultura di
origine straniera, ma per indagare “di che cosa hanno bisogno i bambini, di qui e dell’altrove, per crescere
bene?” Domanda che Marie Rose Moro si pone4 e a cui non risponde con una risposta, bensì con un
continuo osservare e porsi domande.
Ci auguriamo che questi spunti di riflessione possano essere accolti come pensiero attivo nelle future scelte
in particolare ambito educativo dalla RER.
4
M.R. Moro, Maternità e amore, Frassinelli, 2008
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APPROFONDIMENTI:
1. Assistente Maternelle e Crèche familiale
2. Halte garderie
3. Crèche Intergénérationelle Péan
4. Centre Michelet
5. Hospital Avicenne Bobigny
5.1 verso la trasculturalita’ in una societa’ plurale
5.2 adolescenze in cerca
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1. Assistente Maternelle (AM) e Crèche Familiale (Gruppo B - )
Descrizione del servizio
Assistente materna e Crèche familiale
Il servizio di assistente maternelle è attivo da 20 anni
Le AM possono essere “liberales” [il contatto, il pagamento, l’accordo sulle modalità di accoglienza avviene
direttamente tra famiglia e AM. Il Centre Assistance Familiale del comune dà un contributo] oppure essere in
“rete” con i nidi comunali (i bambini vengono assegnati alle AM dal comune, c’è una direttrice che gestisce un
gruppo di AM e organizzano momenti comuni sia di incontro tra i bambini che di scambio e formazione tra le
AM.)
Le creches familiales sono i punti di gestione e di incontro di un gruppo ( di circa una ventina) di AM e dei
bambini loro affidati
Le AM lavorano 11 ore al giorno. I bambini possono restare però al massimo 10 ore.
Sono nella maggioranza madri, non hanno una specifica formazione, ma vengono valutate da diversi
professionisti ( psicologo, assistente sociale, puericultrice…..) dei servizi sociali. Dopo questa valutazione
hanno un “agreement”, una sorta di autorizzazione al funzionamento e possono svolgere questa attività.
Ogni AM accoglie nella propria casa 3 bambini.
Ogni creches familiale ha 1 direttrice, 1 personale di segreteria,1 puericultrice,1 educatrice
Sono anche presenti il pediatra e lo psicologo.
Spazi:
- l’AM riceve dal comune una dotazione base di arredo e di giocattoli. Non ci sono locali dedicati ma spazi
attrezzati per il riposo, il gioco…
- la creche familiale è strutturata a tutti gli effetti come un nido, con spazi per le routine, per le attività , per
gli adulti, ecc.
Le creches familiales sono spesso a fianco di una creche collective ( nido comunale) e hanno una struttura
molto simile a questo.
Vi sono spazi per gli adulti:
• segreteria e direzione
• sala per gli adulti
• spazio per i bambini attrezzato con angoli per le attività
ambientamento:
E’ previsto un periodo di ambientamento di circa 15 gg. ma ogni A.M. si adatta al bambino e alla famiglia .
“C’è un protocollo nella testa, non un protocollo scritto”
attività
- nell’abitazione dell’Assistente Maternelle non vengono svolte attività specifiche
- nella Creche Familiale c’è una programmazione di attività ( angoli attrezzati per il gioco libero; attività
proposte dall’educatore ai bambini in piccolo gruppo)
Formazione:
- le Assistentes maternelles partecipano ai 3 giorni pedagogici previsti per tutto il personale che opera nei
servizi
- hanno momenti di scambio con le atre AM e il personale della creche familiale ( educatrice,
puericultrice,direttrice..)
- c’è un confronto tra AM e educatrice, direttrice ecc su quanto queste figure raccolgono dall’osservazione
delle AM e dei bambini all’interno della creche
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Una premessa: la differenziazione tra l’acceuil collectif e l’accueil individuel:
Nella home page del comune di Parigi, nella presentazione dei servizi di accoglienza per i bambi, i servizi
sono raccolti entro due grandi categorie: l’accueil collectif e l’accueil indivudel. Nella prima categoria
rientrano le creches collectives , i jardin maternelle e d’enfance, le haute garderie ; nella seconda, le creches
familiales, le assistente maternelle e le gardes d'enfants al domicilio delle famiglie. Questa distinzione è
interessante. Definisce con chiarezza due modalità diverse di accoglienza: una collettiva , pubblica o privata,
in strutture con personale qualificato, con spazi organizzati “da nido”, anche nelle realtà private, magari
ricavate in appartamenti ed abitazioni . L’altra, quella individuale, dove la dimensione individuale rispetto a
quella collettiva è molto precisa: l’accoglienza avviene nell’ abitazione della Assistente, il ritmo quotidiano è
scandito dal ritmo “familiare” non sono previste attività strutturate nel rapporto diretto tra assistente a
bambini; qui viene curata la dimensione della cura. Le attività, il rapporto con gli altri bambini e quindi la
dimensione collettiva vengono ricercati e vissuti fuori dalla casa , nella creche familiare che rappresenta un
interessante luogo di socializzazione e di esperienza sia per i bambini che per le educatrici e anche un luogo
di ”valutazione della qualità” dell’intervento dell’assistente materna e di formazione continua.
Questo elemento chiarisce e differenzia in modo preciso gli obiettivi e l’organizzazione dei due diversi servizi,
che risulta congruente. Nella nostra realtà i servizi sperimentali sono realizzati in spazi molto diversi (le
educatrici familiari nell’abitazione della famiglia, le domiciliari in spazi dedicati delle abitazioni dell’educatrice,
i Piccoli gruppi educativi in ambienti simili ai nidi) mescolano i due ambiti , quello collettivo e quello
individuale, seguendo la distinzione francese: così anche i progetti pedagogici ed educativi e le conseguenti
organizzazioni operative si sono mescolati e a volte confusi e i le domiciliari e i piccoli gruppi educativi sono
di fatto e a volte però con fatica, divenuti dei “micro- micronidi”
Sarebbe forse possibile tenere maggiormente separato concettualmente ( ma subito dopo creare luoghi
come le creches familailes che permettano di governare e di qualificare queste offerte) l’accoglienza
individuale ( la nostra educatrice familiare o domiciliare; intendendo le accoglienze in una abitazione ) dalle
altre forme di accoglienza, alle quali togliere un impropria impronta familiare o domiciliare e dare risalto alla
dimensione collettiva in modo preciso, anche a fronte di bassi numeri di bambini.
La valutazione :
Tenendo buona questa premessa, mentre nelle offerte collettive ( nostri PGE, nidi ecc) l’autorizzazione al
funzionamento e il futuro accreditamento sembrano buoni strumenti di controllo, per i servizi ad accoglienza
individuale ( dunque le accoglienze in abitazioni della famiglia o di un’educatrice) sembra interessante la
modalità prevista in Francia di una valutazione
compiuta da diverse professionalità che verifichino la
“tenuta” dell’assistente materna e la qualità degli spazi ecc. Il percorso di selezione delle assistenti, realizzato
da psicologi, assistenti sociali, puericultrici, in capo ai servizi sociali ci ricorda in qualche modo il percorso
realizzato nella nostra realtà per le famiglie che danno la disponibilità all’affidamento familiare. (togliere o
modificare)
Si potrebbe dunque pensare , oltre al titolo previsto per tutti gli educatori dei servizi educativi ( elemento
sicuramente qualitativo, sul quale , usciamo rafforzati anche dal confronto con l’esperienza francese ) e al
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posto dell’autorizzazione al funzionamento che non avrebbe senso in una realtà di tipo abitativo, ad una
valutazione multiprofessionale dell’educatrice e delle caratteristiche della abitazione nella quale si
realizzerebbe il servizio.
La responsabilità delle AM in capo alla Direttrice del comune:
L’esperienza francese separa nettamente le Assistentes maternelles liberales da quelle in rete con i servizi
municipali e queste ultime hanno un interlocutore e un responsabile preciso che ha la responsabilità
dell’assegnazione dei bambini, della qualità dell’accoglienza e della formazione della Assistente maternelle. La
figura della Direttrice è una realtà presente in tutti i servizi francesi e non rappresenta una specifica
organizzazione per le Assistentes Maternelles e le Creches familailes. Questo rapporto, chiaro e diretto, è
poco presente nella nostra realtà, certamente caratterizzata da una maggiore autonomia dei servizi. Tuttavia,
soprattutto per i servizi sperimentali una più stretta relazione tra servizi sperimentali e responsabile dei
servizi comunali potrebbe essere molto utile, in quanto garantirebbe una reale integrazione di questi servizi
con la restante rete dei servizi 0/3, elemento che risulta debole nella nostra organizzazione
Le creches familiari come luogo di formazione, di scambio e anche di controllo di qualità
L’esperienza francese che attorno alle Assistentes Maternelles organizza le Creches familiales è interessate e
stimolante.
Si tratta di veri e propri servizi, strutturati come dei piccoli nidi, che rappresentano i punti di gestione e di
incontro di un gruppo di circa una ventina di AM e dei bambini loro affidati. In questi luoghi le Am e i bambini
vanno alcuni giorni la settimana e gli obiettivi sono:
-
per i bambini: avere opportunità di gioco ( utilizzo dell’ambiente e dei materiali e giochi; partecipazione
ad attività strutturate e condotte dall’educatrice, rapporto con altri bambini..)
-
per le Assistentes Maternelles: confronto con altre AM, scambio, formazione
-
per le responsabili servizio
e le diverse professioniste che vi operano ( direttrice, educatrice,
puericultrice, pediatra) : possibilità di incontro con le singole AM , possibilità di osservare la relazione tra
AM e bambini loro affidati, di verificare ed intervenire sulla qualità degli interventi educativi realizzati
dalle AM, possibilità di osservazione sui bambini e sul loro benessere
In tutte le riflessioni e le analisi fatte sui nostri servizi sperimentali , il rischio di isolamento e di solitudine
delle educatrici e dei bambini accolti in questi servizi è stato uno degli elementi più volte segnalati. Il
rafforzamento delle occasioni di incontro tra questi servizi e gli altri servizi presenti sul territorio e la
partecipazione alla formazione organizzata
a livello locale, sono strumenti attivati per superare questo
rischio ma restano ancora oggi , nella nostra realtà, poco strutturati.
Dall’esperienza francese che organizza un “servizio” attorno alle AM , si può trarre:
-
l’importanza di individuare un luogo che sia punto di riferimento programmato, costante e non sporadico
per le educatrici e i bambini di un servizio sperimentale e che superi l’idea di “andare in visita” o “essere
accolti” in un altro servizio educativo.
