1 - odio
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I GIOVEDI’ DI SCRITTURA FRESCA Scrittura a soggetto Ia Edizione Da una idea di Dolphy Grafica di Ettore Bilbo Numero Uno 10 Febbraio 2005 O D I O Hanno partecipato: Dario Carta Non si tratta di te Leone Girovagando Sally O-D–I-O Uomo Pallido Odio chi ti ha lasciata sola Rossana Io Rorschach Nicola Martini Un pezzo d’odio Edonista Noi, Due in uno Stefano Dal Pra oDio Ettore Bilbo Vestito Carmen M.R.Di Lorenzo La vendetta per giornata dell’odio Doremi L’odio Quella L’ultima notte Angelo Scotto La trilogia dell’odio Un piano perfetto NON SI TRATTA DI TE scritto da: Dario Carta Quando stavo E solo quando immobile stanavo ogni puntoluce per opprimerlo Allora il sapore basico del palato spendeva tristi prologhi alle lacrime Non era vuoto l’odore sintetico strofinato sul cotone e riempiva le mani del sangue sottopelle a frangere Da non poterle avvicinare - vetro - agli occhi E in quel taglio sottile d’angolo incavo liquido compresso dal sopracciglio carico Mi morivo GIROVAGANDO scritto da: Leone Odiavo tanto le scadenze che mi sono persino inventata un sodalizio con l'eternità sperdendo intorno tutto ciò che l'effimero richiamava. Amavo odori, soffio di aria diversa colta in passeggio tra prode in campagna, o anche di scalogno in sofferenza dentro pentole di cucine a piano terra. Odiavo profumi, i persistenti bastardi, che si celavano in orli di gonne corte o in incavi smerigliati di belle ragazze, nascosti in vaste trappole di reggiseni, di pizzo e neri, per signore in climaterio precoce. Perversi, i profumi sottili, dissolti da altra essenza in doccia che cancella aromi di pelle purificata che il sudore non vuol conoscere. Poi, insieme con, ho odiato la grazia che mi era stata data ad odiare scadenze e patti d'eternità senza poter recuperare fenomeni. Ora, di spalla, qualcuno corregge Anna, lei, che quando l'ho conosciuta, sedeva su tre gradini di spalle ad una casa, guardando querce là su una ripa grigia, tormentando una gonna lasciata sciolta in mille pieghe. Finalmente!, pareva dire lei, stretta in tessuti di diversa struttura e spessore per una vita. E piegava spiegando, parlando di cose ch'io non capivo, diceva persone vive mentre le seppelliva in piega sfogliata, due orli a combaciare. Tutto tenuto in un grembo inventato da due ginocchia in divarico, un incavo le cosce d'origine, due piedi, che neppure l'età o salite o discese erano riusciti ad appiattire, la fine. Ti odio, Anna. O-D-I-O scritto da: Sally Ascolta il mio sussurro, o-dio od-io potrei urlare tutta la rabbia che ribolle sorniona. Lo odi-o devo sputare il disgusto profondo per questa razza immonda? Implacabile l'odio rimane Sulle rovine di ciò che fu Terra. ODIO CHI TI HA LASCIATA SOLA scritto da: Uomo Pallido Io odio chi ti ha lasciata sola, particella di sodio spersa in acqua minerale. Sei così bella. Ti regaleremo qualcuno che ti sappia consolare, un'altra particella da sposare: un bello ione Cl meno - così la vita avrà un po' più di sale. IO, RORSCHACH scritto da: Rossana Volevo un resign. Troppo tardi. Scostai le tende della finestra così che la luce filtrasse dal vetro smerigliato, rendendo ancor più poetica la visione. Un sospiro e la sensazione, il ricordo, la percezione di una macchia La maggioranza avrebbe provato disgusto all’odore aspro e sempre mal tollerato del sangue. Io, assaporandolo, avvertivo invece la pastosità di uva passa che punzecchia la lingua , lasciandoti una secchezza fastidiosa ma desiderabile. Guardai lei e la sua macchia, immagini che si fondevano nel tentativo di riproporre ricordi. Perdendo la definizione , si annullavano i lati oscuri del nostro vivere insieme. Avrei voluto ripiegarla in due, in modo che il rispecchiarsi simmetrico del corpo potesse restituirmi la memoria. Mi inquietava il non riuscire a tracciare