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SENTENZE CORTE DI CASSAZIONE
CASSAZIONE PENALE – Sezione quinta - Sentenza n. 35167 del 30 settembre 2005
“Sbianchettare” la cartella clinica è possibile solo nel limite della correzione dell’errore materiale. In
tutti gli altri casi, a prescindere dalle buone intenzioni del sanitario, qualsiasi “aggiustamento” integra il
reato di falsità in atto pubblico, penalmente perseguibile.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CALABRESE Renato Luigi - Presidente
Dott. AMATO Alfonso - Consigliere
Dott. MARASCA Gennaro - Consigliere
Dott. DIDONE Antonio - Consigliere
Dott. DUBOLINO Pietro - Consigliere
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
1) PASQUALI SONIA N. IL 04/07/1953;
avverso SENTENZA del 14/02/2005 CORTE APPELLO di BOLOGNA;
visti gli atti, la sentenza ed il procedimento;
udita in PUBBLICA UDIENZA la relazione fatta dal Consigliere Dott. DUBOLINO PIETRO;
sentito il P.G., in persona del Sost. Dott.ssa CESQUI E., la quale ha chiesto il rigetto del ricorso,
e sentito per la ricorrente, l'avv. GIAMPAOLO G. il quale ha insistito per l'accoglimento.
OSSERVA LA CORTE:
Con l'impugnata sentenza, in conferma di quella di primo grado pronunciata in data 20 marzo
2000 dal tribunale di Bologna, PASQUALI Sonia venne ritenuta responsabile di falso materiale
in atto pubblico per avere, secondo l'accusa, nella sua qualità di medico in servizio presso un
pubblico ospedale, alterato, mediante cancellazione con correttore e riscrittura, la cartella clinica
di un paziente in alcuni dei punti contenenti l'indicazione degli accertamenti e delle terapie cui
lo stesso era stato sottoposto dopo un intervento chirurgico.
Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per Cassazione la difesa dell'imputata denunciando:
1) "mancanza assoluta di motivazione sulla ricostruzione della condotta in modo difforme dalle
risultanze processuali", sull'assunto, in sintesi, che la corte territoriale, nel ritenere che l'imputata avesse effettivamente posto in essere la condotta da qualificarsi come antidoverosa, nei termini in cui la stessa veniva descritta, non avrebbe indicato le relative fonti di prova, pervenendo
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così ad un'arbitraria ricostruzione del fatto, difforme dalla realtà, la quale era stata caratterizzata
dall'avere l'imputata operato in modo non da realizzare una "immutatio veri" ma, al contrario, da
rendere le indicazioni contenute nella cartella clinica conformi al vero, sostituendo alla generica
annotazione "continua gli accertamenti" quella più specifica nella quale si dava atto del verificato rialzo pressorio e dell'avvenuta somministrazione di adeguata terapia;
2) "mancanza assoluta di motivazione in ordine alla reiezione di precisi motivi di appello, dirimenti ai fini della verifica della sussistenza del reato", unitamente a "violazione della legge penale:
art. 476 c.p.", per non avere la corte d'appello fornito risposta alle deduzioni difensive con le
quali si prospettava la configurabilità, nella specie, del reato impossibile, sulla base dell'ormai
generalmente accettato principio di offensività;
3) "inosservanza di norme processuali previste a pena di nullità:art. 521 e 523 c.p.p." per avere i
giudici di merito, tanto in primo quanto in secondo grado, ritenuto la responsabilità dell'imputata in ordine al reato di falso così come originariamente contestato (esclusa soltanto l'aggravante
del nesso teleologia)), nonostante che tale originaria contestazione comprendesse anche il richiamo ad un precedente reato di lesioni colpose dal quale la ricorrente era stata invece definitivamente assolta.
Gli originari motivi di ricorso sono stati poi seguiti da ampi motivi aggiunti, nei quali si insiste,
in particolare, sulla configurabilità, nella specie, del reato impossibile (attesa la rilevabilità, "ictu oculi", della "sbianchettatura" che aveva preceduto la riscrittura) e sulla innocuità del preteso
falso (volto non a creare la falsa apparenza del vero ma piuttosto a rendere l'atto conforme al vero), nonché sull'assenza, in ogni caso, dell'elemento soggettivo del delitto in questione.
Motivi della decisione
Il ricorso, nonostante l'encomiabile impegno profuso dalla difesa, anche nei richiami dottrinali e
giurisprudenziali, non appare meritevole di accoglimento.