-
l’importanza di individuare un luogo che sia anche luogo dove poter parlare della qualità della relazione
tra educatore e bambino, delle eventuali difficoltà, luogo anche di osservazione che possa permettere
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una valutazione di esperienze educative che non hanno il “controllo” sociale che una dimensione
collettiva maggiormente garantisce
La realtà francese , per l’alto numero di nuclei di AM, permette la realizzazione di un sistema complesso
come quello delle creches familailes, non realizzabile nella nostra realtà con i piccoli numeri esistenti sul
territorio. Tuttavia, esistono in alcuni comuni del territorio provinciale numeri rilevanti di servizi sperimentali(
Imola 12 nuclei, Casalecchio 3 , Zola Predosa 4 , Bologna 9) sui quali forse sarebbe possibile strutturare un
progetto stabile di incontro tra educatrici dei servizi sperimentali
-
in un luogo chiaramente individuato ( un nido, un centro per bambini e genitori ??)
-
non in modo sporadico ma costante, con cadenza settimanale
-
nel quale prevedere momenti in cui i bambini giocano con altri bambini ( di altri PGE, di altri nidi) e
momenti in cui le educatrici si incontrano con altre educatrici e con il Coordinatore pedagogico
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2. Halte Garderie (Gruppo A – Lorella Bertelli)
Halte Garderie di Pointe d’Ivry
Il servizio è aperto fin dal 1984. E’ collocato in una zona del XIII arrondissement a forte presenza asiatica.
Il servizio è rivolto a bambini di età compresa tra i 9 mesi e i 3 anni, ma il mercoledì , quando l’ècole
maternelle è chiusa, può accogliere anche bambini dai 3 ai 5 anni.
I bambini possono frequentare al massimo tre mezze giornate alla settimana. L’halte garderie è aperta dal
lunedì al venerdì dalle 8.30 alle 17.30. Gli orari di accoglienza dei bambini sono: 8.30/12.30 –13.30/17.30.
La frequenza può essere a giorni fissi o anche occasionale sulla base dei posti momentaneamente disponibili.
Possono essere fatti inserimenti d’urgenza su segnalazione dei servizi di tutela della prima infanzia.
Non è previsto il pasto e i bambini portano una merenda da casa.
La capienza delle sezioni, per mezza giornata, è di 10 bambini medio – piccoli e 12 grandi. Le famiglie
accolte sono, in media, una settantina.
Il personale è composto da 3 ausiliarie puericultrici, 2 educatrici dei piccoli, 1 educatrice responsabile, 1
persona per le pulizie; si aggiungono supporti esterni di psicologo, pediatra, psicomotricista e qualche ora di
segretariato.
Gli spazi della struttura sono: un ingresso, l’ufficio della educatrice-direttrice, uno spazio-sezione per i piccoli,
uno spazio-sezione per i grandi, un bagno per i bambini, sono assenti dormitori e locali per la preparazione
o consumazione di alimenti. Sono
presenti invece una lavanderia e una stanza per la ricreazione del
personale. La struttura è dotata di un piccolo giardino con sabbia da cui si accede anche allo spazio esterno
della crèche Pointe d’Ivry, con la quale sono in essere diversi momenti di scambio.
I bambini che frequentano questo servizio sono soprattutto figli di immigrati e appartengono a famiglie di
reddito medio basso. I genitori sono per lo più in cerca di occupazione o studenti.
E’ un servizio che potremmo definire di bassa soglia.
Nell’ingresso dell’halte garderie sono collocate bacheche
per i genitori, che testimoniano la necessità di
comunicare in modo efficace con famiglie che spesso hanno difficoltà con la lingua francese. Questi cartelli
propongono molte immagini accompagnate da scritte plurilingue per far comprendere le regole di base del
servizio.
Vi sono poi cartelli che abbinano foto del bambino e foto dello zainetto personale; lo zainetto ha infatti una
funzione importante perché i bambini portano al servizio e riportano a casa le loro cose ( cambio personale,
merenda, oggetto transizionale) per cui vi è la necessità di identificarne con certezza il proprietario.
La programmazione settimanale è fatta per “postazioni” e attività proposte dagli adulti, ma può venir rivista
sulla base dell’osservazione dei bisogni dei bambini.
Gli operatori sono formati all’accoglienza di persone che provengono da paesi lontani e che magari non
parlano affatto francese. L’operatività tiene conto della diversità culturale, ad esempio i bambini di origine
diversa hanno differenti modi di esprimere il disagio ed è importante la conoscenza di queste modalità così
come dei diversi modi di consolazione. Gli adulti hanno imparato alcune parole fondamentali in diverse lingue
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per rassicurare i piccoli e sanno, ad esempio, che se per alcune culture è importante la vicinanza fisica per
dare tranquillità, per altre, questa modalità può essere fonte di ulteriore disagio.
Tra i presupposti sociali del progetto di questo servizio ci sono il meticciato sociale, culturale e l’accoglienza
della diversità, con l’obiettivo di offrire pari opportunità ai bambini e di sostenere le famiglie sul piano sociale
e organizzativo e della genitorialità. Nel progetto è evidenziata anche la possibilità di accogliere bambini in
situazione di disagio psico-sociale e portatori di handicap; a questo scopo il servizio è dotato attualmente di
un’ ausiliaria aggiunta. Molte sono le collaborazioni con risorse esterne quali ad es. una associazione che si
occupa dell’alfabetizzazione degli adulti.
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3.Crèche Intergénérationelle Péan (Gruppo C)
La Crèche Intergénérationnelle Péan di rue del La Santé, nel 13° arrondissement, a Parigi, è un piccolo nido
posto all’interno di una struttura protetta per anziani che ha lo stesso nome del nido. Ospita 19 bambini, dai
due mesi ai tre anni, nei locali situati al piano terra dell’edificio e condivide con gli ospiti della Casa Protetta,
che hanno un’età media di 85 anni, alcuni spazi e attività.
Il portone d’ingresso, prospiciente alla strada, consente di accedere, mediante un piccolo atrio, ad entrambi i
servizi che si sviluppano attigui e sono separati da pareti parte in vetro e parte in muratura.
La trasparenza generata dall’utilizzo di pareti in vetro consente a chi entra ma soprattutto alle diverse
generazioni di vedere con continuità durante la giornata quello che sta succedendo in entrambe le situazioni.
Anche il cortile dei due servizi è confinante e delimitato da una rete a trama larga che permette allo sguardo
di proseguire a vedere con continuità quello che capita da una parte e dall’altra del cortile.
La Crèche presenta inoltre come propria peculiarità l’accoglienza di famiglie che hanno un lavoro part time. I
bambini frequentano pertanto il servizio in relazione agli orari e ai giorni di lavoro della famiglia, creando una
situazione fortemente dinamica in termini di presenze, di momenti di accoglienza e uscite, che il personale
governa per mezzo delle routine.
Il progetto di questo servizio, che è in realtà un sistema di servizi, si fonda sul concetto di
“intergenerazionalità”. A partire di questo concetto è stato costruito e realizzato, nell’anno 2000, sia il
progetto architettonico sia il progetto pedagogico e sociale che ha come obiettivo quello di unire il nido e la
casa protetta, ovvero la generazione dei piccoli a quella degli anziani.
I bambini e i nonni condividono gli spazi di entrambe le strutture e le attività previste fanno parte di una
progettazione educativa annuale delineata congiuntamente dal personale dei due servizi.
Tutte le mattine, eccetto il lunedì, concluso il periodo degli inserimenti, indicativamente quindi dal mese di
gennaio alla fine di giugno, sono proposte attività per un piccolo gruppo di bambini e di adulti. Talvolta le
attività sono condotte dagli stessi nonni ospiti della struttura, in altre occasioni sono le professionalità
presenti a condurre l’esperienza, che si rivolge comunque in parallelo per le due generazioni. Pertanto un
gruppo composto dai nonni e dai bambini, in numero variabile a seconda dell’attività, si sposta, di giorno in
giorno, insieme ad una operatrice del nido e della casa protetta, da una parte e dall’altra della struttura per
svolgere l’atelier di musica, di pittura, delle favole animate, di psicomotricità utilizzando in questo modo gli
spazi più funzionali allo scopo.
Nel corso dell’anno proseguono anche gli incontri periodici fra gli operatori per verificare quanto fino a quel
momento previsto e svolto e alla fine dell’anno viene elaborato un bilancio complessivo dell’attività educative
svolte congiuntamente.
Così come accade per i bambini, non tutti gli adulti sono coinvolti nelle diverse attività. Viene favorita la
partecipazione in prevalenza dei bambini che già camminano e dei nonni che presentano ancora buoni livelli
di autonomia. In entrambi i casi l’equipe propone la partecipazione che rimane sempre libera. I bambini di
solito si turnano nel corso dei mesi, mentre capita spesso che gli adulti partecipino con una certa costanza a
tutti gli appuntamenti, altri si stancano o subiscono aggravamenti delle loro condizioni di salute e quindi
decidono di interrompere la loro partecipazione.
Dall’esperienza del personale del nido, i bambini, in
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considerazione della loro età, non percepiscono l’evoluzione della malattia dell’anziano, capita che facciano
domande se un nonno o una nonna particolarmente presente all’improvviso non partecipa più ad un atelier e
di solito le risposte che le operatrici forniscono in merito sono concordate con le famiglie ma sono in ogni
caso volte a spiegare concretamente la situazione.
Invece dal punto di vista organizzativo la Crèche Intergénérationelle Péan si configura come le altre Crèche
parigine visitate.
Nello specifico il servizio è aperto dalle ore 8,00 alle ore 18.30, dal lunedì al venerdì, per undici mesi all’anno.
Il rapporto numerico adulti bambini prevede 1 adulto ogni 5 bambini che non camminano e 1 adulto ogni 8
bambini che camminano. L’equipe interna al nido è composta dalla direttrice della Crèche, che in questo caso
è un’educatrice, 2 educatrici e 2 ausiliarie puericultrici, 2 ausiliarie della petit enfance, 1 pediatra e 1
psicologo. Questo gruppo di lavoro, per le proposte educative condivise con la vicina casa protetta, si allarga
ad altre professionalità che fanno parte dell’organico della struttura per anziani e più precisamente:
l’animatrice e la psicomotricista. Dopo le 18,30 una ditta esterna provvede alle pulizie quotidiane degli spazi.
