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RASSEGNA STAMPA
venerdì 15 gennaio 2016
L’ARCI SUI MEDIA
INTERESSE ASSOCIAZIONE
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
WELFARE E SOCIETA’
DIRITTI CIVILI E LAICITA’
DONNE E DIRITTI
BENI COMUNI/AMBIENTE
CULTURA E SPETTACOLO
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L’ESPRESSO
VITA
LEFT
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Da l’Espresso.it del 15/01/16
Svegliatitalia, la risposta al Family day di
Roma
Quaranta piazze in tutta Italia per chiedere il riconoscimento dei diritti
delle persone omosessuali e per l’adozione anche per le coppie dello
stesso sesso. Centinaia di adesioni per superare le discriminazioni. «La
società è cambiata e se ne sono accorti anche i tribunali mentre il
legislatore è ancora fermo»
di Michele Sasso
Un hastgag che diventa una parola d’ordine: Svegliati Italia. «Per fare un primo passo
verso l'uguaglianza. Verso il riconoscimento dei diritti delle persone omosessuali, per
l’adozione anche per le coppie dello stesso sesso, il disegno di legge Cirinnà è solo
l’inizio» spiegano gli organizzatori della manifestazione capillare decisa per il 23 gennaio
nelle principali piazze italiane.
In occasione della discussione in Senato del disegno di legge sulle unioni civili (slittata al
28 gennaio) le associazioni nazionali Arcigay, ArciLesbica, Agedo, Famiglie Arcobaleno,
Mit (Movimento identità transessuale) hanno chiamato a raccolta gli attivisti e le attiviste
portando con sé orologi e sveglie per suonare idealmente la sveglia a un Paese che
attende da troppo tempo il riconoscimento dei diritti delle persone Lgbt (lesbiche, gay,
bisessuali e transgender). Allargando il perimetro della lotta per l’uguaglianza anche a
realtà "laiche" come Amnesty International, Arci, Cgil ed Uaar, l’unione degli atei e degli
agnostici razionalisti.
«Gli organizzatori del family day scendono in piazza contro qualcuno, contrapponendo
famiglie contro famiglie facendo leva sulla paura e la cultura dell’odio per togliere dei
diritti», spiega Marilena Grassadonia presidente delle Famiglie Arcobaleno, l’associazione
di genitori omosessuali. «Invece noi con il nostro amore non stiamo andando contro
nessuno. Abbiamo figli di coppie omosex ormai maggiorenni. È il momento di guardare
alla realtà, se ne sono accorti i tribunali e i giudici, il legislatore non può fare a meno di
accorgesene».
Mentre l e sigle organizzatrici del family day hanno voluto fare una piazza unica e una
prova di forza, la contromanifestazione è basata sull’attivismo "liquido", in tanti luoghi per
spiegare agli italiani che è venuto il momento di dare a tutti gli stessi diritti. Nessun muro
contro muro. Adozioni legittimanti gay e matrimonio egualitario per le migliaia di coppie di
genitori dello stesso sesso che vivono quotidianamente discriminazioni e regolamenti che
non contemplano l’omosessualità: all’estero per partorire e una burocrazia che riconosce
solo la madre biologica.
«In queste ore – commenta Gabriele Piazzoni, segretario di Arcigay – apprendiamo
dell'ulteriore slittamento in avanti della discussione in aula del ddl sulle unioni civili. Un
fatto che è ormai una consuetudine nel dibattito parlamentare su questo tema ma che non
intacca la nostra determinazione: il 28 gennaio con occhi e orecchie ben aperti
presidieremo il dibattito dell'aula. Nessun passo indietro dovrà essere fatto rispetto
all'attuale proposta di legge perché tanti sono i passi in avanti che il nostro Paese deve
ancora compiere per tagliare il traguardo dell'uguaglianza». Un appello al Governo e al
Parlamento per superare la discriminazioni a danno delle persone gay, lesbiche,
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bisessuali e transessuali che non godono delle stesse opportunità degli altri cittadini
italiani pur pagando le tasse come tutti.
Misure concrete come la reciproca assistenza in caso di malattia, la possibilità di decidere
per il partner in caso di ricovero o di intervento sanitario urgente, il diritto di ereditare i beni
del partner, la possibilità di subentrare nei contratti, la reversibilità della pensione, la
condivisione degli obblighi e dei diritti del nucleo familiare, il pieno riconoscimento dei diritti
per i bambini figli di due mamme o di due papà, sono solo alcuni dei diritti attualmente
negati. Questioni semplici e pratiche che incidono sulla vita di milioni di persone. E sui
quali il governo Renzi si è impegnato a legiferare per uscire dal cono d’ombra dei diritti.
Ecco l’elenco delle principali piazze in continuo aggiornamento .
ANCONA 23 gennaio ore 16.30, piazza da definire
AOSTA 23 gennaio ore 15.00, Piazza Émile Chanoux
ASTI 23 gennaio ore 10.30, Piazza S.Secondo
BARI 23 gennaio ore 16.30 piazza del ferrarese
BOLOGNA 23 gennaio ore 16 piazza del Nettuno
CASERTA 23 gennaio ore 17.30, piazza da definire.
CATANIA 23 gennaio, ore 18.30 Piazza Stesicoro.
CREMONA 23 gennaio ore 15.30, Piazza Roma (zona Pagoda)
FIRENZE 23 gennaio ore 15, piazza da definire.
FOGGIA 23 gennaio ore 17.00, Corso Vittorio Emanuele
LUCCA 23 gennaio, ore 16.00, piazza da definire
MANTOVA 23 Gennaio ore 17.00, piazza Mantegna
MODENA 23 gennaio ore 16, piazza da definire.
NAPOLI 23 gennaio ore 16, corteo cittadino
NOVARA 23 gennaio, ore 15.30, piazza da definire.
PARMA 23 gennaio ore 16:00, Piazza Garibaldi
PAVIA 23 gennaio ore 15.30, piazza Della Vittoria
PERUGIA 23 gennaio ore 15.30, Piazza Italia
PIACENZA 23 gennaio ore 15.00, piazza da definire
REGGIO EMILIA 23 gennaio ore 16, piazza Martiri del 7 Luglio
ROMA 23 gennaio ore 15 di fronte al Pantheon (Piazza della Rotonda)
SIRACUSA 23 gennaio ore 21, Largo 25 Luglio (tempio di Apollo)
TARANTO 23 gennaio ore 20, piazza Maria Immacolata
TRIESTE 23 gennaio ore 15.00, piazza da definire.
UDINE 23 gennaio ore 15, Piazza San Giacomo
VARESE 23 gennaio, ore 15.00, piazza Monte Grappa.
VERCELLI 23 gennaio ore 15:00, piazza Cavour
VIAREGGIO 23 gennaio ore 16.00, piazza Mazzini
VICENZA 23 gennaio ore 16 piazza dei Signori
Roma, presidio permanente al Senato dal 26 gennaio alle 16:00 al 28 gennaio alle 14:00
nella piazza delle Cinque Lune.
http://espresso.repubblica.it/attualita/2016/01/14/news/svegliatitalia-la-risposta-del-mondolgbt-al-family-day-di-roma-1.246828
del 15/01/16, pag. 4
Così il team antimafia perse la partita
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La polemica. Il «partito dell’onestà» contro la squadra di calcio sottratta
ai boss e sostenuta da Libera
Angelo Mastrandrea
Non era mai accaduto, in Italia, che una squadra di calcio, sia pur di un campionato
minore, fosse recuperata alla mafia. Il piccolo miracolo è avvenuto a Quarto, 40 mila
abitanti alla periferia nord di Napoli che si è visto sciogliere il Comune per infiltrazioni
camorristiche per due volte in vent’anni. Sequestrata nel 2012 dalla procura di Napoli
perché sotto il controllo del clan Polverino, che si spartisce il territorio con i potenti
Nuvoletta affiliati a Cosa Nostra, la Ssd Quarto era stata affidata a un commissario, Luca
Catalano. A quest’ultimo il pm Antonello Ardituro, per non attendere i tempi lunghi della
confisca, diede il mandato di affidare la gestione a una società creata ex novo, la Nuova
Quarto per la legalità, della quale fu nominato «dirigente unico» Luigi Cuomo, già
presidente dell’associazione anti-racket Sos Impresa. Fu messa in piedi una rete di piccoli
imprenditori e azionisti (quota massima, tassativamente, di non oltre 5 mila euro a testa) e,
con il sostegno di Banca Etica e dell’associazione Libera la squadra recuperata ripartì e, al
suo primo campionato, fu promossa dalla Promozione all’Eccellenza. Il campo sportivo fu
affidato dai commissari prefettizi che reggevano il Comune al singolare team, che si
fondava su un rigoroso codice di comportamento da rispettare, in campo e fuori. In tre anni
sul prato sintetico del Giarrusso hanno sfilato in tanti: la Carovana antimafie dell’Arci, una
rappresentanza in maglietta e pantaloncini dell’Associazione nazionale magistrati, perfino
la Nazionale di calcio allenata da Cesare Prandelli.
La squadra anticamorra non ha però avuto vita facile. Fin dall’inizio è stata bersagliata da
intimidazioni e attentati: una volta le reti delle porte bruciate, un’altra le panchine segate,
un’altra ancora il furto notturno dei trofei vinti (tra i quali quello a un torneo per la legalità)
nonostante le telecamere a circuito chiuso. Allenamenti e partite erano rigorosamente
blindati, al punto che la Nuova Quarto era soprannominata «la squadra degli sbirri». Dopo
una partita particolarmente difficile a Villa Literno, Cuomo era sbottato: «Ogni trasferta per
noi si trasforma in una caccia all’uomo».
L’utopia della Nuova Quarto è durata tre anni, fin quando ai commissari prefettizi è
succeduto in Comune il partito dell’«onestà»: il Movimento 5 Stelle. È accaduto che la
neosindaca Rosa Capuozzo, il cui nome in questi giorni è sulla bocca di tutti, appena
insediata ha convocato i dirigenti della squadra presentando il conto della gestione
dell’impianto: sei mesi di arretrati da versare più altri sei mesi di anticipo. Troppo per una
società già in crisi, retrocessa in Promozione e abbandonata dal mister Ciro Amorosetti
dopo che i giocatori migliori erano stati ceduti per le difficoltà economiche. Il 24 agosto
scorso, nemmeno tre mesi dopo l’insediamento dei pentastellati, Cuomo ha riconsegnato
le chiavi del campo sportivo al Comune e non ha iscritto la squadra al nuovo campionato,
dichiarando con accento polemico: «La verità è che l’unico obiettivo della sindaca è stato
di liberare lo stadio da noi». Per farci cosa?
La vicenda sarebbe da relegare tra le tante esperienze positive del sud Italia durate lo
spazio di un mattino, se la vicenda del Giarrusso non fosse al centro delle ipotesi
investigative del pm napoletano Henry John Woodcock. Tutto ruota attorno alla figura di
Giovanni de Robbio, con 840 preferenze il consigliere grillino più votato al Comune. È
quest’ultimo a ricevere, in un’intercettazione tra il primo e il secondo turno delle comunali,
l’indicazione di votare Capuozzo per fare in modo che lo stadio fosse affidato
all’imprenditore di pompe funebri Alfonso Cesarano, considerato vicino al clan Polverino,
noto per aver organizzato le spettacolari esequie del boss Vittorio Casamonica a Roma, le
cui immagini la scorsa estate avevano fatto il giro del mondo.
La prima cittadina, «parte lesa» nell’inchiesta in quanto vittima dei «ricatti» di De Robbio,
si è difesa sostenendo che il M5S ha riportato lo stadio in mano pubblica senza
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consegnarlo a nessuno. Ma allora perché accanirsi contro la Nuova Quarto? Il sospetto è
che sia stata favorita un’altra squadra. Si tratta del Quartograd, interessante progetto di
«calcio popolare» nato per iniziativa dei Carc (i Comitati di appoggio alla resistenza per il
comunismo). Il Quartograd, che in pochi anni ha scalato i campionati minori dalla Terza
categoria alla Promozione, è una squadra antifascista e antirazzista in cui giocatori, tifosi e
azionisti sono alla pari. Ogni domenica attira centinaia di tifosi sugli spalti del Giarrusso e
pure nelle trasferte, dove sventolano le bandiere con i due martelli incrociati su una stella
rossa, simbolo della squadra. La star è il ventinovenne Diego Armando Maradona Sinagra,
figlio tardivamente riconosciuto del pibe de oro e della napoletana Cristina Sinagra, che
già giocava nella Ssd Quarto del presidente Castrese Paragliola. Quest’ultimo è oggi in
carcere, e ha suscitato polemiche la recente partecipazione a un triangolare con la
Quartograd di suo figlio Sabbatino, che dalla sua pagina Facebook ha poi osannato il
genitore e la vecchia società.
L’ipotesi è che Capuozzo abbia ricambiato un favore: i Carc hanno sostenuto i 5 Stelle,
con una spericolata operazione di “entrismo” in un movimento considerato l’unica
opposizione reale a Pd e Pdl. Ma il buco nella ciambella è riuscito solo in parte: volevano
un assessore allo Sport e non l’hanno ottenuto. Da allora i rapporti paiono essersi
raffreddati al punto che la Quartograd oggi denuncia che da quando il Giarrusso è tornato
al Comune è costretta ad allenarsi senza corrente né acqua calda.
Avrebbe potuto essere un derby tanto bello quanto insolito, quello tra le due squadre di
Quarto. Peccato che si sia giocato fuori dal campo, con un arbitro apparso di parte: i 5
Stelle. E che attorno ad esso continui ad aleggiare l’ombra della camorra, che – questo è
chiaro – non ha mai digerito lo sgarro di una squadra recuperata e restituita alla città.
del 15/01/16, pag. VII (Firenze)
Rossi: “Incontrerò i tre ragazzi gay,
mobilitiamoci”
Il governatore dopo la raffica di casi di omofobia sull’ultimo anche
un’interrogazione in Senato
SIMONA POLI
ROSSI lo vuole incontrare, la senatrice del Pd Cantini presenta un’interrogazione
parlamentare sulla sua denuncia e l’Arci Toscana prepara una campagna per rilanciare le
iniziative per la prevenzione e il contrasto dell’omofobia. La storia che ieri su Repubblica
ha raccontato il diciottenne di Pontedera Daniel Santucci, due volte aggredito e picchiato
per la sua omosessualità, sta scatenando reazioni. «Depositerò un’interrogazione urgente
al ministro Alfano per verificare il comportamento delle forze dell’ordine in merito ai fatti
denunciati dal giovane Daniel Santucci al quotidiano La Repubblica. In modo particolare
voglio appurare se il 113 chiamato dalla vittima dell’aggressione avrebbe derubricato la
vicenda come “privata”. È chiaro che i sempre più frequenti casi di omofobia che si
registrano anche in Toscana, vanno perseguiti in modo drastico, serve una legge ad hoc».
Daniel sostiene di aver subìto un’aggressione a calci e pugni da parte di un gruppo di
giovani qualche giorno fa nella piccola stazione di San Romano, vicino a Pontedera,
mentre da solo aspettava sui binari il treno per Pisa. «Appena se ne sono andati», dice,
«ho chiamato il 113, ero spaventatissimo. Ma i poliziotti mi hanno risposto che sono cose
da risolvere “tra ragazzi” e allora ho deciso di denunciare la cosa pubblicamente». Su
questo punto il questore di Pisa Alberto Francini dice: «Mi riservo qualsiasi valutazione sul
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fatto dopo avere svolto gli accertamenti necessari che certamente faremo per fare
chiarezza e se saranno confermate queste accuse saranno presi provvedimenti nei
confronti dell’operatore».
Il governatore toscano Rossi vuole incontrare personalmente Daniel: «Ci terrei molto a
parlare con lui e anche con gli altri ragazzi che recentemente sono stati oggetto di violenze
e sopraffazioni, quello aggredito a Castelfiorentino e l’altro che è stato contestato in un
liceo di Pisa. Bisogna isolare i violenti e reagire con durezza e punire quando è giusto.
Bisogna anche intervenire prontamente quando arrivano denunce. Parlerò con questi
ragazzi, decideranno loro se l’incontro sarà in forma riservata o pubblica». Rossi pensa
anche ad una iniziativa rivolta alle scuole: «Un tempo la gente scendeva in piazza per
queste cose, credo che sia il caso di valutare di promuovere una mobilitazione insieme ad
associazioni, enti e cittadini. Il prossimo anno dedicheremo all’omofobia uno dei due
appuntamenti in cui la Regione coinvolge studenti e insegnanti, quello del 10 dicembre sui
Diritti dell’uomo e il giorno della Memoria il 27 gennaio. Questi episodi non possono essere
liquidati in modo sbrigativo come “ragazzate”, guai se lo facessimo».
Tanti i commenti sul profilo facebook di Daniel: «Mi ha fatto tanta rabbia leggere sul
giornale cosa ti hanno fatto», scrive un ragazzo che non lo conosce. «Perché tu come
tutte le persone meriti di fare la tua vita come ti pare ». O ancora: «Spero che le persone
che ti hanno fatto del male paghino. Certa gente di merda l’omosessualità la chiama
“malattia”, io la chiamo innamorarsi di una persona per quello che è non per quello che ha
tra le gambe. Forza Daniel».
Maria Chiara Panesi, dell’esecutivo Arci Toscana e coordinatrice per l’associazione della
commissione nazionale diritti civili e laicità, ricorda l’episodio delle presunte “favole
gender” avvenuto a Massa: «Quella manipolazione della realtà dice molto sullo stato di
consapevolezza di un paese che, non a caso, non riesce a fare una legge sull’omofobia.
Servono politiche coraggiose che liberino le persone omosessuali dal timore di sentirsi
sbagliate. Gli aggressori sono tutti giovanissimi ed è evidente che il contrasto all’omofobia
va fatto in particolare nelle scuole. Le denunce sono una piccola parte del fenomeno,
ancora resiste una mentalità che preferisce nascondere anziché mostrare il problema».
Da Pisa Today del 14/01/16
La notte Rossa al Circolo ARCI di Putignano il
23 Gennaio Eventi a Pisa
Circolo ARCI Putignano
Dal 23/01/2016 Al 23/01/2016 Ore 16.30
Piazza Xxv Aprile, 17 · Pisa Putignano
La Staffetta in collaborazione con il Circolo Arci di Putignano, il GAS Putignano, il BiOrto,
Università del Saper Fare e il Circolo Arci Placido Rizzotto organizza la Notte Rossa dei
Circoli Arci in Toscana alla Casa del Popolo di Putignano il 23 gennaio.
Ecco il Programma:
ore 16:30 Presentazione dell'evento e delle realtà organizzatrici al Circolo, inoltre durante
il pomeriggio verranno organizzate attività ed esperienze con le bambine e i bambini.
ore 18:00 Corso organizzato dall'Università del Saper Fare: Regole pratiche e consigli per
un buon rapporto bancario; decreto sul Bail-in.
ore 19:00 Proiezione a cura del Circolo ARCI Placido Rizzotto del documentario
"Filorosso. Arrigo Diodati, la Resistenza, l'ARCI" della durata di 30 minuti dedicato ad
Arrigo Diodati uno dei fondatori storici dell'ARCI
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ore 20:30 Cena a base di Canapa a cura dell Associazione Biorto abbinato alla Hempathy,
birra artigianale a base di canapa prodotta dalla Staffetta.
ore 22:00 un'oretta con Simon&Garfunkel a cura dell'Associazione Arci La Staffetta.
Durante tutto l'evento sarà possibile degustare e conoscere il mondo delle birre artigianali
guidato dal Presidente dell'Associazione.
Per info e prenotazioni mandate un'email a: [email protected] o
[email protected]
http://www.pisatoday.it/eventi/notte-rossa-putignano-23-gennaio-2016.html
Da la Nazione del 14/01/16
Obiettori non in regola in Comune
Il ministero "blocca" quattro giovani. Bufera dopo l’ispezione. Pd:
"Fatto grave, sfiducia nel sindaco"
Santa Maria a Monte, 15 gennaio 2016 - Quattro giovani del servizio civile venivano
impiegati "in attività non previste dal progetto". Questo è quanto è stato riscontrato dagli
ispettori del Dipartimento della gioventù e del servizio civile nazionale della presidenza del
consiglio dei ministri che per due volte hanno effettuato controlli in Comune a Santa Maria
a Monte dopo le segnalazioni dell’Arci nazionale. Le verifiche degli ispettori portano la data
del 27 e del 28 ottobre 2015. La comunicazione ufficiale della presidenza del consiglio dei
ministri con le contestazioni e gli addebiti porta la data del 2 novembre. Quattro degli otto
giovani impegnati nel servizio civile in Comune a Santa Maria a Monte hanno perso
questa opportunità (tra l’altro con conseguente ammanco economico di oltre 400 euro
mensili).
La sanzione irrogata al Comune è la «revoca dell’approvazione del progetto» per quattro
degli otto giovani del servizio civile. I restanti quattro restano al loro posto. Evitata la
cancellazione dall’albo del Comune. Gli ispettori della presidenza del consiglio dei ministri
hanno accertato la destinazione dei volontari del servizio civile in una sede diversa da
quella fissata nel contratto di servizio civile nazionale, con attività non attinenti a quelle
indicate nel progetto. Come è noto, la vicenda del servizio civile al Comune di Santa Maria
a Monte era emersa nello scorso mese di novembre. Erano stati gli stessi responsabili del
progetto, che è gestito dall’Arci nazionale tramite l’Arci Valdera, a mettere in evidenza
certe problematiche riferite, in particolar modo, all’impiego dei giovani in attività diverse da
quelle del progetto e, in alcuni casi, riconducibili a lavori competenti a dipendenti da
ritenere in pianta stabile del Comune.
Tra questi, ad esempio, la segreteria del sindaco che risulta chiusa; gli altri tre erano stati
destinati all’ufficio tecnico. Durissimo il commento dei consiglieri comunali della minoranza
Pd, con il capogruppo Antonio Torrini. «Quanto accaduto è un fatto grave – attaccano i
consiglieri comunali del Pd – Il sindaco Parrella e l’amministrazione devono dare
spiegazione ai cittadini. Utilizzare i ragazzi in attività estranee a quelle del progetto,
talvolta anche in mansioni che competono ai dipendenti comunali, è inconcepibile. Si è
privato questi ragazzi di compiere serenamente un percorso culturale e di crescita ed ora
sono stati rimossi. Il sindaco, nonostante le visite degli ispettori, ha sempre sostenuto di
operare correttamente, anche quando le è stato fatto notare che la volontaria della sua
segreteria oltre a svolgere un’attività improria ricopriva un posto in pianta organica. Come
si può avere fiducia in un sindaco e in una amministrazione cosi?». gabriele nuti
http://www.lanazione.it/pontedera/santa-maria-monte-obiettori-comune-1.1645988
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Da il Friuli del 14/01/16
Cas'Aupa sospende l'attività
Udine - "La chiusura del circolo è dovuta alle differenti interpretazioni dei regolamenti e
delle normative vigenti tra Arci e autorità"
Cas'Aupa si ferma, ma non si piega. Il Circolo Arici di Udine questa sera ha comunicato
con una nota ufficiale pubblicata su Facebook che "le attività del circolo saranno sospese
fino a tempo indeterminato. Cercheremo di garantire lo svolgersi delle iniziative
programmate individuando luoghi adattati, esterni al circolo".
"La chiusura di Cas*Aupa - continua la nota - è dovuta a delle differenti interpretazioni dei
regolamenti e delle normative vigenti tra Arci e autorità ed è già previsto un confronto in
merito. Il circolo è uscito da pochi mesi da una processo durato 5 anni, in cui siamo
risultati assolti. Per la tutela dei soci, dei volontari, e del direttivo vogliamo evitare il
ripetersi di questa situazione.
"Ovviamente, questo periodo di interruzione creerà un gravissimo danno economico alla
nostra associazione - continuano gli organizzatori -: se vi stanno a cuore tutte le attività
svolte in questi ultimi sette anni a Cas’Aupa e volete continuare a sostenere questo
progetto, partecipate numerosi agli eventi che continueremo ad organizzare. Noi vi
promettiamo che lavoreremo per tornare ad essere la vostra casa quando siete fuori
casa".
http://www.ilfriuli.it/articolo/Cronaca/Cas-quote-Aupa_sospende_l-quoteattivit%C3%A0/2/150720
Da Estense.com del 14/01/16
Il rock ‘muore’ a Ferrara
Ultimo party rock'n'roll al Renfe. Gli organizzatori: "Stava calando
l'affluenza ma forse torneremo"
Rock never dies. Non è sempre vero. O almeno non a Ferrara. Rimasta orfana di uno
degli appuntamenti più amati da tutti i giovani rockettari di Ferrara e provincia: il Rock in
Town. La celebre serata del Renfe chiude i battenti dopo 5 anni di onorata carriera a suon
di pogo. L’ultima festa ad alto contenuto rock sarà domani, venerdì 15 gennaio, in
compagnia degli Strike. Dopo il live della nota band ferrarese, tutti in pista per ballare fino
alle 4 del mattino sotto le note dei grandi del rock vecchia scuola. Ed è proprio questo uno
dei problemi che ha portato questa bella avventura al capolinea.
“Il rock old school ha fatto il suo tempo, il punto di forza della serata è che aveva una bella
identità che, però, non è riuscita ad adeguarsi ai tempi che cambiavano” commenta
Michele ‘Sam’ Castellazzi, uno degli organizzatori che ha assistito, con rammarico, al
“passaggio di tendenze dal rock duro e incazzato a quello più leggero e fresco”. “Ora la
gente è più votata all’indie e, per questo, stava calando l’affluenza alle nostre serate” nota
Sam che impugna la causa della chiusura anche alla mancanza di disponibilità degli stessi
organizzatori: “Non c’è più tempo per starci dietro come a un figlio” scherza il ‘papà’ del
fomat disco-rock che ne parla come se fosse una sua creatura.
Ma è davvero un addio? “Per il momento è la fine del Rock in Town a cadenza mensile, ci
prendiamo un po’ di tempo per pensare se e come si può riproporre” replica Sam che,
insieme ai compagni di avventure Giori e Pedro, sta varando due possibili opzioni: “O un
ritorno a spot un paio di volte l’anno o trasformarlo in qualcosa di nuovo”. E come verrà
rimpiazzato il venerdì che rimane libero dalla programmazione? “Confermati gli
appuntamenti reggaeton, Remember e Gimme Five, che rimangono in piedi e blindati, si
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sta pensando a una serata funky e di riproporre l’appuntamento trash. In attesa di capire
che fine faremo, manteniamo il marchio vivo: non vogliamo scomparire ma ragionarci
sopra”.
C’è ancora spazio per la speranza, la stessa che nel febbraio 2011 aveva portato i tre
organizzatori a proporre questo format al Renfe. Sam aveva già organizzato due date rock
al College, Giori veniva dall’esperienza dell’Urban che stava chiudendo e Pedro lavorava
per lo Zoo come pr e voleva fare il salto di qualità: insieme hanno deciso di credere in
questo progetto e hanno trovato il locale di via Bologna più che predisposto a realizzarlo.
Da allora, decine di band hanno suonato nel circolo Arci e una miriade di giovani hanno
cantato a squarciagola i pezzi dei Doors, Led Zeppelin, System of a Down, Clash, Kiss,
Guns N’ Roses, Nirvana e Foo Fighters.
Nella scaletta in stile Virgin Radio non potrà mancare un tributo a David Bowie. La
chiusura della serata sarà dedicata al Duca Bianco con la proposta di “Heroes” come
ultima canzone. Nella stessa settimana muore il re del rock e il Rock in Town. Non rimane
che salutare degnamente l’ultimo Rock in Town di sempre con il live degli Strike e il dj set
di Cuki e Paolo Ameschi che, fra l’altro, sono gli ideatori delle mani giganti di cartone. Un
souvenir che è appeso in tutte le camere dei veri fan del party rockettaro del Renfe. Uno
zoccolo duro che è duro a morire. A loro gli organizzatori lanciano un ultimo, rincuorante,
messaggio: “Rock’n’roll will never die”.
http://www.estense.com/?p=521300
Da il resto del carlino del 14/01/16
Cortei, il prefetto rassicura "Massiccio
cordone di sicurezza"
Di Bari: "Numerosissimi uomini ‘assoldati’ per la giornata di sabato,
siamo fiduciosi che tutto si svolga nella massima serenità possibile"
di VALENTINA REGGIANI
Modena, 15 gennaio 2016 - «Grazie ai servizi predisposti, ai rinforzi repentinamente
richiesti e alle misure valutate nel corso del comitato sicurezza pubblica – come sempre
avviene per manifestazioni di questo genere – siamo fiduciosi sul fatto che la giornata si
svolga nella massima serenità possibile». Il prefetto Michele di Bari ‘getta acqua sul fuoco’
in merito al presidio di Forza Nuova, previsto per le 16 di domani e legato alle minacce
subite a Vignola da un gruppo di minori, ad opera di quattro giovani stranieri. Il prefetto,
nel ricordare come sia stato rispettato il diritto a manifestare, spiega che saranno presi tutti
gli accorgimenti tecnici necessari, al fine di mantenere la situazione il più serena possibile.
«Il cordone di forze dell’ordine – commenta – sarà massiccio, grazie ai numerosissimi
uomini ‘assoldati’ per l’occasione».
Eppure l’aggettivo ‘traquillo’ o ‘sereno’ non si lega facilmente al clima che si respira in
queste ore in città. Sono numerose le reazioni esplose ieri, a seguito della scelta del
prefetto di consentire comunque la manifestazione e nel cuore della città, piazzale
Redecocca. Dopo le scritte apparse mercoledì mattina sui muri del centro, che senza
mezzi termini chiedono ai fascisti di restare lontani da Modena, ieri anche gli esponenti di
Forza Nuova hanno fatto sentire la propria voce, spiegando di non essere intenzionati a
rispondere alle provocazioni. «Proprio ieri è uscito il rapporto 2015 sul mercato del lavoro
in Regione e la maglia nera per l’incremento della disoccupazione giovanile spetta a
Modena, con un +9,1% di ragazzi e ragazze tra i 15 e i 29 anni senza lavoro. È su dati
terrificanti, come quello sopra citato – affermano gli esponenti di Fn –, che Gian Carlo
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Muzzarelli dovrebbe lavorare. Al contrario, il primo cittadino continua ad aizzare e
scatenare l’ira dei centri sociali, che stanno imbrattando e devastando le mura del centro
storico con frasi agghiaccianti».
Insomma la tensione, inutile negarlo, è alta. Ogni ‘fazione’ che scenderà domani in piazza
ha detto la sua, dichiarando ‘guerra’ agli esponenti di Forza Nuova. «Come gruppo
antifascista modenese – scrivono i rappresentanti dello stesso – scenderemo nelle strade
sabato per ribadire il nostro dissenso alla manifestazione di Forza Nuova. Il movimento è
antagonista e dichiara in maniera ferma e irreversibile che il fascismo troverà a Modena
una ferma opposizione; tutti e tutte saremo per le strade della nostra città a non
permettere che le loro bandiere e i loro slogan possano essere ostentati». Intanto la
sinistra invita la cittadinanza a partecipare al presidio organizzato da Anpi, Cgil, Uil, Arci
contro la manifestazione, in programma domani alle 14.30 presso il Sacrario della
Ghirlandina. «La manifestazione sarà in Piazza Redecocca, in quella stessa piazza nata
dal bombardamento del 13 maggio del 1944, in cui persero la vita più di cento persone»
spiegano i partiti. Anche la Lega non la ‘manda a dire’, accusando invece la sinistra di
essere ufficialmente in crisi. Anche i marxisti-leninisti di Modena e provincia insorgono,
condannando con forza la manifestazione. «Non ci spieghiamo come mai sia stato
concesso, da questura e prefettura, a un movimento bandito dalla Costituzione italiana,
suolo pubblico per esprimere liberamente le proprie idee cariche di odio».
Da Gazzetta di Reggio del 14/01/16
Forza Nuova ottiene il via libera a Modena
A Reggio Luca Vecchi si era limitato a definire la manifestazione della destra una «stupida
provocazione» condita da «proclami aberranti», sottolineando l'inopportunità del suo
svolgimento in un luogo che è simbolico per l'antifascismo reggiano. A Modena, invece, il
sindaco Carlo Muzzarelli aveva chiuso la porta in faccia al gruppo d’estrema destra Forza
Nuova, proponendo di impedire il comizio del suo leader, Roberto Fiore, che aveva chiesto
la concessione della centralissima piazza XX Settembre per una manifestazione da fare
sabato, come a Reggio. «Si tratta – aveva dichiarato Muzzarelli – di un'offesa alla città.
Chiederò che non venga concessa a Forza Nuova nè piazza XX Settembre, nè alcuno
degli altri luoghi carichi di significato per la storia antifascista». In questi casi, però, l'ultima
parola spetta ai rappresentanti del Governo. Il prefetto Michele Di Bari ieri ha preso una
decisione che soddisfa solo in minima parte la richiesta del sindaco. Forza Nuova non
avrà a sua disposizione piazza XX Settembre, ma un altro luogo più defilato e meglio
controllabile dalle forze dell'ordine, piazzale Redecocca. Il Comitato per l’ordine e la
sicurezza della Ghirlandina s’era riunito per discutere l’iniziativa di Forza Nuova, che
prende lo spunto dai
fatti di Vignola, dove alcuni giovani italiani sono stati minacciati da quattro coetanei
stranieri islamici. Cgil, Uil, Arci e Anpi formeranno nel pomeriggio un presidio antifascista,
organizzato in piazza Torre. Una contromanifestazione sarà svolta al mattino dal Collettivo
Guernica. (l.s.)
http://gazzettadireggio.gelocal.it/reggio/cronaca/2016/01/14/news/forza-nuova-ottiene-ilvia-libera-a-modena-1.12780381
Da Tele Reggio del 14/01/16
Destra e sinistra domani in piazza
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In piazza Martiri del 7 luglio, alle dieci, si sono date appuntamento realtà e associazioni di
destra. Fino alle 13.30 manifesteranno il loro ‘orgoglio’, contesteranno l’amministrazione di
centro sinistra esprimendo anche vicinanza alle persone denunciate dalla Digos per i blitz
a sfondo razzista avvenuti nelle scorse settimane ai danni di sedi della Caritas, della
Dimora di Abramo, di sindacati e di partiti avversari. L’iniziativa ha suscitato, oltre che a
lunghi strascichi di polemiche, una viva risposta da parte delle associazioni e delle forze
politiche antifasciste di Reggio.
In piazza Prampolini, sempre a partire dalle 10, si terrà la manifestazione organizzata
dall’Anpi. Al fianco dei partigiani ci saranno anche il sindaco e il presidente della provincia,
assieme al Pd, i sindacati e a una schiera di associazioni, da Istoreco all’Arci. A porta
Santa Croce si raccoglieranno i partecipanti dell’altra contromanifestazione, indetta dai
centri sociali, alla quale hanno aderito anche la Fiom e l’Arcigay. Si tratta di un corteo, che
sfilerà in direzione di Piazza Del Monte, e che potrebbe poi confluire nella vicina iniziativa
davanti al Municipio, se verrà raccolto l’invito dei partigiani a una unirsi in una piazza
antifascista forte e plurale.
Ampio sarà il dispiegamento di forze dell’ordine. Principale compito degli agenti evitare
parapiglia tra persone di orientamento opposto. Per questioni di sicurezza è stato fatto
spostare in piazza Fontanesi il banchetto che la Lega Nord avrebbe dovuto allestire in
piazza del Monte.
di Andrea Bassi
http://www.telereggio.it/2016/01/15/destra-e-sinistra-domani-in-piazza/
Da Reggio Online del 14/01/16
Destra e Sinistra in piazza: con l'Arci anche
Massimo Zamboni e Mara Redeghieri
Hanno risposto all'appello diversi artisti: tra gli altri Massimo Ghiacci (Modena City
Ramblers), Fabrizio Tavernelli, Max Collini (Offlaga Disco Pax, Spartiti), Jukka Reverberi
(Giardini di Mirò), Little Taver, Gasparazzo, Brigata Lambrusco, Olivier Manchion (Arzan)
Massimo Zamboni
REGGIO EMILIA - La contromanifestazione organizzata dall'Anpi e altre sigle legate alla
Resistenza e alla sinistra per sabato mattina in piazza Prampolini a Reggio per replicare
alla presenza della Destra in piazza Martiri (leggi), continua a raccogliere adesioni. Anche
l'Arci sarà in piazza con l'Anpi per "manifestare l’inopportunità di consegnare piazza Martiri
del 7 luglio a un raduno delle destre, si tratta infatti di uno dei luoghi simbolo
dell'antifascismo nazionale, che la destra continua a chiamare “Piazza Cavour” negando
così l'eccidio del 1960".
Arci ha lanciato un appello ai musicisti e agli artisti affinché siano in piazza sabato mattina.
Hanno già aderito all’appello dell’associazione Massimo Ghiacci (Modena City Ramblers),
Fabrizio Tavernelli, Massimo Zamboni, Mara Redeghieri, Max Collini (Offlaga Disco Pax,
Spartiti), Jukka Reverberi (Giardini di Mirò), Little Taver, Gasparazzo, Brigata Lambrusco,
Olivier Manchion (Arzan), e altri che in queste ore stanno facendo pervenire la propria
adesione.
"C’è una canzone in particolare che ricorda bene quanto sia inopportuna la presenza della
destra in piazza Martiri del 7 luglio - chiosa l'Arci - Si chiama Per i morti di Reggio Emilia e
la scrisse Fausto Amodei il cui nome è legato indissolubilmente a quello dei
Cantacronache. Questo brano scritto nel 1960 in occasione degli scontri reggiani tra gli
operai e la Celere del governo Tambroni è ancora conosciutissima ed stata reinterpretata
da decine di artisti".
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Sul fronte opposto, Pietro Negroni, che della manifestazione “Libertà ed Orgoglio della
Destra a Reggio Emilia” è uno degli ideatori, risponde agli attacchi accusando il sindaco
Vecchi e le forze di sinistra di aver tentato di "cancellare una manifestazione legittima" e di
aver creato un "clima di assurda tensione".
http://www.reggionline.com/?q=content/destra-e-sinistra-piazza-con-larci-anche-massimozamboni-e-mara-redeghieri
Da Sassuolo 2000 del 14/01/16
Giorno della Memoria: “Dalla notte all’alba
della democrazia” e il pranzo a Novi di
Modena
GiornataMemoria-NoviNell’ambito della ricorrenza del Giorno della Memoria, sabato 23 e
domenica 24 gennaio, al Circolo Arci Taverna di Novi di Modena sono in programma
rispettivamente l’history telling “Dalla notte all’alba della democrazia” e il tradizionale
pranzo dell’Anpi novese.
La Storia e la Memoria ispirano lo spettacolo che va in scena sabato 23 gennaio alle ore
21. Si tratta dell’history telling “Dalla notte all’alba della democrazia”, ovvero il racconto di
memoria, musica, parole e immagini di Stefano Garuti, Francesco Grillenzoni e Giovanni
Taurasi che ripercorre la storia della provincia modenese tra guerra, Resistenza e
dopoguerra.
Uno storico (Taurasi) e due musicisti (Grillenzoni e Garuti, voce, chitarra e fisarmonica dei
Tupamaros) ripercorrono il triennio tra l’8 settembre 1943 e il 2 giugno 1946, giorno del
referendum per la Repubblica e dell’elezione dell’Assemblea Costituente, con una
narrazione che si muove tra storia, memoria, testimonianze e musica, e tra la dimensione
locale della provincia di Modena e la dimensione nazionale, nel periodo più cruciale della
storia d’Italia.
Lo spettacolo racconta in modo originale uno dei periodi cruciali della nostra storia, locale
e nazionale, attraverso brani della tradizione popolare e contemporanei, arrangiamenti
arditi e versioni dialettali inedite.
L’history telling, giunto alla sua quinta tappa nel tour che sta attraversando la provincia
modenese, si pone nel contesto delle celebrazioni del Giorno della Memoria. Per
l’occasione, quindi, approfondirà in particolare i temi della deportazione e dello Shoah.
Lo spettacolo organizzato dall’ANPI di Novi e Rovereto, è anche promosso da
quest’ultimo, oltre che dal Comune di Novi di Modena e dall’Istituto storico di Modena.
Le celebrazioni legate al Giorno della Memoria proseguono domenica 24 gennaio, alle
12.30, con il pranzo di tesseramento organizzato dall’Anpi di Novi di Modena. Si tratta di
un momento conviviale ormai consolidato nell’agenda e legato fortemente alla ricorrenza,
nonché occasione di incontro tra il passato costellata da tragici eventi e un presente in cui
la memoria diventa occasione di rielaborazione, riflessione e progettazione.
Per informazioni e adesioni al Pranzo di Tesseramento dell’Anpi di Novi di Modena – 24
Gennaio
Fabio Gregori: 338-8702273 – Veles Gallesi: 338-3765509.
http://www.sassuolo2000.it/2016/01/14/giorno-della-memoria-dalla-notte-allalba-dellademocrazia-e-il-pranzo-a-novi-di-modena/
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Da il mattino del 14/01/16
Matierno, dopo il raid arriva il fuoco
di Rosanna Gentile
Notte di lavoro per i caschi rossi di Salerno a Pastorano: alle 21.30 di mercoledì un vasto
incendio divampa nel campo container di via dei Sanniti ed è subito caos.
Completamente distrutti due moduli abitativi, salvato dalle fiamme un terzo. Per fortuna
non si sono registrati danni a persone, solo attimi di agitazione e tanto spavento per i
residenti, ancora sconvolti dal raid violento di domenica sera ai danni di alcuni cittadini
stranieri del centro Sprar Arci di Matierno.
Ancora una volta sirene nei quartieri collinari, dunque, ma dei vigili del fuoco, il cui
tempestivo intervento ha scongiurato il peggio circoscrivendo il rogo ed evitando che si
estendesse.
Per domare le fiamme sono state necessarie più di due ore di lavoro, l’impiego di tre
squadre e di rispettive autobotti. Sulla causa dell’incendio indagano, ora, le forze
dell’ordine concentrate a seguire la pista del dolo. A suggerire questa ipotesi, da vari
elementi come l’aver trovato recisa la catena che teneva chiuso il cancello della
recinzione. Dettaglio, questo, che presenta ancora delle ombre: bisogna ancora capire se
a tagliare la catena siano stati gli autori del rogo o semplicemente dei senza tetto alla
ricerca di un posto dove trascorrere la notte.
Realizzato nel 1980 all’indomani del devastante terremoto dell’Irpinia per dare
momentaneo alloggio a coloro che avevano perduto la propria casa, il campo è stato
abbandonato solo di recente. L’amministrazione comunale, non senza fatica, è riuscita a
spopolare definitivamente il campo dissuadendo nuove occupazioni abusive delle casette,
divenute negli anni inefficienti e fatiscenti. E proprio per evitare ciò l’area è stata
totalmente transennata.
http://www.ilmattino.it/salerno/matierno_dopo_raid_arriva_fuoco-1482975.html
Da Il caffè.tv di Latina del 14/01/16
Quei 45mila stranieri che abitano a Latina e
che vogliono restare
Spesso sono visti con diffidenza e raramente si integrano ma, a conti fatti, sono una
risorsa preziosissima: sono i 45.749 stranieri, comunitari o con regolare permesso di
soggiorno, che lavorano, versano periodicamente i contributi e spendono nella nostra
provincia. E’ quanto emerso dal dossier statistico immigrazione 2015, realizzato dal Centro
Studi e Ricerche Idos, in partenariato con la rivista interreligiosa “Confronti” e con la
collaborazione di Unar (Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali). I dati, frutto di una
meticolosa ricerca racchiusa in un volume di 480 pagine, sono stati presentati, e poi
commentati nell’ambito di un convegno organizzato dall’Arci di Latina da Elvis W. Koloko,
dell’ufficio immigrazione nazionale, Raniero Camerotti, referente regionale del centro
ricerche Idos, ed Ejaz Ahmad, giornalista e mediatore culturale. In un solo anno, il numero
degli stranieri in provincia di Latina è aumentato del 6,8%, oltre il doppio rispetto
all’incremento nazionale (3,3%) ed il triplo in rapporto alle altre province laziali, ma gran
parte di questi nuovi arrivati è subito stato inserito nelle aziende agricole pontine la cui
carenza di manodopera è diventata ormai cronica. Terre fertili, prodotti tipici e commercio
agroalimentare non fanno più gola ai cittadini del posto che si stanno spostando in massa
al nord, sia d’Italia che d’Europa (i pontini residenti all’estero, ovvero gli iscritti all’AIRE,
alla fine del 2014 erano ben 26.348), incentivando così indiani e bengalesi a trasferirsi in
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provincia di Latina con moglie e figli. A dimostrarlo il fatto che siano calati drasticamente i
trasferimenti di denaro all’estero (-2,8%), che siano incrementate le nascite (678 i bimbi
nati da genitori non italiani in un solo anno) e che sia cresciuto il numero degli studenti
(6325, oltre il 7% del totale). E se lo sfruttamento è un fenomeno ancora troppo diffuso,
sono molti coloro che ce la fanno e che, giorno dopo giorno, migliorano la propria
posizione economica, lavorativa e sociale. Basti pensare che in provincia di Latina sono
ben 3698 le imprese cosiddette a gestione immigrate, ovvero quelle in cui la metà dei soci
e degli amministratori sono stranieri, per un incremento complessivo rispetto allo scorso
anno di quasi il 10%.
Indiani: gli stranieri più virtuosi
Statistiche alla mano, il fatto che siano gli indiani gli stranieri più numerosi in provincia di
Latina è una vera e propria fortuna. Secondo il rapporto dell’Unar infatti, spendono più
rispetto ad altri immigrati nei luoghi in cui risiedono tendendo ad inviare denaro nella loro
città d’origine soltanto quando non hanno altra scelta (a differenza dei cinesi che
trasferiscono nella madre patria interi stipendi). Hanno inoltre un concetto molto profondo
della famiglia, motivo per cui tendono a portare in Italia non solo mogli e figli, ma anche
genitori e parenti lontani che vivono e spendono nel Bel Paese i propri risparmi. Stando ai
dati, sono anche coloro che delinquono di meno (il dossier non tiene però in
considerazione il fattore irregolari) e sono considerati dei gran lavoratori. Essendo
extracomunitari e mettendo al primo posto l’ottenimento del permesso di soggiorno, gli
indiani sono anche gli stranieri che evadono di meno le tasse. Basti pensare che sul totale
dei non nati in Italia residenti in provincia, sono 14.662 i registrati all’Inail come occupati,
ovvero quasi un terzo del totale, al contrario dei rumeni i quali, secondo i numeri,
accetterebbero di buon grado anche un impiego in nero.
http://www.ilcaffe.tv/articolo/20380/quei-45mila-stranieri-che-vogliono-restare
Da il Giornale di Brescia del 14/01/16
Libri in movimento: si inizia con il Dono
LIBRI IN MOVIMENTO
Cinque temi e una ventina d’incontri per la prima edizione della rassegna letteraria
itinerante «Libri in movimento», promossa dai circoli Arci Caffè Letterario Primo Piano,
Colori e Sapori, Puerto Escondido - L’Altro, e la rivista «Inkroci» dell’associazione di
promozione sociale Magnolia Italia.
Tutti i venerdì sera, fino a fine maggio, nelle sedi dei tre circoli saranno presentati libri (e
autori), secondo un calendario tematico a scadenza mensile, stimolando riflessioni e
incontri.
«Si tratta di un’iniziativa che consente di fare rete, sia territoriale sia culturale» commenta
Laura Castelletti, vicesindaco e assessore alla Cultura del Comune, che ha concesso il
suo patrocinio insieme a Provincia, Arci provinciale, Cgil, Anpi e Fondazione Asm.
«È il format a essere particolare - chiarisce Lara Gregori, caporedattore di «Inkroci» -. Non
si tratta di singole presentazioni di libri con scopo autopromozionale, bensì di una
rassegna tematica durante la quale i libri diventano compagni di viaggio».
Venerdì 15 gennaio il primo appuntamento, alle 20.30 nella sede di Puerto Escondido a
Calvagese, in località Terzago 11. Il tema di gennaio, il Dono, sarà inaugurato dalla
scrittrice Laura Mazzeri, autrice del volume «Tra due vite. L’attesa, il trapianto, il ritorno.
Una storia vera». I prossimi mesi, invece, saranno dedicati al tema delle Maschere
(febbraio), delle Migrazioni (marzo), delle Resistenze (aprile) e del Lavoro (maggio). Ai
«venerdì della narrazione» si aggiungono un incontro seminariale sulla storia della
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Resistenza italiana, sabato 2 aprile, e una due giorni conclusiva della manifestazione, l'11
e il 12 giugno, dedicata ai mestieri del libro
http://www.giornaledibrescia.it/brescia-e-hinterland/libri-in-movimento-si-inizia-con-il-dono1.3059943
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INTERESSE ASSOCIAZIONE
Da Redattore Sociale del 14/01/16
Riforma terzo settore, il Forum: "Traguardo
vicino ma attenzione a..."
Documento del Forum sugli ultimi punti critici affrontati nella
discussione parlamentare sul testo del disegno di legge delega. Il
portavoce Barbieri: “Fisco, rappresentanza e autofinanziamento non
vanno ignorati”
14 gennaio 2016 - 17:48
ROMA – L’autofinanziamento, il sistema fiscale, la questione della rappresentanza: anche
dopo i passi avanti delle ultime settimane, restano ancora alcuni punti non chiariti che
rischiano di rimanere tali e di essere rinviati al futuro, segnatamente ai decreti attuativi che
toccherà al governo predisporre. A segnalare il rischio e a chiedere un supplemento di
attenzione è il Forum del terzo settore, che presentando il documento “La riforma che
vorremmo” chiama a Roma, in un incontro pubblico, il sottosegretario Luigi Bobba, il
senatore Stefano Lepri, il deputato Paolo Beni a fare il punto della situazione sulla riforma
del terzo settore. Provvedimento che pare destinato ad accelerare dopo essere rimasto
impantanato per mesi in Commissione Affari costituzionali al Senato, dove era approdato
dopo l’approvazione in prima lettura alla Camera il 9 aprile 2015.
Quattro pagine per spiegare quello che va bene, i chiarimenti e le precisazioni che rispetto
al testo Camera sono state concordate e che saranno votate nelle prossime settimane, e
quei punti sui quali ancora il Forum chiede un supplemento di analisi. Il portavoce Pietro
Barbieri segnala il tema dell’auto-finanziamento delle organizzazioni, segnatamente quelle
di promozione sociale, che aiutano la comunità “senza gravare in alcun modo sulle tasche
dello Stato”.
Resta aperto il tema del volontariato, la necessità di consentirgli uno sviluppo permettendo
ai cittadini di esprimere se stessi attraverso la partecipazione: “Dobbiamo regolare la
gigantesca sperimentazione che di fatto è stata messa in campo a partire dalla legge 266
e vanno messe regole per impedire il lavoro nero e regolare i rimborsi spese”. Poi c’è il
fisco: “C’è ancora una somma confusione su cosa si debba scrivere nel testo di legge,
dice Barbieri, ma il sistema fiscale per il terzo settore è oggettivamente insostenibile per la
gran quantità di norme che originano anche situazioni kafkiane: se si vuole sostenere il
terzo settore e la sua capacità di spinta sociale, la questione fiscale va affrontata tutta”. E
Barbieri sottolinea in particolare la situazione delle molte attività culturali o di sport per tutti
che “oggi vengono equivocate” e senza le quali però “questo paese non avrebbe
possibilità di far svolgere attività relazionali e sportive ad un gran numero di cittadinI”.
Infine, il tema della rappresentanza. Il nuovo testo di legge conterrà un nuovo organismo,
chiamato Consiglio nazionale del terzo settore: “Ben venga questo spazio istituzionale di
incontro con le organizzazioni, visto che gli Osservatori che fin qui si sono avuti non hanno
funzionato. Apprezziamo lo sforzo, anche se resta il fatto che questo mondo, che nasce
dal basso, fatica ad essere rappresentato in luoghi istituzionali”. “La riforma del terzo
settore – conclude Barbieri - è una opportunità gigantesca per tutti, occorre arrivare presto
ad un testo definitivo evitando il rischio di un percorso parlamentare infinito”. (ska)
Riforma terzo settore, il governo: “Accelerare
subito”
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Il sottosegretario Bobba invita il Parlamento a cambiare passo: “Risolti
nelle ultime settimane molti nodi critici, ora la vera emergenza non è sui
contenuti ma sui tempi”. Fra gli emendamenti un fondo esclusivo
dedicato alle associazioni: previsti 30 milioni di euro
14 gennaio 2016 - 17:31
ROMA – “La vera emergenza sulla riforma del terzo settore non è tanto sui contenuti ma
sui tempi: bisogna prendere un altro passo, accelerare e arrivare all’obiettivo che all’inizio
della primavera la legge possa essere definitivamente approvata”. Sono parole del
sottosegretario al Lavoro e Politiche sociali, Luigi Bobba, che nel corso dell’incontro con il
Forum del Terzo settore invita lo stesso Forum ad attuare una “robusta sollecitazione”,
definita come “necessaria”. “E’ bene tirare fuori questo provvedimento dal limbo in cui è
caduto al più presto”.
Bobba passa in rassegna alcuni punti della riforma sulle quali si è concentrato il confronto
delle ultime settimane, in particolare negli incontri con i due relatori della riforma, Stefano
Lepri alla Camera e Donata Lenzi al Senato. E sottolinea una delle novità principali dei
nuovi emendamenti presentati al Senato, la previsione di un nuovo fondo per le
associazioni e le organizzazioni del Libro Primo del codice civile che promuova lo sviluppo
di progetti sul territorio: l’emendamento Lepri prevede uno stanziamento di 30 milioni. Una
previsione che si accompagna alla creazione di un “Consiglio nazionale del terzo settore”
come forma di rappresentanza, che sostituiranno i vari Osservatori oggi previsti.
Bobba sottolinea il chiarimento, con lo scioglimento delle ambiguità presenti nel testo della
Camera, che le imprese sociali sono parte integrante degli enti di terzo settore ed esorta a
non “inseguire fantasmi”: un riferimento all’impresa sociale e alla temuta “persecuzione”
delle associazioni relativamente alle ai vincoli nel caso di attività di scambio di beni e
servizi: “L’81% del fatturato del terzo settore è realizzato dal 4,5% degli enti: non c’è
nessun rischio che i controlli si scatenino sull’altro 95,5% degli enti”. L’obiettivo è quello di
incoraggiare le organizzazioni che hanno un bilancio consistente in produzione e scambio
di beni e servizi ad assumere la forma societaria, cooperativa o non.
Bobba parla di “emendamento equilibrato” sui Centri di servizio per il volontariato e
sottolinea la novità maggiore sull’impresa sociale, per cui la destinazione degli utili è
permessa entro i limiti della cooperazione a mutualità prevalente esclusivametne per le
forme societarie, mentre chi fa impresa sociale come associazioni e fondazioni non avrà
alcuna facoltà di redistribuzione degli utili. Sulla parte fiscale, infine, si lavora ancora:
“Stiamo discutendo con i due relatori – dice Bobba - per trovare soluzioni equilibrate”.
(ska)
Riforma terzo settore, il relatore Lepri: “Vicini
al traguardo”
Il relatore al Senato conferma i passi avanti compiuti nelle ultime
settimane con governo e deputati: “Sciolti molti punti critici,
approvazione in Aula entro marzo”. Ancora da chiarire la parte fiscale,
verosimile un suo rinvio ai decreti attuativi
14 gennaio 2016 - 17:22
ROMA – “Siamo vicini al traguardo, abbiamo fatto un duro e impegnativo lavoro, credo che
l’obiettivo di un’approvazione definitiva entro la primavera possa essere raggiunto”. Il
relatore al Senato della legge delega di riforma del terzo settore, Stefano Lepri, conferma
l’impressione che il lavoro compiuto nelle ultime settimane si rivelerà decisivo: gli incontri
dello stesso Lepri con il sottosegretario Bobba, la relatrice alla Camera Lepri e un ristretto
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numero di deputati e senatori ha dato i suoi frutti: “La strada è in discesa, abbiamo chiarito
in modo soddisfacente molti punti, puntiamo ad approvare un testo che non debba più
tornare in Senato”. La calendarizzazione in Commissione Affari costituzionali al Senato c’è
già, la votazione degli emendamenti partirà a breve dopo il contributo della Commissione
Bilancio: “Ci vorrà un mese per la discussione, poi siamo pronti ad andare in Aula per
approvare un testo che possa poi avere il via libera anche dalla Camera”. In questo modo
l’approvazione definitiva arriverebbe nella primavera 2016, e dunque il governo avrebbe
tempo poi fino alla primavera 2017 per i decreti delegati.
Nel merito del testo, dagli incontri delle ultime settimane sono stati sciolti i dubbi su otto
dei dieci articoli del testo: “Mi riservo di studiare meglio i suggerimenti dati dal Forum del
terzo settore ed eventualmente ci sarà spazio per emendare ancora in Aula”, dice Lepri.
Quanto agli articoli 4 e 9, che riguardano in modo particolare la normativa fiscale, la partita
è ancora aperta: “E’ verosimile che i nodi aperti vengano rimandati ai decreti attuativi, ma
certamente è necessaria una drastica semplificazione: dobbiamo fare in modo che le
associazioni, soprattutto le piccole, possano operare con un sistema semplificato, anche
se non va nascosta la necessità di un ulteriore sforzo verso una maggiore trasparenza”.
Lepri precisa di ritenere fondamentale il superamento del concetto di ente non
commerciale e di onlus, con la definizione di un unico regime che possa valere per tutti gli
enti e che faccia riferimento alla tipologia di entrata e al fatto che vi sia o meno una
distribuzione degli utili. Fermo restando che attività non economiche, contributi e donazioni
sono esenti e non vanno tassate e che il regime fiscale ordinario si applicherebbe alle
attività non di interesse generale: “Un modello – dice Lepri – che non aumenterebbe il
carico fiscale nei confronti degli enti di terzo settore ma darebbe loro semplificazione e
chiarezza”. (ska)
Terzo settore, la riforma che da due anni
sembra imminente
Se ne parla da tempo ma i lavori sono andati molto più lentamente delle
speranze del governo: quasi due anni di iter ma al Senato ancora si
attendono le votazioni più importanti. Dall’impresa sociale al
volontariato, passando per il servizio civile, ecco cosa c’è in ballo
14 gennaio 2016 - 10:33
ROMA - E’ una delle riforme intraprese dal governo Renzi di cui si parla meno, anche se di
tanto in tanto è lo stesso presidente del Consiglio a ricordare la sua importanza, una
riforma di quel terzo settore “che in realtà è il primo”, come ebbe a dire ormai quasi due
anni fa, quando l’idea di dare una nuova cornice normativa al settore del non profit fu
lanciata. Una riforma attesa da tempo e di cui nessuno negava la necessità: nelle
previsioni del governo avrebbe dovuto diventare legge già sei mesi fa, ma la realtà ha
riservato sorprese e complicato un processo che pareva più lineare.
Prima le linee guida, poi una consultazione pubblica, poi la presentazione di un disegno di
legge delega da parte del governo (era l’agosto 2014), poi l’inizio di un iter parlamentare
che ancora è lontano dal concludersi. Alla Camera dal settembre 2014, l’approvazione in
prima lettura è dell’aprile 2015, quella del Senato non arriverà prima di qualche altra
settimana. Ammesso che la discussione in commissione Affari Costituzionali – dove il
testo è incardinato – riesca effettivamente a sciogliere i nodi e ad arrivare ad un nuovo
testo capace di reggere l’onda d’urto del ritorno in seconda lettura a Montecitorio.
L’obiettivo del Partito Democratico, che finora ha seguito e guidato l’intera discussione, è
infatti quello di arrivare ad una versione definitiva nel corso di queste settimane, con un
lavoro congiunto fra deputati e senatori che possa restringere il più possibile – o perfino
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eliminare – ogni ipotesi di ulteriori cambiamenti alla Camera dei deputati. Il governo, lo ha
già ripetuto più volte, ha lavorato già ai decreti attuativi e il percorso, una volta approvata
la legge delega, dovrebbe essere abbastanza rapido.
Intanto nel primo pomeriggio a Roma (Hotel Nazionale, ore 14) il Forum terzo settore
incontrerà i rappresentanti di Governo e Parlamento nel corso di un incontro dal titolo "La
riforma che vorremmo". Ad aprire i lavori sarà il portavoce del Forum, Pietro Barbieri.E’
prevista la partecipazione del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, Giuliano Poletti
e dei relatori della Riforma del Terzo settore alla Camera e al Senato, on. Donata Lenzi e
sen. Stefano Lepri.
Il testo. La legge delega il governo alla riforma del Terzo settore, dell'impresa sociale e
alla disciplina del Servizio civile universale. Tante le esigenze sul piatto: semplificare il
procedimento per il riconoscimento della personalità giuridica degli enti, razionalizzare il
sistema di registrazione, definire il “terzo settore” individuando le attività di interesse
generale che lo caratterizzano, indicare i requisiti per l’accesso alle agevolazioni previste
(“separare il grano dall’oglio”, era stata in principio uno degli slogan più gettonati). La
legge affronta il tema del volontariato (ma troppo poco e male, secondo le principali
associazioni) e si concentra in particolare sull’impresa sociale, allargandone l’ambito di
attività e aprendo alla possibilità di distribuirne gli utili: una previsione, questa, che è stata
finora oggetto di numerose polemiche per una presunta apertura del non profit al profit.
Ulteriore necessità affrontata dalla legge è quella delle funzioni di vigilanza, monitoraggio
e controllo sugli enti del terzo settore, per le quali si è esclusa l’ipotesi di una Autorithy
dedicata affidando invece le attività al ministero del Lavoro e delle Politiche sociali. Nel ddl
anche la delega ad intervenire sulle misure fiscali e di riordino delle disciplina, con la
definizione di ente non commerciale ai fini fiscali e la descrizione del regime di tassazione
agevolato garantito in virtù delle finalità solidaristiche e di utilità sociale dell’ente. Nel testo,
anche la nascita del “servizio civile universale”, che resta nell’alveo dell’art. 52 della
Costituzione (“difesa non armata” della patria) per giovani fra 18 e 28 anni, con una durata
del servizio fra otto e dodici mesi e un contingente previsto di 100 mila giovani in servizio
ogni anno.
Da Avvenire del 15/01/16, pag. 26
Riforma del Terzo settore Il Forum: «Fare
presto»
«Ma attenzione ad autofinanziamento e Fisco»
LUCA LIVERANI
ROMA
Otto nodi su dieci sembrano sciolti. Per i due articoli rimasti, quelli sul fisco, il chiarimento
arriverà probabilmente coi decreti attuativi. La sfida vera, secondo il governo, è un’altra:
«L’emergenza non è tanto sui contenuti – dice Luigi Bobba – ma sui tempi: bisogna
prendere un altro passo, accelerare e arrivare all’obiettivo che a inizio primavera la legge
possa essere definitivamente approvata». «Siamo vicini al traguardo – replica ottimista il
relatore Lepri – e la strada è in discesa». Sarà. Ma la riforma del Terzo settore, che
sembrava cosa fatta sei mesi fa, fatica a tagliare il filo di lana. E il non profit chiede ancora
ritocchi: per incentivare i cittadini al volontariato, valorizza- re le reti, chiarire i rapporti con
gli enti locali, semplificare il fisco.
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Il faccia a faccia arriva all’incontro organizzato dal Forum del Terzo settore, con il
portavoce Pietro Barbieri, il sottosegretario al Lavoro e al Welfare Luigi Bobba, il relatore
alla Camera del progetto, Stefano Lepri. È lo stesso Bobba a invitare il Forum ad attuare
una «robusta e necessaria sollecitazione»: «È bene tirare fuori al più presto questo
provvedimento – dice – dal limbo in cui è caduto ».
Bobba sottolinea i progressi sui punti discussi negli incontri con i due relatori, Lepri e
Donata Lenzi al Senato. Sottolinea le novità importanti, come il nuovo fondo per le
organizzazioni che promuovano progetti sul territorio, 30 milioni nell’emendamento Lepri.
Importante anche la creazione di un «Consiglio nazionale del Terzo settore » di
rappresentanza.
Bobba ribadisce che le imprese sociali sono parte integrante degli enti di Terzo settore.
Esorta a non temere «persecuzioni » sulle associazioni riguardo ai vincoli nel caso di
attività di scambio di beni e servizi: «L’81% del fatturato del Terzo settore – ricorda – è
realizzato dal 4,5% degli enti: non c’è nessun rischio che i controlli si scatenino sull’altro
95,5% degli enti». L’obiettivo è incoraggiare le organizzazioni più impegnate nella
produzione e scambio di beni e servizi ad assumere la forma societaria, cooperativa o
non. «Abbiamo fatto un duro e impegnativo lavoro – assicura dal canto suo Lepri – e credo
che l’obiettivo di un’approvazione definitiva entro la primavera possa essere raggiunto ».
Come promesso dal ministro Maria Elena Boschi. «Così il governo avrebbe tempo – dice il
relatore – fino alla primavera 2017 per i decreti delegati », cui è demandato il nodo fiscale.
Barbieri però elenca vari punti delicati: l’auto-finanziamento delle organizzazioni, quelle di
promozione sociale, che aiutano la comunità «senza gravare sulle tasche dello Stato»; gli
strumenti per incentivare l’impegno nel volontariato; per chiarire gli eventuali rimborsi
spese ma impedire abusi; per valorizzare le reti associative di secondo livello, preziose in
una galassia frammentata; per puntualizzare i criteri su autorizzazioni e accreditamenti
con le amministrazioni locali; per tutelare i lavoratori delle imprese sociali. Infine il fisco:
dalla razionalizzazione degli obblighi formali, alla cancellazione dell’Iva per le Ong che
acquistano beni da usare all’estero a scopo umanitario. Da fare ce n’è.
Da Vita del 15/01/16, pag. 20
IN TRENTINO
Il servizio civile guarda al profit
«Pronti a coinvolgere le nostre imprese» "Ci sono tot giovani pronti a partire per il servizio
civile? Bene, facciamo un bando ad hoc". Tanto semplice quando efficace: è la filosofia
alla base del Scu, Servizio civile universale. Che nell'unica esperienza italiana dove è
partito per davvero, nella Provincia di Trento - a cui il Governo (almeno nella
denominazione) pare ispirarsi, - ha appena chiuso il primo periodo di .sperimentazione,
dopo i primi invii dello scorso aprile: «Sette cali in 8 mesi, 150 progetti presentati, 414
ragazzi e ragazze avviati, il 60% per un servizio di 12 mesi, il 40% da 3 a 11 mesi».
Numeri notevoli quelli che illustra Giampiero Girardi, direttore dell'Ufficio servizio civile
della Provincia autonoma di Trento. I primi 30 giovani, tutti dai 18 ai 28 anni (come nel
Servizio civile nazioanale - anche la diaria è identica: 433,80 euro mensili) hanno appena
concluso l'esperienza con una soddisfazione che Girardi ha rilevato essere «molto alta sia
per loro sia per le organizzazioni-coinvolte, che sono in continuo aumento», sottolinea. Un
dato importante quest'ultimo «perché noi partiamo dai bisogni sociali dei ragazzi: vediamo
il servizio come un'esperienza altamente formativa e non un modo per recuperare
manodopera gratuita da parte degli enti. Che hanno capito e risposto positivamente,
anche perché il beneficio di avere una persona motivata nel proprio organico è garantito».
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Il Servizio civile universale provinciale trentino, è stato istituito con un provvedimento
regionale, la cosiddetta legge Lunelli nel 2013, all'interno della Legge finanziaria della
Provincia. Prevede due incontri annuali di restituzione con tutti i volontari in servizio
O'ultimo si è svolto a metà dicembre 2015) e dà anche la possibilità a un ente di
ripresentare lo stesso progetto, «perché se funziona bene non è necessario perdere
tempo per riscriverlo », sottolinea il direttore. La tipologia di progetti avviati «riguarda nel
60% dei casi il settore socio-assistenziale, f>er il 30% quello culturale, il restante 10% altri
settori». Cinque bandi su sette sono stati promossi utilizzando il Piano nazionale Garanzia
giovani, mentre per il futuro l'Ufficio servizio civile trentino sta percorrendo una strada
inedita: «Abbiamo incontrato le associazioni datoriali per chiedere loro se sono interessate
ad accettare ragazzi e ragazze in servizio, pagandosi per intero la quota relativa»,
sottolinea Girardi, «abbiamo raccolto vivo interesse e nello stesso tempo ci siamo trovati
con i sindacati per fare tutto alla luce del sole, perché se nel tempo ci saranno realtà
aziendali non meritevoli per motivi specifici loro ce lo segnaleranno». Nessun tabù nella
scelta di aggiungere esperienze profit alla classica visione non profit del servizio civile:
«Ribadiamo che anche in questo caso l'obiettivo è la formazione del ragazzo: che essa
avvenga in un'associazione, in μn museo o in una realtà produttiva, l'importante è che sia
valida e spendibile», conclude Girardi.
- Daniele Biella
Da Avvenire del 15/01/16, pag. 10
Mafia e beni confiscati «Basta fango su
Libera»
Accuse a don Ciotti, si muovono le cooperative
DIEGO MOTTA
«È da molti mesi che attorno a don Luigi Ciotti tira una brutta aria. È giunto il momento di
dire basta». Il mondo cooperativo fa quadrato intorno al fondatore di Libera, dopo le
accuse pesanti lanciate da un magistrato antimafia, Catello Maresca, sulla gestione dei
beni confiscati alle cosche e sull’impegno dell’organizzazione fondata dal sacerdote
torinese. Le cooperative, cui sono stati affidati immobili e aziende agricole sequestrate ai
boss, vengono peraltro chiamate in causa anch’esse dal pm, che le definisce «non sempre
affidabili», «false e con il bollino», «multinazionali» che agiscono in regime di monopolio e
in maniera anticoncorrenziale.
«Basta coi giudizi generici da parte di persone che non sanno di cosa parlano – sbotta
Mauro Lusetti, presidente nazionale di Legacoop –. Il contributo che Libera ha dato in
questi vent’anni alla ricostituzione di un tessuto di legalità in tante parti d’Italia è stato
fondamentale». «Non è la prima volta che si tenta di delegittimare e gettare fango
sull’impegno di chi è in prima linea contro la criminalità – osserva il numero uno di
Confcooperative, Maurizio Gardini –. Pur avendo il massimo rispetto per chi ha
pronunciato quelle parole, sono rimasto sorpreso e preoccupato. Anche perché, insieme a
don Luigi, siamo i primi ad essere parte lesa. Succede tutte le volte che, nelle maglie della
legge, finiscono per inserirsi realtà che nulla hanno a che fare con lo spirito di legalità e
trasparenza che portiamo avanti ».
La paralisi amministrativa
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Siamo di fronte a una solidarietà obbligata, motivata magari col fatto che molte coop
hanno avuto in gestione terreni e ville sequestrati a Cosa nostra? No, è l’esatto contrario. Il
terzo settore ha tutto l’interesse a reagire contro il rischio di infiltrazioni illegali, che è
«reale», ha ammesso Ciotti. Sarà perché la ferita di Mafia Capitale è ancora aperta, sarà
perché la voglia di fare pulizia dentro il settore è alta (sono state 100mila le firme raccolte
lo scorso anno contro le false coop) fatto sta che la polemica scatenatasi intorno a Libera
ha provocato una reazione immediata. «Chiariamo subito – osserva Lusetti –: se ci sono
stati errori e infrazioni, vanno puniti. Ma rifiuto l’idea che migliaia di persone perbene,
ragazzi e giovani che lavorano per stipendi mediamente bassi, possano fare affari con
l’antimafia». Il nodo è un altro e attiene alle lentezze e ai ritardi della normativa: in questi
vent’anni c’è stata infatti una fortissima azione di contrasto, attraverso i sequestri, da parte
di polizia e magistratura contro i beni delle cosche. Ma dopo il contrasto sul campo, è
subentrata la paralisi. Amministrativa, innanzitutto. «È rimasta un’inadeguatezza di fondo
nel recupero, nella gestione e nella riassegnazione delle ricchezze bloccate.
Ci sono state troppe difficoltà in questo campo – continua Lusetti –. Per questo chiediamo
maggiore efficienza: ogni bene confiscato che non si riesce a portare a nuova vita è
un’occasione persa». C’è una necessità stringente di «sveltire i processi e di ridurre i
tempi che intercorrono dal sequestro all’affidamento» dice Gardini, senza dimenticare «il
valore simbolico dello spregio consumato ai danni dei clan, nelle stesse terre in cui da
sempre hanno dettato legge: che si tratti di agricoltura sostenibile, di ristorazione, di servizi
a favore delle comunità, la vittoria della legalità in contesti sociali difficili dà sempre
fastidio».
Oltre le intimidazioni
Quanto ai condizionamenti 'ambientali' per i dipendenti soci che lavorano in queste zone,
«la nostra risposta è sempre la stessa: chiedere più partecipazione alla vita dell’impresa
sociale, più formazione, massimo rigore » spiega il numero uno di Legacoop. «Possiamo
contare su migliaia di giovani animati dal miglior senso civico e tutto questo è una grande
ricchezza – spiega il presidente di Confcooperative –. Ma resta decisiva la visione e la
conoscenza dei meccanismi d’impresa. Non ci si improvvisa alla guida di aziende agricole
o di alberghi confiscati alle mafie. Per questo, occorre lavorare al nostro interno per
garantire i massimi standard di professionalità». Tanto più che lo strumento giuridico delle
cooperative è utilizzato con grandissima facilità da chi vuole approfittarne, per delinquere o
fare affari sulla pelle delle vittime. Non va dimenticato che ogni giorno la cronaca è piena
di intimidazioni, agguati, minacce nei confronti di chi prova a muoversi in un solco nuovo,
fatto di legalità e solidarietà. «Libera in questi anni è stata pietra d’inciampo per molti –
riconosce Gardini – spesso sostituendosi anche a soggetti istituzionali che hanno fatto
fatica a restare a fianco dei cittadini».
Servirebbe un colpo di coda di tutto il sistema, «un gesto di grande coraggio per dare un
segnale che le istituzioni possono vincere e riaffermare la legalità». Gli attacchi di Franco
La Torre prima e di Maresca poi, senza dubbio pesano, «ma se ci sono patologie vanno
rese chiare, non va fatto un attacco generico. Siamo pronti a fare la nostra parte per
difendere un patrimonio che, dal basso, ha dimostrato di poter cambiare l’Italia».
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ESTERI
Da Vita del 15/01/16, pag. 16
COOPERAZIONE INTERNAZIONALE
Frigenti: <<Mediterraneo e Africa le mie
priorità>>
Intervista alla neo-direttrice dell’Agenzia
Il nuovo anno inizia con la nascita della nuova Agenzia italiana per la cooperazione
internazionale. Un soggetto cruciale la cui direzione è stata affidata a Laura Frigenti,
giunta pochi giorni fa a Roma dagli Stati Uniti per insediarsi nella sede di via Contarini. Nel
momento in cui realizziamo l'intervista il nostro Governo è ancora privo del viceministro
per la cooperazione internazionale. Ciò malgrado, esordisce la neo direttrice «devo dire
che le stutture politiche esistenti all'interno del ministero mi hanno dato un grande
appoggio nelle persone del ministro, dei due sottosegretari e del direttore generale della
Cooperazione Svilippo (Dgcs)».
- Concretamente, come intende gestire questa fase iniziale?
I lavori sono stati avviati il giorno ·dopo
la mia nomina in novembre. Esistono due tipi di preoccupazione. Da un lato, la necessità
di garantire la continuità delle attività in corso. L'Agenzia è nuo va, ma in realtà eredita
tutta una serie di programmi e progetti già esistenti. Nessuna di queste attività deve
soffrire per rallentamento. Ci sono poi le sfide che riguardano il passaggio dalla Dgcs
all'Agenzia e la sua implementazione.
- In che modo intende contribuire alle bozze dei decreti attuativi preparate dalla
Dgcs e con quali appoggi?
La Direzione ha svolto un grande lavoro preparatorio di cui sono molto grata. Posso
contare sui colleghi che hanno avuto fino al 31 dicembre per decidere di passare o meno
all'Agenzia - se ne contano almeno un centinaio - e che assieme a me stanno lavorando
su queste bozze. Tra loro ci sono esperti, il personale comandato e il persone di ruolo
della Dgcs. L'Agenzia prevede poi la presenza . di due vicedirettori, uno con mansioni
tecniche, il secondo con mansioni giuridico- amministrative, che saranno affiancati da 16
dirigenti. In tutto ci sararino circa 200 persone a Roma e un centinaio all'estero.
- Nel 2016 l'Agenzia dovrebbe disporre di circa 290 milioni di euro. Un po' poco,
non crede?
Rispetto alle sfide che ci attendono sì, ma i fondi tornano a crescere. Detto que- Etiopia,
l'acqua potabile di ActionAid nel nome di Vicky Alcuni bambini della città di Lera, nel
distretto di Azernet in Etiopia, in fila per poter raccogliere l'acqua potabile ad uno dei
chioschi di distribuzione costruiti in diversi punti della città, attraverso il progetto Vicky
"firmato" da ActionAid. L'iniziativa nasce nel 2006, quando Vicky, una ragazza inglese di
28 anni che sosteneva ActionAid attraverso l'adozione a distanza di un bambino, perde la
vita in un incidente stradale sto, la questione non è quanto sono voluminose le risorse
degli aiuti pubblici allo sviluppo, ma il modo con cui si riesce ad utilizzarle per far
convergere flussi finanziari privati a favore dello sviluppo. È questo il challenge, la sfida,
principale dei nuovi Obiettivi di sviluppo sostenibile approvati dalle Nazioni Unite,
indipendente dal livello di crescita economica di un Paese. ~·
- Quali sono i criteri affinché il settore privato acceda ai fondi pubblici in modo
paritario rispetto alle Ong?
È ormai chiaro a tutti che gli Aps non sono più gli unici flussi da prendere in
considerazione. Abbiamo un'enorme quantità di risorse che si muovono - dal settore
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privato alle Ong passando per la filantropia - gli Aps dovrebbero avere un ruolo catalitico in
cui far convergere attori dotati di modalità operative e obiettivi diversi. L'agenda con il
settore privato va ben oltre la semplice gestione dei fondi degli Aps. Nel caso delle
imprese, devono fare da leva per investiinenti molto più importanti.
- Come vede il ruolo del Consiglio nazionale della cooperazione allo sviluppo?
È un foro importantissimo in cui con frontarsi con tutti gli stakeholders della cooperazione
e assieme ai quali discutere delle questioni di fondo della cooperazione. - E quello della
Cassa Depositi e Prestiti? Tra tutti i modelli esistenti, mi sembra che la Banca di sviluppo
tedesca Kfwsia stato un detonatore fondamentale per amplificare gli obiettivi della
cooperazione tedesca. Spero che riusciremo a creare le stesse convergenze anche in
Italia.
- Quali le aree geografiche e gli assi prioritari dell'Agenzia?
Quelli definiti dal ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale nel
documento di programmazione triennale. Vista la posizione geografica del nostro Paese,
non posso non condividere la scelta del Maeci di fare del Mediterraneo e dell'Africa delle
priorità assolute, con una particolare attenzione al versante delle migrazioni. Non bisogna
poi tralasciare terni importanti su cui l'Italia si è impegnata come i minori, le opportunità ai
giovani, ecc.
- Qual è la sua visione del futuro della cooperazione italiana all'interno del sistema
internazionale?
Oggi lavoriamo in .un cerchio di attori molto ampio e variegato. Con la nuova agenda post2015, la decisione sulle azioni da implementare e la gestione dei vari flussi finanziari si
spostano dalle capitali dei Paesi del Nord alle capitali dei Paesi beneficiari. Ogni Paese
sarà responsabile dell'implementazionè dei Sustainable Development Goals. I Paesi
beneficiari dovranno quindi dotarsi di capacità istituzionali in grado di gestire queste
risorse e monitorarne l'utilizzo. È altrettanto fondamentale creare a livello locale una
società civile forte e capace di controllare l'uso di questi fondi. Su questa sfida, da cui
dipende la trasparenza degli aiuti, l'agenzia sarà impegnata, sulla scia di quanto già fatto
dalla Dgcs e in linea con il documento programmatico del Maeci.
- Joshua Massarenti
del 15/01/16, pag. 14
Kamikaze nel cuore di Giacarta “L’Is voleva
un’altra Parigi”
Sotto attacco il centro della città: sette morti e venti feriti. Nel mirino
Starbucks e un cinema. Caccia ai membri del commando in fuga
RAIMONDO BULTRINI
GIACARTA.
Ci sono ancora transenne e soldati a bloccare la strada dove passanti e curiosi si
accalcano a tarda sera nel luogo dove ieri un numero ancora imprecisato di kamikaze si è
fatto esplodere spostando, dopo Parigi e Istanbul, il terrore a Oriente, nel Paese islamico
più popoloso del mondo: l’Indonesia.
Sei esplosioni e una battaglia fra terroristi e polizia hanno sconvolto la capitale Giacarta
alle prime ore del mattino, nel cuore del lussuoso distretto commerciale di via Thamrim,
che ospita negozi e ristoranti frequentati dagli stranieri e diversi uffici delle Nazioni Unite
Le vittime, sette, sono soprattutto membri del commando, ma anche un turista canadese e
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un passante indonesiano. Tutto è iniziato quando il primo kamikaze del commando si è
fatto eplodere davanti a uno Starbuks, seguito da altri due: mentre i vetri andavano in
frantumi decine di persone hanno cominciato a scappare e si sono trovate di fronte altri
terroristi che hanno sparato. Qui ci sono state le due vittime, mentre i terroristi attaccavano
la stazione di polizia al centro di un incrocio.
Subito dopo aver colpito il bar, gli stessi uomini armati insieme ad altri terroristi imbottiti di
esplosivo hanno assaltato il retro del grande magazzino Sarinah, il primo del genere
aperto nella metropoli da 10 milioni di abitanti nel lontano 1962. Qui la battaglia è stata
cruenta: le forze dell’ordine ci hanno messo ore ad aver ragione dei terroristi. Nel
frattempo altri due membri del commando si sono fatti esplodere poco lontano, ma le
testimonianze sono confuse. «Abbiamo ucciso 2 uomini del commando, tre si sono fatti
saltare in aria, e altri tre sono stati arrestati », hanno detto le autorità. Ma il gruppo dei
terroristi secondo alcune fonti era molto più numeroso, almeno 14 persone sostengono i
media locali.
«Nel giro di 10 minuti è stato l’inferno », dice un dipendente del bar che è tornato a vedere
gli effetti delle esplosioni detonate una dopo l’altra nelle poche decine di metri che
separano lo Starbuks dal Sarinah. Se il bilancio alla fine non è stato più drammatico
sembra solo il frutto del caso e della massiccia presenza di forze dell’ordine allertate da
giorni, a sentire le descrizioni che circolano dai racconti di testimoni e vittime. In ogni caso
gli ideatori dell’impresa sono riusciti nell’intento di riportare questo Paese a maggioranza
sunnita al centro degli obiettivi dell’Islam fondamentalista, anche se manca ancora ogni
prova certa sulla matrice dell’attacco.
Nessun gruppo locale ha rivendicato ufficialmente l’impresa, ma l’Is si è attribuito
attraverso un sito simpatizzante la paternità degli attacchi contro “un assembramento di
crociati” delle “forze anti Stato islamico”: la mente sarebbe Bahrun Naim, arrestato nel
2011 per traffico di armi, rilasciato e dall’anno scorso segnalato a Raqqa, capitale del
cosiddetto Stato Islamico, in Siria. Ma diversi ex membri della Jamaat Islamya reclamano
di essere i potenziali rappresentanti locali dell’Is, come il gruppo capeggiato da Abu
Wardah, noto come Santoso, leader di una formazione chianata East Indonesia Mujahedin
affiliata da tempo all’Is. Santoso potrebbe nascondersi nelle isole delle Sulawesi centrali, a
Poso.
Da giorni la polizia segnalava l’intensificarsi del rischio attentati in Indonesia: un allarme
rosso era stato diffuso in tutto il Paese dopo la scoperta di una rete in azione formata da
ex soldati dello Stato islamico rientrati in Patria dopo aver combattuto in Siria e Iraq, un
numero imprecisato ma alto, tra i 200 e gli 800. Pochi giorni fa un militante dei
fondamentalisti uighuri dello Xinjang cinese era stato arrestato assieme ad altri con una
cintura esplosiva ed era stata la conferma che qualcosa di terribile stava per accadere. «I
terroristi avevano annunciato che ci sarebbe stato “un concerto” in Indonesia, ha detto un
portavoce della sicurezza». E così è stato.
Ma nonostante l’allarme e i timori per le recenti proteste contro la detenzione del leader di
Jamaat Abu Bakar Bashir, accusato di essere il padre del terrorismo islamico
nell’arcipelago, la notizia degli attentati è caduta come un macigno sulla popolazione di
Giakarta che non si aspettava un’azione così immediata ed eclatante. La stessa zona di
Thamrim e le altre strade del centro a traffico sempre intenso e caotico sono rimaste quasi
deserte per gran parte del giorno, nel terrore di nuovi attacchi da parte degli altri membri
spariti del commando.
Quando è sera la polizia dice che la situazione è ormai sotto controllo. Ogni angolo attorno
al luogo dell’attentato, nelle vicine ambasciate, la sede delle Nazioni Unite a pochi passi
dal Sarinah e ogni possibile target dei terroristi sono sorvegliate da pattuglie di uomini
armati: i controlli andranno avanti per tutta la notte, dopo il messaggio del capo dello Stato
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Joko Widodo che ha invitato la popolazione alla calma e ha definito l’attacco «un atto di
terrore per disturbare la pace e l’armonia della nostra gente».
del 15/01/16, pag. 14
Lo scenario.
In Indonesia l’attivismo islamico estremista risale alla lotta contro i
colonizzatori. Poi gli attacchi negli anni 2000. Oggi la fascinazione del
Califfato
JASON BURKE
Povertà, predicatori d’odio e amministrazioni
corrotte così la Jihad contagia l’Asia
IL 2016 non è iniziato bene.
Ogni settimana ha portato con sé nuovi attentati e minacce. Chi sperava in una pausa dal
ritmo incessante della violenza è rimasto deluso. All’inizio di questa settimana le prime
pagine dei giornali hanno aperto con gli attentati terroristici in Egitto e Istanbul. L’ultimo, un
attentato suicida contro turisti tedeschi in una delle mete più celebri d’Europa, ha
accentuato la sensazione di pericolo immediato per l’Occidente.
Ieri, però, c’è stato un piccolo spostamento nel quadro globale: l’epicentro degli attentati si
è spostato a Oriente, in Indonesia, dove sono stati presi di mira un edificio delle Nazioni
Unite e uno Starbucks. Senza dubbio l’epicentro degli attentati si sposterà ancora, ma
intanto il mondo è tornato inaspettatamente a guardare verso l’Asia. Dove all’improvviso
sembra essersi aperto un nuovo fronte nella guerra globale contro lo Stato Islamico.
Che stiano emergendo problemi in questa parte del mondo islamico che si espande a Est
dell’Iran, era prevedibile. In Europa dimentichiamo spesso che è lì che vive almeno la
metà dei musulmani. Tutti i più grandi paesi a maggioranza islamica si trovano a Est
dell’Afghanistan: inclusi Pakistan (200 milioni), Bangladesh (150 milioni) e Indonesia (270
milioni). Senza dimenticare i 160 milioni che vivono in India. Se aggiungiamo le comunità
di altri paesi come Malesia e Afghanistan e le minoranze islamiche di Myanmar, Thailandia
e Filippine, il totale tocca gli 800 milioni di musulmani. Solo una piccola parte di loro è
dedita alla violenza: ma la minoranza di una maggioranza può diventare un problema
enorme.
Non deve stupirci. I fattori chiave della militanza islamica in Medio Oriente sono presenti
anche nel Sudest asiatico e nella regione pacifica. Dove c’è un alto numero di giovani
disoccupati. Le amministrazioni corrotte e inefficienti non garantiscono i servizi basilari alle
popolazioni. E predicatori pagati dai paesi arabi da decenni propagandano l’Islam più
conservatore e intransigente, spingendo ai margini letture più tolleranti e sincretiche.
Come in Europa, anche qui molti giovani giudicano superati i valori religiosi tradizionali,
ma trovano sgradevole ed alieno il consumismo capitalistico occidentale. E c’è una
generazione intera cresciuta in mezzo ai conflitti esacerbati dagli attentati del 2001 in
America, nutrita dall’infiammata retorica carica d’odio che da quei conflitti è scaturita.
Naturalmente ogni paese ha le sue specificità: il Pakistan ha un rapporto problematico con
i gruppi militanti islamici sponsorizzati dallo Stato; gli indiani musulmani sono solo il 14 per
cento di un’enorme e variegata nazione a maggioranza hindu; il Bangladesh ha una storia
complessa di guerra civile e liberazione che influenza ogni sua forma di partecipazione;
l’attivismo filippino ha una componente criminale e legami internazionali che vanno molto
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indietro nel tempo. Ma questi paesi hanno anche molte cose in comune: come l’attivismo
islamico estremista profondamente radicato.
In Indonesia il fenomeno risale alla resistenza opposta dai gruppi musulmani ai
colonizzatori olandesi e poi ai vari governi laici successivi. I disordini settari degli anni 90 e
2000 hanno alimentato la crescita di ideologie violente che, all’inizio del millennio, ha
partorito un movimento estremista vigoroso e relativamente grande chiamato Jamaa
Islamiya. Lo stesso che provocò gli attentati ai nightclub di Bali del 2002, una delle azioni
terroristiche più spettacolari post 11 settembre e che nei 5 anni successivi ha portato
avanti la sua azione lanciando una campagna terroristica in tutta l’Indonesia.
Nel 2009 quest’ondata di attivismo in Asia e in Europa sembrava smorzata. Fino
all’ascesa dello Stato Islamico nessuno pensava si sarebbe ripresentata. Come accaduto
altrove, l’Is ha dato nuovo slancio a un movimento quasi scomparso grazie al suo mix di
risultati concreti sul terreno e soluzioni utopiche alla questione dell’ummah, la comunità
islamica globale. In questo Internet ha aiutato, riversando un fiume di propaganda sugli
smartphone della regione pacifica, e bersagliando nello specifico i musulmani indonesiani.
Ripercorrendo a ritroso la storia della violenza in Indonesia emerge però una diversa
verità. Che dimostra come l’Is non crea tanto problemi nuovi, quanto resuscita i vecchi.
C’erano situazioni di violenza radicata vecchie di decenni in tutti i luoghi dove oggi la
violenza è associata alla militanza islamica. In Nigeria Boko Haram opera in una regione
dove le ondate di revivalismo si susseguono da decenni. In Egitto la violenza jihadista è
iniziata più di 40 anni fa. In Thailandia la violenza dei musulmani malesi nell’estremo Sud
del paese è passata nel giro di alcuni anni da una lotta separatista ed etnica di sinistra, a
un fenomeno di jihadismo criminale ed efferato. Per ora qui ci sono pochi segnali di
penetrazione da parte dell’Is, ma il potenziale è evidente.
Negli ultimi anni una costante dei politici occidentali è stata la scarsa attenzione verso ciò
che accade al di là del golfo Persico. Comprensibile, certo. L’Europa ha storicamente
avuto maggiori interazioni – positive e negative – con il Medio Oriente e il Nordafrica
rispetto a quella con governi e paesi musulmani più distanti. Nell’ultimo mezzo secolo, le
risorse di carburante hanno dato al Medio Oriente un’ovvia importanza. Per un decennio
Al Qaeda ha riservato la sua attenzione al Pakistan, dove aveva sede, e sul vicino
Afghanistan: ma l’avvento dello Stato Islamico, le ha soffiato il posto di più seria minaccia
contemporanea all’Occidente. L’Is ha le sue basi in Siria e Iraq, con forti legami emergenti
in Egitto, Yemen, e Libia: ed è dunque in direzione di questi paesi che dobbiamo rivolgere
oggi la nostra attenzione.
Per fortuna, la maggior parte degli estremisti ignora la metà dell’ummah che vive a Est del
territorio dell’Is. Il progetto propagandistico degli estremisti privilegia il Medio Oriente sopra
ogni altra regione, perché è qui che è nata la fede islamica, qui sorgono i suoi luoghi più
santi, e qui si sono avvicendati i califfati fondati dalla morte del Profeta Maometto in poi. E
privilegia anche l’arabo e gli arabi.
Questo potrebbe rivelarsi un inconveniente enorme per il jihadismo in Asia. Anche se in
Siria combattono per lo Stato Islamico battaglioni internazionali – comprendenti anche una
brigata mista di indonesiani e malesi – la visione complessiva dei suoi leader resta in
sostanza provinciale, malgrado tutta l’eloquenza universalistica. Ed è proprio questa sua
limitatezza, al pari della sua orrenda violenza e della sua intolleranza reazionaria, a far sì
che la stragrande maggioranza degli 800 milioni di musulmani asiatici continuerà a
respingerne l’ideologia e il messaggio imbevuto di odio.
( Traduzione di Anna Bissanti)
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del 15/01/16, pag. 13
L’Islam dei teologi dialoganti (nel Paese delle
sei religioni) Ma la tolleranza è nel mirino
L’Indonesia è il maggior Paese musulmano. E un laboratorio politico
Paolo Salom
Il più popoloso tra i Paesi musulmani — 255 milioni di cittadini, l’87% dei quali di
confessione sunnita — è anche una democrazia. Ma non è uno Stato islamico. Una
distinzione rilevante per una nazione frantumata in diciassettemila isole bagnate dai caldi
mari del Sud-Est asiatico, dove la rivelazione di Maometto è giunta a partire dal NonoDecimo secolo, grazie soprattutto ai mercanti indiani e non per conquista (araba). «La
parola chiave, in Indonesia, è pancasila — ci spiega Andrea Riccardi, fondatore della
Comunità di Sant’Egidio, da poco rientrato da un viaggio a Giacarta —. Una dottrina
politica ma anche un filosofia che predica tolleranza, giustizia e rispetto delle diversità. Lo
Stato riconosce sei differenti religioni, e l’Islam è la più praticata».
Riccardi aggiunge come la fede — per quanto certamente importante — abbia un ruolo di
«apporto spirituale» alla vita nazionale, che si fonda su una sorta di ossimoro, «laicità
religiosa» che aiuta a comprendere perché tolleranza e dialogo restino i cardini nel
rapporto tra le diverse comunità di questa nazione-mosaico. E la verità è che l’Indonesia è
un laboratorio interessantissimo su quello che potrebbe essere il futuro dell’Islam politico,
altrove dilaniato da sanguinose lotte intestine e incapace di confrontarsi con realtà
spirituali diverse. Ecco dunque un Paese che non ha mai cancellato i legami con le culture
preesistenti — buddhismo, animismo, culti locali — mescolando sapientemente le
differenti visioni di realtà e ultraterreno, dove il collante principale viene naturalmente dal
Corano, il cui successo nei secoli fino a oggi appare indiscutibile.
Ma quale Corano? Se il Libro della fede è certamente identico in tutto e per tutto a quello
letto nelle moschee del Medio Oriente, è quanto gli gira attorno che appare straordinario.
Intanto le figure religiose di riferimento: in Indonesia convivono beatamente Imam (maestri
di dottrina) e «sanro», sorta di stregoni-sciamani che, in assenza di un approccio più
scientifico ai bisogni interiori, sostituiscono serenamente lo psicologo nel momento del
bisogno. «Le differenze pratiche — ci ha detto Sharyn Graham Davies, antropologa
all’Università tecnologica di Auckland, in Nuova Zelanda — sono state incorporate in un
sistema duttile e pragmatico che permette la coesistenza di figure sacre apparentemente
incompatibili».
Dunque, arti occulte e religione: altro che le «streghe» giustiziate senza pietà nei territori
dello Stato Islamico. Magia bianca e magia nera sono parte del paesaggio, peraltro — al di
là della megalopoli Giacarta — contraddistinto dai profili incerti di villaggi contadini immersi
nella caligine equatoriale. Ma anche la tolleranza dolce del Buddhismo, o semplicemente
la predicazione d’amore del Cristianesimo: tutto coesiste e si confonde nell’animo gentile
degli indonesiani. Che, forse unici nel mondo islamico, riescono a immaginare un’idea di
convivenza che sta proiettando la loro nazione tra le tigri dell’Asia: Pil in crescita del 5% e
classe media in continua espansione.
L’infrastruttura della religione, la sua diffusione, è demandata in particolare a due
confraternite, la Muhammadiyah e la Nahdlatul Ulama: congregazioni che esprimono il
contrario di quanto vanno predicando le scuole più retrive dell’Islam mediorientale.
Dunque, per queste organizzazioni, ciò che conta è l’impegno sociale, il dialogo interreligioso e la diffusione dell’idea democratica.
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Ma sbaglieremmo a considerare l’Indonesia un Paradiso della tolleranza senza se e senza
ma. Purtroppo le influenze del radicalismo che sta infiammando il mondo islamico più
ampio — con il fulcro nel Medio Oriente — sono arrivate anche nel Sud-est asiatico. E
l’Isis, oggi, può vantare un migliaio di seguaci in Indonesia mentre sono almeno 600 i
cittadini del Paese che attualmente combattono in Siria: un via vai drammaticamente
pericoloso. D’altro canto, negli anni Duemila, gli autori dei massacri di Bali e altri attacchi
si identificavano con Al Qaeda e l’organizzazione dominante era la Jemaah Islamiyah.
Nessuno, a Giacarta, insomma, nasconde il pericolo rappresentato da queste minoranze
estremiste. Che certo non possono tollerare un mondo all’antitesi del loro credo fanatico.
Ma il cuore di questa nazione asiatica pulsa verso la coesistenza. Ecco forse la ragione
principale di tanto sangue.
del 15/01/16, pag. 17
Al Qaeda: l’Italia pagherà per la Libia
Messaggio di minacce al nostro paese di Al Anabi in vista della
missione: “Roma ricolonizza Tripoli, se ne pentirà” Lo Stato Islamico
attacca a Est, nell’area delle installazioni petrolifere: in fiamme un
oleodotto. “Rapite 150 guardie”
VINCENZO NIGRO
ROMA.
Nuove minacce all’Italia in un lungo video di un gruppo jihadista che agisce fra Libia e
Algeria. Il numero due di “Al Qaeda nel Maghreb Islamico”, l’algerino Abu Ubaydah Yusuf
Al Anabi, in un messaggio di 23 minuti sostiene che «l’Italia romana che ha occupato
Tripoli: si dovrà pentire di quello che ha fatto». Il capo terrorista cita poi «un generale
italiano» che secondo lui sarebbe «a capo di un governo fantoccio di cui fa parte gente
della nostra razza che ha venduto la sua religione», così come è successo in Iraq con «la
nomina di Paul Bremer dopo la campagna criminale di George Bush». Il terrorista dunque
è informato del ruolo di un generale italiano che non “comanda Tripoli”, ma che
effettivamente esiste e lavora per l’Onu nell’assistenza al nuovo governo libico, anche in
preparazione di una forza internazionale che potrebbe essere chiamata a intervenire in
Libia.
Per Al Anabi, che gli Usa nel 2005 hanno inserito nella lista dei terroristi più ricercati al
mondo, «l’Italia vuole ricolonizzare la Libia, ma non avrà mai le ricchezze del paese senza
passare sui nostri cadaveri, non ci arrenderemo mai, sarà la vittoria o la morte ». Anabi
minaccia i «nuovi invasori, i nipoti di Graziani», riferendosi al generale fascista che
comandò le truppe di occupazione in Libia: «Vi morderete le mani pentendovi di essere
entrati nella terra di Omar al-Mukhtar».
La retorica roboante può far sorridere qualcuno, ma il video è la conferma del fatto che in
Libia l’Italia è nel mirino dei jihadisti, di gruppi terroristici che dal Daesh (lo Stato Islamico
nel suo acronimo arabo) ad Al Qaeda, ad Ansar Al Sharia vedranno l’Italia come un
ostacolo non appena aumenterà l’azione di sostegno di Roma al nuovo governo libico.
Questo aiuta a capire che per l’Italia credere di essere “fuori dal mirino” è purtroppo
un’illusione.
Nel frattempo in Libia lo Stato Islamico continua a manifestare un attivismo sfrenato: ieri
sera è stato fatto saltare un oleodotto a Sud di Ras Lanuf, nell’Est del paese, in quella
“mezzaluna petrolifera” dove sono le maggiori installazioni petrolifere della Libia e che il
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Daesh ha messo nel mirino ormai da settimane. Ludovico Carlino, senior analist dell’IHS a
Londra aggiunge che ieri pomeriggio sono stati rapiti dei soldati della “Petroleum Guard”,
la milizia che fa capo a Ibrahim Jadran e che combatte contro il Daesh nella regione di
Agedabia e Ras Lanuf. Le persone sequestrate dall’Is a Ras Lanuf, tra militari e guardie,
sarebbero 150 e Daesh minaccia di giustiziarne alcune già da oggi. Anche se il ministro
degli Esteri Paolo Gentiloni, spiega che «al momento della notizia del rapimento non ci
sono conferme ». E sulle minacce all’Italia dice: «Stiamo lavorando per la stabilità. È
l’unica risposta».
Nel frattempo Carlino segnala un movimento molto pericoloso: truppe dell’Is sarebbero in
marcia verso Sud, verso Sebha. «Ci sono tutti gli indicatori che ci dicono che quella sarà la
prossima tappa dell’espansione del Daesh », dice Carlino, elencando come “indicatori” gli
attentati, il movimento di truppe, le uccisioni mirate, la conquista di paesi e villaggi da cui
lanciare nuovi attacchi. «Il Daesh chiaramente sta cercando un attacco occidentale in
Libia; questo perché pensa di poterlo gestire, visto che gli occidentali non metteranno
truppe a terra; pensa di poter dividere la Libia e i libici, e parallelamente di poter unificare
gruppi jihadisti rivali che fino ad oggi si sono combattuti fra di loro». Inoltre un attacco
dell’Occidente in Libia moltiplicherebbe il reclutamento in Libia e nell’Africa subsahariana,
il Daesh avrebbe centinaia di nuove reclute.
L’Europa e l’America sono quindi di fronte a un’alternativa del diavolo: rimanere fermi in
attesa della formazione del governo libico, mentre il Daesh si espande. Oppure attaccare,
con la certezza che l’attacco ucciderà molti miliziani ma mobiliterà centinaia di nuovi
sostenitori del Califfo?
del 15/01/16, pag. 7
Messaggio di al Qaeda all’Italia. L’Is avrebbe
rapito 150 persone: «Li giustiziamo»
Secondo le informazioni della sicurezza libica, 150 persone (soprattutto soldati) sarebbero
stati catturati dall’Isis all’interno dei territori dove si troverebbero diversi pozzi petroliferi.
Una fonte della sicurezza citata dai media libici affermerebbe che i 150 sono detenuti nella
prigione di Nawfaliya. Il Califfato avrebbe annunciato la loro prossima «esecuzione».
Nel frattempo dalla Libia arriva un messaggio all’Italia. Con gli accordi di Shkirat, in
Marocco, la Libia «si è venduta agli stranieri» e l’Italia ha occupato il Paese e Tripoli: «Ve
ne pentirete». Si tratta di un passaggio del messaggio audio che sarebbe stato diffuso da
Abu Yusuf al Anabi, uno dei leader dell’Aqmi, il ramo nordafricano di al Qaeda, e diffuso
ieri dall’agenzia mauritana «al-Akhbar», che afferma di aver ricevuto copia del messaggio.
Al termine del messaggio Anabi lancia una vera e propria minaccia «ai nuovi invasori, i
nipoti di Rodolfo Graziani».
Da notare come quest’ultimo, dalle agenzie che hanno riportato la notizia e dai quotidiani
on line che hanno ripreso il messaggio, venga definito come «il generale che ricoprì diversi
incarichi di comando in epoca fascista e durante le guerre coloniali italiane», tralasciando il
ruolo di conquistatore di (parte) dell’Etiopia, ad esempio, facendo uso di «armi chimiche
come l’iprite (che causa orrende piaghe su tutta la pelle), il fosgene (che blocca le vie
respiratorie) e le arsine (che distruggono i globuli rossi)», come ha ricordato sul proprio
sito «Giap» il collettivo di scrittori Wu Ming che da tempo prova a ricordare quanto
realmente accaduto durante il periodo coloniale italiano, al di là delle rimozioni storiche nel
nostro paese.
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Il messaggio del rappresentante di al Qaeda si chiude con un avvertimento: «Vi morderete
le mani pentendovi di essere entrati nella terra di Omar al-Mukhtar». Anabi rappresenta
una forza fascista e pericolosa per la zona, ma ricorda anche un periodo storico che dalle
nostre parti è infiocchettato da una visione storica parziale.
del 15/01/16, pag. 17
Il jihad minaccia? l’Italia risponde: Molto
nemico, molto onore
di Wanda Marra
La conferenza sulla Libia si è tenuta a Roma, la prima visita del nuovo premier libico,
Fayez el Serraj, è stata a Roma, i feriti di Misurata sono al Celio, e Al Quaeda minaccia
l’Italia, dicendo che ha occupato Tripoli. Secondo Palazzo Chigi sono tutti segnali (persino
l’ultimo, che, ovviamente, si sottolinea “non è vero”) che il ruolo di primo piano del nostro
paese in Libia non è in discussione. E questo, nonostante l’attivismo dei paesi vicini (a
cominciare dalla Francia, ma anche Inghilterra e Stati Uniti).
Chi segue la situazione da vicino esclude che, almeno formalmente, ci siano forze
straniere già sul campo. Ma ammette le operazioni di ricognizione. Non senza notare che
l’uomo di fiducia scelto dall’inviato Onu, Martin Kobler, è un italiano, il generale Paolo
Serra. Ed è lui che sta conducendo le ricognizioni più importanti, quelle che dovranno
portare a capire se ci sono le condizioni perché il governo che nascerà si insedi a Tripoli.
La situazione però non è lineare. Ieri il presidente del Copasir, Stucchi ha esortato: “L’Italia
intervenga con gli altri attori occidentali”. Più diplomatico il presidente della Commissione
Difesa del Senato Latorre: “Escludo che la supremazia della missione possa esserci tolta
perché sarebbe un fatto molto grave. Ma serve un coordinamento europeo”. E pure il
ministro degli Esteri Gentiloni ha dovuto smentire frizioni con Parigi.
C’è l’accordo di Skhirat, ma il governo libico ancora si deve insediare. Data prevista,
domenica. Si vedrà. Da Palazzo Chigi ribadiscono che, secondo la risoluzione Onu del 23
dicembre, saranno i libici a chiedere il tipo di intervento di cui hanno bisogno. A Roma non
si esclude nulla, teoricamente neanche “gli scarponi sul campo”.
Ma alla fine si pensa si tratterà di una missione di Nation Building, o di addestramento.
Una volta che si è stabilito il percorso politico, qualsiasi iniziativa unilaterale sarebbe
devastante, ragionano a Palazzo Chigi. Ma senza concedere all’Isis di prendere la Libia.
Per questo il Capo di Stato Maggiore della Difesa, Claudio Graziano, sta lavorando a vari
scenari. Se la situazione precipita, l’Italia si deve muovere. Dal governo monitorano: è solo
questione di tempo. E neanche troppo. Sergio Mattarella parte per Washington il 6
febbraio: con Obama parlerà anche di questo. E Renzi farà una “missione di sistema” in
Argentina e poi Stati Uniti a marzo.
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del 15/01/16, pag. 18
Iran.
Spettacoli teatrali, film, mostre e stamperie alternative: così negli
appartamenti privati fiorisce una nuova vita culturale incoraggiata dalla
svolta sul nucleare. E tra i moderati cresce l’ambizione di battere i falchi
Il test a febbraio con il voto per Parlamento e Assemblea degli esperti
Nelle case di Teheran dove si recita il futuro
E il presidente Rouhani sogna la Guida
suprema
VANNA VANNUCCINI
TEHERAN
IN un appartamento al quinto piano di un palazzo sulla via Karim Khan una ventina di
giovani sono venuti a vedere un corto, Koshtargar (mattatoio), applaudito a Cannes e in
programma in questi giorni al festival di Praga. Sembra un documentario ma è fiction, è
stato girato tra i ragazzi di Ahwas, nel sud ovest dell’Iran. Il tema è la droga, la povertà, la
vita quotidiana in una giornata apparentemente uguale a tutte le altre. Dopo la proiezione il
regista, Behzad Azadi, anche lui giovanissimo, racconta al pubblico di aver scelto non
attori professionisti ma ragazzi della periferia di Ahwas che conoscevano bene il mondo
della droga e della malavita e di essersi limitato a dar loro delle indicazioni di massima
lasciandoli improvvisare. Perché fossero più affiatati gli aveva pagato un viaggio, tutti
insieme una settimana al Caspio, e ne erano tornati amici.
Il pubblico, tutto di giovani, ascolta attento e fa domande, seduto sulla scalinata costruita
dagli organizzatori del centro in una stanza lunga e stretta dell’appartamento. Questa
“Casa d’arte e di cultura Afarideh” ha cominciato le sue attività culturali due mesi fa, dice il
giovane alla porta. Nel mese di gennaio ogni martedì presentano un corto, poi comincerà
la serie dei gruppi di teatro. Afarideh è uno dei tanti teatri underground che sono spuntati
in tutta la città nell’ultimo anno o due. Luoghi privati dove si fa musica, teatro, si proiettano
film e documentari. Afarideh ha avuto il permesso dell’Ershad, il ministero per la guida
islamica, tiene a dire l’organizzatore, ma la gran parte degli altri agiscono underground —
sull’esempio dei gruppi rock che furono i primi ad affittare cantine e garage, ridipingerli e
arredarli alla meglio per dare concerti. La musica viene infatti spesso vietata in Iran,
mentre le performances che si vedono in questi teatrini di solito non hanno nulla di
politicamente scorretto. Ma le infinite perdite di tempo per chiedere per ogni cosa un
permesso hanno convinto i giovani iraniani a organizzarsi underground, facendosi
pubblicità via instagram o telegram. Ormai sono in tanti, perfino attori famosi. Come il
comico Mehran Modiri che quando il suo show in tv è stato interrotto ha deciso di
continuare a produrlo a sue spese vendendo i dvd sul mercato. Il successo è stato tale
che ormai può pagare la troupe più di quanto la pagasse la televisione. È nata quasi una
moda. Anche molti scrittori stampano i loro libri in autonomia e li distribuiscono attraverso
reti informali. Poemi satirici o erotici, ma anche gialli, romanzi sperimentali, disegni e lito di
pittori famosi il cui contenuto è considerato scabroso, un nudo per esempio, si vendono
così dappertutto.
Se il sogno dei giovani fino a qualche anno fa era partire, tanti oggi cominciano a cambiare
idea. Dopo l’accordo sul nucleare hanno ritrovato la speranza che le cose, lentamente,
non possano che migliorare. Mentre allo stesso tempo le notizie che arrivano dai loro
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amici già emigrati all’estero non sono confortanti. «La nostra generazione era piena di
ideali, volevamo restare nella società in cui eravamo per cambiarla. Ma abbiamo fallito»,
dice Susanne Shariati, una donna dal viso dolce che è la figlia del famoso ideologo della
rivoluzione khomeinista. È venuta in una delle diverse librerie di Book City a presentare il
romanzo “L’autunno è l’ultima stagione dell’anno”, opera prima di una scrittrice
trentaduenne, Nassim Marashi, che racconta la storia di tre ragazze che hanno sogni
diversi, nessuno dei quali si realizza.
Anche il presidente Rouhani ha un sogno, scherzano i suoi sostenitori. Potrebbe puntare a
diventare lui un giorno il nuovo Leader supremo, per garantire così che il suo corso di
moderazione non venga travolto. Khamenei continua a sostenere il presi- dente, ma gli
ultraconservatori non hanno rinunciato alle provocazioni per far fallire il suo disegno di
apertura al mondo — per esempio con l’assalto all’ambasciata saudita, che ha rischiato di
rendere l’Iran ancora una volta la pecora nera della politica internazionale. Quanto forte
sia la posizione di Rouhani lo si vedrà alle prossime elezioni. Il 26 febbraio gli iraniani sono
chiamati a votare per il rinnovo del Parlamento e dell’Assemblea degli Esperti, un organo
molto importante perché ha il compito di nominare o di revocare il leader supremo e sta in
carica otto anni. «Quando non sarò più di questo mondo, l’Assemblea degli Esperti
sceglierà il mio successore», ha detto Khamenei ai religiosi di Qom, menzionando per la
prima volta la sua successione. Moderati e riformatori sono i favoriti alle elezioni, e hanno
speranze di uscire vincenti anche grazie al fatto di presentarsi uniti. La loro alleanza aveva
già portato nel 2013 all’elezione di Rouhani e si è consolidata in un patto di ferro tra gli ex
presidenti Khatami e Rafsanjani.
Il problema per Khamenei è come mantenere saldo il regime senza far perdere credibilità
al processo elettorale come era accaduto invece nel 2009. Tutto dipenderà dai veti del
Consiglio dei Guardiani, che in elezioni passate aveva perfino cancellato in blocco tutti i
candidati riformatori. Oggi, almeno così sperano gli insider, l’orientamento potrebbe essere
diverso. L’orizzonte auspicato sarebbe quello di arrivare alla formazione in Parlamento di
due gruppi forti: uno di riformatori e moderati, l’altro di conservatori moderati — due gruppi
capaci di formare una “grosse Koalition” sulle questioni di interesse nazionale come è già
successo per l’accordo nucleare. Non ci sarà perciò da sorprendersi se Ali Larijani,
conservatore moderato che si è molto impegnato per far approvare l’accordo nucleare alla
attuale maggioranza conservatrice del Parlamento, rimarrà presidente del Parlamento
anche nel prossimo Majlis.
Gli hardliners sono quelli che hanno più da perdere alle elezioni, visti gli orientamenti della
popolazione tutti favorevoli all’accordo sul nucleare e all’apertura all’Occidente e pro
riformatori. Ma il Consiglio dei Guardiani si adopererà probabilmente per fare entrare una
piccola percentuale di hardliners, utile nella visione del regime per creare con i
conservatori una maggioranza su tutte quelle questioni sociali e culturali che il regime
considera identitarie. Gli ayatollah vedono i media, il cinema e Internet come una specie di
cavallo di Troia dell’Occidente per travolgere i principi della rivoluzione e allontanare gli
iraniani dall’islam. Inutilmente il presidente ribadisce che è inutile opporsi alla modernità:
«Sembra che siamo ostili a ogni nuovo sviluppo, per poi accettarlo vent’anni dopo. In
passato ci opponevamo anche ai fax», ha ricordato il suo ministro più liberale, Ali Jannati.
Oggi, diversamente dal 2012, nessuno parla più di boicottare le elezioni parlamentari e per
il regime islamico l’affluenza massiccia alle urne significa dare al mondo la prova della
propria legittimità.
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Da Avvenire del 15/01/16, pag. 21
Nucleare.
L’Iran ferma il reattore di Arak
NEWYORK
ELENA MOLINARI
Primi passi concreti verso l’implementazione dello storico accordo sul nucleare iraniano,
che ha tenuto anche alla prova dello sconfinamento di due navi americane in acque di
Teheran. L’agenzia atomica iraniana ha annunciato ieri di aver rimosso il nucleo del
reattore di acqua pesante dell’impianto di Arak, come previsto dall’intesa siglata il 14 luglio
con i Paesi del 5+1. L’accordo entrerà però formalmente in vigore nel fine settimana,
aprendo la strada alla revoca delle sanzioni economiche che hanno paralizzato l’economia
della repubblica islamica.
L’Iran si aspetta infatti che i blocchi alle esportazioni e all’entrata nei circuiti bancari
internazionali vengano rimossi «oggi o domani». Intanto il Consiglio Ue ha prorogato fino
al 28 gennaio la sospensione di alcune sanzioni, in attesa di mettere a punto i dettagli
tecnici che porteranno alla cancellazione delle misure.
Che l’accordo passi dalla carta ai fatti (l’Agenzia internazionale per l’energia atomica
dovrebbe confermare oggi stesso che l’Iran ha tenuto fede ai propri impegni), è una vittoria
per Barack Obama, che ha investito pesantemente nella riapertura del dialogo fra Stati
Uniti e Iran dopo decenni di ostilità reciproca. Ma a rivelare quanto profondo sia stato il
riavvicinamento (non si può ancora parlare di fiducia) fra Washington e Teheran è la
soluzione in meno di 24 ore di un incidente diplomatico come la cattura di due navi
americane e di dieci marinai da parte di Teheran.
Sono bastate una mezza dozzina di telefonate fra i ministri degli Esteri dei due Paesi per
portare alla liberazione dei marinai che ieri hanno detto di essere stati «trattati in modo
fantastico». Sono stati i due architetti principali dell’accordo di Vienna, il segretario di Stato
Usa John Kerry e il ministro degli Esteri iraniano Javad Zarif, ad aver deciso insieme di
trasformare l’involontario sconfinamento da un possibile disastro in una «ottima storia»
che mettesse in buona luce entrambe le nazioni. I leader iraniani, compreso l’ayatollah Ali
Khamenei, hanno evidenziato l’aspetto compassionevole dell’islam, mentre Kerry ha
sottolineato la velocità con cui ha portato a casa i militari. Anche se parte dell’opinione
pubblica Usa resta convinta che Obama abbia «indebolito l’America» con l’accordo
iraniano.
del 15/01/16, pag. 17
Colpiscono ovunque, ma al Qaeda e Isis
restano concorrenti
Gli “eredi” di Bin Laden nel Nordafrica minacciano Roma: avete
occupato Tripoli, ve ne pentirete
di Fabio Mini
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Attacchi suicidi a Parigi e Istanbul, attacchi armati in Egitto e Indonesia, minacce
all’Occidente per la sua crociata antislamica, minacce all’Italia per la presenza di un
generale italiano nella delegazione Onu incaricata di mettere d’accordo Tripoli e Bengasi.
Tornano alla ribalta i modelli terroristici di al Qaeda prima dell’11 settembre, quando la
strategia antiamericana prevedeva di colpire gli statunitensi all’estero, e quella dello stesso
11 settembre quando al Qaeda riuscì ad attaccarli a casa loro. Oggi la strategia
antioccidentale sembra voler colpire ogni turista o uomo d’affari all’estero e a casa propria.
Torna il modello di Mumbai del 2008 quando un gruppetto di qaedisti tenne in scacco
l’intera megalopoli asiatica (impressionante è la somiglianza di atteggiamento e
abbigliamento del terrorista di Giacarta con l’omologo Ajmal Amir Kasab di Mumbai).
Tornano le rivendicazioni premature e preconfezionate in franchising da parte di qualsiasi
organizzazione in corsa per il primato terroristico. E nel lessico del maghrebino Yusuf AlAnabi (avete occupato Tripoli, ve ne pentirete“) riaffiorano le rivendicazioni di Gheddafi
che, con il pretesto della colonizzazione fascista, pretese e ottenne i danni di guerra da un
governo italiano più attento allo spettacolo che alla dignità politica.
Non è affatto peregrina la sensazione che l’occidente, la nostra cultura e il nostro modello
di vita siano sottoposti ad accerchiamento da parte di alieni coalizzati. La miriade e la
frequenza di episodi terroristici rivendicati puntualmente dai soliti “noti” inducono a
pensare che esista una regia occulta, unitaria, planetaria, efficiente e straordinariamente
organizzata.
Eppure non è vero niente. Non siamo sotto assedio, non siamo in pericolo di esistenza, la
nostra democrazia e i nostri valori non sono minacciati dall’esterno; semmai siamo noi
stessi a metterli in pericolo subendo senza minimo spirito critico ogni cupa visione che ci
viene dispensata. E non è vero che tutto sia riconducibile a un piano, a una strategia, a
una mente criminale e a un cuore di pietra. Quello che facciamo passare per continuità fra
le varie sigle terroristiche islamiste degli ultimi quarant’anni (dai mujaheddin afghani ad al
Qaeda fino al cosiddetto Stato Islamico) è solo una nostra semplificazione rivolta a
concederci la “grazia” di una sola guerra, contro un solo avversario. Comprensibilmente, il
presidente Obama fece della guerra ad al Qaeda il proprio cavallo di battaglia anche
quando al Qaeda era stata smembrata, decapitata e superata. Doveva spacciare per
successori di quella sigla i nuovi militanti dello Stato Islamico per giustificare sia la
continuazione della guerra iniziata e non vinta dal suo predecessore, sia la prospettiva che
non sarebbe stata nè vinta nè conclusa facilmente. In realtà Obama sapeva benissimo chi
e perchè aveva dato vita all’Isis e soprattutto perchè fosse “sfuggito di mano”.
Anche se la diffusione globale dei fenomeni terroristici sembra rifarsi a uno scopo politico
unitario, la realtà è molto diversa. Ogni area in preda al terrorismo è preda dello
sfruttamento e del malgoverno. Anche se la concentrazione in zone particolari del globo
può far pensare a una contiguità geografica e politica, la realtà è diversa: ogni caso e ogni
luogo hanno caratteristiche diverse. Purtroppo non c’è un solo nemico, non c’è una sola
ragione ideologica o economica, non c’è una testa da tagliare o un cuore da trafiggere.
Non si può pensare che il terrorismo di Parigi o Colonia, o Istanbul sia solo eterodiretto e
che ci si possa dimenticare dei problemi di Parigi, Colonia e Istanbul. Un successo a
Roma non può eliminare il terrorismo in Belgio, o la morte di un capo dell’Isis in Siria non
può risolvere i problemi in Nigeria o Libia. Il terrorismo unitario, anche solo nella matrice
ideologica, è un teorema assurdo che tende a distorcere il fenomeno e dilatarlo nel tempo
e nello spazio rendendolo irrisolvibile. Si rende evanescente un fenomeno che andrebbe
affrontato in ogni sua più minuta e dettagliata realtà: quella che ciascuno di noi ha la
capacità di vedere anche in maniera precoce. Cerchiamo conforto nelle operazioni militari
fingendo di credere che, senza neppure parlarsi, i grandi eserciti riescano a individuare il
nemico assoluto: preferibilmente in casa d’altri. Per battere un avversario reso imbattibile
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dallo stesso teorema della generalizzazione globale ci stringiamo fiduciosi in coalizioni
internazionali formate da membri che non riescono e spesso non vogliono vedere il
nemico di casa propria.
del 15/01/16, pag. 11
Si accende la sfida all'Isis nel Nord Africa
"Ma il Califfo resta più forte di Al Zawahiri"
I due gruppi si contendono militanti e fondi: Al Qaeda punta sul
Maghreh
E rispunta l'erede di Bin Laden che minaccia l'Arabia per le esecuzioni
Giordano Stabile
Un vecchio network, più rigido e lento nelle reazioni, che viene svuotato dal nuovo
soggetto, agile, spregiudicato, con una struttura decentralizzata. La rivaliti, fra Al Qaeda e
Isis può essere vista come la competizione fra due multinazionali. La «base» tradizionale
ha ancora due roccaforti, lo Yemen e il Nordafrica, e sta tentando una reazione. Ma è
destinata a essere rimpiazzata. Ieri ha battuto due colpL Il videomessaggio sulla Libia che
arriva dall'Aqmi. i nuovi messaggi, due audio e un testo, del leader supremo Ayman al
Zawahiri. L'erede di Osama bin Laden promette vendetta all'Arabia Saudita per
l'esecuzione di 47 terroristi, 43 dei quali erano estremisti sunniti, la maggior parte di Al
Qaeda. Poi definisce il Sud- Est asiatico, e l'Indonesia, «maturo per il jihad». infine parla
della Siria e torna a condannare l'Arabia Saudita.
Piramide e franchising
Al Zawahiri si nasconde ancora nei tradizionali rifugi fra Afghanistan e Pakistan ma è
proprio in Asia meridionale che l'Isis sta conducendo la campagna più aggressiva.
«L'assalto a una base dell'aeronautica del 2 gennaio a Pathankot, nel Punlab, è un
ulteriore salto di qualità - spiega Colin P. Clarke, analista della Rand Corporation -. L'Isis
sta risucchiando militanti ad Al Qaeda in tutto il Sud-Est asiatico, che vede come il terreno
più fertile per i reclutamenti. Anche l'attacco a Giacarta si inserisce in questa strategia». Le
ultime roccaforti dove Al Qaeda resta competitiva, secondo Clarke, sono «lo Yemen e il
Nord Africa». Questo perché le due branche locali hanno sempre avuto una forte
autonomia e leader carismatici locali, come gli yemeniti Nasir al-Wuhayshi (morto nel
2015) e Qasim al-Raymi, capace di crearsi una sua «capitale» a Mukallah. Lo struttura
piramidale di Al Qaeda l'ha penalizzata in tutte le altre zolle. L'Isis è stata più abile nel
franchising. Come in Sinai, dove Al Bayt al Maqdis ha creato un proprio wilaya, provincia,
e conduce una guerriglia implacabile contro l'esercito egiziano, oltre ad aver abbattuto un
aereo russo, con 224 persone a bordo. In Libis la situazione è simile, con gruppi e tribù
locali che si sono affiliate e hanno ricevuto centinaia, forse migliaia, di nuove reclute dalla
Tunisia e da Siria e Iraq. Più a Ovest, nel territorio desertico fra Libia, Algeria, Niger, Mali e
Mauritania, domina ancora l'Aqmi e la situazione è molto fluida. Il caso di Mokhtar
Belmokhtar, forse il comandante più famoso, è emblematico della competizione fra i due
gruppi. E come, in questo caso, un approccio più «tradizionalista », abbia favorito Al
Qaeda. Belmokhtar è un figliol prodigo. Cacciato con l'accusa di essersi intaccato parte
dei fondi che arrivavano dalle casse centrali di Al Qaeda, ha fondato un suo gruppo, i
Mourabitounes, si è avvicinato all'Isis, anche se non è chiaro se abbia fatto giuramento di
fedeltà, ha tentato l'avventura in Libia. Poi ha ripiegato in Mali, dove ha messo ha segno,
in collaborazione con l'Aqmi, l'assalto all'Hotel Raclissondi Bamako, il 20 novembre.
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L'Aqmi ha sottolineato che, a differenza dell'Isis, gli assalitori del Radisson hanno avuto
cura «di separare con cura cristiani da musulmani» in modo da non «versare l'inviolabile
sangue islamico». Ciò in contrasto con l'attacco di Parigi del 13 novembre. Anche lo stile
della comunicazione è molto diverso, con l'Isis che «ha un marketing più aggressivo» nia
può «urtare gli ambienti più conservatori». Libia, nuovo Afghanistan In ogni caso la
spregiudicatezza dell'Isis sta pagando. Con il controllo di un territorio in Siria e Iraq, lo
Stato islamico ha una base solida per espandersi, come Al Qaeda non ha mai avuto. E,
secondo Clarke, punta moltissimo sulla Libia, «che oggi è quello che era l'Afghanistan
nella seconda metà degli anni Novanta, un santuario, una calamita per gli jihadisti». E una
minaccia «concreta e seria» per l'Italia. Da non sottovalutare dal punto di vista militare
perché «gli islamisti hanno messo le mani so sistemi anti-aerei Sam dell'arsenale di
Gheddafi».
del 15/01/16, pag. 6
«Belle epoque» della dittatura e jihadismo
Indonesia. L’Indonesia, fino ad allora sopratutto meta turistica e, per i
più edotti l’ex regno di una dittatura ultratrentennale, fece parlare di sé
nel 2002 con la bomba di Bali
Emanuele Giordana
Può rassicurarci, oltreché allarmarci, sostenere che Jakarta è come Parigi e Istanbul. Che
Daesh ha un progetto globale e che il Paese delle 13mila isole è il tassello più gustoso del
Califfato allargato. Ma la targa Stato islamico sull’attentato di Jakarta non deve farci
dimenticare di che Paese parliamo. Ogni nazione ha una storia nella quale il jihadismo, al
netto dell’imperscrutabile richiamo che esercita soprattutto su alcuni giovani musulmani,
può giocare un ruolo eterodiretto.
E non solo da Raqqa. L’Indonesia, fino ad allora sopratutto meta turistica e, per i più edotti
l’ex regno di una dittatura ultratrentennale, fece parlare di sé nel 2002 con la bomba di
Bali.
Duecentodue morti in maggioranza stranieri quando ancora colpire i turisti era una novità.
Le indagini, indirizzate sulla Jemaah Islamiyah e sul controverso guru islamico Abu Bakar
Bashir, rivelarono piste che puzzavano di bruciato. Alcune infatti portavano più in là del
jihadismo locale, tutto sommato un fenomeno — oggi come allora — residuale.
Portavano a figure oscure che si muovevano tra la potente malavita indonesiana, ricchi
businessman, settori dell’esercito, l’unico soggetto in grado di possedere esplosivi e che
vantava una lunga storia di infiltrazioni nei movimenti islamisti e settari perché servissero a
scatenare il caos: prima in funzione anti comunista, poi — dopo il golpe del 1965 e con
l’avvento di Suharto — per controllare possibili ribelli.
Poi ancora — nella nuova e fragile stagione di una neonata democrazia — per poter di
nuovo servirsi del caos e instillare l’idea che un ritorno della vecchia guardia al potere
fosse la panacea: ordine, la stessa parola che aveva segnato la stagione del dittatore che
l’aveva appunto chiamata Orde Baru, «ordine nuovo».
Dunque malavita, potentati economici legati al crony capitalism della famiglia Suharto,
pezzi dei servizi militari deviati e riconducibili al periodo della dittatura. Questa società
nascosta e segreta aveva e ha in odio la nuova stagione democratica. Se n’è fatta in parte
una ragione ma rimpiange la belle epoque della dittatura.
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Legami diretti tra la stagione stragista iniziata nel 2002 (e ripetutasi sino al 2009 con le
bombe negli alberghi e poi ancora, solo qualche tempo fa, con un’esplosione davanti alla
casa del sindaco di Bandung) non sono mai stati dimostrati ma a tratti i nomi di qualche
businessman o di qualche agente o di qualche militare saltava fuori. Poi — complice una
magistratura molto morbida — le sigle Al Qaeda e Jemaah Islamiyah coprivano tutto.
Se dietro ai fatti di ieri ci sia qualche burattinaio locale è presto per dirlo ma nel conto
bisogna metterci anche questa ipotesi se non si vuole che il brand Daesh serva a
insabbiare possibili piste dove si muovono i protagonisti di un’epoca che ancora non è
passata. Anzi, proprio il nuovo segno della politica indonesiana, incarnata dall’outsider
Joko Widodo, deve mettere in guardia.
Quando si presentò alle presidenziali del 2014 sfidò nientemeno che un genero di
Suharto, primo marito di Titiek, la più giovane delle figlie dell’ex dittatore ormai defunto. A
Prabowo Subianto, ex generale e uomo d’affari, guardava proprio il vecchio mondo del
crony capitalism e dei nostalgici della dittatura. Jokowi vinse. Ma quelle forze oscure che
rimpiangono il passato sono tutt’altro che sconfitte: prova ne sia che a distanza ormai di
cinquantanni è ancora vietato discutere del golpe del 1965 e delle stragi che ne seguirono.
È in quell’oscura trama di interessi che Daesh o chi per lui può trovare alleati. Ancor prima
che tra qualche giovane dei sobborghi di Jakarta o di Bandung abbagliato dall’utopia
jihadista di Al Bagdadi.
Da Avvenire del 15/01/16, pag. 10
La Turchia spara sul Daesh «In Siria e Iraq
200 morti»
È stallo a Ramadi: truppe Usa anche per Mosul Ancora quattrocento i
bambini yazidi in ostaggio
LUCA GERONICO
Il bombardamento, dopo l’attentato. Una sequenza da guerra mondiale a pezzi che
frammenta e complica ulteriormente il 'pantano' siriano e iracheno. In 48 ore le forze
armate turche hanno colpito, in Siria e in Iraq, circa 500 obiettivi del Daesh
«neutralizzando» 200 jihadisti, tra i quali alcuni leader del Califfato. Il premier turco Ahmet
Davutoglu risponde così all’attentato di lunedì a Istanbul: «La Turchia continuerà a colpire
il Daesh via terra e userà le forze aeree se necessario», ha dichiarato davanti a numerosi
ambasciatori in cui ha chiesto a tutti i Paesi di dimostrarsi risoluti nella lotta contro il
Califfato islamico. Dura le replica di Mosca: la politica «distruttiva» della Turchia in Siria
rischia di determinare una ulteriore escalation nella regione, ha dichiarato il portavoce del
ministero degli Esteri rurro Maria Zakharova.
Una guerra civile regionale che continua a sconvolgere pure l’ordine interno alla Turchia:
ieri sei persone sono morte e 39 sono rimaste ferite da un’autobomba del Pkk contro un
commissariato di polizia a Cinar, nel sud-est della Turchia. Davutoglu, nel condannare
l’attacco, ha ribadito la lotta della Turchia «contro ogni forma di terrorismo ». Alta tensione
dunque in Siria dove nei giorni scorsi le prime colonne di aiuti umanitari hanno raggiunto
Madaya, la città siriana vicina a Damasco per mesi sotto assedio da parte del governo. Il
segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, ha affermato che «l’uso della fame come arma
di guerra è un crimine di guerra». Se in Siria si rischia un potenziale effetto domino dagli
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esiti incontrollabili, l’Iraq sembra sprofondare lentamente in un “pantano” militare e politico.
Il Daesh ieri ha preso il controllo di Tel Ksabh e Alambid, a 30 chilometri circa ad est di
Tikrit, consentendo così agli uomini del Califfato di controllare la strada che collega il
capoluogo Tikrit con Kirkuk: almeno 11 membri delle forze governative, fra cui due ufficiali,
sono rimasti coinvolti in due attentati suicidi nella regione. Intanto a Ramadi, riconquista da
Baghdad due settimane fa, le forze di sicurezza irachene hanno evacuato oltre 600 civili
intrappolati nei quartieri periferici di Sichariyah e Sufiya, dove si segnala ancora la
presenza di miliziani islamisti. Le forze antiterrorismo di Baghdad hanno annunciato di
aver ripreso il controllo della facoltà di Agraria, del liceo femminile e della direzione dei
ser- vizi di sicurezza. Tuttavia non tutti i quartieri sono completamente sotto il controllo
dell’esercito iracheno. Movimenti e combattimenti pure a Mosul, la capitale del Daesh in
Iraq: da mesi ormai si annuncia una controffensiva decisiva che, però, viene sempre
rimandata. Nella notte tra mercoledì e giovedì l’aviazione francese un centro di
telecomunicazioni dei miliziani del Daesh nei pressi di Mosul. Martedì 200 unità delle forze
speciali Usa sono arrivate in Iraq per condurre operazioni contro il Califfato in
collaborazione con le forze irachene. Un dispiegamento, ha rivelato il segretario alla
Difesa Ashton Carter, che rientra in uno sforzo più ampio degli Stati Uniti per accelerare la
campagna contro il Daesh. «L’invio di forze speciali annunciato nel mese di dicembre è
ormai in atto e i soldati si apprestano a lavorare con gli iracheni per iniziare nuovi attacchi
contro i militanti e i leader dell’Isis», ha dichiarato Carter parlando da Fort Campbell, in
Kentucky.
Si amplia, intanto, il bilancio degli orrori compiuti dal Califfato: sono 400 i bambini yazidi
rapiti a Sinjar, nel nord dell’Iraq, liberata a metà novembre dai peshmerga curdi, che
verrebbero addestrati per diventare potenziali attentatori kamikaze. Lo hanno denunciato
fonti governative curde, spiegando che i bambini rapiti erano in realtà 600, ma circa 200
sono riusciti a fuggire.
del 15/01/16, pag. 7
Duecento arresti in 48 ore. Esplosione a
Diyarbakir
Turchia. Erdogan accusa il Pkk e la «struttura parallela» di Gulen
Fazila Mat
ISTANBUL
Duecento membri dello Stato islamico «resi inoperativi» in 48 ore. Cinquecento postazioni
colpite e attaccate con cannoni e tank in Siria e Iraq. Con queste espressioni il premier
turco Ahmet Davutoglu ha illustrato ieri, durante un incontro con gli ambasciatori turchi ad
Ankara, «la posizione determinata» assunta dall’esecutivo contro l’orgnizzazione jihadista,
a seguito dell’attentato suicida che ha colpito Istanbul martedì scorso. Davutoglu ha
assicurato che gli attacchi continueranno fino a quando il gruppo non abbandonerà le aree
di confine del Paese.
Mentre l’opinione pubblica turca continua a interrogarsi sul perchè lo Stato islamico (Isis)
non abbia rivendicato l’attacco, il ministro dell’Interno Efkan Ala ha comunicato che il
numero degli arresti dei presunti membri Isis collegati dalle autorità all’attentato di
Sultanahmet è salito a sette. Ma nel Paese l’escalation di violenza è continuata anche
nelle tarde ore di mercoledì.
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Un’autobomba è stata fatta esplodere a distanza in una postazione di polizia a Cinar, un
distretto della provincia sudorientale di Diyarbakir, uccidendo 6 persone, inclusi tre
bambini. L’attacco, attribuito dalle autorità al Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk),
rappresenta l’ennesima ferita aperta nella zona già martoriata dagli scontri tra gli
autonomisti curdi e le forze dell’ordine turche che da diverse settimane hanno raggiunto i
centri urbani della regione. E il premier Davutoglu ha infatti ribadito che la lotta all’Isis
andrà di pari passo a quella condotta contro il Pkk come quella mandata avanti contro «la
struttura parallela» — il nome adottato dall’esecutivo e dal presidente Tayyip Erdogan per
definire il movimento dell’imam e magnate Fethullah Gulen, incluso da oltre un anno nella
lista terrorismo del governo.
«È necessario tenere in considerazione il collegamento di questa organizzazione con
l’organizzazione terroristica (Pkk, nda)», ha poi aggiunto il premier, ricordando che «il
2015 è stato un anno in cui siamo stati costretti a lottare contro diverse crisi» non escluse
«le attività accusatorie degli armeni».
Il premier si è infine scagliato anche contro il gruppo degli «Accademici per la pace» (Baris
icin Akademisyenler, in turco) che ha chiamato l’esecutivo a riprendere le trattative di pace
con i curdi.
«Dopo aver assistito agli esempi in Siria e Iraq, frantumati a causa delle richieste
identitarie, non mi cimenterò in dibattiti intellettuali con chi vuole mettere la Turchia nella
stessa situazione, anzi li combatterò in quanto premier della repubblica turca», ha
affermato Davutoglu, garantendo che «ciascuno avrà quanto meritato in questa lotta». Ma
secondo diversi osservatori questo «atteggiamento» e «linguaggio volto alla violenza»
espresso dal premier, come dal presidente Erdogan, sono ben lungi dal potere creare un
terreno adatto a risolvere la drammatica situazione in cui si trova la Turchia.
«Si è dentro a un tale clima di violenza che il Paese è diventato aperto agli ‘atti
terroristici’», scrive su Radikal il gionalista Cengiz Candar. «Ma i governanti lungi dall’aver
imparato una lezione dagli ‘atti terroristici’ ha inasprito il proprio linguaggio, rendendolo
sempre più violento (…) E con tutto ciò non ha preso di mira ‘la fonte più importante del
terrore’ ossia l’Isis, dando invece man forte ad ‘un’azione per schiacciare e tenere sotto
pressione i curdi’, giustificandosi con la ‘lotta al Pkk’» scrive il giornalista aggiungendo che
«nemmeno l’attentato di Sultanahmet ha creato una rottura in questa linea. Per questo
motivo, la ‘situazione’ in cui ci troviamo risulta molto più grave dell’attacco di
Sultanahmet».
Intanto, a complicare la situazione, sopraggiungono anche nuove teorie complottistiche
avvallate dalla stampa pro-governativa, come il quotidiano Sabah che — basandosi
sull’arresto di tre presunti membri Isis di nazionalità russa — ha indicato la Russia — in
combutta con l’Iran e il regime di Bashar al Assad — come il responsabile dell’attacco di
Sultanhmet. La teoria secondo cui la Russia non vorrebbe che l’Isis fosse danneggiata
trova eco anche nelle affermazioni del premier turco che si è «lamentato» del fatto che
dopo l’abbattimento del bombardiere russo l’aviazione turca non può di fatto più entrare
nello spazio aereo siriano «per bombardare l’Isis».
del 15/01/16, pag. 1
Teste di turco
Maledetta guerra. Perché il «conto» del Califfo al Sultano ci riguarda
Tommaso Di Francesco
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Come appare evidente, l’attentato di Istanbul ha cambiato le carte in tavola del conflitto in
corso. È infatti il primo in territorio turco che si ritorce direttamente contro gli interessi del
regime di Erdogan e dell’Akp, il partito islamista moderato al potere. Diversamente
dall’attentato di Ankara dell’ottobre scorso, una strage di stato contro una marcia pacifista
della sinistra e dei kurdi che ha provocato più di cento vittime già dimenticate con le
indagini sulle responsabilità.
Così ora non c’è giornale o media che si rispetti che non indichi l’agguato kamikaze a
Sultanahmet — ai margini del massacro in Siria — come «il conto» che lo Stato islamico
presenta al Sultano Erdogan, il leader che ha istruito le milizie dell’Isis sui campi di
battaglia dell’intera regione mediorientale. Purtroppo è una mezza verità, poco meno di un
esercizio di retorica vuota, da testa o «testata» di turco. Dunque non basta, anzi.
In primo luogo perché i giornaloni che ora scoprono questa «sensazionale» verità — che
qualcuno ripete in solitudine da quattro anni — sono gli stessi che, sempre accreditando la
guerra, erano saliti sugli aerei della Nato quando bombardava la Libia di Gheddafi, o sul
carro della rivolta armata contro il regime di Assad, chi incitando alla guerriglia, chi
baciando bandiere dei rivoltosi, sempre accreditando la guerra che dilaniava quei Paesi. E
non importava si trattasse di forze più o meno democratiche o di jihadisti estremi, magari
legati ad al-Qaeda e poi al Califfato dilagante dall’Iraq distrutto dalla precedente guerra di
Bush. Decisiva per la nascita dello Stato islamico e a suo tempo anche quella
sponsorizzata dagli stessi giornaloni indipendentemente filogovernativi che oggi
propongono editoriali «luminosi» su Erdogan.
In secondo luogo perché a forza di indicare le uniche malefatte del premier di Ankara, si
nascondono quelle del raffinato Occidente «pagatore», europeo ed americano. Vale a dire
il ruolo dell’Alleanza atlantica della quale la Turchia è il baluardo mediorientale. Perché
Erdogan, che sembra non voler fare la fine del limone spremuto come fu per Saddam
Hussein, non ha mosso un dito nella regione senza che la Nato sapesse e approvasse.
Dalla guerra in corso contro i kurdi del Pkk, del Rojava in Siria, a quelli in Iraq, al
posizionamento provocatorio a Mosul, fino alla strage di Ankara attribuita sbrigativamente
alla manovalanza dell’Isis che però da troppo tempo è controllata dai Servizi turchi. Senza
dimenticare l’abbattimento del jet russo.
E ancora nell’elenco di malefatte, la gestione dell’addestramento nelle basi della Nato
degli insorti inutilmente finanziati da Usa e Arabia saudita, visti i rovesci subiti, per passare
al traffico di petrolio, testimoniato da inchieste giornalistiche con tanto di reporter subito
incarcerati. E al traffico di armi e profughi; fino al transito dei foreign fighters arrivati per la
maggior parte da decine di capitali europee nel silenzio assoluto delle intelligence
nostrane.
Adesso, solo adesso, scrivono che «il Califfo chiede conto al Sultano». Ma il Sultano era
ed è atlantico. E, ahimé, il conto ci riguarda.
E ci riguarderà sempre di più se l’attuale «non belligeranza» italiana diventerà
avventurismo militare in Libia, sempre suggerito dal giornalismo embedded. Che impegna
subito e a tutti i costi il governo Renzi a trasformare un trasporto al Celio di feriti dell’ultimo
attentato a Misurata rivendicato dall’Isis, come fosse la prova generale del nuovo
intervento armato italiano. Naturalmente «contro gli scafisti», cioè perché un governo libico
inventato di sana pianta diventi garante del «posto sicuro» per rinchiudere in nuovi campi i
migranti e fermare così la loro disperazione.
Il tutto sulle ceneri caldissime dell’ultimo disastro della guerra del 2011 e della memoria, lì
difficilmente oscurabile e cancellabile — e più pericolosa se ricordata «con rigore»
provocatorio e minaccioso dall’Isis, com’è accaduto ieri — delle imprese criminali del
colonialismo italiano.
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del 15/01/16, pag. 15
Ezgi, Mehmet e i mille anti-Erdogan «È un
regime, noi non taciamo più»
La rivolta dei 1.128 accademici si allarga. «Perseguitati come traditori.
Non c’è libertà»
DAL NOSTRO INVIATO
ISTANBUL Non è più la Turchia della giunta militare, però sta tornando una dittatura che
perseguita il pensiero libero e chiunque osi criticare il presidente-Sultano islamicoconservatore Recep Tayyip Erdogan. Sono trascorse più o meno quattro decadi dal
regime dei colonnelli, ma per Ezgi Basaran (35 anni) e Mehmet Karli (36), la lotta per il
libero pensiero mantiene la stessa drammatica urgenza. Moglie e marito assieme in prima
linea. «Non c’è libertà oggi nel nostro Paese. Siamo vittime di un regime che non tollera
alcun dissenso e utilizza qualsiasi pretesto, incluso l’allarme terrorismo, per far tacere ogni
critica interna», denunciano all’unisono. Per loro «democrazia» è ben più di un’idea, un
concetto, ma piuttosto una fede comune, un’etica dei rapporti sociali, un impegno che
cementa anche il loro legame. «Abbiamo chiamato nostro figlio di due anni Deniz. Lo
stesso nome di un famoso studente universitario impiccato dai militari nel 1971 solo
perché aveva partecipato ad una manifestazione di protesta».
Lei, dipendente del gruppo che controlla i quotidiani Radical e Cumhuriyet , è tra le
centinaia di giornalisti perseguitati. Tanti in carcere, oggi almeno 32. E molti di più
licenziati o a rischio impiego. Nel 2015 ne sono stati arrestati 156 per periodi più o meno
brevi, quasi 500 investigati. L’accusa? «Siamo descritti come traditori dello Stato solo per il
fatto che denunciamo la repressione contro le minoranze, i curdi in testa, o condanniamo
in pubblico la repressione delle opposizioni politiche», spiega Ezgi.
Lui se ne sarebbe forse rimasto un distaccato professore di scienze politiche all’Università
Galatasaray di Istanbul (è autore di un volume sulla politica estera di Erdogan), se non
fosse stato per le notizie sempre più gravi che provengono dalle province sud-orientali.
«Sono ormai mesi e mesi che arrivano informazioni drammatiche dalle regioni a
maggioranza curda. Molti dei miei studenti che vengono da quelle aree sono stati arrestati.
Alcuni proprio non possono raggiungere Istanbul a causa del coprifuoco e dei posti di
blocco militari. Ci sono popolazioni intere isolate, prive di cibo, acqua, assistenza medica.
E il grave è che i nostri media non ne parlano», racconta Mehmet. Anche adesso avrebbe
preferito evitare problemi. Tanto che lunedì scorso, quando 1.128 accademici turchi hanno
firmato una petizione dal titolo eloquente, «Non saremo complici dei vostri crimini», lui era
rimasto nell’ombra. Ma sono state poi le critiche durissime del governo, inclusi alcuni
personaggi legati alla malavita locale, che lo hanno spinto a firmare. «Ho dovuto prendere
posizione. Le minacce di Erdogan e dei suoi tirapiedi sono state troppo volgari, troppo
offensive. Il noto mafioso Sedat Peker ha dichiarato pubblicamente di volersi fare la doccia
con il sangue degli intellettuali. Intimidazioni aperte, senza risposta da parte delle autorità.
Ovvio che non potevo più tacere. Così ho aggiunto il mio nome alla lista. Se ho ben capito
in poche ore siamo diventati ben oltre 2.000 firmatari».
Ezgi viaggia spesso per lavoro nelle province curde. L’ultima volta è stato un mese fa.
«Noi due siamo musulmani sunniti, non curdi. Però siamo convinti che la soluzione sia
quella della convivenza e del dialogo. Il braccio di ferro militare porta solo tragedie e lutti,
come è già avvenuto infinite volte nel passato», tiene a sottolineare. Il punto per loro non è
infatti difendere la causa dell’autonomia curda, o tanto meno levare le accuse di
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«terrorismo» che il governo ripete ad ogni occasione contro gli estremisti del Pkk, il Partito
dei Lavoratori curdo che ricorre spesso alla lotta armata. Sono però convinti che Erdogan
abbia precipitato la crisi quando in primavera ha scelto di tagliare il dialogo avviato 4 anni
fa con i moderati curdi. «Da allora è l’inferno. Abbiamo notizie di squadracce della morte
chiamate Esedullah che torturano, rapiscono, uccidono impunemente. Chi denuncia è una
spia perla polizia», commenta. Drammatici i numeri dai campi della guerra civile: fonti filogovernative parlano trionfalmente di 3.000 guerriglieri del Pkk uccisi da metà estate, i morti
delle forze di sicurezza sarebbero ben oltre 200. Incerto il numero delle vittime civili.
Lorenzo Cremonesi
Da Avvenire del 15/01/16, pag. 22
Dopo il volontariato con gli scout a Sderot e contatti con i piccoli che
crescono in zone di guerra, la 19enne ha fatto obiezione di coscienza.
Ha anche rifiutato l’alternativa del servizio civile
«No a leva (e violenze)»: israeliana finisce in
cella
SUSAN DABBOUS
GERUSALEMME
In prigione per essersi rifiutata di prestare il servizio militare obbligatorio. Dal 10 gennaio,
una diciannovenne israeliana si trova nel carcere militare numero 6 di Tel Aviv per aver
scelto l’obiezione di coscienza. Si chiama Tair Kaminer, viso tondo e occhi vispi dietro una
grande montatura di occhiali neri. «Qualche mese fa – aveva scritto sulla sua pagina
Facebook prima di essere portata in cella – ho concluso un anno di volontariato con gli
scout israeliani a Sderot. Tra pochi giorni andrò in prigione», perché in Israele il servizio
militare è obbligatorio. A Sderot, cittadina di confine con Gaza, Tair ha lavorato a contatto
con bambini che vivono in una zona di guerra.
Vedendo in loro «insidiarsi l’odio, sin dalla tenera età», la giovane volontaria ha deciso di
non prestare il servizio militare che ha luogo comunemente dopo le scuole superiori. La
punizione per diserzione, prevista dalla legge israeliana, prevede 20 giorni di carcere,
rinnovabili finché l’obiettore non cambia idea. È così che hanno fatto avanti e indietro in
prigione, per anni, noti disertori che, oggi, hanno il supporto del (davvero esiguo)
movimento di obiettori di coscienza. Gruppi come Yesh Gvul, Mesaravot (letteralmente:
coloro che si rifiutano) e altri ancora, tutti in contatto nella pagina Facebook “Refusal to
serve in the Idf” (Israeli defence forces).
Tair viene da una famiglia particolarmente sensibile al tema dei diritti palestinesi, anche
suo cugino, Matan Kaminer, spese complessivamente due anni in prigione per non aver
prestato il servizio militare 13 anni fa. In Israele l’unico modo per evitare il militare è
addurre delle motivazioni che riguardano la salute, oppure fare il servizio civile in diversi
settore dello Stato, molto spesso lavorando per l’esercito sul piano amministrativo. Va
detto che per la maggior parte dei giovani il militare è un percorso scontato, non
particolarmente terribile, né traumatico, a volte persino “istruttivo”. Così ci spiega una
riservista, trentenne, che dopo aver finito la leva obbligatoria si è iscritta nelle liste dei
volontari che possono essere chiamati dall’esercito con scarso preavviso in caso si
verifichi un’emergenza.
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«Abbiamo molti benefit – ammette la donna –: mutui con basso interesse e prestiti
agevolati dalle banche per aprire attività commerciali». Per gli obiettori come Tair, invece,
tutte le porte dei lavori statali resteranno chiuse, e pesanti sono anche i pregiudizi che
gravano sugli obiettori, malvisti da buona parte della società israeliana, ossessionata dal
problema della sicurezza. Paradossalmente gli unici “alleati” degli obiettori, laici e pacifisti,
sono i religiosissimi ultra-ortodossi, a cui il parlamento israeliano ha recentemente imposto
di fare il servizio militare, da cui erano stati esentati negli anni passati.
«Parlando con alcuni amici – ha detto Tair in un videomessaggio sui social network –,
sono stata accusata di ferire la democrazia non obbedendo alle leggi dello Stato. Ma i
palestinesi nei Territori occupati – ha osservato la diciannovenne – vivono sotto le leggi
del governo israeliano anche se non l’hanno eletto». Dal movimento Mesaravot fanno
sapere che al momento «Tair è l’unico obiettore di coscienza in prigione in Israele.
Avrebbe potuto scegliere il servizio civile, evitare il carcere e non fare clamore, ma ha
deciso con di dare l’esempio a chi come lei vorrebbe contestare il servizio militare,
l’occupazione e non ne ha il coraggio».
del 15/01/16, pag. 6
«Ambiente familiare in mezzo alla natura»:
turismo nelle colonie
Protesta palestinese. Airbnb che mette in collegamento i viaggiatori con
quanti mettono a disposizione appartamenti e camere da letto, propone
alloggi a poche decine di minuti da Tel Aviv o da Gerusalemme negli
insediamenti ebraici costruiti illegalmente nella Cisgiordania occupata
Michele Giorgio
GERUSALEMME
Sorrideva l’altro giorno Avital Kotzer Adari, dell’Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo,
mentre snocciolava i dati dell’affluenza dei turisti stranieri nel suo paese. «Il 2015 si è
chiuso con 3,1 milioni di visitatori da tutto il mondo, di cui 2,8 milioni turisti. Per quanto
riguarda quelli provenienti dall’Italia, che è il sesto Paese al mondo per utenza, abbiamo
avuto un +91 mila visitatori, di cui 84 mila turisti», ha riferito presentando le iniziative
rivolte ai pellegrini nell’Anno del Giubileo della Misericordia. Un interrogativo è sorto
spontaneo ascoltando quelle cifre: quanti di quei turisti, anche italiani, hanno trovato
alloggio nelle colonie israeliane in Cisgiordania? Già perchè comincia a dare i suoi frutti la
campagna per la normalizzazione degli insediamenti colonici che i governi israeliani, non
solo gli ultimi tre presieduti da Benyamin Netanhyahu, portano avanti da anni. Le agenzie
locali promuovono sempre più spesso pacchetti turistici nelle colonie dove «apprezzare la
natura e bere buon vino, vivere in un’atmosfera pastorale e in un ambiente familiare». Una
delle più gettonate è Psagot, tra Gerusalemme e Ramallah, ma sono sempre di più gli
insediamenti israeliani in Cisgiordania che si rendono disponibili per i fine settimana. I tour
operator locali, rivolgendosi ai cittadini stranieri, sorvolano sul fatto che quelle «comunità»
in realtà sono colonie costruite in violazione del diritto internazionale in un territorio che è
stato occupato militarmente e dove gli abitanti palestinesi intendono proclamare il loro
Stato indipendente. In scia si sono inserite alcune agenzie internazionali, non interessate
alla politica e al diritto e desiderose solo di realizzare buoni profitti.
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Si è scoperto qualche giorno fa che il ben noto sito internazionale Airbnb che mette in
collegamento turisti e viaggiatori con quanti vogliano mettere a loro disposizione
appartamenti e camere da letto – la sua app per smartphone viene scaricata in ogni parte
del mondo – propone case immerse nella natura, a poche decine di minuti da Tel Aviv o
da Gerusalemme, a prezzi molto convenienti, anche nelle colonie ebraiche. Lo stesso vale
per le Alture del Golan, un territorio siriano sempre occupato da Israele. Un responsabile
di Airbnb non ha confermato ma neppure smentito: «Seguiamo le leggi e le disposizioni
relative a dove noi possiamo fare affari e ci preoccupiano di indagare quando qualcuno
manifesta preoccupazioni riguardo determinate inserzioni», ha dichiarato a un quotidiano
locale.
Un sito d’informazione della sinistra israeliana, Siha Mekomit, spiega in una sua inchiesta
che a turisti stranieri ignari è proposto di pernottare in colonie ebraiche senza chiarire che
quelle località non sono in Israele bensì nei Territori palestinesi occupati. Un po’ come
avviene con le etichette “Made in Israel” visibili sulle merci prodotte negli insediamenti
colonici, in violazione delle norme che regolano il commercio internazionale. Siha Mekomit
ha anche riferito la vicenda di alcuni coloni che hanno respinto la prenotazione di un
statunitense di origine palestinese, promettendo che «In un futuro più tranquillo saremo
felici di ospitarla».
È difficile immaginare che le proteste possano indurre Airbnb a spiegare in modo accurato
che certe offerte arrivano da un territorio occupato militarmente. Tutto ciò mentre le città e
località turistiche palestinesi, a cominciare da Betlemme, soffrono le conseguenze
dell’occupazione, della costruzione del Muro di separazione e dell’espansione delle
colonie. In questo contesto emerge una inchiesta pubblicata di recente dai ricercatori del
centro Shabaka — Nur Arafeh Samia al Botmeh e Leila Farsakh – che vuole dimostrare
l’impatto che la colonizzazione ha avuto sull’economia palestinese sottraendo alla
popolazione importanti risorse naturali, a cominciare dall’acqua (599.901 coloni utilizzano
sei volte più acqua che tutta la popolazione palestinese della Cisgiordania, composta da
2.86 milioni di abitanti) e creando una massiccia disoccupazione. I ricercatori di Shabaka
sottolineano anche la condizione di quei lavoratori palestinesi che sono stati obbligati a
guadagnarsi da vivere proprio nelle colonie e l’appropriazione da parte di Israele di luoghi
turistici e archeologici assieme allo sfruttamento di cave, miniere e risorse del Mar Morto.
del 15/01/16, pag. 38
Taiwan
Una donna contro Pechino
Per la prima volta nella storia dell’isola “ribelle” il voto politico di
domani può eleggere una presidentessa: Tsai Ing-wen, la “Hillary
Clinton di Taipei”. