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CAPITOLO SECONDO
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ALTRI STRUMENTI CONVENZIONALI
ADOTTATI NELL’AMBITO DELL’ONU
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Sommario: 1. La codificazione dei diritti umani nel sistema delle Nazioni Unite. - 2.
La Convenzione per la prevenzione e punizione del crimine di genocidio. - 3. La
Convenzione per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale. - 4. La
Convenzione relativa allo status dei rifugiati. - 5. La Convenzione per l’eliminazione
di ogni forma di discriminazione verso le donne. - 6. La Convenzione contro la tortura e altri trattamenti crudeli, inumani e degradanti. - 7. La Convenzione sui diritti del
fanciullo.
1. LA CODIFICAZIONE DEI DIRITTI UMANI NEL SISTEMA
DELLE NAZIONI UNITE
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Il processo di sviluppo del sistema ONU di protezione di diritti umani
non si è concluso con l’adozione dei due Patti internazionali. Il lavoro di
codificazione è proseguito, ed è tuttora in corso, grazie all’impulso della
Dichiarazione universale e dei Patti internazionali, con l’adozione di innumerevoli convenzioni multilaterali sui diritti umani.
L’opera di codificazione si è sostanziata in strumenti convenzionali caratterizzati da una maggiore specializzazione: convenzioni a tutela di singoli diritti (pena di morte, tortura etc.) e di specifiche categorie di individui
particolarmente bisognosi di tutela (fanciulli, rifugiati, donne etc.). L’evoluzione del diritto internazionale dei diritti umani è avvenuta anche su base
locale, con l’adozione di convenzioni regionali, ossia con ambito spaziale
limitato ad aree geografiche specifiche (Convenzione europea dei diritti
dell’uomo del 1950, Convenzione americana del 1969, la Carta africana dei
diritti dell’uomo e dei popoli del 1981 etc.).
Tra i principali atti internazionali negoziati dalle Nazioni Unite in materia di diritti umani, troviamo:
— Convenzione per la prevenzione e punizione del crimine di genocidio;
— Convenzione per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale;
— Convenzione relativa allo status dei rifugiati;
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Capitolo Secondo - Altri strumenti convenzionali adottati nell’ambito dell’ONU
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— Convenzione per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione verso
le donne;
— Convenzione contro la tortura e altri trattamenti crudeli, inumani e degradanti;
— Convenzione sui diritti dell’infanzia.
La maggior parte di tali convenzioni, adottate dall’Assemblea generale
delle Nazioni Unite, sono state anticipate da dichiarazioni di principi, relative all’individuazione di valori guida per la successiva codificazione.
2. LA CONVENZIONE PER LA PREVENZIONE E PUNIZIONE
DEL CRIMINE DI GENOCIDIO
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Si tratta del primo strumento convenzionale sui diritti umani adottato
dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 9 dicembre 1948, con risoluzione 260 (III).
Nell’immediato dopoguerra, di fronte alla tragedia umanitaria dello sterminio e della persecuzione degli ebrei, le Nazioni Unite decisero di dedicare al genocidio, inizialmente inserito nella categoria dei crimini contro l’umanità secondo la struttura data dal Tribunale militare di Norimberga, una convenzione ad hoc preceduta dalla risoluzione 96 dell’11 dicembre 1946 nella
quale l’Assemblea generale dichiarava che il genocidio è “un crimine di
diritto internazionale, contrario allo spirito e ai fini dell’ONU e condannato
dal mondo civile”.
Con la Convenzione per la prevenzione e punizione del crimine di genocidio, entrata in vigore il 12 gennaio 1951, il genocidio diviene una fattispecie autonoma e specifica.
La Convenzione, all’articolo 1, stabilisce che il genocidio è un crimine
internazionale sia se commesso in tempo di guerra sia in tempo di pace e
che, come tale, va punito perseguendo tutti i responsabili “sia che rivestano
la qualità di governanti costituzionalmente responsabili o che siano funzionari pubblici o individui privati” (art. 4).
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Che cosa di intende per genocidio?
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Secondo l’articolo 2 della Convenzione per genocidio si intende “ciascuno degli atti seguenti,
commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico,
razziale o religioso, come tale:
a) uccisione di membri del gruppo;
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b) lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo;
c) il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la
sua distruzione fisica, totale o parziale;
d) misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo;
e) trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro”.
La Convenzione è diretta a punire non solo il reato di genocidio in senso stretto, come definito
nell’art. 2, ma anche i seguenti atti: “l’intesa e l’incitamento diretto e pubblico mirante a commettere genocidio; il tentativo e la complicità nel genocidio” (art. 3).
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La competenza a processare le persone accusate di genocidio o, dei reati
di cui all’articolo 3, spetta ai “tribunali competenti dello Stato nel cui territorio l’atto è stato commesso o al tribunale penale internazionale competente se le Parti contraenti ne hanno riconosciuto la giurisdizione” (art. 6).
Per ciò che concerne le misure di garanzia e controllo, la Convenzione
prevede che “ogni Parte contraente può invitare gli organi competenti delle
Nazioni Unite a prendere, ai sensi della Carta delle Nazioni Unite ogni misura che essi giudichino appropriata ai fini della prevenzione e della repressione degli atti di genocidio o di uno qualsiasi degli altri atti elencati all’articolo 3”.
Infine, l’articolo 9 prevede la possibilità di sottoporre alla Corte internazionale di Giustizia, su richiesta di una delle parti coinvolte, “le controversie tra le Parti contraenti, relative all’interpretazione, all’applicazione o
all’esecuzione della Convenzione, comprese quelle relative alla responsabilità di uno Stato per atti di genocidio o per uno degli altri atti elencati
all’articolo 3”.
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3. LA CONVENZIONE PER L’ELIMINAZIONE DI OGNI FORMA
DI DISCRIMINAZIONE RAZZIALE
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La necessità di condannare i fenomeni di intolleranza razziale, come il
sistema di apartheid diffuso in Sud Africa alla fine del 1960, indusse l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ad emanare un’apposita risoluzione
(n. 1510 del 12 dicembre 1960) nella quale si auspicavano nuovi impegni
per lottare contro la discriminazione razziale. Su questa base, la Commissione per i diritti umani predispose un progetto di Dichiarazione approvato
dall’Assemblea generale il 20 novembre 1963.
Tale dichiarazione di principi diede l’impulso per l’approvazione di due
importanti strumenti convenzionali, la Convenzione per la punizione e la
repressione dell’apartheid (adottata il 30 novembre 1973 ed entrata in
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vigore il 18 giugno 1976) e la Convenzione per l’eliminazione di ogni
forma di discriminazione razziale. Il testo di quest’ultima Convenzione
fu adottato dall’Assemblea generale il 21 dicembre 1965 con risoluzione
2106 (III) ed è entrato in vigore il 4 gennaio 1969. La Convenzione è entrata
in vigore in Italia il 4 febbraio 1976 in seguito all’apposita ratifica del 13
ottobre 1975 (legge n. 654).
L’art. 1 della Convezione definisce la discriminazione razziale come
“ogni distinzione, esclusione, restrizione o preferenza fondata sulla razza, il
colore, la discendenza o l’origine nazionale o etnica…”. Si riferisce quindi
ad un concetto ampio di discriminazione sebbene l’art. 3 focalizzi l’attenzione soprattutto sulla segregazione razziale e l’apartheid (smantellato nel
1994).
Gli Stati aderenti, secondo l’art. 2 della Convenzione, si impegnano a:
— astenersi da qualsiasi atto o pratica di discriminazione razziale;
— non incoraggiare, difendere o appoggiare la discriminazione razziale;
— prendere misure efficaci per rivedere, modificare o abrogare politiche
governative, leggi e regolamenti che hanno per effetto la discriminazione razziale.
Per quanto concerne le procedure di controllo, la Convenzione all’art. 8,
istituisce il Comitato sull’eliminazione della discriminazione razziale,
composto da 18 esperti indipendenti eletti dagli Stati parte a titolo individuale con il compito di esaminare i rapporti periodici — presentati al Segretario generale dell’ONU entro un anno dall’entrata in vigore della Convenzione e, successivamente, ogni due anni e su richiesta del Comitato stesso — i ricorsi interstatuali ed i ricorsi individuali.
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Qual è la procedura da seguire per i ricorsi interstatuali e per quelli individuali?
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I ricorsi interstatuali hanno inizio con l’appello al Comitato da parte di uno Stato contraente
che ritiene inadempiente un altro Stato parte. Entro tre mesi, lo Stato destinatario deve sottoporre al Comitato le sue spiegazioni o dichiarazioni scritte sulla questione. Se entro i sei mesi
successivi alla comunicazione iniziale, la questione non è stata risolta con soddisfazione di
entrambi gli Stati coinvolti, questi possono deferirla nuovamente al Comitato che, dopo aver
accertato l’esaurimento di tutti i rimedi interni, può occuparsi della questione chiedendo agli
Stati coinvolti tutte le informazioni necessarie. Il Comitato, previo consenso degli Stati parte
interessati, può designare una Commissione di conciliazione ad hoc composta da cinque membri, incaricati a titolo individuale e nominati di concerto con gli Stati stessi, per la soluzione
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amichevole della questione. La Commissione presenta un rapporto al Presidente del Comitato
che, a sua volta, lo invia agli Stati parte interessati; questi ultimi, entro tre mesi dalla ricezione
del rapporto, devono informare il Presidente del Comitato se accettano i termini del rapporto
della Commissione.
I ricorsi individuali, invece, possono essere esperiti davanti al Comitato solo previa dichiarazione di accettazione da parte dello Stato contraente. La procedura si conclude con l’invio, da
parte del Comitato, dei “propri suggerimenti ed eventuali raccomandazioni allo Stato contraente interessato e all’autore della petizione”.
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4. LA CONVENZIONE RELATIVA ALLO STATUS DEI RIFUGIATI
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I grandi flussi di profughi scaturiti dalla seconda guerra mondiale avevano focalizzato l’attenzione sulla questione relativa alla tutela dei rifugiati
e degli apolidi, ossia degli individui privi, di fatto i primi e di diritto i secondi, della protezione dello Stato.
L’ECOSOC aveva incaricato un apposito Comitato di redigere un testo
preliminare di Convenzione in materia, da questi lavori scaturì la Convenzione relativa allo status dei rifugiati, adottata a Ginevra il 28 luglio 1951
e entrata in vigore sul piano internazionale il 22 aprile 1954 (ratificata dall’Italia con L. n. 722 del 24 luglio 1954 ed entrata in vigore il 13 febbraio
1955). La Convenzione relativa allo status degli apolidi fu, invece, ultimata durante una nuova Conferenza di plenipotenziari convocata nel mese
di settembre del 1954, adottata il 28 settembre dello stesso anno ed entrata
in vigore il 6 giugno 1960.
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La Convenzione relativa allo status dei rifugiati è suddivisa in sette capitoli più un allegato ed un fac-simile di documento di viaggio:
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— il primo capitolo (artt. 1-11) disciplina l’ambito di applicazione soggettivo e oggettivo
della Convenzione e contiene i principi fondamentali sul trattamento dei rifugiati. Per ciò
che concerne l’ambito di applicazione, le disposizioni della Convenzione si applicano
solo “a seguito degli avvenimenti verificatisi prima del primo gennaio 1951 in Europa”
oppure anche “altrove” se lo Stato contraente, “all’atto della firma, della ratifica o dell’adesione, farà una dichiarazione circa l’estensione che intende attribuire a tale espressione”. Questa limitazione è stata superata con l’adozione, il 31 gennaio 1967, del Protocollo
relativo allo status dei rifugiati. Gli Stati aderenti a tale Protocollo, entrato in vigore il 4
ottobre 1967, applicano le disposizioni della Convenzioni a tutti coloro che rivestono lo
status di rifugiati senza limiti di tempo o restrizioni geografiche (in Italia il protocollo è
entrato in vigore il 26 gennaio 1972);
— il secondo capitolo della Convenzione (artt. 12-16) stabilisce alcune garanzie relative allo
status di rifugiato.
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— il terzo capitolo (artt. 17-19) disciplina le attività lucrative (attività subordinate, autonome
o professioni liberali);
— il quarto (artt. 20-24) garantisce i rifugiati in materia di assistenza sociale (alloggio, istruzione, assistenza pubblica, sicurezza sociale etc);
— il quinto capitolo (artt. 25-34) disciplina gli aspetti amministrativi e fiscali relativi al rifugiato stabilendo, all’articolo 32, il “divieto di espulsione” del rifugiato a meno che non
siano presenti motivi di sicurezza nazionale o di ordine pubblico; e, all’articolo 33, il
divieto di “espulsione” verso i confini di territori in cui la vita e la libertà del rifugiato
sarebbero minacciate;
— la Convenzione si conclude con le disposizioni di attuazione e di funzionamento (firma,
ratifica, adesione, etc) contenute rispettivamente nel sesto e nel settimo ed ultimo capitolo
(artt. 35-37 e artt. 38-46). L’Allegato finale disciplina il rilascio, la validità, la proroga ed
il trattamento fiscale del documento di viaggio.