Il personale del nido lavora 39 ore settimanali per sette ore e tre quarti al giorno, le restanti 1,75 ore
settimanali sono utilizzate per le attività non frontali. Il turno di lavoro prevede per tutti un’ora di pausa per il
pranzo, non è infatti previsto che il personale consumi il pasto insieme ai bambini. L’ingresso e l’uscita di
ogni operatore è scaglionata, pertanto tutto il gruppo di lavoro è compresente dalle ore 10,00 alle ore 16,45.
Durante l’anno la struttura osserva periodi di chiusura in concomitanza con le giornate pedagogiche di
formazione e per il recupero delle ore svolte in esubero rispetto alle 35 ore settimanali previste dal contratto
collettivo nazionale di lavoro francese.
Le ammissioni al servizio sono definite dalla municipalità del 13° Arrondissement
multiprofessionale che comprende
mediante una équipe
fra gli altri la coordinatrice della Crèche, il medico del PMI dell’
Arrondissement, le assistenti sociali del servizio sociale di quartiere e i rappresentanti dell’amministrazione
locale della maggioranza e dell’opposizione. Individuati i minori affidati a questo servizio e prima di
cominciare l’inserimento la coordinatrice della struttura si reca a casa della famiglia per presentare il progetto
della Crèche e per concordare i tempi di frequenza del bambino secondo i turni e i giorni di lavoro della
famiglia; l’accoglienza in struttura diviene definitiva dopo che il bambino è stato visitato dal pediatra del nido
per accertarne le condizioni di salute che gli garantiscono di poter avere accesso al servizio. Il pediatra
compila quindi un dossier medico per ogni minore, che viene via via aggiornato durante tutta la permanenza
in struttura del bambino e che ha l’obbiettivo di favorire l’azione preventiva della medicina di base sulla
salute dei frequentanti. Oltre a questi strumenti il personale utilizza altri materiali di documentazione, come
descritti nel Projet éducatif, breve documento che racconta il servizio, gli scopi della sua costituzione e
funzione sociale, la particolarità del lavoro in atelier bambini e anziani, ruoli e mansioni degli operatori. Tali
materiali sono prevalentemente volti a garantire le condizioni di sicurezza in cui si svolgono le attività della
Crèche, per pianificare la giornata e la settimana educativa ed infine per garantire l’informazione alla famiglia
di quanto proposto e realizzato con i bambini.
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4. Centre Michelet (Gruppo A)
Si stende su quattro piani, e si compone di: nido a piano terra, uffici e sale riunioni, monolocali e
miniappartamenti, comunità di accoglienza pouponnière 0-3 anni. La comunità di accoglienza foyer 3-12
anni invece è in un edificio a due piani con giardino veramente vicino.
Pur essendo entrata cinque giorni fa nella porta accanto, sia il giorno della visita mi stupisce come tutto resta
dentro l’edificio che in realtà si apre tutto su spazi cortilizi dall’altra parte dell’ingresso, non si vedono molte
persone, assai numerose, non si sentono rumori.
Pouponniére per 30 bèbe, 50 persone coinvolte (1 puericultrice, responsabile servizio, 5 puericultrici, 3
educatrici petite enfance, 35 assistenti d’infanzia, 1 psicologa e a tempo pieno e 1 a tempo parziale, 5 dade
di servizio).
Un appartamento all’ultimo piano con diverse stanze contenenti piccoli dormitoi con i lettini, angoli morbidi,
sezioni piccole, angoli per i giochi, una cucina per il personale e per riscaldare vivande, terrazze. Tutto molto
curato e ben tenuto.
Presenti spazi per i colloqui con le famiglie che desiderano vedere il bambino, a seconda del volere del
tribunale, ma per sicurezza vengono spessi svolti in altri luoghi appositi nei piani inferiori.
Si prevede di affidare tutti i piccoli in adozione a cominciare da due mesi di permanenza.
Foyer per 12 bambini 3-12 anni, 15 persone (11 educatrici, 4 dade, spesso un medico, una psicologa).
Un ambiente grande a piano terra, ingresso, cucina, due sale da pranzo divise per età degli ospiti, spazi per
le attività ludiche, al piano superiore le camere, sale di servizio.
In questa fascia di età troviamo bambini allontanati dalla famiglia, possibili situazioni di disagio finanziari,
sociale, nonchè mentale. Le famiglie hanno ancora un ruolo comunque. Alcuni bambini vengono indicati per
l’adozione. Ovviamente frequentano la scuola, le attività sportive del quartiere, i centri di loro interesse.
Centro Maternel accoglie 35 madri in attesa o con figli entro i tre anni di età, offrendo loro piccoli
monolocali arredati, permettendo l’utilizzo di lavatrici, e servizi generali in comune e una sala per la
comunità, 11 persone per il servizio (1 responsabile, 8 educatrici, 1 educatrice specifica per l’infanzia, 1
‘segretaria’ per insegnare alle madri ad amministrarsi, soprattutto nel budget).
Crèche collettive Michelet, direttrice M.me Niez
la crèche al piano terra è per 55 bambini, 33 del centro maternel, i bambini ci abitano sopra il loro, 22 dal
quartiere, citando dal loro libretto di accoglienza ‘dall’età di 2 mesi e mezzo a 3 anni’.
Le persone coinvolte sono 20: 1 puericultrice responsabile, 1 vice puericultrice, 2 educatrici, 14 ausiliarie di
puericultrice e dell’infanzia, e 2 dade; con 80 ore di psicologa annue per il servizio e i genitori, 80 ore per la
pediatra e 50 di puericultrice aggiuntiva.
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Il nido ha lo stesso trattamento per le diverse tipologie di famiglie, ma fa inserimenti pressoché tutto l’anno,
crea una figura di riferimento forte per il bambino e la madre, la quale firma un accordo su come deve
svolgersi l’inserimento e quanto deve collaborare in questa prima parte, sempre citando in prima pagina ‘Fin
da ora noi vi ringraziamo per la vostra fiducia e per la vostra cooperazione’.
Risultano evidenti i simbolici atti per rendere forte il legame tra il nido e le famiglie, soprattutto le madri in
gravi difficoltà, in profonda solitudine e mancanza di autostima.
L’inserimento di 2 settimane è gestito dall’assistente di riferimento che segue sei bambini, con essi svolgerà
tutte le routine, li stimolerà nell’esplorazione e nel gioco.
La visita avviene quando un cantiere è in atto per ristrutturare la cucina e renderla a norma (626 docet),
vediamo perciò un nido che ha soppresso sezioni per ospitare funzioni di cucina e materiali e arredi. Bambini
in sezione calmi, anche con i rumori e il trapano.
Vediamo un criceto, non propriamente come pet terapy, ma per la cura, non l’acquario.
La direttrice è molto attenta a sottolineare che le interessa tutto ciò che è pensato, è fatto con uno scopo,
ritiene importante il piccolo, anche il piccolissimo gruppo per lo sviluppo dei bambini.
Per reggere l’impatto emozionale, il nido ha 50 ore annue di supervisione dove lei e la psicologa non
partecipano.
Aspetti emozionali della visita
Indubbiamente questo centro, con tutti i suoi servizi, è stato il più importante, più coinvolgente per me,
anche il più stimolante domande, ma non ce ne era il tempo!
La legislazione francese è più favorevole a questi servizi di accoglienza in emergenza, ma come ha detto
Niez, è costata anni di lotte politiche, di interventi. L’aspetto attuale del centro maternel è stato quasi una
sua battaglia personale per farlo uscire dalla situazione ghettizzante delle donne accolte e che rischiavano di
incontrarsi solo tra loro, oltre al buongiorno, al buonasera dei vicini.
Il nido per dimostrarsi valido all’esterno, competitivo con gli altri, ha dovuto essere eccellente soprattutto
sulla calma dei bambini e sull’igiene, ci ha indicato. Aspetti importanti per l’integrità psicofisica di un bambino
L’aspetto sanitario è stato qui usato perché è un linguaggio definibile ‘forte’ (forse simbolicamente adatto a
controbilanciare gli stereotipi sulle ragazze madri). Inoltre la presenza del pediatra rassicura le famiglie per le
loro situazioni.
Ma nello stesso tempo mi immagino l’estenuante fatica delle educatrici a tenere insieme queste parti,
rendendo molto più complessa la gestione di un nido così grande.
Amplificato, deve essere il coinvolgimento nelle comunità di accoglienza, la necessità di una professionalità
superiore, che si scontra con il numero altissimo di bambini, di legami, di situazioni incredibilmente strazianti.
Lo stesso con le madri del centro che hanno bisogno di un’accompagnamento massiccio all’inizio, ma rivolto
ad una loro autonomia, ad un separarsi per crescere, proprio come i loro piccoli.
Suggerimenti e suggestioni da questa visita
Se in Bologna si volessero riaprire servizi di prima accoglienza di emergenza, questo centro ha esperienza e
capacità per formarci.
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Hanno progetti su ogni bambino accolto nella pouponniére e nel foyer, sono in grado di tracciare un percorso
con evidenti traguardi per le madri accolte nel centro maternel, sono abituati a trattare con energia con i
servizi territoriali, i tribunali, senza avere perso il gusto e la motivazione per il loro lavoro che porta risultati
minimi. Anche se ha rilevato qualcuno, sia la direttrice della crèche, sia il direttore del centro hanno un po’ lo
stile di chi lavora negli istituti.
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5. Hospital Avicenne Bobigny
5.1 VERSO LA TRASCULTURALITA’ IN UNA SOCIETA’ PLURALE
Viaggio a Bobigny incontrando sguardi di Etnopsichiatria e Transculturalità
Gruppo di riflessione: Gloria Zannini, Sara di Fabrizio, Roberto Maffeo, Simona Serina, Daniela Orsi.
Redazione: Daniela Orsi, Simona Serina, Sara Di Fabrizio.
Un’intera giornata del viaggio studio a Parigi è stata dedicata ad incontrare Marie Rose Moro, la sua
èquipe e conoscere la “Maison des adolescents” e l’ospedale Avicenne5 a Bobigny( Il centro visitato a
Bobigny si occupa di consulenza atnopsichiatrica oltre che di etnosistemica per le tossicodipendenze). La
professoressa Moro, etnopsichiatra ed etnopsicoanalista
lavora per aiutare l’infanzia e l’adolescenza in
difficoltà grazie ad un approccio transculturale.