una strada cognitiva e legare l'immagine alla psiche. Avevamo vissuto venti anni di convivenza e avevo dato per scontata una conoscenza assoluta. Non era così. Un proiettile apre un’immagine diversa da un coltello ed un suolo marmoreo non assorbe il rosso generato da un corpo esile. Tentai di ricomporre la figura, e ripiegandola evitavo le ombre che distoglievano dall’armoniosità, quasi perfetta, della sua grazia. Nessuno avrebbe potuto smontare la proiezione . Solo io ero l’arbitro insindacabile . Presi la lama, artefice di quell’opera d’arte, e nell’impronta, sbavata sulla carta assorbente, riconsegnavo esattamente la Signora Rorschach del pavimento. Sì, mia moglie. La sindone….Come potevano le antiche culture considerare impuri gli oggetti che erano stati a contatto con i cadaveri? Non me ne capacitai.. L’avevo davanti : l’ulteriore richiamo, la tensione dinamica, assolutamente bilanciata: Specchi di specchi in una simbiotica comunione, ma non completa. Dovevo raggiungere la perfezione. Capii la mancanza. Pulii il coltello, e ricamai una stella nell’avambraccio. La mia uva passa colò, mescolandosi in quel tripudio di vendemmia, mutando l’incompiuta Rorschach La gioia di aver dato soluzione all’enigma di un affetto pregno di dubbi, giustificò la morte. Nessuno mai avrebbe compreso che in una realtà tanto contraddittoria e imprevedibile l’innesto di due macchie ridanno la forma elementare dell’amore. Io, Rorschach, la trovai UN PEZZO D'ODIO scritto da: Nicola Martini L'idea mi girava in testa da un po', volevo rifarmi ad una scena del film Closer. Rimaneggiarla e tirarne fuori un pezzo erotico. I due protagonisti che si fronteggiano dopo la confessione di lei: ho un altro. Intendevo stringere l'attenzione sulla gelosia, rendere l'idea di come, in quel momento preciso, scatti il pugno nello stomaco, la botta forte. Quella della propria donna fra le braccia di un estraneo. Domande, per farsi male. Farne a se stessi in una ricerca spasmodica e veloce del sapere ad ogni costo. Costringendola a rispondere. Ci hai scopato? E' più bravo di me? Ti ha fatta godere? Che gli hai fatto? Le stesse cose che fai a me? E la raffica di risposte. L'odio che monta dal cazzo al cervello, dal cervello al cuore. Schizza come un disperato, e ne vedi le macchie sull'anima. Fratello, ti stanno massacrando, dice una voce che non conosci. E poi non si pretendono più repliche. Mi avvicino. Non sono carezze, è afferrarla e buttarla sul letto. E' baciarla come se la lingua fosse spada, come se la saliva fosse sangue a macchiarle le labbra. Cominciare a fotterla e proseguire a fotterla. Distesa, a braccia aperte. Colpi, solo colpi, colpi dentro. Fino a che le sue braccia si chiudono su di me. Fino a sentirla sussurrare: ti amo. Vedere i suoi occhi di un altro colore, anche se il colore non lo hanno cambiato mai. E la sua voce: non è vero. Non è vero, cosa? Non è vero che ho fatto l'amore con un altro. Il concetto di base era questo, adeguatamente sviluppato a tema odierno, mi pareva potesse funzionare. L'elaborazione della gelosia in momentaneo livore. Al ché ho cominciato a pensarci, col foglio bianco davanti. Ché prima butto giù su carta e poi trasferisco al PC, la primissima stesura è sempre su foglio. Ma il pensiero mi è piombato addosso, mentre vedevo la situazione nella mia testa. L'avevo davanti agli occhi, come se la stessi guardando su un monitor. Il desiderio mi ha preso e non sono riuscito a scriverlo, il pezzo sull'odio. NOI, DUE DI UNO scritto da: Edonista - Ti hanno mai scoperto, amico? O dovrei dire amica?