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Il riconoscimento dello status di rifugiato, è legato al ricorrere di una
serie di condizioni indicate in modo generale ed astratto nella Convenzione.
Le clausole di inclusione si collegano a tre requisiti:
— il fondato timore di persecuzione sulla base dei motivi elencati nell’art.
1.A della Convenzione;
— l’allontanamento dal Paese di origine;
— la mancanza di protezione da parte dello Stato di origine.
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5. LA CONVENZIONE PER L’ELIMINAZIONE DI OGNI FORMA
DI DISCRIMINAZIONE VERSO LE DONNE
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L’uguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne è proclamata sin dal
preambolo della Carta delle Nazioni Unite e, in particolare, nell’articolo 8,
che afferma “l’ammissibilità di uomini e donne negli organi principali e
sussidiari, in qualsiasi qualità ed in condizione di uguaglianza”.
Tale parità è stata ribadita nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e nella Convenzione sui diritti politici della donna approvata dall’Assemblea generale dell’ONU il 20 dicembre 1952 e, successivamente,
nel Patto internazionale sui diritti civili e politici.
L’esigenza di dare ulteriore specifica ai diritti delle donne, condusse alla
Dichiarazione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna adottata dall’Assemblea generale dell’ONU il 7 novembre 1967. Tale dichiarazione diede l’impulso per l’adozione, a New York, il
18 dicembre 1979 della Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di
discriminazione nei confronti della donna, entrata in vigore sul piano
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internazionale il 3 settembre 1981. Tale trattato è stato ratificato dall’Italia
il 14 marzo 1985 con L. n. 132 ed è entrato in vigore il 10 luglio dello stesso
anno.
Con la Convenzione gli Stati parte intendono perseguire, con ogni mezzo appropriato, una politica atta a garantire l’uguaglianza politica, economica, sociale e civile tra uomini e donne impegnandosi in particolare a:
— iscrivere, se non già presente, e applicare nel proprio ordinamento nazionale il principio di parità tra uomini e donne;
— proteggere le donne da ogni atto discriminatorio garantendo la protezione giurisdizionale su un piano di parità con gli uomini;
— astenersi da atti o pratiche discriminatori nei confronti delle donne;
— prendere ogni misura adeguata per eliminare pratiche, leggi, disposizioni, regolamenti o consuetudini discriminanti verso le donne.
Le disposizioni della Convenzione prevedono l’eliminazione progressiva delle discriminazioni nei confronti delle donne nel godimento dei diritti
relativi al campo dell’educazione, del lavoro, della vita pubblica e politica,
della sicurezza sociale, della sanità, della vita familiare e ad altri campi.
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La Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della
donna, aveva previsto originariamente tra i meccanismi di controllo solo l’esame dei rapporti
periodici presentati dagli Stati parte al Comitato omonimo istituito dall’articolo 17 del trattato
stesso. Tale Comitato, composto da 23 esperti indipendenti, può formulare anche “suggerimenti e raccomandazioni generali sull’esame dei rapporti e delle informazioni ricevuti dagli
Stati parte”. Tuttavia, con l’adozione il 6 ottobre 1999 del Protocollo facoltativo alla Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna, entrato in
vigore il 22 dicembre 2000, si è colmata la lacuna relativa ai meccanismi a garanzia e controllo
di tali diritti. Si prevede così la possibilità anche per gli individui o i gruppi di utilizzare il
sistema dei ricorsi individuali per denunciare al Comitato eventuali violazioni in base all’iter
procedurale che ricalca le disposizioni del primo Protocollo al Patto internazionale sui diritti
civili e politici. Nell’ambito di tale procedura, il Comitato può indicare allo Stato coinvolto le
“misure urgenti” da adottare per impedire che la vittima subisca un pregiudizio irreparabile. Al
termine della procedura, il Comitato trasmette le sue “considerazioni” sulla base delle quali lo
Stato deve comunicare le misure adottate per adeguarsi alle stesse.
Il Protocollo facoltativo prevede anche la possibilità di ricorrere ad un’inchiesta riservata
nei confronti dello Stato interessato in seguito ad informazioni ricevute su violazioni gravi e
sistematiche dei diritti disciplinati dalla Convenzione. Tale procedura poteva essere esclusa
dagli Stati parte al momento della ratifica e dell’adesione, possibilità di cui non si è avvalso
ancora nessuno Stato.
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6. LA CONVENZIONE CONTRO LA TORTURA E ALTRI TRATTAMENTI CRUDELI, INUMANI E DEGRADANTI
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A) Le disposizioni della Convenzione
Adottata dall’Assemblea generale dell’ONU il 10 dicembre 1984 ed
entrata in vigore il 26 giugno 1987, la Convenzione contro la tortura e
altri trattamenti crudeli, inumani e degradanti era stata anch’essa preceduta da una dichiarazione di principi.
L’Italia ha ratificato la Convenzione il 3 novembre 1988 con L. n. 498
ed è entrata in vigore l’11 febbraio 1989.
La Convenzione definisce la “tortura” come “qualsiasi atto mediante il
quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze acute, fisiche e mentali…” da parte di un agente della funzione pubblica o da
ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale (art. 1). La Convenzione si
applica anche ad “altri atti costitutivi di pena o trattamenti crudeli, disumani
o degradanti che non sono atti di tortura” (art. 16) se commessi dai medesimi soggetti indicati nell’articolo 1. La nozione di tortura contenuta dalla
Convenzione esclude, invece, le sofferenze o il dolore risultanti “unicamente
da sanzioni legittime” eliminando anche il riferimento alle cosiddette “regole minime standard per il trattamento dei detenuti” (adottate nel 1955 dal
Congresso dell’ONU sulla prevenzione del crimine e sul trattamento dei
delinquenti e successivamente approvate dall’ECOSOC) indicato, invece,
dalla “Dichiarazione di principi sulla protezione di tutte le persone contro la
tortura e altre pene o trattamenti crudeli, disumani e degradanti”.
Gli Stati contraenti della Convenzione si impegnano, in particolare, a:
— adottare “misure legislative, amministrative, giudiziarie e altre misure
efficaci” per impedire che in tutto il territorio nazionale siano commessi
atti di tortura (art. 2);
— non espellere, respingere o estradare una persona verso un altro Stato
ove ci sono dei seri motivi che essa rischi di essere sottoposta alla tortura (art. 3);
— assicurare che tutti gli atti di tortura siano considerati infrazioni secondo
la sua legge criminale e quindi passibili di pene appropriate (art. 4);
— estradare il presunto autore di un’infrazione oppure di sottoporlo, se del
caso, alle autorità nazionali competenti per l’esercizio dell’azione penale (art. 7).
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B) Il Comitato contro la tortura
Per ciò che concerne le procedure di controllo e garanzia dell’osservanza della Convenzione, l’articolo 17 istituisce il Comitato contro la tortura, composto da 10 esperti indipendenti che risiedono a titolo personale,
competente ad esaminare i rapporti periodici degli Stati parte (art. 19), le
denunce provenienti da questi ultimi attraverso il sistema dei risorsi interstatuali (art. 21) nonché le denuncie degli individui che ricorrono ai ricorsi
individuali (art. 22).
Questi ultimi due sistemi di garanzia sono esperibili previa dichiarazione di accettazione da parte degli Stati contraenti. Per l’entrata in vigore dei
ricorsi interstatuali e individuali la Convenzione prevedeva il deposito di
almeno cinque dichiarazioni di accettazione, condizione che si è avverata
contestualmente all’entrata in vigore della stessa (l’Italia ha provveduto all’accettazione il 10 ottobre 1989).
Per ciò che concerne l’iter procedurale si rimanda alle modalità previste
dal Patto internazionale sui diritti civili e politici e dal primo Protocollo
addizionale a tale Patto che le ricalcano quasi integralmente.
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C) I meccanismi di garanzia previsti dal Protocollo facoltativo
Uno dei punti deboli del sistema di monitoraggio del Comitato è l’effettiva impossibilità di analizzare le situazioni denunciate tramite fonti e informazioni dirette. Il potere di inchiesta di tale organo è, infatti, subordinato al
consenso degli Stati parti; in mancanza di questo, il Comitato può basare le
sue conclusioni e raccomandazioni soltanto su informazioni indirette, provenienti da terzi, quali organizzazioni non governative impegnate nella difesa dei diritti umani o, addirittura, dagli stessi Stati chiamati in causa. Per
ovviare a tale limite, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha adottato,
il 18 dicembre 2002, il Protocollo facoltativo alla Convenzione contro la
tortura. Il Protocollo introduce un sistema di visite regolari, condotto da un
Sotto-comitato appositamente istituito, nei luoghi in cui individui sono privati della libertà, al fine di prevenire atti di tortura o altri trattamenti o punizioni crudeli, inumani o degradanti.
Mediante la ratifica del Protocollo, gli Stati si impegnano ad aprire a
visite e controlli periodici i luoghi in cui individui sono privati della libertà,
mediante un meccanismo di controllo parallelo.
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7. LA CONVENZIONE SUI DIRITTI DEL FANCIULLO
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A) Le disposizioni della Convenzione
I minori – in quanto frequentemente soggetti ad abusi e crimini – sono
sempre stati maggiormente tutelati dalla comunità internazionale. Già nel
1924 nell’ambito dell’allora Società delle Nazioni Unite era stata adottata,
infatti, una Dichiarazione sui diritti del fanciullo.
I diritti del fanciullo sono stati enunciati successivamente dalla Dichiarazione universale dei diritti umani, in particolar modo negli articoli 23 e
24, e ribaditi nella Dichiarazione sui diritti del fanciullo adottata dall’Assemblea generale dell’ONU il 20 novembre 1959 con risoluzione 1386.
La codificazione dei diritti del fanciullo è avvenuta gradualmente fino
all’adozione di una convenzione ad hoc, la Convenzione sui diritti del
fanciullo, adottata a New York il 20 novembre 1989 con la risoluzione 44/
25 ed entrata in vigore il 2 settembre 1990. L’Italia l’ha ratificata con L. 176
del 27 maggio 1991 ed è entrata in vigore il 5 ottobre 1991.
La Convenzione disciplina i diritti del fanciullo inteso come “ ogni essere umano in età inferiore ai diciotto anni, a meno che, secondo le leggi del
suo Stato, sia divenuto prima maggiorenne” (art. 1).
Gli Stati contraenti si impegnano ad assicurare al fanciullo, attraverso
ogni misura appropriata, la protezione contro ogni forma di violenza fisica
e mentale e le cure necessarie per il pieno e armonioso sviluppo psico-fisico. Tra le forme di violenza ed abusi sono contemplate anche lo sfruttamento nel lavoro e quello sessuale.
La Convenzione considera il fanciullo “soggetto attivo” della vita sociale cui sono riconosciuti innumerevoli diritti come il diritto ad un’identità ed
una nazionalità, il diritto all’educazione, all’espressione, di pensiero, coscienza, religione, al riposo, allo svago e alla sicurezza sociale.
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B) La procedura di controllo e garanzia
Per quanto riguarda le procedure di controllo e garanzia, la Convenzione sui diritti del fanciullo non prevede la possibilità di esperire, in caso di
inosservanza delle disposizioni convenzionali, il sistema dei ricorsi interstatuali ed individuali. È invece previsto il sistema dei rapporti periodici
che gli Stati parte devono presentare al Comitato dei diritti del fanciullo,
composto da dieci esperti indipendenti (diventati 18 in seguito ad un emendamento approvato dall’Assemblea generale il 21 dicembre 1995).
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Al fine di effettuare studi approfonditi in materia di diritti dell’infanzia
e per quesiti specifici, il Comitato si avvale, in particolare, della collaborazione dell’UNICEF (Fondo internazionale delle Nazioni Unite per l’infanzia), l’organo sussidiario dell’ONU, che sin dal 1946 si occupa di difendere
i diritti dei bambini e dei minori e di assistere i governi per l’applicazione di
tali diritti. Sulla base delle informazioni ricevute dagli Stati contraenti o
dagli organi e istituti specializzati dell’ONU, il Comitato “può formulare
suggerimenti e raccomandazioni” che saranno trasmessi “ad ogni Stato parte interessato e sottoposti all’attenzione dell’Assemblea generale unitamente agli eventuali commenti degli Stati parte” (art. 45).
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C) I Protocolli facoltativi
La Convenzione sui diritti del fanciullo è stata completata da due successivi protocolli facoltativi relativi rispettivamente al coinvolgimento dei
fanciulli nei conflitti armati e nella prostituzione e pornografia.