Nella rivista “Africascope”6 compare una intervista a Marie Rose Moro raccolta da Sabrina Kassa: “Marie Rose
Moro, médecin au coeur des cultures” dove si legge come lei sia divenuta etnopsicoanalista; lei racconta di
essere nata in Spagna e di essere giunta, con la mamma, in Francia all’età di nove mesi per raggiungere il
papà che lì lavorava come taglialegna nel nord della Francia. Lei è, quindi, cresciuta in un mondo rurale e in
una comunità spagnola, avendo come lingua madre lo spagnolo; solo quando è entrata nella scuola ha
appreso la lingua francese e lo ha fatto senza alcuna difficoltà come ogni bambino emigrato7. Arrivata al liceo
ha scoperto la filosofia e si è appassionata allo spirito universale dei filosofi illuministi che promuovevano
l’idea che i grandi principi potessero essere propri di ogni persona. Suo padre desiderava che lei divenisse
medico, così lei intraprese un duplice percorso studiando medicina e filosofia. Al termine del percorso di
studi, pensò di intrecciare le due passioni divenendo psichiatra e psicoanalista. Poi si è indirizzata a occuparsi
dei migranti, in particolare dei Magrebini, che erano presenti in Francia fin dalla seconda guerra mondiale,
avevano contribuito alla formazione della moderna società francese, ma secondo Moro non ci si occupava
adeguatamente di loro come pazienti psichiatrici, dimenticando il loro essere e la loro ricchezza culturale. Nel
servizio in cui lei lavorava, si diceva che questi pazienti non investissero nella parola tanto da non esprimere
ciò che era nel loro animo, ma questa idea non era da lei condivisa e cercò una tecnica per curarli
diversamente. Questa tecnica è detta in Francia “etnopsichiatria”, all’estero è denominata “psichiatria
transculturale, tale tecnica è stata inventata da Georges Devereux e messa a punto da Tobie Nathan8 a
Bobigny; in seguito la Moro ha raggiunto quell’équipe dell’ospedale Avicenne a Bobigny e ancora lavora in
5
L’ospedale è stato intitolato a un filosofo e medico musulmano Avicenne per sottolineare il suo interesse verso la
diversità
6
Africascope n.4 fev/mars 2008
7
Il bambino emigrato può apprendere senza difficoltà la lingua sociale quando ha una “base sicura” nella lingua madre
degli affetti
8
Possiamo ricordare che Tobie Nathan è stato colui che ha avviato una possibile via di approccio all’etnopsichiatria e
all’antropologia medica attraverso un ambito non più riferito ad un solo contesto culturale, ma a una “interpenetrazione” di
diversi sistemi medici e saperi popolari di guarigione, affermando che non si può entrare in relazione terapeutica con un
paziente di un’altra cultura senza conoscere la sua teoria eziologica e che non si può ignorare che i sintomi e il disagio
del paziente, pur esplicitati nel mondo occidentale, sono ancorati e prodotti nella sua teoria eziologica alla quale bisogna
ritornare e senza la quale non si può percorrere il percorso terapeutico (Tobie Nathan, La follia degli altri, 1990, Ponte
delle Grazie, Fi)
39
quell’ospedale,
dove ora dirige un servizio di psicopatologia del bambino e dell’adolescente. L’approccio
transculturale è nato 45 anni fa. La Moro appartiene alla 2° generazione di persone che utilizza questo
approccio con i bambini e le loro famiglie.
L’approccio transculturale non riguarda e non è rivolto solo alle persone migranti, ma coinvolge e riguarda
tutte le persone, tutti i servizi educativi-sociali-culturali-sanitari etc..
L’ interesse di Moro è diretto a come aiutare i bambini dei migranti, che a differenza dei loro genitori che
arrivano con la propria lingua e la propria cultura, sono bambini migranti in questo mondo francese e in una
società plurale. Spesso parlano esclusivamente la lingua francese, ma è essenziale siano bilingue perché essi
sono di due mondi: il mondo dell’accoglienza (francese) e quello trasmesso dai loro genitori (lingua e cultura
di origine).
Gli adolescenti che chiedono aiuto hanno ognuno la propria storia, ma ci sono dei fattori comuni che spesso
caratterizzano la sofferenza degli adolescenti: il sentimento di non essere al proprio posto, di non avere un
posto, di non essere riconosciuti e valorizzati. La Moro trova che le ragazze riescano meglio a negoziare il
passaggio da un mondo all’altro, incrociando elementi della cultura di provenienza dei genitori e elementi
della cultura francese, sembra che per i ragazzi sia più difficoltoso forse perché la loro figura paterna è
svalorizzata nella
società occidentale,
che vorrebbe trasformare la società magrebina e africana ad
esempio, per renderla conforme al modello occidentale; così si mettono i padri in una posizione paradossale
per cui essi si irrigidiscono.
I bambini presentano, soprattutto, difficoltà nel linguaggio, portando nella scuola tristezza o agitazione. Ci
sono bambini che soffrono di mutismo extrafamiliare per cui fuori del contesto familiare non parlano perché
non riescono a compiere il passaggio tra due mondi che si ignorano. Questi bambini vivono questa
sofferenza per il timore di “divenire bianchi”9, quindi di trasformarsi perdendo ciò che sono nell’ambito
familiare e questa angoscia di perdita li porta a non parlare. L’équipe della Moro interviene raccontando la
storia dei genitori nelle due lingue ( di origine e in francese) in modo che quei bambini comprendano che i
loro genitori sono persone coraggiose, che hanno un sapere, una cultura che può essere portata nella scuola
e percepita come una ricchezza. L’équipe di Moro lavora sulla diversità dei linguaggi e sul rapporto che il
bambino può avere con quei differenti linguaggi, il loro lavoro consiste anche affinché si vedano queste
difficoltà. Marie Rose Moro, sottolinea come le ricerche scientifiche e la realtà clinica mostrano che non sia un
problema per i bambini essere bilingue; al contrario, c’è un apprendimento migliore e più veloce se a casa
hanno appreso la lingua materna e conoscono solo nella scuola la lingua francese. I bambini bilingue, inoltre,
sono meglio strutturati e più creativi, risulta che meglio siano in grado di passare da un mondo all’altro
serenamente e riescano meglio negli apprendimenti scolastici; tutto questo perché sono bambini che non
hanno rinunciato alla lingua materna, che struttura, che permette loro di far dialogare il mondo interno con
quello esterno. Purtroppo in Francia tutto questo è scarsamente riconosciuto e solo il 10% dei figli di
migranti è bilingue ( in Gran Bretagna lo è il 40/70%). Lo sforzo da compiere è quello di fare in modo che i
figli di immigrati non perdano la sicurezza della loro lingua materna: nella scuola ancora non c’è la
9
“divenire bianchi” non significa mutare il colore della pelle, ma adottare il comportamento culturale dei bianchi negando
quello di origine
40
consapevolezza che i bambini sicuri della propria lingua materna diventano e restano bilingui. Occorre che i
genitori abbiano una buona autostima per desiderare fortemente di trasmettere la propria cultura; in Francia
si pensa che l’identità sia unica e sia legata a una lingua, solo quando si considererà la possibilità che
l’identità sia multipla, la si potrà declinare in più lingue.
Durante l’incontro con noi, Marie Rose Moro ha evidenziato l’importanza di promuovere l’utilizzo della lingua
madre nell’intimo della famiglia e che sia lasciato alla scuola – luogo sociale - l’immersione nella lingua
francese. Anche da noi si promuove questo, ma vi sono ancora tante insegnanti che consigliano ai genitori
di parlare in italiano con i propri figli, senza pensare che così facendo possono andare a ledere l’identità di
quel bambino che si sente sradicato e non riconosciuto, che non si sente di appartenere né ad una cultura né
ad un’altra; mentre invece potrebbe godere di una identità culturale della famiglia e di una identità sociale
che non sarebbero in antitesi, ma si intreccerebbero, potendo il bambino passare dall’una all’altra senza
rinunciare a nessuna parte di sé.
Marie Rose Moro ha sottolineato, inoltre, come la scuola e la società è il luogo della prevenzione prima
dell’approccio clinico: attualmente in Francia il processo di migrazione è giunto alla tappa nella quale si cerca
di facilitare che ciò che viene appreso nei dispositivi clinici venga utilizzato al di fuori del setting terapeutico,
diventi quindi strumento utilizzabile nella vita quotidiana.
Nella nostra percezione culturale occidentale e non solo, spesso si ha una percezione positiva di alcuni
bilinguismi ad es. in riferimento alla lingua inglese come seconda lingua; inconsapevolmente o meno si
creano delle gerarchie linguistiche in riferimento alle lingue dei migranti quali ad es. il cinese, il bantu etc.
lingue gerarchicamente collocate
in una posizione meno favorevole e significativa. Questo diventa un
problema importante da un punto di vista psicologico da parte dei genitori per i quali la lingua materna
diversa dalla lingua autoctona che essi parlano perde di valore e di senso.
Studi rilevano che solo dagli 8 anni un bambino è bilingue: le statistiche rilevano il 70% in Inghilterra contro
il 10% in Francia; nei bambini che non diventano bilingue avviene un processo di “disapprendimento” della
lingua materna. Questo comporta la perdita dei punti di riferimento, essi devono apprendere la seconda
lingua come lingua unica con la quale costruire il loro pensiero e comunicare con il mondo; una lingua che
non affonda le radici nelle radici familiari, culturali ed esistenziali in cui questi bambini sono immersi sin dalle
nascita, e ancor prima nel grembo e come memoria ancestrale, non legata a tutto ciò che il bambino ha
costruito e vissuto costruito con i suoi genitori e le persone che appartengono a quella cultura.
Nel periodo compreso tra i 6 e gli 8 anni i bambini devono apprendere e leggere e scrivere nella 2° lingua; ,
se questo processo di apprendimento non è sostenuto e accompagnato da adulti che promuovono e
rimandano una immagine positiva e di accettazione e di valorizzazione della lingua madre, questo
meccanismo può creare nel bambino una rappresentazione negativa della lingua materna.
La Moro stessa racconta di come a 6 anni i professori le hanno consigliato di francesizzare il suo nome di
origine spagnola “ . Il nome da Maria Rosa del Rosario è stato cambiato
in
Marie Rose! La madre
sapientemente, raccontatole l’accaduto, le ha risposto che la molteplicità non è un problema.
41
Cosa si può fare a scuola, nei servizi?
Durante l’incontro Marie rose Moro ci racconta che nel Corso per conseguire la Laurea pluridisciplinare in
Transculturalità, è stata fatta una ricerca che riguardava la difficoltà e il fallimento scolastico di bambini 7
anni. In 30 classi con 25 bambini è’ stato proposto un atelier settimanale durante il quale ogni mamma
racconta una storia nella sua lingua materna. Tutti i genitori raccontano una storia, soprattutto le mamme,
ma anche i padri. Non importa se i bambini non capiscono, ascoltano e poi viene tradotto: infatti l’incontro è
bilingue, nel senso che è presente un traduttore che dalla lingua materna riporta alla lingua autoctona.
