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introduzione
introduzione
di Mario Ricciardi
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Cos’è la giustizia? Cominciamo da alcune caute osservazioni lessicali.
Le parole «giusto» e «ingiusto» esprimono rispettivamente plauso e biasimo. Si dice che una persona ha agito «giustamente», e in tal caso che
la sua azione è degna di lode. L’ingiustizia, al contrario, è qualcosa che
normalmente disapproviamo. Per quanto varie e distanti siano le opinioni degli esseri umani, a nessuno piace essere accusato di aver commesso un’ingiustizia.
Fin qui direi che siamo tutti d’accordo. La faccenda si complica,
però, appena qualcuno ci chiede di spiegare cos’è la giustizia, o almeno
di darne una definizione. La difficoltà cui andiamo incontro in questo
caso apparentemente non dipende dal fatto che non siamo in condizione di fare degli esempi di ingiustizia. Al contrario, l’esperienza passata
e la cronaca mettono a disposizione di ciascuno un lungo catalogo cui
attingere. L’eliminazione da una gara di un atleta sospettato di «doping»
sulla base di rilievi poco affidabili, una truffa subita da un conoscente,
il blocco di un’autostrada da parte di un gruppo di manifestanti o i
termini di un accordo internazionale negoziato sotto la minaccia della
violenza sono eventi in cui mi sembra di ravvisare i tratti dell’ingiusto.
Ciò nonostante, per quanto salda sia la mia convinzione che in tutte
queste circostanze è stata commessa un’ingiustizia, non riesco a tro-
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L’ideale di giustizia
vare una formula che catturi adeguatamente le caratteristiche che tali
eventi hanno in comune. Inoltre, quando provo a spiegare a un amico
che sostiene la causa dei lavoratori in sciopero perché il blocco stradale mi sembra un metodo di lotta ingiusto, mi trovo in serie difficoltà.
Alcuni dei suoi argomenti mi colpiscono. Sono costretto ad ammettere che non riesco a confutarli senza una chiara idea di cosa sia la giustizia, e sono consapevole che potrei trovarmi nella stessa situazione
anche discutendo gli altri casi di presunta ingiustizia con persone che
non sono della mia stessa opinione. Evidentemente passare in rassegna
le proprie intuizioni non è sufficiente.
Proviamo a prendere in considerazione un caso piuttosto semplice:
non mantenere le promesse. C’è un consenso diffuso sul fatto che una
persona che non tiene fede alla parola data commette un’ingiustizia nei
confronti del destinatario della promessa. La relativa uniformità delle
nostre reazioni di biasimo per chi non rispetta le promesse è resa evidente da pratiche linguistiche consolidate come quella di scusarsi o di
offrire una giustificazione se non si rispetta la parola data. Ciò nonostante, credo che ci troveremmo in difficoltà se qualcuno ci chiedesse di spiegare perché è giusto mantenere le promesse. L’abitudine non
è una ragione sufficiente, altrimenti dovremmo ammettere che tutti i
modi di fare consolidati – per via di questa caratteristica – ci obbligano alla conformità. Inoltre, cosa dovremmo fare se a essere ingiusta è la
pratica?
Torniamo al nostro immaginario interlocutore che vuole una spiegazione o una definizione. La richiesta è un invito a andare oltre le intuizioni per trovare un punto di partenza condiviso per discutere. Costui
non ci interroga sulle nostre impressioni, ma ci chiede: «cos’è giusto e
cosa ingiusto? In quali circostanze possiamo affermare, senza ombra di
dubbio, che una persona non ha agito giustamente?». Una risposta sbrigativa a queste domande potrebbe essere questa: «è ingiusto fare ciò
che non si deve fare». Tuttavia, non ci vuole molto per rendersi conto
che questa definizione non è accettabile perché non ci illumina affatto. Infatti, ci sono casi in cui diremmo che una persona ha il dove-
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re di compiere un’azione – per esempio, perché c’è una legge che glielo impone – eppure non sarebbe fuori luogo affermare che l’azione in
questione non è giusta.
Pensiamo al caso di un pubblico ufficiale che ha il dovere legale di
agire in un modo che offende la nostra sensibilità: eseguire lo sfratto
di una famiglia che sappiamo priva di mezzi di sostentamento. Tutti
abbiamo ben presenti casi del genere, e siamo consapevoli che nella
vita di ogni giorno non è affatto inconcepibile che l’adempimento di
un dovere imposto dalla legge comporti un’ingiustizia. Fare ciò che si
deve non è necessariamente giusto. O meglio, non possiamo accettare
che lo sia senza aver compreso cosa si intende per «dovere» nelle diverse
circostanze in cui impieghiamo la parola. D’altro canto, fare un passo
indietro spostando l’attenzione dall’azione alla regola non cambia radicalmente i termini del problema. Anche le critiche morali rivolte a una
regola sociale che impone di compiere un’azione ingiusta si formulano allo stesso modo, dicendo: «non è giusto». Lo stesso avviene per le
regole che permettono l’ingiustizia. Così, ad esempio, si afferma che è
ingiusta una legge che non stabilisca limiti stringenti per la carcerazione preventiva. Oppure che non è giusta una procedura di selezione per
un incarico pubblico che non tenga adeguatamente conto delle qualificazioni o delle capacità dei partecipanti. Appare naturale concludere che regole che permettono l’ingiustizia sono a loro volta ingiuste.
Ma in che senso sono ingiuste, se lo sono? Che differenza c’è, ammesso
che ce ne sia una, tra l’ingiustizia di un’azione e quella di una regola?
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Soffermiamoci ancora per un momento sul primo caso, quello dell’azione ingiusta. Di frequente «giusto» e «ingiusto» si usano, parlando
di azioni, come se giustizia e moralità fossero coestensive. Cioè come
se ogni azione immorale fosse anche ingiusta. In questo modo di pensare c’è probabilmente l’eco di una tradizione che risale alla Grecia
L’ideale di giustizia
antica. Verso l’inizio del libro V dell’Etica nicomachea, Aristotele riporta un detto, che attribuisce a Teognide, che esprime questa opinione:
«nella giustizia si riassume ogni virtù». Per questo, aggiunge Aristotele, essa viene considerata spesso la virtù «sovrana», ovvero quella che
desta maggiore ammirazione. Non è difficile spiegare l’origine di questo modo di intendere la giustizia nel pensiero greco. Infatti, la parola
che i greci impiegavano per caratterizzare un’azione ingiusta è «adikon»,
che si può usare pure per dire che una cosa è sbagliata. Come accade
anche in alcune lingue moderne, ad esempio l’italiano e l’inglese, la
coppia composta da «adikon» e «dikaion» presenta un’ambiguità tra un
senso più specifico, corrispondente ai nostri «ingiusto» e «giusto», e uno
più ampio espresso dalla coppia «sbagliato» e «giusto». Come nei casi
di «giusto» e «sbagliato» e di «right» e «wrong» in inglese, le due parole greche possono esprimere sia una generica conformità o difformità
rispetto a ciò che è stabilito da una regola, il modo appropriato di fare
una cosa secondo una convenzione sociale, sia una più specifica valutazione che – soprattutto al nostro orecchio di moderni – assume naturalmente una coloritura morale.
L’idea che la giustizia sia la virtù sovrana, che include tutte le altre,
trova alimento da questa ambiguità lessicale. Lo stesso Aristotele finisce per accoglierla identificando la giustizia come conformità al diritto positivo (i «nomoi») con la virtù morale in generale, sulla base della
considerazione che l’uno e l’altra hanno lo stesso scopo perché mirano
al bene comune dei membri di una società politica – sia essa retta da un
regime democratico o aristocratico – prescrivendo o proibendo le stesse cose. Ad esempio, sostiene il filosofo, il diritto prescrive di compiere
le azioni tipiche dell’uomo coraggioso, temperante o mite, e quindi ciò
che esso ci richiede di fare nelle diverse circostanze della vita è in armonia con i requisiti da soddisfare nell’esercizio delle virtù.
Subito dopo aver proposto questo primo resoconto generale della
giustizia, Aristotele introduce però una qualificazione, che modifica
notevolmente le conseguenze cui sembrava arrivare il suo ragionamento. Infatti, egli aggiunge che la giustizia è virtù completa perché chi la
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possiede è capace di servirsi delle virtù anche nei confronti degli altri,
e non solo di sé stesso. Per capire cosa intende Aristotele, bisogna ricordare che per i greci il possesso della virtù apporta beneficio alla persona
virtuosa. Molte virtù della tradizione classica – basti pensare alla temperanza o al coraggio – sono disposizioni ad agire che migliorano la
vita di chi le possiede. La giustizia, dunque, sarebbe la virtù completa in
quanto è l’unica che, essendo rivolta al prossimo, è un bene anche per
gli altri e non solo per chi la possiede. Come si è detto, si tratta di una
qualificazione importante. A partire da questa osservazione di Aristotele, infatti, si afferma la tendenza a vedere nella giustizia una virtù squisitamente sociale, che riguarda le interazioni tra le persone. Una persona giusta sarebbe quindi quella che è in grado di avere l’atteggiamento
appropriato nei confronti degli altri, e che non agisce in modo virtuoso
solo a proprio vantaggio. Un compito difficile, commenta Aristotele.
Pur essendo tuttora largamente diffuso, il modo di concepire la giustizia esemplificato da Aristotele corre il rischio di oscurare distinzioni
concettuali molto importanti. In primo luogo, come abbiamo già osservato, e come lo stesso Aristotele ammette nella sua discussione della
giustizia in generale, non possiamo assumere affatto che ci sia sempre coincidenza perfetta da tra ciò che ci impone una regola sociale (le
regole di diritto sono un tipo di regola sociale) e ciò che sarebbe moralmente giusto fare. Inoltre, anche se ci sono buone ragioni per ritenere che la giustizia abbia un ruolo prominente nella valutazione morale dell’azione, un’analisi attenta dei nostri giudizi morali rivela che essa
è solo un aspetto della moralità. L’azione umana ha eccellenze o difetti di vario tipo. Per esempio, se una persona agisce in modo da ferire i
sentimenti di qualcuno, diremmo che ha fatto qualcosa di indelicato,
cattivo o malvagio, forse che non ha adempiuto a un dovere, ma non
necessariamente che ha agito ingiustamente. Non è difficile immaginare una situazione in cui una persona agisce giustamente – per esempio ripagando un debito – ma in modo indelicato. Ciò non dipende dal
fatto che «ingiusto» manifesti una disapprovazione più o meno intensa
rispetto ad altre espressioni di biasimo, ma piuttosto dal senso speciale
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L’ideale di giustizia
che il termine ha rispetto agli altri modi che abbiamo per formulare un
giudizio negativo sul comportamento di una persona. L’uso di «ingiusto» sarebbe appropriato piuttosto nel caso di un genitore che punisca
un figlio in maniera più severa per una marachella cui hanno partecipato egualmente anche gli altri figli. Oppure in quello di un genitore
che punisca uno dei figli senza preoccuparsi di accertare se sia effettivamente colpevole. Se l’ingiustizia è un difetto dell’azione, non c’è dubbio che tale genitore ne è colpevole.
Ma di quale difetto stiamo parlando? Nel primo caso, il genitore
punisce i figli in modo diverso anche se essi sono egualmente responsabili della stessa azione riprovevole. Nel secondo, invece, la punizione appare ingiustificata perché arbitraria. Cosa hanno in comune questi due casi
che spieghi perché li consideriamo entrambi ingiustizie? Non è affatto
casuale che H.L.A. Hart, l’autore da cui abbiamo ripreso gli esempi che
stiamo discutendo, abbia scelto per illustrare l’ingiustizia due situazioni
che, anche se non la menzionano, evocano la figura di un giudice. Sia nel
primo sia nel secondo caso il genitore di cui stiamo parlando viene presentato come una persona che ha il diritto di punire i propri figli se fanno
qualcosa di male. In entrambe le situazioni si può dire che tale diritto è
stato usato in maniera impropria, che egli ne ha abusato. In cosa consiste questo abuso? Se, per esempio, egli avesse punito nello stesso modo
tutti i figli egualmente responsabili della stessa marachella diremmo che
ha agito in modo giusto? Probabilmente sì, almeno nel senso minimo di
giustizia «come regolarità» per cui casi eguali previsti da una regola devono essere trattati nello stesso modo. Sappiamo infatti che un giudice giusto applica le regole in modo imparziale, senza fare distinzioni arbitrarie di trattamento tra persone che si trovano nella stessa situazione. Forse
anche il secondo genitore ha commesso un’ingiustizia in questo senso,
oppure in uno molto simile. Infatti, si potrebbe sostenere che punire una
persona che non si è macchiata di alcuna colpa è fare differenze arbitrarie
di trattamento. In questo caso, tra persone egualmente innocenti.
Sulla base della nostra sommaria ricognizione preliminare degli usi
linguistici di «giusto» e «ingiusto» si potrebbe assumere che l’esame di
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esempi come quelli proposti da Hart ci consenta di trovare un caso
paradigmatico da cui partire per spiegare cos’è la giustizia. L’ingiustizia dell’azione sembra infatti la manifestazione più immediata – perché
più vicina all’esperienza quotidiana – di questo difetto da cui muovere per chiarire il concetto di «giustizia». Per affrontare questo problema, viene spontaneo chiedersi cosa hanno in comune tutti gli atti giusti, e cosa li distingue da quelli ingiusti. C’è una proprietà, qualcosa
che tutte le manifestazioni di giustizia – o di ingiustizia – dell’azione hanno in comune? L’idea che la giustizia sia una virtù che riconosciamo nel modo di agire delle persone suggerisce che c’è uno specifico
difetto caratteriale che si accompagna al vizio dell’ingiustizia. Per Aristotele, che era di questa opinione, esso consiste in ciò che egli chiama
«pleonexia», che si potrebbe tradurre come «ingordigia», o «desiderio
di avere più degli altri». Tuttavia, che l’essere motivati da pleonexia nel
fare qualcosa sia un requisito necessario dell’ingiustizia è smentito dall’obiezione sollevata da un filosofo contemporaneo, Bernard Williams,
che ha fatto notare che ciò che conta perché un’azione sia ingiusta non
sono le motivazioni che l’accompagnano. L’ingiustizia, infatti, si presenta in compagnia di diversi atteggiamenti. Si può agire ingiustamente per ingordigia o per il desiderio di avere più degli altri, ma anche per
superficialità o per invidia. Talvolta, un’ingiustizia può essere persino
involontaria, come può capitare quando una persona cagiona un danno
a un’altra senza averne l’intenzione. A questo punto, però, non è più
chiaro perché l’ingiustizia sarebbe un vizio, almeno nel senso in cui lo
sono la codardia o l’insincerità, che sono invece accompagnate necessariamente da un atteggiamento mentale di un certo tipo.
Inoltre, ci sono situazioni in cui l’ingiustizia non è il risultato dell’azione di una persona che ha l’intento di far torto a qualcuno, ma
piuttosto la conseguenza di un certo assetto sociale. Ritorniamo al caso
dell’ingiustizia di una legge, cui abbiamo accennato. Credo che saremmo tutti d’accordo che una legge è ingiusta se stabilisce differenze di
trattamento arbitrarie tra le persone. L’ingiustizia risultante dall’applicazione pedissequa da parte di un giudice di una legge di questo tipo
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L’ideale di giustizia
non è il prodotto dell’intenzione colpevole del magistrato. Ingiusto, in
questo caso, è il modo in cui la legge distribuisce vantaggi e oneri tra le
persone. Questo esempio mostra che c’è un’asimmetria importante tra
un caso significativo di ingiustizia e le altre virtù. Ciò non vuol dire che
dobbiamo rigettare integralmente la ricostruzione aristotelica della giustizia. Ci sono indubbiamente casi in cui una persona agisce in modo
ingiusto per una forma di ingordigia come quella di cui parla Aristotele. Tuttavia, non possiamo partire da esempi del genere per spiegare cos’è la giustizia. Proprio in reazione al tipo di difficoltà che abbiamo appena menzionato, alcuni filosofi contemporanei hanno tentato
un approccio diverso alla chiarificazione del concetto di giustizia.
Per illustrare questo approccio alternativo può essere utile pensare
alla società in cui viviamo attraverso l’analogia con un gioco come il
calcio. Le persone che prendono parte al gioco competono per la vittoria, ma il gioco non sarebbe possibile se non ci fosse un certo livello di cooperazione tra i partecipanti. Non solo, come è evidente, perché la divisione in due squadre comporta la cooperazione tra le persone
che appartengono a ciascuna delle compagini, ma anche perché non ci
sarebbe affatto una partita se tutti i giocatori non accettassero le regole
del gioco. La vittoria, e il piacere che ciascuno deriva dalla propria partecipazione, dipendono sia dalla competizione sia dalla cooperazione.
Considerato come una pratica sociale, il gioco ha una struttura costituita da regole che attribuiscono poteri, ovvero che stabiliscono cosa può
fare ciascuno dei giocatori all’interno del gioco stesso, quali sono le
mosse che è autorizzato a compiere in quanto persona che ha un certo
ruolo nel gioco. Attraverso l’attribuzione di questi poteri normativi, le
regole distribuiscono libertà alle persone che partecipano al gioco. Uno
degli aspetti interessanti di questo modo di vedere la società è che esso
ci aiuta a cogliere l’importanza delle regole che attribuiscono poteri, e
quindi distribuiscono libertà, nel condizionare le possibilità di azione
dei giocatori. Le regole del calcio distribuiscono la libertà di toccare il
pallone con le mani in modo diverso tra chi partecipa al gioco, e questa
differenza è destinata ad avere un impatto sul controllo esercitato sul
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pallone stesso da chi occupa ruoli diversi. Inoltre, e questo forse è un
aspetto ancora più interessante, pensare alla società attraverso l’analogia
con un gioco ci aiuta anche a vedere che certe cose che ci colpiscono
come ingiustizie non sono necessariamente il prodotto della volontà di
una persona di commettere un torto, e nemmeno sono inevitabilmente la conseguenza dell’esecuzione di una regola che impone di compiere un’azione ingiusta, ma possono dipendere invece dal modo in cui
le regole che costituiscono diverse pratiche e istituzioni sociali distribuiscono la libertà tra le persone che a esse prendono parte. In casi del
genere, l’ingiustizia è un difetto delle pratiche o delle istituzioni non
di una persona o di una regola. Per questo Hart, uno dei filosofi contemporanei che hanno promosso questa svolta nel modo di affrontare
la chiarificazione del concetto di giustizia, ha scritto che essa è «la più
pubblica e la più giuridica delle virtù». La giustizia, infatti, ha un legame intimo con la società intesa come un’attività cooperativa intrapresa
per il mutuo vantaggio da un gruppo di persone tra cui c’è sia identità
sia conflitto di interessi.
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Partire dalle azioni individuali, così, non ci porta molto lontano nella
chiarificazione del concetto di giustizia. Una prospettiva più promettente potrebbe essere invece quella che Hart suggerisce quando osserva che buona parte delle critiche che muoviamo a una legge impiegando le espressioni «giusto» [just] e «ingiusto» [unjust] potrebbero essere
formulate anche usando «fair» e «unfair». Per Hart, anche la «fairness»
non è coestensiva con la moralità in generale. Tale nozione viene richiamata normalmente in due tipi di situazione. La prima, quando abbiamo a che fare non con la condotta individuale di una persona, ma con
il modo in cui classi di individui sono trattate nella distribuzione di
qualche onere o beneficio. In questi casi, ciò che è «fair» o «unfair» è
la quota che essi ricevono. La seconda, è quella in cui qualcuno subisce
VI
L’ideale di giustizia
un’ingiuria e c’è la richiesta di una compensazione o di una riparazione. La tesi di Hart è che in tutti questi casi le nostre valutazioni assumono sullo sfondo il principio che le persone hanno titolo, l’una nei
confronti dell’altra, a certe posizioni relative di eguaglianza o di diseguaglianza. Una volta chiarito il contenuto e la portata di questo principio latente sarebbe possibile spiegare le diverse applicazioni del concetto di giustizia come derivazioni o estensioni a partire dai due tipi di
situazione che abbiamo menzionato.
Appare evidente che ciò che Hart ha in mente quando parla di una
legge come «unfair» è il modo in cui essa plasma la vita delle persone
cui si applica attraverso la distribuzione di vantaggi e svantaggi della
cooperazione sociale. Nel presentare la propria tesi, egli riprende la
distinzione di Aristotele tra due sensi in cui si potrebbe parlare di giustizia particolare (vedi Fig. 1). Per il filosofo greco la giustizia particolare ha a che vedere con l’eguaglianza («ison» è la parola greca che egli
impiega, che letteralmente significa eguale) e si divide in due specie.
In ciascuna delle due specie di giustizia particolare l’eguaglianza
assume tuttavia un senso diverso. Nella prima, si tratta di eguaglianza proporzionale al «merito» delle persone coinvolte. Nella seconda, di
un’eguaglianza stretta tra le parti di un’interazione. L’interpretazione
Figura 1
Giustizia particolare
Giustizia distributiva
Giustizia correttiva
Si attua nella distribuzione di oneri, di
denaro o di quant’altro si può ripartire tra
coloro che partecipano nella costituzione
(giacché di queste cose uno può avere una
parte sia eguale sia diseguale a quella di un
altro)
Apporta correzioni nelle interazioni tra
i privati e si divide in due tipi, quella che
riguarda le interazioni volontarie e quella
che riguarda le interazioni non volontarie
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di questo aspetto della discussione del concetto di giustizia da parte
di Aristotele ha suscitato controversie vivaci tra gli studiosi, di cui non
possiamo occuparci in questa sede. Ci limiteremo a sottolineare che la
concezione dell’eguaglianza di Aristotele rispecchia in parte il modo di
pensare di una cultura che non riconosce l’eguale valore delle persone
come la nostra.
Torniamo alla chiarificazione del concetto di giustizia proposta
da Hart. Applicando la distinzione di Aristotele al problema di cui si
occupa Hart potremmo dire che una legge può essere considerata «fair»
o «unfair» da ciascuno dei due punti di vista. Dal primo, perché essa
distribuisce in modo diseguale (in un senso che richiede ulteriore specificazione) oneri o benefici tra le persone che appartengono a un gruppo
o che partecipano a un’attività. Dal secondo, perché ammette squilibri
tra le parti di un’interazione.
Gli oneri e i benefici di cui si parla a proposito di giustizia distributiva possono essere di vario tipo. Dal lato attivo della bilancia andrebbero inclusi tra i benefici non solo reddito e ricchezza, ma anche le
diverse posizioni normative cui genericamente ci riferiamo impiegando
l’espressione «diritti». Così, ad esempio, una legge distribuisce il potere
di concludere contratti tra le persone attraverso la disciplina che regola la capacità di agire e stabilisce requisiti di validità per il contratto in
generale oppure per i diversi tipi di contratto.
Veniamo ora al secondo tipo di giustizia particolare. Lo schema
nella pagina seguente (Fig. 2) riassume la distinzione di Aristotele riportando gli esempi che egli menziona.
Tale distinzione, ci consente di articolare in modo più perspicuo
due profili di rilevanza delle considerazioni di «fairness» nell’ambito
del diritto. Le due specie di rapporti che Aristotele individua corrispondono in parte, infatti, alla classificazione delle fonti delle obbligazioni
nella tradizionale sistemazione del diritto civile. Da un lato, la mancanza di «fairness» può dipendere dal fatto che la legge non interviene per
correggere uno squilibrio che si determina all’interno di interazioni il
cui principio risiede nella volontà delle parti di creare un’obbligazione.
VIII
L’ideale di giustizia
Figura 2
Giustizia correttiva
Interazioni il cui principio è volontario
Esempi: vendita, acquisto, prestito,
cauzione, nolo, deposito, locazione
Interazioni il cui principio
è non volontario
Inganno
Violenza
Esempi: furto,
adulterio,
avvelenamento,
lenocinio,
corruzione
di schiavi,
omicidio, falsa
testimonianza
Esempi:
maltrattamenti,
sequestro,
omicidio, rapina,
mutilazione,
diffamazione,
oltraggio
Dall’altro, essa può dipendere dal fatto che la legge non interviene per
rimediare a uno squilibrio che si determina all’interno di interazioni
il cui principio è indipendente dalla volontà delle parti di obbligarsi, e
nasce invece come conseguenza di un torto. Nel primo caso la mancanza di «fairness» – e dunque l’ingiustizia della legge – si manifesta come
mancata correzione della diseguaglianza nello scambio. Nel secondo,
come mancata correzione della diseguaglianza causata da un torto. Dal
nostro punto di vista la classificazione di Aristotele appare controintuitiva perché include tra i torti figure che noi oggi collocheremmo nel
diritto penale e non in quello civile. Tuttavia, questa è una conseguenza del modo in cui venivano classificati gli illeciti nel diritto greco del
suo tempo che non deve distoglierci dalla ragione giustificativa della
distinzione aristotelica che abbiamo esposto.
L’elemento comune che potrebbe spiegare la classificazione di tutti
questi casi come esempi di ingiustizia consiste nel fatto che essi sono
violazioni del diritto che ciascuno avrebbe all’astensione da certi comportamenti da parte di chiunque altro. Per Hart, tale struttura di diritti
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e obbligazioni reciproche costituirebbe la base, anche se non la totalità,
della moralità di ciascun gruppo sociale. La funzione di tale struttura è
creare tra le persone in questione un’eguaglianza artificiale, che neutralizzi le ineguaglianze naturali. Se, infatti, la legge impedisce a una persona più forte o scaltra di derubare un’altra persona meno fortunata, o
di venir meno a una promessa nei suoi confronti senza subire conseguenze, essa le pone sullo stesso piano.
Attraverso questa interpretazione della classificazione proposta da
Aristotele e degli esempi che la illustrano si nota l’influenza che la
Rechtslehre di Kant ha sul modo di concepire la giustizia correttiva proposto da Hart. La dottrina del diritto di Kant riguarda relazioni normative tra persone per il rispetto delle quali è giustificabile l’uso della
forza. In una situazione in cui tali relazioni hanno la forma appropriata viene preservata l’indipendenza delle persone, nel senso che nessuna sarebbe sottoposta all’arbitrio di un’altra. Emerge in questo modo
una concezione specificamente moderna della giustizia che la associa
all’ideale di eguale libertà.
Nel proporre la propria interpretazione del concetto di giustizia alla
luce di quello di «fairness» Hart si discosta significativamente dal modo
di pensare di Aristotele. L’idea di «fairness» richiama infatti nozioni
come quelle di «correttezza», «onestà» o «imparzialità» da parte di persone che sono coinvolte in un’attività comune per il muto vantaggio.
Come nei giochi – quando si evoca il «fair play» – competizione e cooperazione sono le due facce di questo tipo di attività. Si compete per
realizzare i propri scopi, ma senza cooperazione i benefici che dipendono dall’esistenza del gioco stesso, la possibilità di vincere, sarebbero
irrealizzabili.
Vale la pena di sottolineare che nel pensiero giuridico le nozioni di
giustizia distributiva e correttiva non sono considerate tradizionalmente come mutuamente esclusive. Può accadere, infatti, che considerazioni ispirate dalla prima vengano richiamate per giustificare una modifica
nel modo di operare della seconda. Ciò potrebbe avvenire, ad esempio,
quando la legislazione introduce un regime di «responsabilità oggetti-
L’ideale di giustizia
va» per distribuire i costi di un’attività in modo diverso rispetto a quello che risulterebbe attenendosi al principio retributivo. Nella prospettiva delineata da Hart questa possibile complementarietà di giustizia
distributiva e correttiva viene sostanzialmente ripresa senza ulteriori
articolazioni. Per comprendere in che modo i due aspetti della giustizia potrebbero essere legati attraverso principi comuni c’è bisogno di
una vera e propria teoria normativa della giustizia. Pur avendo posto
le premesse concettuali per la costruzione di una teoria di questo tipo,
Hart non ne ha mai proposta una. Le sue osservazioni sulla «fairness»
rimangono al livello di una chiarificazione preliminare delle nostre
intuizioni.
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La caratterizzazione sommaria che abbiamo dato prima dell’ingiustizia
di una legge dicendo che essa stabilisce una differenza arbitraria di trattamento tra classi di individui è troppo vaga per essere impiegata per
formulare un giudizio nella vita quotidiana. Cosa rende un diverso trattamento arbitrario? Presumibilmente il fatto che sia irragionevole, cioè
che non è possibile darne una spiegazione accettabile. In primo luogo,
si potrebbe aggiungere, da parte di chi è svantaggiato da questa differenza di trattamento. Per capire di cosa stiamo parlando, basta pensare
a un intervento legislativo – di carattere costituzionale o meno, non è
importante da questo punto di vista – il cui scopo è mettere una persona al riparo dagli effetti negativi che avrebbe un’eventuale condanna in
uno dei procedimenti penali che la riguardano. La questione di fondo,
quella cui risulta arduo dare una spiegazione davvero convincente, è
perché un provvedimento del genere sarebbe accettabile da chi si trova
in una posizione diversa rispetto al beneficiario della legge.
L’esempio che abbiamo appena proposto mostra che c’è un legame
tra giustizia e imparzialità. Le questioni di giustizia sociale richiedono,
per essere affrontate in modo soddisfacente dal punto di vista mora-
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le, uno sforzo per avvicinarsi a una prospettiva imparziale. Per comprendere le difficoltà che la realizzazione di questo obiettivo comporta può essere utile fare un piccolo esperimento mentale. Proviamo a
immaginare un gruppo di persone che sanno di dover cooperare per
la realizzazione di uno scopo che è nell’interesse di ciascuno. Per svolgere tale attività, è tuttavia necessario mettersi d’accordo per stabilire
come distribuire sia i benefici che deriveranno dalla realizzazione dello
scopo, sia gli oneri che è necessario assumere per realizzarlo. Bisogna,
in altre parole, scegliere principi che specifichino termini «equi» (questa è l’espressione normalmente impiegata per tradurre «fair» in italiano) della cooperazione sociale. A questo punto, normalmente, cominciano i problemi. Infatti, le parti avranno interessi e priorità diverse.
Ci saranno differenze di età, di capacità personali, di risorse economiche che sono destinate inevitabilmente a esercitare un’influenza sui termini che ciascuno dei partecipanti è disposto ad accettare. Chi si trova
in una pozione di forza sarà meno incline ad assumersi gli stessi oneri
degli altri. Chi, invece, è più vulnerabile, sarà probabilmente più propenso a assumere maggiori oneri pur di poter partecipare alla distribuzione dei benefici.
Ciò che abbiamo appena illustrato – ovviamente semplificandolo al
massimo – è un tipico problema di scelta collettiva. Analogo a quello che si pone Thomas Hobbes nella sua spiegazione della razionalità di un’obbligazione politica basata sull’adesione a un contratto sociale. Solo che, a differenza di Hobbes, abbiamo presentato il problema di
scelta assumendo che le persone che partecipano al contratto che stabilisce termini della cooperazione sociale non sono affatto in una situazione di sostanziale eguaglianza dipendente dalla mutua minaccia di
aggressione. Inoltre, assumiamo che le parti abbiano una predisposizione a cooperare per il vantaggio comune, ma che non siano illimitatamente altruiste. Un’ipotesi che, come è evidente, è piuttosto realistica.
Date forti diseguaglianze tra le parti – ad esempio, di potere o di risorse
economiche a disposizione – i termini finali dall’accordo saranno probabilmente niente affatto ragionevoli.
II
L’ideale di giustizia
Per questo John Rawls, il filosofo che più di ogni altro ha contribuito a plasmare la discussione sulla giustizia negli ultimi anni, ha rielaborato il tipo di esperimento mentale che abbiamo menzionato in modo da
neutralizzare la parzialità delle persone che partecipano alla trattativa sui
principi, per far emergere le caratteristiche che dovrebbe avere un accordo ragionevole per svolgere un’attività comune nel mutuo vantaggio.
L’espediente proposto da Rawls è di immaginare quali sarebbero i termini su cui si accorderebbero parti che scelgono «sotto un velo d’ignoranza», ovvero prive di qualsiasi informazione relativa alla situazione in cui
si troveranno una volta che l’accordo è stato concluso. L’ignoranza – questa è l’intuizione su cui fa leva l’argomento di Rawls – favorisce l’imparzialità. Come è ovvio, il filosofo statunitense non pensa che un accordo
del genere sia una possibilità reale. L’ipotesi di una scelta in condizioni
di ignoranza serve solo per aiutarci a rappresentare quali caratteristiche
dovrebbe avere una distribuzione di oneri e benefici tra persone che svolgono un’attività in comune nel mutuo vantaggio per essere ragionevole.
L’argomento dalla posizione originaria, la situazione di scelta iniziale in condizione di ignoranza in cui si trovano le parti, viene adoperata da Rawls come un’immagine che illustra la sua concezione della
giustizia sociale: la giustizia come fairness. Come suggerisce il nome –
che rimanda immediatamente all’idea di un’attività cooperativa retta
da regole per il muto vantaggio cui prendono parte persone che hanno
interessi parzialmente conflittuali cui alludeva anche Hart – si tratta
di un’interpretazione del concetto di giustizia che lo spiega attraverso
la nozione di «fairness» ovvero «equità». Non una definizione, ma una
chiarificazione filosofica che parte da certe intuizioni largamente condivise su cosa è la giustizia e tenta di metterle a fuoco in modo da articolarle in una teoria. La posizione di scelta originaria, come spiega lo
stesso Rawls, è un artificio espositivo che dovrebbe aiutarci a formarci una rappresentazione delle condizioni di un accordo ragionevole su
principi di cooperazione. Presentata in una serie di articoli pubblicati a
partire dagli anni cinquanta, la teoria di Rawls ha trovato la sua esposizione compiuta in A Theory of Justice, un libro del 1971.
Introduzione
XXIII
Tra gli aspetti più significativi dell’approccio adottato da Rawls nei
suoi scritti c’è il contributo che esso riesce a dare alla chiarificazione
della differenza che c’è, dal punto di vista morale, tra cooperazione
sociale e coordinazione efficiente. A differenza di Hart, il filosofo statunitense tiene conto dei risultati più avanzati raggiunti dalle scienze
sociali, e in particolare dall’economia, nella seconda metà del novecento. Teoria della scelta razionale, teoria dei giochi, economia del Welfare, interagiscono negli scritti di Rawls con le principali tesi della filosofia morale e politica moderne in un modo che ha cambiato il modo di
concepire queste discipline.
Dopo la pubblicazione del libro del 1971, questo riservato professore
di Harvard si è affermato come l’autore di riferimento della discussione accademica sui grandi temi dell’etica pubblica. Al punto che c’è chi
ha osservato che, dopo A Theory of Justice, c’è stata una vera e propria
«rinascita» della filosofia politica, che è tornata ad avere il ruolo centrale che le apparteneva nella tradizione occidentale sin dai tempi di Platone e Aristotele. In effetti, oggi è difficile discutere di libertà e eguaglianza, democrazia e costituzione, senza usare il lessico di Rawls. Anche se
soltanto per criticarlo, il suo nome appare in decine di migliaia di pubblicazioni accademiche e le sue idee hanno avuto un’influenza straordinaria ben oltre i confini della filosofia. Del resto l’oggetto del libro
del 1971 era niente meno che una teoria della giustizia per le istituzioni che appartengono alla «struttura di base della società». Tale teoria si articolava attraverso due principi che sono una ragionevole interpretazione delle due idee principali della tradizione liberale: la libertà e
l’eguaglianza. Nella loro formulazione iniziale tali principi stabiliscono
genericamente che (i) ogni persona deve avere un eguale diritto alla più
estesa libertà di base compatibile con una simile libertà per le altre; e
che (ii) le ineguaglianze economiche e sociali devono essere configurate
in modo che esse siano (a) ragionevolmente prevedibili come a vantaggio di ciascuno e (b) legate a posizioni e offici aperti a tutti. Una parte
significativa del libro è dedicata alla specificazione di tali principi e alla
discussione delle loro conseguenze per le istituzioni che appartengono
alla struttura di base della società.
IV
L’ideale di giustizia
Nonostante lo straordinario successo di A Theory of Justice, Rawls ha
continuato a rivederne i contenuti e a riflettere sulle premesse e sulle
conseguenze degli argomenti che essa conteneva. A partire dalla seconda metà degli anni settanta, questo paziente lavoro di revisione, approfondimento e ampliamento della sua teoria della giustizia ha trovato
espressione in diversi saggi e in alcuni volumi. Tra questi, bisogna ricordare almeno Political Liberalism (1993), The Law of Peoples (1999) e Justice as Fairness. A Restatement (2001). L’ultimo sembrava destinato a rimanere l’ultima parola di Rawls sulla filosofia politica perché, pochi mesi
dopo la sua pubblicazione, l’autore si spegneva dopo una lunga malattia. Invece, anche lo scrittoio di John Rawls, come quelli di altri filosofi
contemporanei, custodiva diversi materiali potenzialmente pubblicabili.
La pubblicazione degli inediti di un autore influente – si pensi a
Wittgenstein o a Heidegger – è divenuta ormai una prassi cui è difficile resistere per eredi e curatori del lascito letterario. Solo in questo
modo, sostiene chi è a favore di questa tendenza, è possibile rispondere alle richieste pressanti della comunità accademica che desidera avere
a disposizione tutto ciò che può aiutare a comprendere meglio le opere
dell’autore in questione o a illuminarne la genesi. Dall’altro lato, c’è chi
pensa che in molti casi sarebbe meglio lasciare gli inediti nello scrittoio
perché non aggiungono nulla di significativo e, talvolta, finiscono per
mettere in circolazione testi di qualità diseguale che possono perfino
danneggiare la reputazione di chi li ha scritti.
Per fortuna, nel caso di Rawls, la pubblicazione degli inediti sta
avvenendo con parsimonia, seguendo rigorosamente le indicazioni
del filosofo, che in alcuni casi ha specificamente predisposto il testo di
scritti che non erano in origine destinati alla diffusione o approvato il
lavoro fatto dai curatori. Ciò era avvenuto per le Lectures on the History
of Moral Philosophy (2000), di cui Rawls ha fatto in tempo a vedere la
pubblicazione, e di recente per le Lectures on the History of Political Philosophy (2007), uscite dopo la sua morte. In entrambi i casi si tratta della
collazione e revisione di versioni dei testi delle lezioni tenute a Harvard
a partire dalla metà degli anni sessanta.
Introduzione
XXV
Le prime aiutano a collocare il pensiero di Rawls nel panorama della
filosofia morale moderna, in particolare spiegandone il complesso rapporto con quella di Kant. Le seconde sono essenziali per comprendere
la filosofia politica di Rawls perché consentono di ricostruire lo sfondo
teoretico da cui emerge la teoria della giustizia del filosofo. Si tratta di
una sorta di «panorama intellettuale» ragionato che include i classici del
contrattualismo (Hobbes, Locke e Rousseau) e uno dei suoi critici più
severi (Hume). Inoltre, Rawls discute le idee politiche di Mill, Marx e
Sidgwick, ampliando lo sguardo oltre le teorie del contratto sociale fino
a delineare una sorta di genealogia concettuale del liberalismo e del suo
principale antagonista per oltre un secolo di storia europea e occidentale, il socialismo. Proprio nel pensiero socialista si trova infatti la denuncia più veemente delle ingiustizie che dipendono dagli assetti sociali
che una teoria normativa della giustizia avrebbe il compito di prevenire
e correggere. L’interesse di queste lezioni per gli studiosi non è solo di
carattere storico. L’introduzione al volume contiene anche una presentazione delle idee di Rawls su oggetto e metodo della filosofia politica e
alcuni commenti sulla natura della sua teoria della giustizia.
5
Lo scopo di questa antologia è aiutare il lettore ad acquisire familiarità
con il dibattito sulla giustizia sociale che ruota intorno alle tesi di John
Rawls, attraverso la lettura di alcuni articoli che sono ormai considerati veri e propri «classici».
Si comincia con Are There Any Natural Rights? (1955) di H.L.A. Hart,
un saggio che anticipa alcuni aspetti della chiarificazione del concetto
di giustizia che abbiamo esposto nelle pagine precedenti, che il filosofo
britannico ha proposto nella sua opera più importante, The Concept of
Law (1961). L’articolo di Hart prefigura alcune delle idee più importanti della teoria della giustizia come equità (justice as fairness) che Rawls
avrebbe sviluppato.
VI
L’ideale di giustizia
Poi c’è Justice as Reciprocity (1971), un saggio che Rawls aveva preparato per l’insegnamento, inedito in italiano. Si tratta di un lavoro che
si presta, proprio per lo scopo per cui era stato redatto dall’autore, e
per lo stile informale dell’esposizione, a fare da introduzione alla formulazione matura delle idee di Rawls. In questo saggio, in particolare,
emerge l’importanza della nozione di reciprocità per spiegare il carattere che avrebbe un accordo su principi di cooperazione equi. Si chiarisce anche il rapporto tra giustizia distributiva e correttiva che nel pensiero di Hart rimaneva in qualche misura indeterminato. Nel pensiero
di Rawls la prima stabilisce i termini equi della cooperazione sociale e
quindi assume un ruolo fondamentale per individuare il punto di partenza da cui giudicare la giustizia delle interazioni di cui si occupa nello
schema classico, ripreso da Hart, la giustizia correttiva.
Seguono alcuni tra i contributi più rappresentativi alla discussione
sulla teoria di Rawls. In Justice and Rights (1973) Ronald Dworkin discute il metodo di Rawls e i fondamenti della sua teoria della giustizia, soffermandosi in modo particolare sulla concezione dell’eguaglianza che
essa presuppone. In Distributive Justice (1973) di Robert Nozick troviamo invece l’attacco più vigoroso alla concezione della giustizia proposta da Rawls e la presentazione di una prospettiva alternativa basata sui
diritti naturali delle persone. Al libertarismo di Nozick, e alla sua difesa
del libero mercato, si contrappone la critica socialista di G.A. Cohen in
Robert Nozick and Wilt Chamberlain: How Patterns Preserve Liberty (1977).
L’antologia si conclude con la versione rivista di Social Justice (1987) di
Tony Honoré, che discute alcuni dei problemi emersi nei saggi precedenti, prendendo in considerazione le conseguenze pratiche dell’applicazione di diverse concezioni della giustizia sociale all’interno di una
società. Al termine del volume c’è un’ampia sezione di letture ulteriori
che funge da guida elementare alla sterminata discussione sulla giustizia, prima e dopo Rawls.