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Capitolo 3
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Il presupposto soggettivo
imprenditore agricolo piccolo imprenditore - artigiano coltivatore diretto
Sommario
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1 L’imprenditore agricolo: nozione. - 2 Attività agricole «essenziali». - 3 Attività agricole «connesse». - 4 Il
concetto di imprenditore agricolo nella elaborazione legislativa. - 5 L’imprenditore ittico. - 6 Imprenditore agricolo e fallimento. - 7 La figura del «piccolo» imprenditore nel codice civile e nella legge fallimentare. - 8 La nuova definizione di piccolo imprenditore nella legge fallimentare. - 9 La nozione di piccolo
imprenditore e le società commerciali. - 10 La definizione di artigiano. - 11 Il problema dell’assoggettabilità al fallimento dell’artigiano. - 12 Società artigiane ed assoggettabilità al fallimento. - 13 Il coltivatore
diretto. - Bibliografia.
1 L’imprenditore agricolo: nozione
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Sotto il vigore dei codici abrogati l’attività di sfruttamento delle terre era regolata, anziché
dal codice di commercio, dal codice civile, poiché considerata come un’attività di mero
godimento collegata all’esercizio del diritto di proprietà fondiaria: espressamente, pertanto,
l’art. 5 dell’abrogato codice di commercio escludeva dagli atti di commercio «la vendita che il
proprietario fa dei prodotti del fondo suo o da lui coltivato».
Tale particolare visione era connessa a motivi socio-politici, in quanto la classe agraria,
che manteneva all’epoca una posizione di prestigio e di potere, riceveva una maggiore tutela
per il fatto che la sua attività era considerata come un’emanazione del diritto di proprietà,
restando così sottratta agli obblighi (scritture contabili) ed ai pericoli (fallimento) che gravavano sulla categoria dei «commercianti».
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Parte Prima • I presupposti e la dichiarazione di fallimento
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Il vigente codice, col considerare «imprenditore» chiunque svolga un’attività creativa di ricchezza, ha incluso nella categoria anche l’agricoltore, ma
ha conservato ad esso alcuni dei privilegi che il vecchio sistema gli garantiva: esclusione dall’obbligo della tenuta delle scritture contabili; non assoggettabilità al fallimento ed alle altre procedure concorsuali in caso di
insolvenza.
L’imprenditore agricolo, pertanto, non è assoggettato alla normativa
dell’imprenditore commerciale e la disciplina ad esso relativa è affidata più
alla legislazione speciale che alle poche norme contenute nel codice.
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L’art. 8 della legge 29 dicembre 1993, n. 580 (che ha istituito il registro delle imprese)
prevede che gli imprenditori agricoli siano iscritti in una sezione speciale del registro medesimo e l’art. 2 del D.Lgs. 18 maggio 2001, n. 228 (Orientamento e modernizzazione del
settore agricolo, a norma dell’art. 7 della legge 5 marzo 2001, n. 57) conferisce espressamente a tale iscrizione, oltre alle funzioni di certificazione anagrafica ed a quelle previste dalle
leggi speciali, l’efficacia di opponibilità ai terzi di cui all’art. 2193 cod. civ.
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La nozione di «imprenditore agricolo» è fornita dall’art. 2135 cod. civ.,
in relazione alla cui formulazione originaria la dottrina (come rileva CAMPOBASSO) aveva elaborato due contrastanti orientamenti interpretativi:
— gli studiosi di diritto agrario (CARROZZA, LAZZARA, ROMAGNOLI) riconducevano a tale nozione ogni impresa che produce specie vegetali o
animali, ogni forma di produzione fondata sullo svolgimento di un ciclo
biologico naturale;
— la dottrina commercialistica (ALESSI, AULETTA, BUONOCORE, CAMPOBASSO, COTTINO, FERRARA, GALGANO), invece, affermava la necessità di un
legame permanente con il fattore produttivo terra ed escludeva, pertanto,
che potesse qualificarsi imprenditore agricolo chi produce specie vegetali o
animali in modo del tutto svincolato dal fondo e dallo sfruttamento della
terra (coltivazioni artificiali in soluzioni chimiche nutritive ed allevamenti in
batteria, condotti in capannoni industriali e con concimi chimici);
— FERRI, con una interpretazione ancora più restrittiva, eccettuava addirittura dalla nozione ogni forma di produzione agricola destinata al mercato (ritenendo che tali forme dessero comunque vita ad un’impresa
commerciale).
Il legislatore, con il D.Lgs. 18-5-2001, n. 228, ha optato per la prima
impostazione, sicché deve ritenersi ormai superato il rapporto produzione-terra nella definizione di «imprenditore agricolo».
Tale qualifica viene attualmente riconosciuta non soltanto a coloro i quali materialmente coltivano il terreno o allevano il bestiame, ma anche a chi
esercita allevamenti ittici (acquacoltura), alle aziende conserviere e casearie,
a chi presta servizi a favore dell’agricoltura (aziende di contoterzismo che,
per dotazione di mezzi, provvedono alla raccolta dei prodotti ovvero a
lavorazioni speciali dei terreni).
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Capitolo 3 • Imprenditore agricolo, piccolo imprenditore, artigiano, coltivatore diretto
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La qualifica di imprenditore agricolo è riconosciuta, infine, pure ai soci
delle società di persone esercenti attività agricole, ai quali spettano i diritti e
si applicano le agevolazioni tributarie e creditizie stabilite dalla normativa
vigente a favore delle persone fisiche in possesso di tale qualifica (art. 9
D.Lgs. n. 228/2001).
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Agli imprenditori agricoli, singoli o associati, è consentita la vendita al dettaglio, in tutto
il territorio nazionale, di prodotti provenienti in misura prevalente dalle rispettive aziende
agricole (con l’osservanza delle disposizioni vigenti in materia di igiene e sanità): tale vendita
può riguardare, dunque, anche (sia pure in misura ridotta) prodotti non derivanti dalla
propria azienda agricola e non rientranti nella produzione della stessa.
La vendita può avvenire sia nei mercati e nelle apposite aree pubbliche sia in forma
itinerante, nel rispetto di specifici oneri di comunicazione e procedimentali. Essa può avere
ad oggetto anche prodotti derivati, ottenuti a seguito di attività di manipolazione o trasformazione dei prodotti agricoli e zootecnici, purché finalizzate allo sfruttamento completo del
ciclo produttivo dell’impresa.
L’attività di vendita diretta è vietata, per il periodo di un quinquennio, nel caso di condanne (passate in giudicato) per delitti in materia di igiene e sanità o di frode nella preparazione di alimenti.
2 Attività agricole «essenziali»
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L’art. 2135 cod. civ., come sostituito dall’art. 1 del D.Lgs. n. 228/2001,
pure nella formulazione attuale continua a distinguere tra attività agricole:
— essenziali o principali;
— per connessione.
Attività agricole principali, ai sensi del 1° comma dell’art. 2135, sono quelle
dirette: alla coltivazione del fondo, alla selvicoltura, all’allevamento di animali.
Ed il 2° comma, con previsione estensiva, specifica che nelle attività
anzidette vanno ricomprese quelle «dirette alla cura ed allo sviluppo di un
ciclo biologico o di una fase necessaria del ciclo stesso, di carattere vegetale
o animale, che utilizzano o possono utilizzare il fondo, il bosco o le acque
dolci, salmastre o marine [allevamenti ittici]».
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La legge 5-2-1992, n. 102, ha disciplinato l’attività di acquacoltura, definendo tale «l’insieme delle pratiche volte alla produzione di proteine animali in ambiente acquatico mediante il
controllo, parziale o totale, diretto o indiretto, del ciclo di sviluppo degli organismi acquatici».
A) Coltivazione del fondo
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Per «coltivazione del fondo», in senso proprio, si intende quell’attività rivolta allo sfruttamento delle energie naturali delle terre; non basta tuttavia, perché vi sia impresa, la mera
raccolta dei frutti ma occorre, al contrario, una vera e propria attività di coltivazione, e cioè
un’attività diretta ad ottenere i prodotti della terra (seminagione, coltivazione in senso stretto
e, quindi, raccolta dei prodotti).