L’obiettivo è di far ritrovare la fierezza di se stessi ai bambini, rinforzando la loro stima di sé e della cultura di
provenienza, in particolare coinvolgendo le famiglie dove vi era molta squalifica in questo senso, attraverso il
riconoscimento e la valorizzazione della diversità culturale; creare una rappresentazione positiva della
diversità.
Questi racconti-incontri sono diventati il punto di partenza delle attività didattico - pedagogiche degli
insegnanti coinvolti. Prima dell’inizio della ricerca e dopo sei mesi , è stata fatta una valutazione dei bambini
da un punto di vista affettivo e cognitivo.
I risultati hanno portato a rilevare che per alcuni bambini questo percorso non aveva sortito miglioramenti a
breve termine; al contrario, per il 90% dei bambini, questo processo di offrire uno spazio alla loro lingua
materna, ai loro genitori ed alla loro cultura d’origine, ha favorito un processo di autostima e aumentato il
piacere del lavoro a scuola. Attualmente questa iniziativa è stata inserita nel Programma di Educazione
Nazionale, il cui obiettivo è la sensibilizzazione degli insegnanti alla transculturalità.
Nel saggio di transcultura “Bambini di qui venuti da altrove”10 Marie Rose Moro ci ricorda che un sistema
culturale è formato da una lingua, un sistema di parentela, un corpo di modi di fare, la cucina, le arti, le
tecniche di cura; tutti questi elementi trovano una struttura coerente nelle rappresentazioni culturali, che
funzionano come interfaccia tra interno ed esterno, e sono il risultato del sistema del pensiero culturale. Così
ogni soggetto incorpora le rappresentazioni e le rielabora secondo le proprie dinamiche e i propri conflitti
interni; quindi,
la cultura influenza la codificazione dell’insieme dell’esperienza vissuta dall’individuo,
mettendo a disposizione una griglia di lettura del mondo. E’ partendo da questo concetto che all’ospedale
Avicenne si opera considerando i vari sistemi culturali per identificare quegli elementi che possono essere
utili per comprendere e curare la sofferenza psichica in situazione transculturale, considerando ipotesi che
non appartengono all’individuo, ma di cui egli può appropriarsi al bisogno; queste ipotesi sono messe a
disposizione dal gruppo e trasmesse attraverso il racconto.
L’obiettivo è ridare /dare senso/significato al vissuto della persona e all’insieme della sua famiglia .
Utilizzando questa modalità terapeutica, Moro e la sua équipe si occupano della sofferenza di bambini e
adolescenti figli di migranti e affrontano la consultazione etnopsichiatrica in un setting di una consultazione
composto da vari terapeuti di origini culturali e linguistiche molteplici, di cui uno è il terapeuta principale che
conduce la seduta e gli altri sono definiti co-terapeuti che fanno riferimento al terapeuta principale, inoltre è
10
M.R. Moro, Bambini di qui venuti da altrove, 2005, F. Angeli Milano
42
presente la famiglia11, l’èquipe medica della famiglia12 e un mediatore linguistico per utilizzare la lingua
materna del paziente e il passaggio da una lingua ad un’altra (il presupposto è che in una situazione di
grande emozione le parole vengono espresse nella lingua d’origine).Tutti i presenti confrontano le proprie
rappresentazioni culturali sulla sofferenza del paziente in modo da avere vari sguardi sul disagio di cui ci si
occupa: “la cultura diventa così un insieme dinamico di rappresentazioni mobili in continua trasformazione,
incastrate le una nelle altre, un sistema aperto e coerente con il quale il soggetto è in costante interazione. A
questa dimensione dell’appartenenza culturale bisogna aggiungere la dinamica dell’avvenimento migratorio,
le conseguenze potenzialmente traumatiche per l’individuo, senza mai dimenticare l’acculturazione
secondaria sempre prodotta dalla migrazione”13. E’, quindi, in una dimensione di complementarismo e di
decentramento che questa clinica plurale va a declinarsi in un approccio transculturale in cui il lavoro di
gruppo permette alle esperienze degli uni e degli altri di potenziarsi nella ricerca di una pratica di métissage.
Questo lavoro di gruppo permette anche di analizzare efficacemente il contro-trasfert culturale; infatti, alla
termine di ogni visita “il gruppo si sforza di mettere in luce il contro-transfert di ogni terapeuta con una
discussione sulle emozioni provate da ognuno, sugli impliciti, sulle teorie che hanno condotto a pensare una
data cosa (inferenza), o a formulare un dato atto (intervento)”14.
Per esplicitare questo approccio
terapeutico abbiamo visionato due filmati di casi clinici, le discussioni che ne sono nate sono state molto
interessanti.
La terapia proposta si basa sulla terapia collettiva: trovare una via per se stessi attraverso la terapia
collettiva. Gli esempi non vengono presi dalla cultura del presente, ma dalla propria.
La presenza di tanti terapeuti permette di portare nuove aperture, nuovi sguardi. la cultura diventa così un
insieme dinamico di rappresentazioni mobili in continua trasformazione, incastrate le una nelle altre, un
sistema aperto e coerente con il quale il soggetto è in costante interazione.
Ad esempio rispetto al tema della morte: ogni cultura ha i suoi dispositivi per prendersi in carico la morte ma
i bambini che sono nati nella migrazione sono sospesi tra le due culture. Come ci racconta Tahar Abbril,
etnopsicologo “I bambini della migrazione
sono abitati da qualcosa ma non sanno cosa.” I genitori
desiderano trasmettere le tradizioni ma non sanno dove posizionarle all’interno della cultura di arrivo. Infatti
ad esempio alcuni rituali concernenti la morte adottati in altre culture (es. Magreb e Africa) non sono
autorizzati in Francia (ad es. il sacrificare un montone). Questo vuoto viene riempito da un malessere.
“Quando si ha una eredità ma non si ha il testamento, questo crea un problema”. Si pone la necessità di
negoziare con l’esterno, con la cultura autoctona.
Ad es. la teoria della stregoneria antropofoga: esiste il problema che le teorie che vengono dalle stregonerie
ricadono sul bambino che è nato nella migrazione. Come si può fermare la stregoneria?
La transculturalità lavora sull’inconscio culturale perché è questo che dà il senso. E’ il soggetto e la
rappresentazione della teoria che determina la metodologia dell’intervento terapeutico. Si cerca ciò che può
generare il cambiamento nel linguaggio della famiglia.
11
Il disturbo è considerato come un avvenimento che riguarda la famiglia, il gruppo e non solo il paziente, considerando
che l’ambiente in cui si vive è portatore di una parte di significato
12
il dispositivo di psicoterapia transculturale si integra con una cadenza di circa due mesi all’incontro settimanale con lo
psicolo che segue il paziente.
13
Op. cit. nota 6
14
Op. cit. nota 6
43
Il presupposto è che non c’è efficacia terapeutica se non c’è efficacia simbolica. Ci si chiede che cosa un
determinato evento significhi in quella cultura. Viene fatto un esempio sul mandato transgenerazionale
rispetto al dolore. I pazienti migranti hanno le loro rappresentazioni sulla malattia, i terapeuti ne hanno
un’altra. In etnopsichiatria è necessario lasciare ciò che ci appartiene e cercare il modo di rappresentare la
malattia/il disagio da parte della famiglia: essere disponibili nel conoscere la loro teoria sulla malattia. Ci si
focalizza quindi sulla teoria eziologica culturale.
Ad es. una donna del Marocco racconta di essere incinta da un anno e mezzo. Per il medico francese è un
delirio. In realtà in Marocco esiste una teoria eziologica culturale secondo la quale un bambino può restare
nel ventre anche per 3 anni senza che la donna sia considerata folle!
L’invito è a non pensare al posto dell’altro ma pensare con l’altro.
“Pensare al posto dell’altro” porterebbe a giudicare come folle la persona che afferma che un bebè possa
stare nel ventre per 3 anni; “pensare con” porta a fare domande es:”ma come dorme nella pancia?” Porta ad
aprire un dialogo.
Un altro esempio molto significativo è quello del nome. Nelle culture africane ad esempio, non è possibile
dare il nome al bambino prima di avere sotterrato la placenta, qui in Francia viene dato dopo 3 giorni dalla
nascita: è il nome della società. Per la famiglia il vero nome arriva dopo una settimana dall’Africa: è’ il ritorno
dell’antenato. A scuola il primo nome del bambino è il nome del fuori-società, a casa il bambino viene
chiamato con il vero nome. Questi bambini sono sospesi tra il dentro ed il fuori.
Riguardo all’importanza della successione e del nome legato all’antenato c’è da ricordare che in molte società
africane la fecondità è un valore primario:
15
“avere figli è fondamentale per ragioni non solo economiche
(possedere più braccia-lavoro) e sociali (godere di maggiore prestigio e considerazione) ma anche culturali.
Per l’africano infatti, l’uomo che non ha bambini quando muore non può accedere allo stato di antenato
giacché si può essere antenati solo per qualcuno, solo in funzione di una progressione su cui poter esercitare
la propria influenza. Morire senza bambini dunque significa rimanere nello stato di defunto, dal latino defunctus, cioè privato di funzione. Morire senza lasciare figli vuol dire pertanto morire completamente”.
Riflessioni del gruppo di lavoro
A partire dagli stimoli offerti da questa nostra esperienza, le discussioni che ne sono nate sono state molto
interessanti: riflessioni sulla differenza di contesto tra Italia e Francia rispetto al processo migratorio e sulla
presenza numerosa in Francia di specialisti, etnopsicologi/psichiatri etc, francesi a tutti gli effetti, terapeuti di
seconda/terza generazione, *ovvero originari di altre culture, nati in Francia e ben integrati nella comunità,
che hanno studiato in Francia ed hanno fatto un percorso formativo solido e di alto livello. Sono degli
specialisti francesi a tutti gli effetti ma con un grande valore aggiunto: una cultura di origine viva e che li
mette in connesione con le persone, con i loro pazienti.
Ne scaturisce di conseguenza anche un confronto con la psichiatria e la psicoanalisi “europea e occidentale”
riguardo alla possibilità di poter lavorare utilizzando le conoscenze e lo sguardo forniti dell’antropologia
15
Elena Balsamo, “Bambini immigrati e bisogni insoddisfatti: la via dell’etnopediatria”, in A.A.V.V., Mille modi di crescere.