Il Protocollo facoltativo concernente il coinvolgimento dei fanciulli
nei conflitti armati, adottato il 25 maggio 2000 con risoluzione 54/263 ed
entrato in vigore, sul piano internazionale, il 12 febbraio 2002, nasce dall’esigenza di disciplinare i diritti dei minori nei conflitti armati non sufficientemente protetti con la Convenzione sui diritti del fanciullo. Quest’ultima, infatti, stabilisce all’articolo 38 il divieto di arruolamento e di partecipazione ai conflitti armati solo per i fanciulli che non hanno raggiunto i 15
anni di età.
Con il Protocollo il divieto di impegno nelle ostilità è esteso ai minori di
18 anni. Si aggiunge, inoltre, l’impegno degli Stati parte di innalzare l’età
di reclutamento volontario nei conflitti rispetto ai 15 anni previsti dalla
Convenzione.
Di fronte al fenomeno crescente dello sfruttamento dei minori a scopo
di vendita, prostituzione o pornografia, era sorta la necessità di adottare un
successivo atto che approfondisse le disposizioni della Convenzione. Così
l’Assemblea generale dell’ONU il 25 maggio 2000 ha adottato il secondo
Protocollo facoltativo alla Convezione sui diritti del fanciullo concernente la vendita di fanciulli, la prostituzione e la pornografia minorile
entrato in vigore il 18 gennaio 2002. L’Italia ha ratificato entrambi i Protocolli con L. 11 marzo 2002, n. 46 che entrano, così, in vigore nel nostro
Paese, il 9 giugno 2002.
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A
Capitolo Secondo - Altri strumenti convenzionali adottati nell’ambito dell’ONU
S.
p.
Gli Stati contraenti hanno l’obbligo di reprimere con sanzioni penali
adeguate gli atti vietati ai sensi del Protocollo e di adottare tutte le misure
necessarie per proteggere i minori da tali reati.
Glossario
li
br
i
Apartheid: politica di segregazione razziale tesa ad impedire l’esercizio di numerosi diritti e libertà fondamentali (circolazione, soggiorno, voto etc.) ad una parte della popolazione, discriminata in base alla sola diversità razziale.
È stata praticata soprattutto nella Repubblica del Sudafrica dove ha trovato, addirittura,
una compiuta disciplina legislativa.
Le numerose pressioni della Comunità internazionale e soprattutto dell’ONU, che ha condannato la politica di apartheid isolando economicamente il Sud Africa (politica delle sanzioni), nonché l’evoluzione politica all’interno del paese hanno portato al superamento
dell’apartheid.
Es
se
Codificazione: è la raccolta sistematica e ordinata, in un corpus di regole scritte, delle
norme consuetudinarie di diritto internazionale.
La codificazione è un fattore di accertamento e di riformulazione del diritto positivo e,
quindi, anche uno strumento di sviluppo del diritto internazionale.
Il processo di codificazione è svolto principalmente sotto l’egida della Commissione di
diritto internazionale (CDI) organo dell’ONU.
C
op
yr
ig
ht
©
Controllo parallelo: è un meccanismo basato, da un lato, sull’istituzione del Sotto-comitato per la prevenzione della tortura, dall’altro — ed è questa la novità rispetto al sistema di
monitoraggio previsto dalla Convenzione europea sulla tortura — sulla istituzione, in ogni
Stato parte, di uno o più meccanismi nazionali preventivi (National Preventive Mechanisms) composti da personale esperto e qualificato. Il Sotto-comitato ha il mandato di: visitare i luoghi in cui individui siano privati della libertà e formulare raccomandazioni agli Stati
interessati per una migliore tutela di tali individui; fornire aiuto e supporto nell’istituzione
dei Meccanismi; mantenere con questi un contatto diretto e confidenziale, offrendo assistenza tecnica; formulare raccomandazioni e osservazioni per rafforzare la capacità e le
funzioni dei Meccanismi. Gli Stati devono garantire al Sotto-comitato: l’accesso senza
alcuna restrizione a tutte le informazioni riguardanti gli individui privati della libertà e a
tutte le informazioni concernenti il trattamento a cui sono sottoposti; la possibilità di tenere
colloqui privati; la libertà di scegliere i luoghi da visitare e gli individui da intervistare (art.
14). Al termine di ogni visita, il Sotto-comitato comunica le sue raccomandazioni allo
Stato parte interessato e pubblica un rapporto a cui sono uniti gli eventuali commenti dello
Stato. Le attività del Sotto-comitato sono presentate in un rapporto annuale, trasmesso al
Comitato contro la tortura (art. 14).