In base a quanto fin qui detto debbono considerarsi imprenditori agricoli:
— l’affittuario del fondo;
— l’enfiteuta;
— l’usufruttuario.
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Non sono, invece, imprenditori agricoli:
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Parte Prima • I presupposti e la dichiarazione di fallimento
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— il nudo proprietario del fondo;
— il concedente nel rapporto enfiteutico.
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Per quanto attiene alle opere di sistemazione fondiaria, se compiute dallo stesso titolare
dell’impresa di coltivazione, costituiscono attività inscindibilmente collegate a quella agricola; mentre se le dette opere di sistemazione o di bonifica vengono assunte da un’impresa
appaltatrice, questa non può non assumere carattere commerciale.
Rientra sicuramente nell’attività coltivatrice l’attività di miglioramento del fondo.
La Cassazione, in considerazione del fatto che la floricoltura, in quanto attività di coltivazione, esaurisce o costituisce la parte prevalente dell’oggetto dell’impresa, attribuisce alla
stessa la qualifica di impresa agraria; è stato considerato, altresì, imprenditore agricolo e non
commerciale colui che esercita un’impresa di vivai di piante coltivate in fondi propri o locati.
La legge 5 aprile 1985, n. 126, infine, ha disposto che deve considerarsi «a tutti gli effetti»
attività agricola l’attività di coltivazione dei funghi.
B) Selvicoltura
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Per «selvicoltura» si intende quella particolare attività agricola diretta alla produzione del
legname, cioè «l’attività tecnica volta al fine di ottenere il più conveniente prodotto del bosco
entro cicli regolari di tempo».
Tale attività deve comunque riguardare la coltivazione del bosco ed il ciclo biologico
vegetale, per cui non rientra tra i «selvicoltori» chi si limita a raccogliere il legname prodotto
dal bosco senza esplicare altre attività dirette a tale produzione.
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C) Allevamento di animali
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L’originaria formulazione codicistica dell’art. 2135 utilizzava l’espressione «allevamento
del bestiame» e la prevalente dottrina, interpretando letteralmente tale espressione, la riferiva
restrittivamente alle sole specie animali legate al fondo per essere adibite alla sua lavorazione
o essere alimentate con i prodotti della terra: bestiame da carne, da lavoro, da latte e da lana
(tradizionalmente allevato sul fondo ed il cui allevamento costituisce una forma di sfruttamento del fondo medesimo).
Nell’attuale formulazione della norma, invece, è stato eliminato il riferimento al concetto
tecnico di «bestiame», sicché può ritenersi che il legislatore abbia abbandonato il principio secondo il quale l’allevamento di animali, per essere classificato agricolo, non
doveva essere disgiunto dalla terra e dal suo sfruttamento (c.d. collegamento funzionale con la coltivazione del fondo).
Sembra, pertanto, che oggi debbano considerarsi attività agricole anche l’apicoltura, la
bachicoltura, l’avicoltura, l’allevamento di animali «in batteria», l’allevamento di animali da
pelliccia, di cani o cavalli di razza; sicché dovrebbe ritenersi superata quella giurisprudenza
che riconduceva all’attività industriale allevamenti siffatti qualora non vi fosse un adeguato
rapporto con il terreno coltivato che costituisse supporto per l’alimentazione e la crescita dei
capi allevati.
In una prospettiva siffatta la qualifica di impresa agricola dovrebbe essere riconosciuta a
tutti gli allevamenti di animali, di qualsiasi tipo e genere.
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Capitolo 3 • Imprenditore agricolo, piccolo imprenditore, artigiano, coltivatore diretto
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3 Attività agricole «connesse»
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L’ultimo inciso del 1° comma dell’art. 2135 cod. civ. si riferisce alle c.d.