Bambini immigrati e modi di cura, La Melagrana, 2004.
44
culturale, che permette la costruzione di una prospettiva transculturale, come quella utilizzata nella clinica
etnopsicoanalitica: uno sguardo che considera fortemente la connessione tra intrapsichico, intersoggettivo e
collettivo. C’è da ricordare infatti, come afferma Moro in una intervista a cura di Cristina Simonini,16 che la
questione che fonda l’etnopsicoanalisi è proprio
quella dei legami: la messa in comune di dati che
appartengono a campi differenti e l’utilizzazione di materiale culturale ed individuale.
Nell’ottica di restare nel nostro ambito lavorativo, avviando riflessioni “etnopedagogiche”, ovvero sul come
poter calare tali conoscenze ed esperienze nei nostri contesti educativi, la questione dei legami tra discipline
ed ambiti differenti resta fondante nella progettazione degli interventi educativi e di sostegno alla
genitorialità. Una sorta di pensiero meticcio che dovrebbe accompagnare le pratiche educative, sempre
nell’ottica di considerare la comunità educante quale contesto di prevenzione oltre che di promozione del
benessere e dell’incontro. Considerando anche un modello dell’incontro nel quale
17
“ogni elemento deve
conservare la propria identità, la propria definizione, aprendosi all’altro nel medesimo istante. Da entrambe le
parti non deve esserci né rimozione, né vergogna: la fierezza del meticciato sta nelle sue origini. Inoltre la
memoria vigila affinché la mescolanza non coaguli; è uno sprone per il divenire, poiché ricorda
costantemente che è possibile essere altrimenti, indicando così la direzione dell’avvenire”.
Sicuramente un primo grande aspetto che un coordinatore pedagogico, ma anche il personale educativo dei
servizi può tenere in considerazione è l’aspetto che riguarda la costruzione dell’identità in una situazione di
transculturalità, di migrazione, di espatrio, di esilio, di sradicamento, di meticciato. Tenere presente che gli
effetti della migrazione sono sentiti da tutti i membri della famiglia, (di prima, seconda o anche terza
generazione) può avviare ulteriori riflessioni sui temi pregnanti dell’accoglienza, della prise en charge. Nei
nostri servizi ci relazioniamo con genitori che possono avere un vissuto segnato dal processo migratorio,
processo che può mettere in discussione il ruolo parentale e produrre quindi una sofferenza identitaria.
Genitori che non parlano la lingua del paese che li accoglie, che si sentono isolati per via degli scarsi legami
sociali, possono essere molto vulnerabili. Può mancare un riconoscimento del loro sapere, della propria
cultura e della loro lingua madre che li può portare a sentirsi sminuiti di fronte ai proprio figli.
La mancanza di riferimenti forti e riconosciuti delle proprie conoscenze e tradizioni, dell’immaginario legato
alla nascita, alla formazione della famiglia, ai riti di passaggio, all’esperienza della morte, aspetti che sono
fortemente legati alla comunità di origine e ai riferimenti ancestrali, e che non sempre trovano il giusto
spazio, interiore ed esteriore, e la giusta accoglienza. Tali temi ci portano ancor più a considerare
l’importanza del dare attenzione al rischio della disistima della propria cultura di appartenenza, all’importanza
di creare spazi nei quali la differenza sia percepita quale risorsa e occasione di scambio: se il genitore
possiede uno spazio per poter esprimere la proprio dignità ed appartenenza allora anche il figlio si sentirà
legittimato a poter frequentare ritualità e tradizioni, a dare voce, a curare, a tenere vive le proprie origini,
per costruire la propria identità che non è data, che è in continua evoluzione; che è un processo che
permette l’acquisizione di “integrità”, di “interezza”, nel senso di percepirsi quale persona “intera” - e non
tanto divisa tra due mondi o sradicata - qualità che in seguito permetterà la vera e propria mescolanza ed
integrazione, lo scambio, il meticciato culturale, l’approssimazione con l’altro.
16
Cristina Simonini, a cura e traduzione di, “Intervista a Marie Rose Moro”, in www.clinique-transculturelle.org/AIEP.
17
Da F. Laplantine e A. Nouss, Il pensiero meticcio, eleuthera, milano, 2006, Pp. 91,92
45
Queste considerazioni sono più che attuali anche perché proprio recentemente nei nostri servizi socioeeucativi sta emergendo un dato preoccupante: stanno aumentando i casi di rimpatrio di genitori migranti,
anche con figli minori a carico, non solo in conseguenza diretta della crisi economica e per incapacità
reddituali legati alla perdita del lavoro, ma anche a causa del sopraggiungere di malattie mentali e di disagio
psichico.
Restando sul tema dell’accoglienza e all’identità, vengono alla mente le parole del dott. Tahar Abbril,
etnopsicologo quando durante il nostro incontro annuncia che ci farà un regalo, ci consegnerà una
rivelazione: “Saranno sempre le persone straniere che si rivolgeranno a voi a fornirvi la soluzione delle loro
problemi, saranno loro stessi a fornire la chiave di lettura alla problematica che vi porranno”.
Tale dichiarazione rilancia il tema dell’ascolto e della resilienza, del sostenere processi di risalita e di
superamento del trauma attraverso modelli positivi che rilancino il tema della valorizzazione della cultura di
origine; dell’importanza della lettura del disagio che innanzitutto può e deve essere accolto, ma per il quale è
necessario sia letto innanzitutto attraverso le lenti degli occhiali che lo straniero stesso fornisce. Così come
nell’ambito dell’accoglienza quotidiana, della prevenzione del disagio, del sostegno alla genitorialità è sempre
più indispensabile procurarsi conoscenze, riferimenti rituali e comunicativi di altre culture. Ad esempio per
poter gestire al meglio eventuali malintesi culturali durante i colloqui con i genitori stranieri può essere utile
sapere che in alcune comunità africane lo sguardo diretto non è sempre segno di rispetto. Più pesso capita
che i genitori provenienti dai Paesi dell’Africa Occidentale (Senegal, Ghana, Guinea) tendano a voltarsi di
profilo rispetto al proprio interlocutore, a mostrare il fianco perché stanno “porgendo l’orecchio” in senso di
rispetto e con l’intenzionalità di comunicare la loro massima volontà di ascolto. A noi il compito di avviarci
verso una sorta di nomadismo culturale, in un percorso formativo che ci permetta di “viaggiare” tra le
modalità culturali differenti, che ci porti a contatto con modalità di comunicazione ed accoglienza degne di
essere riconosciute; saper sostare, o meglio so-stare, saper stare accanto, mettersi a disposizione per poter
accogliere la differenza e inserirla in un proprio patrimonio di conoscenza e competenza. Sospendendo il
giudizio nell’ottica di trasmettere un messaggio di incoraggiamento, di interezza, piuttosto che di mancanza o
di frammentarietà.
E’ in tale condizione che le persone migranti possano trovare al loro interno,
tra le pieghe delle loro
conoscenze, tradizioni, credenze, le ricorse, le competenze, le energie per poter governare l’esperienza di
partecipare a due o più universi culturali.
Creando una zona neutra, autentica, uno spazio vuoto, nel quale sia possibile costruire nuovi linguaggi e
nuovi alfabeti di ascolto, di prossimità.
Come ci mettiamo in ascolto? Quanto siamo a conoscenza delle modalità di ascolto delle altre culture, quanto
siamo disposti a concedere il nostro saper stare e saper essere affinché l’Altro ci mostri modalità e ritualità
per entrare in comunicazione, senza che l’una modalità dia per scontato la conoscenza e la messa in pratica
dell’altra?
Nell’incipit dei nostri quotidiani esercizi di approssimazione, quanto per primi siamo disposti a deporre l’elmo,
mostrando all’altro la nostra fiducia che egli non approfitterà della nostra vulnerabilità?
46
Alcuni spunti interessanti ed operativi ce li ha offerti la stessa Moro ed il suo team, ad es. rispetto al
linguaggio ed al bilinguismo; nel supporto ai genitori di origine straniera nel poter essere riconosciuti nella
loro lingua e cultura di appartenenza, offrendoci degli esempi concreti e semplici di attuazione nella azione
educativa quotidiana nei servizi: quali la valorizzazione del nome, della lingua e della cultura madre.
In tal senso nei colloqui iniziali è bene chiedere da dove giunge questo nome, offrendo la possibilità ai
genitori di raccontare la storia del loro bambino, dando voce e rispettando le rappresentazioni di ogni
famiglia.
Inoltre ponendo attenzione alle diverse rappresentazioni simboliche culturali ed alle nostre in particolare. Si è
sottolineato
in questo senso l’importanza
di creare spazi vuoti dentro di noi che permettano il
decentramento, noi figli della Grecia e della cultura edipica; metterci in una posizione di non giudizio, e di
parzialità della nostra conoscenza, noi che portiamo lenti occidentali, abbassare le diottrie dei nostri occhiali,
nella consapevolezza della presenza degli stereotipi, del non dare niente per scontato, e soprattutto entrare
in un’ottica di valorizzazione della diversità.
Alcuni di noi hanno esplicitato una sorta di perplessità sulla metodologia del lavoro d’equipe nella
consultazione etnopsichiatrica, secondo alcuni molto espositiva o poco mediata; altri hanno concordato con
le riflessioni portate da Moro rispetto al valore del cerchio del gruppo, e della protezione che il lavoro di
gruppo offre nell’approccio collettivo al problema – nel senso che è la comunità a prendersi carico del disagio
del singolo -csottolineando come per noi occidentali
radicati in una cultura tendenzialmente molto
lateralizzata sull’individualismo può essere difficile da comprendere e può portare a malintesi.
Si evidenzia quanto potrebbe essere costruttivo continuare ad approfondire questo approccio transculturale,
che si può adottare per riflettere su ogni problematica e non solo su quelle in cui è coinvolto chi ha cultura di
origine straniera, ma per indagare “di che cosa hanno bisogno i bambini, di qui e dell’altrove, per crescere
bene?”
Domanda che Marie Rose Moro si pone18 e a cui non risponde con una risposta, bensì con un
continuo osservare e porsi domande.
18
M.R. Moro, Maternità e amore, Frassinelli, 2008
47
Bibliografia:
- Tobie Nathan, La follia degli altri, 1990, Ponte delle Grazie, Fi.
- M.R. Moro, Bambini di qui venuti da altrove, 2005, F. Angeli Milano.
- M.R. Moro, Maternità e amore, 2008, Frassinelli
- M.R. Moro, Bambini immigrati in cerca di aiuto, I consultori di psicoterapia transculturale.2001, UTET
-“J’AI REVE’D’UNEGRANDE E’TENDUE D’EAU”film di Laurence Petit-Jouvet, Psicanalyse et Sociétè, Abacaris
Films.
- Rivista “Africascope” n. 4 fev/mars 2008
- Franco La Cecla, Il Malinteso. Antropologia dell’incontro, Roma, Laterza, 2005.
- F. Laplantine, A. Nouss, Il pensiero meticcio, Milano, Eleuthera, 2006.
- Piero Coppo, Etnopsichiatria, ….
- Cristina Simonini, a cura e traduzione di, Intervista a Marie Rose Moro, www.clinique-transculturalle.org
- Elena Balsamo, “Bambini immigrati e bisogni insoddisfatti: la via dell’etnopediatria”, in A.A.V.V., Mille modi
di crescere. Bambini immigrati e modi di cura, La Melagrana, 2004.
www.clinique-transculturalle.org
48
5.2 Adolescenze in cerca
Gruppo di riflessione: Gloria Zannini, Sara di Fabrizio, Roberto Maffeo, Simona Serina, Daniela Orsi,
Grazia Bartolini- Redazione: Gloria Zannini
Io sono un povero adolescente e non so io stesso sempre
che cosa sia il bene e che cosa sia il male
Fëdor Dostoevskij, L’adolescente, 1875
Il viaggio di studio del Marzo 2009 prevede la visita a due centri sull’adolescenza e sull’immigrazione parigini,
diretti da Marie Rose Moro, psichiatra e psicoanalista, caratterizzati dalla volontà ad aprirsi a tutte le
professionalità di cura e di cultura, in quanto valorizzano lo scambio di idee e di rappresentazioni mentali e le
maggiori possibilità di leggere e rileggere una situazione, come approfondiremo in seguito.
La sensibilità della Provincia e del Comune di Bologna sulle politiche delle migrazioni ci ha permesso di
conoscerla già nel 2006, invitandola al seminario? ‘Famiglie migranti e stili genitoriali’ e creando dei workshop
mirati all’accoglienza dei migranti nei servizi 0-6.
Abbiamo saputo del lavoro all’Università di Parigi, del centro ad Avicenne, del loro interesse per i linguaggi
artistici con Isam Idris, psicoantropologo che portò alcune situazioni cliniche filmate di consulenza
psichiatrica transculturale al Festival internazionale di teatro e cultura per l’infanzia nel 2006.
Ultima in ordine di tempo è stata l’occasione di conoscerne l’ultimo libro di Marie Rose Moro ‘Maternità e
amore’ presentato a Bologna nel novembre 2008 nel quale si enfatizza l’importanza dei linguaggi, il valore di
costruire i ponti, i legami tra la società che educa, che cura e le tante, differenti famiglie con i loro carichi di
sofferenze.
I centri per gli adolescenti
La casa degli adolescenti di Salonn affianco all’ospedale di Cochin è molto conosciuta dagli operatori
all’infanzia
e adolescenza di Parigi. La considerano un posto importante, ma che richiede un lavoro
impegnativo.
Come ci ha detto Marie Rose Moro la sua esperienza comincia nell’ospedale di Avicenne, nella periferia della
città, 25 anni fa, per poi portare il modello anche all’ospedale Cochin, perché il problema non è legato alla
‘banlieu’, non va ghettizzato e l’approccio vale per la popolazione in modo universale.
Agli occhi dei visitatori la maison de Salonn appare accogliente con un hall spaziosa, dalla vetrata di alcuni
piani, a simbolo che la realtà non deve essere negata, né chi è dentro si deve nascondere agli altri.
Utilizzando le faccine dei manga giapponesi e adottando un linguaggio “da giovani”, in questo spazio
diventato espositivo, si leggono cartelloni presentanti i vari aspetti delle difficoltà degli adolescenti, come:
•
sofferenza nel corpo: urgenze, disturbi dell’alimentazione, droghe o i più diversi malesseri
psicosomatici, fidandosi ‘quand ça va pas, t’y va’ = quando non va, vacci..
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•
sofferenza psicosociale: noia depressiva, sensazione di inutilità, pensieri che ‘bucano’ la mente,
esclusione ‘de toutes façons, je comprend jamais rien et j’arrive jamais a rien. J’me sens nul’ =
comunque sia, io non comprendo mai niente, non arrivo a niente. Sono una nullità..
•
domande di informazioni a tutto tondo: sociali, sanitarie, sull’identità sessuale ‘quand t’as des
questions, t’y vas’ = quando hai delle domande, vacci…
In questo centro è stata compiuta un’operazione che coinvolge tutta la sfera dell’adolescente, meglio, di tutte
le tipologie di adolescente francese, che include anche adolescenti di differente origine culturale.
La consulenza viene offerta a ragazzini dagli 11 ai 18 anni con un sostegno telefonico eseguito da
un’infermiera e uno psichiatra, per poi passare ad appuntamenti, e, in situazioni a rischio, ricevere anche un
ricovero ospedaliero. L’invio può essere effettuato anche dai medici e dai servizi sociali territoriali della città
come da tutta la Francia.
Il centro ha ideato una presa in carico dell’adolescente con un complesso insieme di strumenti educativi a fini
terapeutici, propone un’offerta di atelier che “lavorano” sul corpo e sull’ espressivo dell’adolescente, offre un
setting terapeutico, modificato per adeguarsi alle persone migranti e ha dato riconoscimento ai nuovi traumi
legati anche a questo spostamento spaziale e culturale, nonché alle vicende di violenza e di soprusi, vissuti
altrove come qui, e riverberate nel quotidiano.
Il ricovero ospedaliero può avvenire per circa 20 ragazzi e ragazze alla volta, che vengono ricoverati per
alcune settimane, (tempo per la diagnosi, che viene riformulata qualunque sia la provenienza, è di tre
settimane), fino a un massimo di 12 mesi.
Non si predilige una ‘patologia’, si accolgono adolescenti con disturbi alimentari, (l’anoressia, la bulimia,
l’obesità), con tendenze suicidarie, con manifestazione di atti psicotici, ed esperienze di sostanze che danno
dipendenza, ...
L’ospedale durante il ricovero si può rapportare con altri servizi sanitari, così come tiene i contatti con la
famiglia e la scuola dell’adolescente; dopo la dimissione si continua con un follow-up mensile per almeno 6 9 mesi, passando la presa in carico al territorio.
Analogo trattamento è previsto per il centro degli adolescenti all’ospedale Avicenne a Bobigny.
L’incontro e il materiale clinico che ci hanno presentato avrebbe avuto bisogno di più tempo per essere
compreso a fondo, lo citiamo per fare comprendere meglio, non per valutarlo.
Marie Rose More a Cochin e Tahar Abbril ad Avicenne mostrano due consultazioni che, come si legge dai
testi della Moro, vengono condotte con l’approccio etnopsicanalitico, ma il metodo di analisi delle interazioni
madre - bambino, padre – bambino, terapeuta – bambino, genitori – terapeuta è eclettico, per la qualità
degli esperti coinvolti.
L’approccio etnopsicanalitico prevede molte figure esperte nella stessa consultazione, un gruppo e dura
alcune ore. Ciò è motivato dal fatto che le forme di valutazione occidentali, generalmente colloqui con una
sola persona con pochi mediatori, sono spesso vissute in modo non comprensibile e traumatico dalla famiglia
migrante. Inoltre, anche se fosse possibile, gli interventi terapeutici che ne conseguono sono spesso difficili e
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complessi, si verificano spesso numerose interruzioni che riducono l’efficacia dell’intervento data la difficoltà
della famiglia a mantenere gli appuntamenti, a seguirne i ritmi, a comprenderne le ritualità.
Per l’idea di adolescenti che il centro presenta si può azzardare una correlazione tra difficoltà di comprensioni
e di differenti linguaggi con le famiglie migranti con le incomprensione tra adulti e adolescenti, i differenti
piani linguistici delle due età e la mancanza di ‘legami’, di ‘ponti’ dei ragazzi tra la loro identità che cambia, e
che spaventa, e le richieste della società globalizzante e competitiva che li accoglie.
‘L’adolescente è in una condizione di bisogno rispetto all’adulto, tuttavia il suo disagio è incomunicabile a
parole, perché si colloca in un’area dell’esperienza che è preverbale. Comunicare con lui si rileva faticoso,
non solo per le implicazioni emotive che comporta, ma anche per le modalità che l’adolescente adotta,
indecifrabili nella misura in cui ci si assesta su un piano puramente verbale e razionale’. (La noia
dell’adolescente, a cura di Giudo Crocetti, 1996, Borla)
Con un ottica forse più sistemica, possiamo vedere che il centro cerca di dare un aiuto concreto, operativo ad
un malessere fisiologico della crisi adolescenziale con esperti, con consulenze telefoniche che ne sostengono
le confusioni, le fatiche della maturazione, arginando azioni che li mettono a rischio.
Altra differenza ‘sono gli adolescenti in crisi,.. dove la sofferenza è tale che può bloccare il processo di
evoluzione o può condurre ad un vicolo cieco della disperazione che non ha soluzioni’ (Adolescenze spinose,
Giuseppe Maiolo, 2002, Erickson).
L’essere pronti agli adolescenti in crisi di questi centri è molto da impatto. Oltre alla consulenza e terapia
psicologica, psichiatrica, affiancata anche da quella farmacologia, hanno affiancato degli atelier facoltativi ad
ampio raggio. Questi laboratori sono guidati da insegnanti, educatori professionali, artisti ed esperti del
settore molto preparati e in grado di fungere da adulti sensibili alla complessità del gruppo di ragazzi e anche
al numero variabile.
Sembra sia messo in gioco tutto l’espressivo del ragazzo, della ragazza, al fine di un’immagine di sé più
simile ai propri desideri, più avvicinabile, ricreandosi fiducie in un luogo protetto.
Il centro propone:
•
sale attrezzate per la produzione artistica, in particolare pittura ed espressione grafica,
•
una cucina, dove si cucinano realmente gli alimenti,
•
una sala di parrucchiera ed estetista professionalmente attrezzata,
•
la grande sala per la danza, con lo specchio, il pavimento in legno e sbarra per gli esercizi
•
nonché in una parete la ‘vestoteca’, dove si provano gli abiti, si indossano, si utilizza per recitare, si
prendono in prestito,
•
la radio ’ospedale’ collegata con altre radio di ragazzi negli ospedali, dove si conducono trasmissioni
radiofoniche, riguardanti loro selezioni di pezzi musicali, interviste, materiali vari,
•
la sala produzione videogiochi e software vario,
•
la biblioteca e sala studio,
•
nonché una sala ‘scuola’ dove incontrano insegnanti per il recupero scolastico.
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Ad una famiglia e ad un servizio territoriale che si trovano con una situazione non gestibile con i metodi che
propongono terapie e/o sostegno in gruppo, o che hanno a che fare con un momento acuto della sofferenza
e non sembra risolutivo un contenimento farmacologico, offrire un ricovero terapeutico così gestito può dare
una grande possibilità di intervento concreto.
Sappiamo che anche in Italia si ricercano alternative e si cerca di migliorare le
occasioni con cui si
affrontano le crisi degli adolescenti, dei giovanissimi. I centri di diagnosi e cura delle az USL possono
contenere, a fini di protezione del ragazzo e della famiglia, i momenti di forte crisi, le psicoterapie esistono,
ma non sono di forte impatto e riuscita.
‘…già nel 1959 Anna Freud, nel suo scritto Adolescenza, rilevava come tutti gli esperti analisti che operavano
in questo campo denunciassero che di solito gli adolescenti resistono all’analisi..
..le operazioni di transfert fanno parte del processo evolutivo e permettono degli aggiustamenti e delle
risoluzioni spontanee di antiche situazioni conflittuali…Questa è una delle ragioni per le quali una terapia
psicoanalitica dell’adolescente è, spesso, controindicata.’ (‘Psicoterapia breve di individuazione’ M. Aliprandi,
E. Pelando, T. Senise, 1990, Feltrinelli)
Le consultazioni con famiglie migranti di adolescenti
I centri per gli adolescenti, operano molto con dispositivi preventivi per i disagi delle famiglie migranti, con
sensibilizzazione al linguaggio di origine, di valorizzazione della cultura e del ‘buon senso’ materno-affettivo
nelle case, nelle famiglie, lasciando alla scuola, al contesto sociale l’immersione nella cultura francese, nelle
sue regole e nella sua cultura.
L’adolescente francese avente origini culturali nell’altrove può assommare la crisi dell’età alla crisi della sua
condizione sociale, a volte molto difficile da integrare (il convegno ‘le nuove famiglie della nostra città’
promosso dal Comune di Bologna nel maggio 2008 ci permette di equiparare i vissuti dei giovani
extracomunitari in Italia).
Tahar Abbril, psicologo che ci ha incontrati nel secondo centro specializzato per le difficoltà dei migranti nella
periferia di Parigi, ha mostrato il lavoro di gruppo dell’équipe transculturale in situazioni cliniche. Gli atelier
per gli adolescenti analoghi all’altro centro non sono stati visitati per mancanza di tempo, ma risultano con
un’eguale riferimento educativo di sostegno.
Il filmato di una consulenza clinica apre con una ripresa di una madre seduta accanto alla figlia,
una
ragazzina nord africana, di razza negroide, con il corpo in una postura di chiusura e con una sciarpa viola che
le copre il capo ripiegato verso il basso.
Ci sono una quindicina di co-terapeuti, disposti a cerchio che aspettano di intervenire seguendo la regia della
Moro. Alla madre si rivolge la Moro, gli altri terapeuti si rivolgono a lei riportando vissuti, sensazioni di ciò che
la storia fa emergere in loro, alla ricerca di rappresentazioni culturali, significati in altre culture, possibili altri
punti di vista. Generalmente si chiede alla madre di esprimersi nella sua lingua, questa volta non occorre, la
ragazzina rimane muta tutto il tempo, ma l’espressività non verbale comunica tutta la sua angoscia e quanto
sia interessata a quanto avviene nell’incontro. Nella spiegazione della Moro si fa attenzione all’interazione tra
le persone, non si esprimono termini clinici.
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Ogni consultazione dura circa due ore e, indicativamente, ci si incontrerà una volta al mese per 3-4 incontri.
Nella composizione di questa équipe c’è colui che parla la lingua materna, una psicologa che ha in carico la
famiglia, gli assistenti sociali, gli storici, gli esperti di cultura africana, i collaboratori stretti della Moro di
questo centro.
Riportando un’ulteriore lettura teorica: il bambino, l’adolescente viene considerato come ‘costruito’
culturalmente, possessore di una culla culturale, la cui comprensione riguarda i genitori, e loro stessi
all’interno di un sistema interattivo allargato, il sistema di appartenenza.
Il gruppo di adulti co-terapeuti sul problema può essere vissuto come la comunità, la famiglia allargata dei
migranti, che parla anche la lingua di origine e tiene conto delle rappresentazioni culturali sulla femmina,
sulla ragazza.
Nel caso presentato sono evidenziate le considerazioni della madre di quando era ragazza al suo paese e il
mancato rispecchiarsi del suo immaginario, dei suoi desideri sulla figlia non comprendendone l’impotenza ad
agire, ad integrarsi nella cultura delle origini con il quotidiano che lei vive in Francia.
Nella cultura si mettono a confronto la definizione e la cura del disagio del bambino, del ragazzo tramite
diversi metodi di lettura dei simboli:
‘essenziale non è trovare la verità del bambino, il processo terapeutico, infatti, è contenuto nella formazione
dei legami, dei ponti, dei passaggi. La verità è in movimento, l’esperienza dello spostamento e la sua
interpretazione conducono sovente alla stabilità del bambino, ad un inizio di elaborazione delle sue molteplici
e inevitabili affiliazioni’. (Bambini immigrati in cerca di aiuto, M. R. Moro, 1998, UTET)
Riflessioni
L’impatto emotivo, diversificato tra noi e la mancanza di tempo per spiegazioni approfondite, su un contesto
prettamente clinico che non appartiene ai coordinatori pedagogici, ci ha fatto conseguentemente confrontarci
molto, arrivando ad apprezzare con intensità la visita.
Nella pratica psicoanalitica esiste il gruppo di co-terapeuti che aiuta il terapeuta a formulare i pensieri,
soprattutto quelli altri dai suoi, affinché non rimanga limitato solo ai suoi, ai suoi vissuti alle sue formazioni.
Legati ad una presa in carico, si forma il gruppo di professionisti che ne è coinvolto, si confrontano per
collegare, per dare interezza. Mi dicono che ce ne erano di più in passato, ora i tempi sono sempre più
limitati per questi passaggi di ‘ponte’, di ‘legami’.
Tuttavia questi gruppi sono senza la presenza della famiglia, del paziente, una sorta di linguaggio sopra di
loro, non così finalizzato alla diagnosi, meglio ancora, non con l’obiettivo di trovare assieme alla famiglia la
possibile chiave di lettura della situazione di sofferenza.
Questo gruppo di co-terapeuti e la famiglia ci ha sorpreso, è sembrato forte, a volte sui bambini è sembrato
che si potesse dire troppo davanti a loro, e che si sentissero giudicati da tanti adulti estranei.
Non può essere anche questo un giudizio dovuto al nostro vissuto, alla nostra difficoltà di adulti in una civiltà
individualista, abituata ad esperti con metodi individualisti? Abbiamo esperienze di famiglie veramente
allargate, di discussioni in gruppo, di clan, prese tra adulti con i bambini per casa, anche in parte coinvolti?
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La metodologia etnopsicoanalitica francese affascina Bologna soprattutto chi valorizza i gruppi, ma come in
ogni campo, non è stata risparmiata anche da polemiche, da dubbi metodologici posti dai colleghi delle az
Usl.
Le stesse perplessità le abbiamo sentite, riguardanti i periodi di ricoveri presso le maisons pour les
adolescents. Gestione terapeutica e atelier portano ad una riduzione della sofferenza, ma usciti dal contesto,
rientranti nello stesso ambiente cosa succede ai ragazzini, ai giovani?
Di nuovo ci ha fatto pensare anche alla grande possibilità, alla ricerca di strategie importanti per affrontare
un’età sempre più in pericolo, su cui occorre dare fiducia, dare spazi, dare valore ai singoli carismi.
Molta letteratura vede l’adolescenza una fase analoga ai primi anni della vita: separazione dai genitori, corpi
che cambiano in fretta, istinti e impulsi con una mente debole per guidarli, bisogni di affetto e di autostima,
necessità di sfidare i limiti.
Ancora azzardando correlazioni, sappiamo che un anno a nido con una educatrice competente può
rafforzare, o rendere più efficace il maternage, contribuire a creare sicurezza nell’ambiente sociale al
bambino, alla bambina. La esplorazione a tutto tondo, le esperienze vissute al nido, le attività programmate
aprono al bambino strade possibili per conoscersi e per incuriosirsi, divertirsi ed affrontare il mondo.
Si può pensare, forse, lo stesso per un’adolescente che si sente tenuto da adulti competenti, che lo aiutano a
ristrutturarsi, provando a vestirsi/travestirsi vincendo il proprio non accettarsi, di giocare insieme ad altri a
ricostruire la propria immagine davanti allo specchio con gel, forbici e mollette in un momento buio
dell’esistenza, a ricomporre metaforicamente i suoi ‘pezzi’ che sono cambiati, disegnandone aspetti che non
si vogliono dimenticare, con la forza espressiva non scolarizzata, ma portando l’emotività verso la passione,
esprimendosi con l’impastare, con l’associare sapori, con soddisfazioni mai conosciute. Per incamminarsi,
con autonomia, verso il suo diventare maturo può servire ballare, ascoltare e proporre canzoni, o esserne
deluso, ed aspettare e farsi trovare per eventuali riscontri…insomma forse in sei mesi, un anno si fanno tanti
mutamenti e servono tanti, tantissimi spunti ed occasioni. Nessuno di questi atelier ha finalità per il mondo
del lavoro, ma il gruppo degli adolescenti può promuovere relazioni che sostengono, e imitandosi tra loro,
aggiungere altre visioni del mondo.
Non aspettandosi, perciò, da questi centri guarigioni o costruzioni di ragazzi adeguati ai canoni della società,
bensì una valorizzazione del potenziale di ognuno.
Il centro può fare, inoltre, molto nel campo della prevenzione: l’incontro con adulti competenti, durante le
crisi adolescenziali, che entrano nel vivo delle scuole, dei centri giovanili per dare impulso agli insegnanti e
ricaricare gli educatori che operano nel quotidiano; nonché, fare il più possibile per agevolare il métissage,
ancora dare parole a dei vissuti che hanno perso la narrazione di sé, dei propri desideri.
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