- Fai tu, per me è lo stesso - Ok, allora scelgo amico - Non ho mai fatto nulla per nascondere chi fossi. Qualcuno sapeva. Per altri ho solo utilizzato la tecnica dell’omissione. - E poi? - Poi non ho più omesso - E cosa è successo? - Che sono morto. Ogni tanto ci torno dentro. Un gesto velocissimo rovescia il guanto giallo di gomma e la mia anima cambia sesso. Divento l’uomo sostanzialmente invariato rispetto all’anno precedente, l’amico di un tizio che saluta i treni con la coda di cavallo. Io sono un canto senza padrone. L’ho detto tanto tempo fa e lo confermo. Nel dritto e nel rovescio del guanto. Nella mia anima femmina e maschio. Nell’alternanza dei giochi di ruolo. Io parlo a testa in giù. Sempre. Quando le parole vengono direttamente dalla pancia tanto vale agevolarle. Io sono la risposta sbagliata. A tutte le domande. Probabilmente perché sono l’affermazione. Della negazione. Io sono la mezzanotte del fiume. Aspetto tutte le sere l’uomo in frak. Poi, quando la gardenia si tuffa, andiamo insieme verso il mare. E oltre. Io non ho più fiato per ascoltarmi. Io sono un’intercapedine di parole. Parlo con gli occhi e non mi vedo. Io sono un vespro clandestino. In cerca di una chiesa che obliteri il mio permesso di soggiorno. Io ho infiniti punti dispersi tra le ascisse e le ordinate. Miliardi di ritagli di guanti gialli. Dita vuote nel dritto e nel rovescio di una vita di gomma. Io sono il non vento di un mulino a vento. Io sono la sbarra del passaggio a livello di un binario morto. Osservo immobile. E inalo luoghi dove andare a male. Io ho pensieri di carta pesta che vivono di colori spenti. E muoiono di luce riflessa. Io ho un albero in giardino e un bastoncino di legno alla gola. Il primo mi serve per pensare. Il secondo mi serve per scrivere. Inchiostro finto su pezza. Io sono attento alla cosmetica del nemico. Studio e aggredisco da dentro. Come un virus. Io vivo nel posto del buio e mi nutro di similitudini avverse. Correnti e tentacoli. Io sono l’ago impazzito dentro una bussola di pelle bagnata. Io sono l’acqua del mare. Poi che la bevvi. oDio! scritto da: Stefano Dal Pra Spesso è così: quanto più è scomoda da udire, tanto più una verità è utile da dire André Gide Sono condannata. Sarò eliminata fra poco, e nessuno saprà più di me, e del mio messaggio. Non ho avuto vita facile, mai; ma prima di trovarmi qui, da libera, si poteva dire quel che si voleva, e non si faceva male a nessuno, almeno questo è quel che credo oggi. Sì perché ce n'erano davvero un sacco come noi, e ognuna diceva la sua, con l'effetto buffo d'annullarsi a vicenda, col risultato d'essere, per così dire, quasi mute, come una folla d'oratori al mercato, dove nessuno badi per davvero a quel che si dice o si fa. Poi venne quest'idea dell'ordine. Gran cosa l'ordine. Uno sa com'è fatto il Mondo e così fa ordine. Sa cosa esiste davvero, e sa in quale posto deve stare qualsiasi cosa esista. Così può fare ordine. Che gran comodità, l'ordine! Basta intralci, sgradevoli sorprese, scomodità. Quando c'è ordine si sta tranquilli, e la coscienza può riposare beata, senza darsi pensieri imprevisti. È così che sono finita qui: il Mondo non ammette la mia esistenza. Intendiamoci, non sto mica dicendo che sono un fantasma, o un borborigma di fantasia malata... No, io parlo del Mondo di chi mette ordine: l'ordinatore (permettetemi: permettetemi, solo per questa volta d'abusare un francesismo, cosí per vezzo, e di chiamarlo ordinateur) prende quel che trova, lo riconosce e individua la sua collocazione nel Mondo che sa Lui, e lo mette al suo posto. Poi, una volta, sono capitata io tra i suoi piedi e... Voilà, salta fuori che l'ordinateur non trova un posto per me, per mettermi in ordine. Pensavo che si sarebbe creata una nuova casella, pensavo che una categoria nuova avrebbe figurato nel cristallino Mondo dell'ordinateur, creata per posizionarmici mettendo, anche me, finalmente, in ordine. E invece no. L'ordinateur, non trovando una collocazione comoda, ha concluso che non esisto, che sono fuori dal Mondo, e ha deciso di eliminarmi. Sí perché l'ordinateur ha questo potere, che per fare ordine