«imprese agricole per connessione» ed attribuisce la qualifica di imprenditore
agricolo a chi esercita attività connesse a quelle della coltivazione del fondo, selvicoltura e allevamento di animali.
Il 3° comma dello stesso art. 2135 pone una presunzione «iuris et de iure»
di connessione, stabilendo che «si intendono comunque connesse»:
— le attività, esercitate dall’imprenditore agricolo, dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione
che abbiano ad oggetto prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo o del bosco o dall’allevamento di animali;
— le attività dirette alla fornitura di beni o servizi mediante l’utilizzazione
prevalente di attrezzature o risorse dell’azienda normalmente impiegate
nell’attività agricola esercitata, ivi comprese le attività di valorizzazione
del territorio e del patrimonio rurale e forestale, ovvero di ricezione ed
ospitalità come definite dalla legge.
Perché un’attività possa considerarsi connessa ad un’attività agricola essenziale devono
sussistere i seguenti elementi di collegamento:
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a) il soggetto che esercita l’attività deve essere un imprenditore agricolo (c.d. connessione
soggettiva): l’attività connessa, infatti, presuppone l’esercizio di un’attività agricola essenziale di cui essa si presenti come accessoria.
L’art. 1, 2° comma, del D.Lgs. n. 228/2001 dispone che «si considerano imprenditori
agricoli le cooperative di imprenditori agricoli ed i loro consorzi quando utilizzano, per lo svolgimento delle attività di cui all’art. 2135 cod. civ., prevalentemente prodotti
dei soci, ovvero forniscono prevalentemente ai soci beni e servizi diretti alla cura ed allo
sviluppo del ciclo biologico»;
b) l’attività connessa deve essere sempre collegata all’attività agricola principale esercitata
(c.d. connessione oggettiva).
Tale collegamento oggettivo viene legislativamente individuato:
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— per le attività dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione, nella connessione con «prodotti ottenuti prevalentemente
dalla coltivazione del fondo o del bosco o dall’allevamento di animali»;
— per le attività dirette alla fornitura di beni o servizi, nella «utilizzazione prevalente di
attrezzature o risorse dell’azienda normalmente impiegate nell’attività agricola esercitata».
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Rispetto alla precedente formulazione dell’art. 2135 cod. civ. non si richiede più, dunque,
che le attività di trasformazione e alienazione dei prodotti agricoli rientrino nell’«esercizio
normale dell’agricoltura« (cioè siano normali per gli agricoltori in relazione alle dimensioni
dell’impresa, alla località ed al tempo in cui l’impresa opera ed ai mezzi di cui si avvale), né
che le attività connesse diverse da queste ultime abbiano carattere «accessorio».
I due criteri anzidetti sono stati sostituiti da quello della «prevalenza», ritenendosi sufficiente che le attività connesse non prevalgano, per rilievo economico, sull’attività agricola essenziale. Il soggetto che le esercita, comunque, deve essere in ogni caso già qualificabile
imprenditore agricolo in quanto svolge in forma di impresa una delle tre attività agricole
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Parte Prima • I presupposti e la dichiarazione di fallimento
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tipiche e — secondo CAMPOBASSO — attività coerente con quella connessa. Ciò significa
che resta imprenditore commerciale (e non agricolo) non solo chi trasforma o commercializza
prodotti agricoli altrui, ma anche, ad esempio, il viticoltore che non produce vino ma formaggi.
4 Il concetto di imprenditore agricolo nella elaborazione legislativa
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La legislazione speciale ha ulteriormente specificato il concetto di attività agricola:
A) Il D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (testo unico delle imposte sui redditi)
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Secondo l’art. 32, 2° comma, del D.P.R. n. 917/1986 (come modificato dal D.Lgs. 12
dicembre 2003, n. 344), sono considerate attività agricole:
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— le attività dirette alla coltivazione del terreno e alla silvicoltura;
— l’allevamento di animali con mangimi ottenibili per almeno un quarto dal terreno e le
attività dirette alla produzione di vegetali tramite l’utilizzo di strutture fisse o mobili,
anche provvisorie, se la superficie adibita alla produzione non eccede il doppio di quella
del terreno su cui la produzione stessa insiste;
— le attività di cui al 3° comma dell’art. 2135 del codice civile, dirette alla manipolazione,
conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione, ancorché non svolte
sul terreno, di prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo o del bosco
o dall’allevamento di animali, con riferimento ai beni individuati, ogni due anni e tenuto
conto dei criteri di cui al comma 1, con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze
su proposta del Ministro delle politiche agricole e forestali.