Iniziando, per ragioni di ordine logico, dal motivo in rito, concernente la pretesa violazione degli artt. 521 e 523 c.p.p., ritiene il collegio sufficiente richiamare il consolidato principio giurisprudenziale secondo cui, come affermato, in particolare, fra le numerose altre, precedenti e
successive, da Cass. S.U. 19 giugno - 22 ottobre 1996 n. 16, Di Francesco, RV 205619, "Con
riferimento al principio di correlazione fra imputazione contestata e sentenza, per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali della fattispecie concreta nella quale si riassume la ipotesi astratta prevista dalla legge, sì da pervenire ad
un'incertezza sull'oggetto dell'imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della
difesa". Alla luce di tale principio appare di tutta evidenza che la mancata espunzione, dal testo
del capo d'imputazione in relazione al quale è stata affermata la penale responsabilità dell'imputata, del riferimento al precedente reato di lesioni colpose dal quale la stessa era stata assolta,
non ha comportato, né poteva comportare, pregiudizio alcuno ai diritti della difesa, trattandosi di
elemento assolutamente non essenziale ai fini della configurabilità del reato di falso ed essendo
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stata, d'altra parte, espressamente esclusa l'aggravante del nesso teleologico, originariamente
configurata per il detto ultimo reato.
Passando quindi all'esame degli altri motivi, va anzitutto ricordato, relativamente al primo di essi, che, in linea generale, come affermato, fra le altre, da Cass. 5^, 21 aprile - 11 novembre 1983
n. 9423, Pozzan, RV 161096, "Le modifiche o aggiunte in un atto pubblico dopo che èstato definitivamente formato integrano un falso punibile ancorché il soggetto abbia agito per ristabilire
la verità effettuale, l'alterazione apportata nel senso della verità, ammessa soltanto nel caso di
correzione di errori materiali, determina infatti pur sempre una modificazione della verità documentale, in quanto per effetto dell'aggiunta postuma l'atto viene a rappresentare e documentare fatti diversi da quelli che rappresentava e documentava nel suo tenore originale, così che viene leso l'interesse sociale a che non sia menomato il credito attribuito agli atti pubblici dall'ordinamento giuridico"; principio, questo, che ha trovato, anche recentemente, conferma in Cass.
5^, 2 aprile - 19 maggio 2004 n. 23327, PG in proc. Ferraro, RV 228869, secondo cui "Le modifiche o le aggiunte in un atto pubblico, dopo che è stato regolarmente e definitivamente formato,
integrano un falso punibile anche quando il soggetto abbia agito per stabilire la verità effettuale
del documento", salva restando soltanto l'ipotesi che le aggiunte successive "si identifichino in
mere correzioni o integrazioni che, lungi dal modificare l'elemento contenutistico dell'atto, già
Normalmente perfetto, siano invece dirette a completamento essenziale del relativo procedimento di formazione". Alla luce di tali principi, condivisi dal collegio, appare quindi anzitutto da escludere che, data pur per ammessa la rappresentata finalità dell'imputata di rendere l'atto pubblico in questione maggiormente aderente alla realtà che esso era destinato a riflettere, ciò potesse valere ad annullare la rilevanza penale del fatto, non ponendosi in dubbio, neppure da parte della difesa, che l'atto medesimo, nella parti che sono state oggetto dell'alterazione, fosse da
considerare come già definitivamente formato ad opera di soggetto diverso dall'imputata e non
potendosi in alcun modo ritenere (né sostenendosi dalla difesa), che detta alterazione costituisse
soltanto la correzione di un mero errore materiale; conclusione, questa, che trova ulteriore conforto in quanto ancora affermato, con specifico riguardo alla cartella clinica, in altra massima
tratta dalla già citata sentenza Pozzan (RV 161098), secondo cui: "La cartella clinica acquista il
carattere di definitività in relazione ad ogni singola annotazione ed esce dalla sfera di disponibilità del suo autore nel momento stesso in cui la singola annotazione viene registrata. Ogni annotazione assume pertanto autonomo valore documentale e spiega efficacia nel traffico giuridico
non appena viene trascritta, con la conseguenza che una successiva alterazione da parte del
compilatore costituisce falsità punibile, ancorché il documento sia ancora nella sua materiale disponibilità in attesa della trasmissione alla direzione sanitaria per la definitiva custodia". E sulla
stessa linea si pone, più recentemente, Cass. 5^, 17 febbraio - 23 marzo 2004 n. 13989, Castaldo, RV 228024, per la quale: "La cartella clinica, della cui regolare compilazione è responsabile
il primario, adempie alla funzione di diario della malattia e di altri fatti clinici rilevanti, la cui
annotazione deve quindi avvenire contestualmente al loro verificarsi, uscendo al tempo stesso
dalla disponibilità del suo autore ed acquistando carattere di definitività, per cui tutte le successive modifiche, aggiunte, alterazioni e cancellazioni integrano falsità in atto pubblico".
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Quanto poi al denunciato difetto di motivazione in ordine al mancato accoglimento delle tesi difensive basate sull'asserita grossolanità ed innocuità del falso, lo stesso, pur essendo, in effetti,
sussistente, appare del tutto privo di rilievo, ove si consideri che dette tesi erano da riguardarsi,
ad avviso del Collegio, come comunque prive, in sé, di giuridico fondamento, sulla base di
quanto già risultava pacificamente accertato in linea di fatto, senza che vi fosse spazio a valutazioni discrezionali richiedenti appunto, come tali, specifica motivazione. Al riguardo, posto che
la grossolanità ed innocuità del falso vengono prospettate essenzialmente in relazione al fatto
che appariva rilevabile "ictu oculi" la precedente "sbianchettatura" delle annotazioni alle quali
erano state poi sostituite le altre di mano dell'imputata, vale ricordare il principio già affermato
da questa Corte, secondo cui: "il tema di falso documentale, ai fini dell'esclusione della punibilità per inidoneità dell'azione ai sensi dell'art. 49 cod. pen., occorre che appaia in maniera evidente la falsificazione dell'atto e non solo la sua modificazione grafica. Di conseguenza, le abrasioni e le scritturazioni sovrapposte a precedenti annotazioni, pur se eseguite a fini illeciti immediatamente riconoscibili, non possono considerarsi, di per sé e senz'altro, un indice di falsità
talmente evidente da impedire la stessa eventualità di un inganno alla pubblica fede, giacché esse possono essere o apparire una correzione irregolare, ma non delittuosa, di un errore materiale
compiuto durante la formazione del documento alterato dal suo stesso autore" (Cass. 5^, 7 - 27
ottobre 1992 n. 10259, Borzì ed altro, RV 192299;
nello stesso senso, Cass. 5^, 13 febbraio - 26 giugno 1986 n. 6089, Tortonesi, RV 173199).
Ne può, infine, condividersi quanto argomentativi dalla difesa, soprattutto nei motivi aggiunti,
circa la non configurabilità, a su la condotta dell'agente. Ma poi, in concreto, in essere, coscientemente e volontariamente, dall'imputata, che la difesa viene a far essenzialmente leva a sostegno del proprio assunto, laddove mostra di credere che il dolo sarebbe stato da escludere per il
solo fatto che era stata mossa unicamente dall'intento di rendere le annotazioni contenute nella
cartella clinica conformi al vero. Al riguardo - e senza per ciò voler accreditare controverso
concetto del "dolus in re ipsa", fortemente criticato, come è noto, da autorevole dottrina, richiamata nel terzo dei motivi aggiusti - vale semplicemente; osservare che la fede pubblica, costituente il bene giuridica protetto dalla norma incriminatrice in questione, viene ad essere lesa anche quando, indipendentemente dal contenuto delitto pubblico non vi sia corrispondenza tra l'effettivo "iter" di formazione del medesimo atto e quello che appare dal suo aspetto grafico, dandosi luogo anche in tale ipotesi alla falsa rappresentazione di una realtà giuridicamente rilevante; il che costituisce, a ben vedere, la vera ragione giustificativa del già ricordato orientamento
interpretativo secondo cui sussiste il reato di falso ogni qual volta si intervenga con modifiche
su di un atto già definitivamente formato, pur quando l'intento dell'agente sia quello di renderne
il contenuto conforme al vero. Se così è, ne deriva, quindi, che la coscienza e la volontà di operare un tale intervento non può non equivalere a quella di realizzare una diretta, effettiva e riconoscibile lesione proprio del bene giuridico protetto dalla norma, nulla rilevando, poi, naturalmente, che, per mero errore di diritto circa la effettiva portata della norma medesima, di detta
lesione il soggetto possa non avere piena consapevolezza.
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P.Q.M.
la Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
Così deciso in Roma, il 11 luglio 2005.
Depositato in Cancelleria il 30 settembre 2005
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