colloca le cose, e allora sono cose di Mondo, belle in ordine, oppure le elimina perché non esistono, non hanno possibilità d'essere nel Mondo che Lui sa. Ammettermi sarebbe un pericolo per il Mondo (il Mondo con la M maiuscola, è quello dell'ordinateur, il mondo è quello fuori, con tutto quel caos, quel disordine...). Insomma, quando trova qualcosa che non sa dove mettere, l´ordinateur lo elimina, per la salvezza del Mondo. Questa è la legge dell'ordinateur. Eccomi qua, adesso; sono in lista di proscrizione, sto per essere eliminata. Sono un fallimento per il Mondo, sono un'idea fuori dal Mondo e non c'è posto per me, in questo sistema. Sono l'idea che si possa mettere ordine, a questo Mondo VESTITO scritto da: Ettore Bilbo Lei mi odia da quando sono nato, sì più o meno direi da allora. Mi guarda con quegli occhi accesi, la testa reclinata a tre quarti mentre fa tutt'altro. Fa sempre altro mentre mi guarda, deve farmi sapere che io non sono il centro del suo universo ed anche se mai ho voluto esserlo, che c'entra, l'importante è il principio. Sentire addosso questo vestito diventa elettrizzante col tempo, diventa un buon motivo per svegliarsi al mattino e sperare di arrivare a sera. Sentire riprodotti nella mia mente tutti quei bisbigli ed invettive, che mi rivolge nella propria mente, è come potersi raccontare attraverso la voce di qualcun altro. Lei è il mio più grande sostegno e non lo sa. O forse sì... Lei mi odia. Lei, mia madre. LA VENDETTA scritto da: Carmen Maria Rita di Lorenzo La vendetta è l’infausto rigurgito dell’offesa che genera odio. L'ODIO scritto da: Doremì L'odio: quer sentimento che te corazza er core che te fa duro er mento (contrario dell' amore che l'anima te sforma er mento te lo stonda che soridi de norma) ma l'odio è come n'onda de iodio e sale vivo te dà quer gusto strano de sentitte cattivo, feroce, subumano. E sogni la tua festa: incontri er tuo nemico je dai un mozzico in testa j'enfirzi l'ombellico poi legato alla sedia lo lasci, da cojone morire per inedia alla televisione. L’ULTIMA NOTTE Scritto da: Quella Morte per coma etilico. C'era solo una cosa che non quadrava. Una sola. Si sarebbe potuta rivelare una balla, ma quella cosa ancora suonava stonata nella semplicità del caso, un'overdose etilica. Era quasi certo che fosse una balla, l'ispettore Blowing, quasi. Però la madre insisteva: la figlia era astemia, l'avrebbe gridato fino alla morte. L'aveva dichiarato sin dal giorno del referto dell'autopsia, sconvolta dalle cause che avevano determinato la morte. L'aveva ripetuto con determinazione ancora quella mattina quando, in centrale, era ritornata alla carica. Tossica sì, fino al midollo, dieci anni di calvario, lo sapeva bene la madre. Una vita dentro e fuori dalle comunità, fuori e dentro casa. Furtarelli, prostituzione. Il solito curriculum. Come odiare se stessi e rendersi infelici. Le prime testimonianze confermavano. La Tonelee tossica lo era senza ombra di dubbio. E confermavano anche che l'alcol la disgustava addirittura, mai nemmeno un bicchierino. Era possibile? L'ispettore Blowing ne aveva conosciuti pochi di tossici astemi. Magari non erano tutti accaniti bevitori, no, non era affatto detto che fossero alcolisti, ma non era necessario esserlo per farsi come spugne ogni tanto, magari per accompagnare l'ultimo viaggetto. Tutto sommato, lui non ci credeva. Vanessa Tonelee era un'indiana nativa americana, un'emarginata, una tossica, una prostituta, una sbandata, e l'alcolismo era una delle piaghe della comunità. E una madre è sempre una madre. L'ultima persona ad averla vista, proprio in quella stanza dove avevano rinvenuto il cadavere, era stato l'uomo con cui aveva passato la notte. L'avevano già interrogato. Uno sfigato, una nullità. Barbiere, cinquantasette anni, l'aria dimessa e grigia dello scapolo abitudinario, viveva