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B) Il D.Lgs. 29 marzo 2004, n. 99
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È opportuno considerare altresì la definizione di imprenditore agricolo professionale
(IAP), introdotta dal D.Lgs. 29 marzo 2004, n. 99, che ha dato attuazione alla delega contenuta nella legge 38/2003. Con essa è stata sostituita la precedente definizione prevista dal
D.Lgs. 18 maggio 2001, n. 228, che aveva introdotto per la prima volta la nozione di imprenditore agricolo a titolo principale (IATP) in ambito societario.
In forza dell’art. 1 del suddetto decreto, è imprenditore agricolo professionale colui che,
in possesso di conoscenze e competenze professionali, dedica alle attività agricole di cui
all’art. 2135 del codice civile, direttamente o in qualità di socio di società, almeno il 50% del
proprio tempo di lavoro complessivo, o che ricava dalle attività medesime almeno il 50% del
proprio reddito globale da lavoro. Questi parametri, precisa sempre la norma, sono ridotti al
25% per gli imprenditori che operano nelle zone svantaggiate.
Per quanto riguarda l’esercizio dell’attività agricola in forma collettiva, già l’art. 10 del
D.Lgs. 228/2001, superando le precedenti interpretazioni che limitavano il riconoscimento
della qualifica di imprenditore agricolo alla sola persona fisica, aveva esteso tale qualità
anche alle società di persone, di capitali e cooperative. Il decreto del 2004, allargando i
requisiti che consentono alle società di possedere tale qualifica, ha stabilito che la società è
considerata imprenditore agricolo professionale qualora lo statuto preveda quale oggetto
sociale l’esercizio esclusivo delle attività agricole (art. 1). Alle società in possesso dei requisiti
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Capitolo 3 • Imprenditore agricolo, piccolo imprenditore, artigiano, coltivatore diretto
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di IAP sono estese le agevolazioni tributarie per imposte indirette e quelle creditizie previste
a favore delle persone fisiche qualificate come coltivatori diretti.
È inoltre richiesto che tale qualifica sia posseduta da un numero qualificato di soci:
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— per le società di persone (società semplice e in nome collettivo), è necessario che almeno
un socio sia in possesso della qualifica di imprenditore agricolo professionale. Per le
società in accomandita la qualifica si riferisce ai soci accomandatari;
— per le società cooperative, comprese quelle di conduzione di aziende agricole, la qualifica deve essere in capo ad almeno un quinto dei soci;
— per le società di capitali, almeno un amministratore deve essere imprenditore agricolo
professionale.
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C) L’art. 2135 cod. civ. e la legislazione speciale
5 L’imprenditore ittico
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Dalla coesistenza dell’art. 2135 cod. civ. con altre norme di carattere speciale (come
quelle dianzi citate) deriva che lo stesso art. 2135, con le definizioni in esso contenute,
rimane applicabile come norma generale quando non sussistono, per un determinato settore, norme speciali: conseguentemente deve rilevarsi che la nozione di imprenditore agricolo
non è, per la vigente legislazione, di carattere unitario e valida per tutti i settori.
Si viene così a delineare una situazione anomala, poiché — ad esempio — lo stesso
imprenditore che può essere considerato agricolo secondo la norma generale e anche secondo altre norme speciali, potrà essere — al contrario — considerato commerciale o industriale
in relazione alle norme previdenziali in materia infortunistica (artt. 205-207 del T.U. n. 1124/
1965), oppure in relazione alla disciplina tributaria.
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Il D.Lgs. 18 maggio 2001, n. 226 (orientamento e modernizzazione del settore della
pesca e dell’acquacoltura, a norma dell’art. 7 della legge 5 marzo 2001, n. 57) equipara
all’imprenditore agricolo l’imprenditore ittico, definito come colui il quale «esercita
un’attività diretta alla cattura o alla raccolta di organismi acquatici in ambienti marini,
salmastri e dolci, nonché le attività a queste connesse, ivi compresa l’attuazione degli interventi di gestione attiva, finalizzati alla valorizzazione produttiva e all’uso sostenibile degli
ecosistemi acquatici» (art. 2).
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Le attività connesse — ai fini della modernizzazione e della razionalizzazione del settore
e in ragione della preferenza accordata alla multifunzionalità delle relative aziende e in
particolare per la più rapida e funzionale erogazione delle agevolazioni pubbliche — comprendono (art. 3):
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a) l’imbarco di persone non facenti parte dell’equipaggio su navi da pesca a scopo turisticoricreativo (pescaturismo);
b) le attività di ospitalità, di ristorazione, di servizi, ricreative, culturali finalizzate alla corretta funzione degli ecosistemi acquatici e delle risorse della pesca, valorizzando gli aspetti
socio-culturali del mondo dei pescatori, esercitate da pescatori professionisti singoli o
associati, attraverso l’utilizzazione della propria abitazione o di struttura nella propria
disponibilità (ittiturismo);
c) la prima lavorazione dei prodotti del mare, la conservazione, la trasformazione, la distribuzione e la commercializzazione al dettaglio e all’ingrosso, nonché le attività di promozione
e valorizzazione che abbiano ad oggetto prevalentemente i prodotti della propria attività.
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Parte Prima • I presupposti e la dichiarazione di fallimento
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• In giurisprudenza:
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— «Alla luce del nuovo disposto dell’art. 2135 cod. civ. è equiparato all’imprenditore agricolo
e, come tale, non assoggettabile a fallimento, l’imprenditore ittico che non svolga concretamente attività commerciale, senza che possa rilevare l’impiego di mezzi tecnici, di macchinari
tecnologicamente sofisticati o di ingenti capitali e mezzi finanziari» (T. S.M. Capua Vetere,
23 luglio 2002, in Fallimento, 2003, 1161).
6 Imprenditore agricolo e fallimento
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L’art. 1 L.F., come si è detto, esclude implicitamente l’assoggettabilità al
fallimento (ed alle procedure concorsuali minori) dell’imprenditore agricolo
allorquando l’attività da questi esercitata non sia qualificabile come commerciale.
È difficile comprendere le ragioni per le quali il legislatore ha escluso l’imprenditore
agricolo dall’assoggettabilità alle procedure concorsuali:
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— RAGUSA MAGGIORE ne individua anzitutto una, di origine storica, legata alle forme
tradizionali dell’agricoltura come espansione del diritto di proprietà (ottica in cui l’imprenditorialità dell’esercizio diventava un fatto trascurabile);
— GALGANO ricollega l’esclusione al doppio rischio al quale è assoggettato chi coltiva il
fondo: rischio di impresa in senso tecnico e rischio dell’ambiente in cui la produzione si
svolge (rischio delle avversità atmosferiche);
— MURANO evidenzia minori esigenze di tutela del credito: perché il credito stesso correrebbe un minor pericolo nell’esercizio di un’impresa agricola e perché, comunque, il
ricorso frequente al credito non costituirebbe una pratica costante e necessaria per il
funzionamento produttivo delle aziende agricole, connesso — invece — strettamente al
fondo, alle cui alterne e naturali vicende è collegato il successo della produzione.
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I rilievi anzidetti appaiono superati dall’evoluzione tecnologica e sociale.
L’agricoltura, infatti, ha subìto un vasto processo di industrializzazione ed i suoi operatori
si avvalgono del credito anche in misura analoga a quella degli imprenditori commerciali. La
tecnologia, inoltre, consente di ridurre il rischio degli agenti atmosferici attraverso colture in
serra, prodotti della chimica e sofisticate tecniche di alimentazione in batteria.
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La riforma introdotta dal D.Lgs. n. 228/2001 — come rileva CAMPOBASSO
— seppure ispirata dall’esigenza di contrastare l’abbandono delle campagne
e di favorire lo sviluppo tecnologico dell’agricoltura, «rende ancor più difficile
giustificare la persistente sottrazione al fallimento dell’imprenditore agricolo
medio-grande». Anche DI SABATO non manca di rilevare, in proposito, che la
prevista possibilità di svincolo dell’impresa agricola dalla terra «rende non più
concettualmente differenziabile l’imprenditore agricolo da quello commerciale e ingiustificabili i privilegi accordati per opportunismo legislativo ad attività
che con l’impresa agricola non hanno nulla a che fare».
• In giurisprudenza:
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— «Ai fini della soggezione al fallimento, la qualificazione di un’attività d’impresa come
commerciale o agricola va operata alla stregua delle norme del codice civile e della legge
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Capitolo 3 • Imprenditore agricolo, piccolo imprenditore, artigiano, coltivatore diretto
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fallimentare, e non attraverso il richiamo a norme di settore — quali quelle fiscali o quelle
contributive — che apprestano alla stessa attività una qualificazione di impresa agricola non
suscettibile di generale applicazione, in quanto rispondente alle particolari finalità dei
rispettivi ordinamenti» (Cass., sez. I, 23 ottobre 1998, n. 10527, in Fallimento, 1999, 625).
7 La figura del «piccolo» imprenditore nel codice civile e nella
legge fallimentare
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A) L’art. 2083 cod. civ.
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Il concetto di piccola impresa è dato dal codice ancora una volta in riferimento all’imprenditore: sono così «piccoli imprenditori», ai sensi dell’art. 2083 cod. civ., «il coltivatore diretto del
fondo, l’artigiano, i piccoli commercianti e coloro che esercitano un’attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti la propria famiglia».
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Tale norma qualifica, dunque, preliminarmente e non tassativamente, alcune tra le più
comuni figure di piccoli imprenditori, e cioè:
— i coltivatori diretti;
— gli artigiani;
— i piccoli commercianti.
B) L’articolo 1 della L.F.
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Con l’ultimo inciso la stessa norma fissa poi una regola di carattere generale, nel cui
ambito la prevalenza del lavoro proprio e dei familiari va commisurata sia rispetto al lavoro
altrui che ai capitali impiegati nell’impresa, che serve come criterio di identificazione per
eventuali altre categorie di piccoli imprenditori.
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Il concetto di piccolo imprenditore, tuttavia, non è definito solo dalla citata norma del
codice civile, ma è anche contenuto, e definito in base a criteri totalmente diversi, nella legge
fallimentare.
L’art. 1 di tale legge (R.D. 16 marzo 1942, n. 267) nel testo anteriore alla riforma, infatti,
considerava piccolo imprenditore, ai fini dell’esclusione dalla normativa fissata dalla stessa,
l’imprenditore esercente attività commerciale che fosse stato riconosciuto, in sede di accertamento per l’imposta di ricchezza mobile, titolare di un reddito inferiore al minimo imponibile; oppure — quando fosse mancato l’accertamento — l’imprenditore che avesse investito
nella sua azienda un capitale non superiore a lire 900.000.
In ogni caso, aggiungeva l’articolo, non sono mai considerati piccoli imprenditori le società commerciali.
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La riforma del 2006 ha sostanzialmente modificato la nozione di piccolo imprenditore,
fornendone una definizione negativa. Secondo il nuovo art. 1 non sono piccoli imprenditori
gli esercenti un’attività commerciale, in forma individuale o collettiva che:
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— abbiano effettuato investimenti nell’azienda per un capitale di valore superiore a euro 300.000;
— abbiano realizzato, in qualunque modo risulti, ricavi lordi calcolati sulla media degli
ultimi tre anni o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, per un ammontare complessivo annuo superiore a euro 200.000.
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Questi due parametri, di natura quantitativa, sono previsti alternativamente.
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Parte Prima • I presupposti e la dichiarazione di fallimento
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C) I rapporti tra le due norme
Come appare evidente, diversi sono i criteri adottati nell’una e nell’altra norma, infatti:
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— nella legge fallimentare, sia prima sia dopo la riforma, si ha riguardo, quale indice delle
dimensioni dell’impresa, a parametri legati alla quantità: di reddito prodotto dall’imprenditore, nella disciplina previgente; di patrimonio investito nell’azienda e di ricavi conseguiti, nel testo novellato (criteri c.d. «quantitativi»);
— nel codice civile, invece, si ha riguardo al modo in cui quel reddito è prodotto, e cioè alla
circostanza che l’imprenditore si avvalga del lavoro proprio e dei componenti la propria
famiglia (criterio c.d. «qualitativo»).
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Dalla diversità dei due criteri utilizzati in riferimento alla medesima figura giuridica è derivato,
nella vigenza della normativa ante riforma, il problema pratico di conciliare le due disposizioni,
in quanto ad un imprenditore che si avvalesse del lavoro proprio e dei componenti della propria
famiglia (art. 2083 c.c.) poteva — in concreto — essere accertato un reddito superiore al limite
stabilito dall’art. 1 (che nel testo non novellato era il reddito minimo imponibile).
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Al riguardo erano state avanzate — in dottrina — varie e discordanti teorie:
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a) Teoria della prevalenza della legge fallimentare (FERRARA, GRECO)
Per tali Autori la norma della legge fallimentare, che è legge speciale e anche posteriore, aveva
abrogato quella del codice, per cui il concetto di piccolo imprenditore era definito soltanto
dall’art. 1 L.F. Questa teoria, però, veniva unanimemente respinta dalla restante dottrina.
Es
b) Teoria della prevalenza dell’art. 2083 (JAEGER)
Per tale Autore, chi non era piccolo imprenditore ai sensi dell’art. 2083 era assoggettabile
alla procedura concorsuale anche se godeva di un reddito inferiore al minimo imponibile, o aveva investito un capitale non superiore alle 900.000 lire.
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c) Teoria della coesistenza (ANDRIOLI, FERRI)
Per tali Autori le due norme coesistevano con valore ed applicazione diverse: alla norma
del codice civile doveva aversi riguardo in relazione all’obbligo di registrazione ed alla
tenuta delle scritture contabili; ai fini della dichiarazione di fallimento, invece, si doveva
tener conto della norma della legge fallimentare.
d) Teoria della vicendevole integrazione (FRANCESCHELLI, GRAZIANI)
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Secondo tale teoria le due norme, oltre che coesistere, si integravano a vicenda. Pertanto,
dovevano ritenersi esclusi dal fallimento:
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— sia l’imprenditore titolare di un reddito inferiore a quello stabilito dalla legge fallimentare;
— sia il piccolo imprenditore di cui all’art. 2083 cod. civ.
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e) Teoria di BIGIAVI e di MINERVINI
Secondo questa teoria, la nozione di piccolo imprenditore commerciale doveva dedursi
dall’art. 1 L.F. e la nozione di coltivatore diretto dall’art. 1647 cod. civ. Invece l’art. 2083
cod. civ. aveva una portata più generale limitandosi a fissare un principio di massima,
ispiratore di tutta la disciplina, e concretamente applicabile alle figure residue (piccolo
silvicoltore o piccolo allevatore).
C
op
I problemi connessi ai rapporti tra le due norme erano stati parzialmente superati con
l’entrata in vigore della riforma fiscale (D.P.R. 29 settembre 1973, n. 597), la quale aveva
abolito l’imposta di ricchezza mobile, assorbendola nell’imposizione globale del reddito delle persone fisiche. In tale prospettiva era dunque venuta meno la possibilità di utilizzare il
primo dei criteri indicati dall’art. 1 L.F., in forza dell’eliminazione del criterio di tassazione
che ne costituiva il presupposto.