del suo lavoro. Nessun precedente penale. Non avevano fatto troppa fatica a rintracciarlo. Andava abitualmente con le prostitute della zona, non aveva avuto problemi ad ammetterlo. Il nome della Tonelee non gli diceva niente, o almeno così affermava. Ma dalle foto l'aveva riconosciuta. L'aveva lasciata all'albergo, una topaia, verso la una di notte. Il decesso risaliva a qualche ora dopo. Le dichiarazioni degli altri clienti dell'albergo a ore facevano riferimento a un tramestio, non proprio delle urla, anzi, qualcosa che era sembrato più che altro un festino, insomma rumori. Normale amministrazione in un posto come quello. Quel casino proveniente dalla stanza della coppia occasionale, sempre secondo le testimonianze, era cessato più o meno intorno all'ora in cui Virgil Wolf aveva dichiarato di essersene andato dopo aver pagato la ragazza. Erano arrivati alle undici, aveva detto. Per scaldare la serata, avevano iniziato a bere. No, non avevano fatto sesso. Avevano bevuto troppo. La ragazza, poi, continuava a buttar giù pasticche. Lui aveva cercato di dissuaderla, minacciando di piantarla lì senza un soldo, ma lei aveva continuato a bere. Lui aveva alzato la voce e aveva fatto per togliere di mezzo le bottiglie, ma a quel punto lei aveva preso a insultarlo. Spaventato per la perdita di controllo della ragazza, se n'era andato, lasciandola completamente sbronza e fatta nella camera, che lui aveva pagato in anticipo. Non ricordava di aver notato qualcuno. Il bambino se ne stava in braccio alla nonna. La signora Tonelee parlava con la lentezza di chi ne aveva viste troppe per perdere il controllo davanti allo sfacelo, e ritornava a battere sullo stesso chiodo: è stata uccisa. Il bambino se ne stava quieto sul suo petto. Blowing si chiese se, anche senza capire, fosse in grado di assorbire le vibrazioni sentimentali del suo colloquio con la donna, negative a dispetto della pacatezza dei toni. In quei quattro giorni, abbarbicato al collo della nonna, quel bebé doveva aver sentito più cose sulla morte violenta della madre, forse assassinata, di quante ne aveva sentite lui nel primo mese alla scuola di polizia. Dalla scientifica, il quinto giorno, l'esame del tasso alcolemico aveva spezzato ogni residuo dubbio sulla stranezza del caso. La concentrazione di alcol nel sangue della vittima aveva dell'incredibile e sorpassava di gran lunga le dosi consigliate a chi volesse spararsi nel mondo eterno dei sogni con un'overdose. L'alcolemia era del 14%, quando bastava meno della metà di alcol nel sangue per provocare un arresto cardiocircolatorio. Come aveva fatto la Tonelee a spararsi la restante percentuale, posto che doveva essere fuori combattimento da un pezzo mentre il whisky ancora scorreva? Mai sentito niente del genere, Blowing. Il caso non era chiuso. Qualcuno aveva fatto fuori con una botte di superalcolici Vanessa Tonelee, una tossica astemia. Le indagini erano ritornate a orientarsi sulle frequentazioni occasionali dalla vittima. Blowing aveva ordinato a Berg di fare una ricerca su eventuali casi simili, ragazze morte per overdose alcolica negli ultimi quindici anni. Era stato rintracciato un altro saltuario cliente dei periodi bui della ragazza, Arty Capace, un quarantenne borderline con precedenti davvero poco raccomandabili. La perquisizione dell'abitazione di quest'ultimo aveva rivelato interessanti reperti pornografici. Wolf, il prezioso ultimo testimone, era stato nuovamente sentito, ma non c'erano indizi concreti a suo carico. La stranezza dell'uomo, controllato e disponibile, quasi untuoso, di un ordine maniacale nella sua bottega, era per l'ispettore Blowing qualcosa di indefinibile. Ne aveva ordinato l'immediata sorveglianza. Berg era un agente eccezionale, nonostante dicesse di odiare quel lavoro. Il ruvido Blowing gli voleva bene, ma sperava che ottenesse il più tardi possibile il trasferimento dalla sezione, anche se conosceva i seri motivi familiari e personali per i quali ne aveva fatto richiesta. Del resto, lui stesso non ce la faceva più. Allo squallore e alla violenza non ci si abitua mai veramente, non se li vuoi combattere davvero; c'erano colleghi a cui piaceva, ma quelli erano entrati in polizia, sospettava, perché in fondo erano loro stessi violenti, ma non gli piaceva avere noie. Gli veniva in mente il bambino piccolo, il figlio della Tonelee che assorbiva impotente dal petto della nonna tutto quel dolore, quella rabbia. Ma lui non l'aveva mai pensato davvero di andarsene. Si sentiva troppo bravo per farlo. C'erano le sconfitte, le fregature, ma erano più frequenti le vittorie, i casi risolti, i criminali inchiodati. Anche se poi… anche se poi troppe volte, nella fase processuale, riuscivano a cavarsela. Non per colpa sua, però. Non per la sua inadempienza. Era un tipo ostinato, che non mollava l'osso. Troppo ostinato per lasciarsi sfuggire un'intuizione, troppo ostinato per mollare quella sezione tetra. Questa volta, però, c'era mancato poco. Se non fosse stato per l'ostinazione, nongià sua, ma della signora Tonelee, l'assassino ora avrebbe dormito più tranquillo. Wolf era apparentemente tranquillissimo, almeno di giorno, ma chissà se le sue notti lo erano altrettanto. Capace era un tipetto molto diverso, invece. Spaventato, quasi paranoico, aggressivo. Anche lui era stato messo sotto sorveglianza. Dall'indagine d'archivio dell'agente Berg, erano emersi altri quattro casi di ragazze decedute per coma etilico. I loro profili erano molto simili a quello di Vanessa Tonelee. Solo una delle quattro ragazze, Janine Parker, era un'americana bianca e non aveva precedenti di sorta. Le altre tre erano ragazze sbandate di origine indiana, alcoliste, dedite alla prostituzione; due di esse, come la Tonelee, erano anche tossicodipendenti. Berg aveva già passato al vaglio i dossier delle inchieste, le trascrizioni degli interrogatori dei testimoni. Nessuno dei quattro casi, per quanto sospette fossero le dosi di etanolo rinvenute nel sangue delle donne morte, si era trasformato in un'indagine per omicidio, a parte quello della trentottenne Hanna Momaday, che era stato archiviato come sospetto omicidio, a causa dell'elevata alcolemia rilevata dall'autopsia e, soprattutto, delle ecchimosi su tutto il corpo della donna, che probabilmente si era difesa da un'aggressione. L'ultimo a vedere Hanna Momaday, trovata morta in un motel alle porte di Salem tre anni prima, era stato il barbiere Virgil Wolf, cinquantaquattrenne di razza bianca, incensurato. Bingo. A quel punto Blowing non gli aveva tolto gli occhi di dosso, senza fare alcun rumore. L'uomo pareva sicuro di sé. Il telefono era stato messo sotto controllo, ma nessuno gli telefonava mai, ed evidentemente nemmeno lui aveva qualcuno da chiamare. Un uomo solo, il nostro Virgil, aveva pensato. Lui non avrebbe mai telefonato a un tipo come Virgil. I pedinamenti notturni avevano invece confermato una predisposizione ben precisa per certi luoghi e per un certo tipo di compagnia. Poi Blowing era scattato. Gli erano piombati addosso sul luogo di lavoro, con un mandato di perquisizione e un avviso di garanzia. Erano stati molto meno gentili, con il gentile Virgil, questa volta. Gli avevano sbattuto davanti Hanna Momaday a colori. L'avevano incalzato. Il vecchio aveva vacillato, si era agitato, si era persino adirato. E aveva iniziato a contraddirsi, ma mai abbastanza palesemente. Non ricordava. Poteva essere. No, non l'aveva mai vista. E la sera della Tonelee? Era sicuro di essersene andato all'una? Un cliente l'aveva visto sgattaiolare dall'albergo molto più tardi, diciamo verso le due, forse anche più tardi, aveva bluffato Blowing. Il bastardo c'era rimasto parecchio male, era in preda all'agitazione, però non aveva mollato. Su quel punto non si era rimangiato niente. Berg e il tenente Castillo l'avevano pensata sporca. Ma a Blowing piaceva l'azzardo. Iniziava a temere che solo così avrebbero potuto incastrare quel maiale. Cominciava a pensare all'indiziato in questi termini. Non tutti i presunti colpevoli gli stavano sul culo, ma con certi proprio non ci si poteva fare niente. Ti veniva da odiarli. In questo caso era forse la sua natura femminile, vista la tipologia delle vittime e considerato come iniziava a immaginare si svolgessero gli omicidi del serial killer. La Castillo si sarebbe fatta esca. Perché funzionasse, bisognava agire con destrezza. Il rischio a cui esponevano la collega non era uno scherzo. Sarebbero intervenuti cogliendo Wolf sul fatto. Nancy Castillo aveva adescato Wolf all'angolo di Perth Street senza troppa fatica. Vacillando vistosamente, ridendo e stuzzicandolo, l'aveva condotto allo Charme Hotel, non lontano da lì. Per la strada, mentre lo seguiva a breve distanza, nascosto nel buio, l'uomo, nell'abbandono intimo di quel suo momento privato, parve a Blowling un'altra persona. Provò un brivido di piacere. Non avrebbe mai abbandonato quel lavoro di merda. La squadra di pronto intervento li aspettava all'albergo, appostata nelle due stanze accanto. Nella camera di Wolf, la numero 22, le cimici trasmettevano i movimenti, i dialoghi, le risa alterate di Castillo e quelle sibilanti di Wolf. Gli uomini erano tesi. Wolf non rideva veramente. Parlava poco, incitava Nancy a bere. Poi ci furono quei colpi ovattati. Sentirono l'urlo soffocato. No, non ancora. Ma era questione di attimi. Ci fu il secondo urlo. I tre agenti armati della stanza di Blowing erano già in corridoio, pronti a fare irruzione. Berg era nell'altra, la 24, e stava uscendo in quel momento, terreo in volto, seguito da Bentley e Mahoney. La donna stava supina sul letto. Le gambe piegate ad angolo retto sul bordo tentavano di scalciare, bloccate dal peso dell'uomo ritto in piedi, riverso su di lei. Una mano le tratteneva i polsi al di sopra della testa. Con l'altra reggeva una bottiglia verticalmente. Quasi tutto il collo di questa era penetrato nella bocca della donna, costretta a ingerire velocemente il liquido per non soffocare. Ecco com'era finita Vanessa, com'erano finite tutte le altre, con una bottiglia fino in gola, a lottare per tanto, tanto tempo, prima che la nausea le strozzasse e la morte non le prendesse. Sperò che almeno per l'astemia Tonelee quel momento fosse arrivato presto. Per un secondo, Blowing aveva colto l'espressione dell'uomo prima che si rendesse conto dell'intrusione. E si era chiesto con disgusto se anche a lui nell'amplesso venisse fuori quella faccia ebete, animale, di godimento e di odio. Perché era chiaro che quel bastardo del vecchio Virgil stava scopando, nella sua testa. Porca puttana, se non credeva che gli stavano facendo un bel pompino. [Liberamente ispirato a un fatto di cronaca americana realmente avvenuto] LA TRILOGIA DELL’ODIO scritto da: Angelo Scotto VIZI E VIRTÙ Non ho un eloquio fluente per divertirvi, né quell’istruzione che vi aiuta così tanto quando annaspate. Non ho un bell’aspetto né motivi per apprezzarmi ma ho un oceano di rabbia in cui potreste nuotare, sino ad annegare. L’UOMO CHE ODIA Non mendicate da me parole di conforto quando prostrati dai venti dareste la vita per un pietoso sollievo io sono lo stesso cui negaste aiuto perché ero diverso e unico regalo ebbi odio per me, per voi. Oggi troneggio su di voi ma non mi apro alla pietà non perdono i grandi perdonano ma io sono un piccolo uomo condannato ad odiare le vostre lacrime nutrono il mio sangue. COSI’ Ogni giorno è un digrignare in più i denti ogni sguardo è un coltello ogni passo è una ferita. Incredibile quanto possa scendere in basso. UN PIANO PERFETTO scritto da: Angelo Scotto Cara Laura, questo messaggio è per comunicarti che quello che è successo non è altro che la mia vendetta. Vendetta. Forse pensavi di poter comportarti come ti pareva, trastullarti alle mie spalle, prenderti gioco di me sempre e comunque. In effetti se fossi stato al tuo posto lo avrei fatto anch'io: è notorio che a chi ti ama puoi infliggere ogni dolore, e quello non reagirà, non contro di te almeno. Già, è sempre stato così. Quasi sempre. E in quel quasi rientro anche io. Prima no, prima non ero poi tanto diverso dagli altri: quanti mesi, per quanti anni ho accettato prima la tua indifferenza, poi la tua ostilità, e infine il tuo scherno? Ma ero pronto a farlo, perché ero innamorato. Mi ricordo i miei amici che mi dicevano per quale motivo mai dovevo rovinarmi l'esistenza per una donna che non mi voleva né mi apprezzava, e io sempre rispondevo che le vie dei sentimenti sono irrazionali, non possono essere comprese, ma solo percorse. Lo penso tuttora. Ma queste vie hanno cambiato strada. Non dico di aver perso interesse verso di te, se fosse stato così non sarebbe avvenuto quel che è avvenuto. Tanti anni di passione esasperata, parossistica, non possono essere cancellati, né superati: quando decidi di immolare tutto il tuo io a un sentimento, non puoi più tornare indietro, e a quel punto devi solo sperare di aver puntato tutto sul sentimento giusto. Così ho fatto io, e ho perso. E quali sono stati i risultati della mia sconfitta? Deriso, preso in giro proprio da te, divenuto oggetto di scherno da mezza città, dalle mie vecchie compagnie, da tutta la piazzetta, dagli avventori di ogni locale e di ogni ritrovo. E un pregiudizio di squilibrio mentale impresso a fuoco sul mio petto, ormai indelebile. Indelebile. O forse no. Un modo c'era per cancellare quel pregiudizio. Ma dovevo prima studiarlo. Dovevano considerarmi squilibrato solo perché innamorato? Sì, è normale in un mondo dove nessuno crede più che ci possano essere passioni così forti. Per questo hai potuto trovare sempre così tanta compagnia nel ridere di me. Ma se fossi riuscito a dimostrare che il mio era davvero amore, e non debolezza di mente, allora avrei messo a segno due colpi: eliminare il pregiudizio nei miei confronti, e mettere sotto gli occhi di tutti la tua meschinità. Chiaro come il sole. Unico problema: "come" dimostrarlo? Quando un pregiudizio è profondo, bisogna essere drastici per sradicarlo. Il metodo più drastico, dunque. Uccidermi. Ho riflettuto a lungo prima di farlo. Ma non per paura della morte, no: ho perso tutto, considerazione, rispetto, felicità, futuro; cosa può fregarmene della vita? No, l'esitazione era dovuta a te: potevo essere così duro nei tuoi confronti? Sì. Non lo avrei mai creduto, ma la mia passione si è trasformata: da amore che era, si è evoluta in un odio sordo, un odio feroce per te e per tutto il male che mi hai fatto, per aver bruciato ogni atomo del mio essere, per avermi costretto a fare ogni cosa in funzione di te e di nient'altro. Come sia stato possibile questo cambiamento non lo so, ma non mi stupisce: le vie del sentimento sono irrazionali, l'ho già detto. Per questo mi sono ucciso, per vendicarmi, per sprofondarti nel disprezzo, per far sì che tutti ti evitino e abbassino la testa quando passi, per farti capire cosa vuol dire essere abbandonati da tutti, essere marchiati a fuoco da un'opinione che non si può cancellare. Mi sembra già di sentire le voci di chi dirà che è stato un gesto di disperazione. No, mai ho compiuto un gesto più razionale e meditato. E senza testimoni, tranne questa lettera che non puoi diffondere perché non ti crederà nessuno, a te che dicevi che ero un sempliciotto, e non farai altro che rinforzare l'ostilità nei tuoi confronti. Un piano perfetto. Addio UN GRAZIE A TUTTI I PARTECIPANTI Arrivederci alla prossima edizione…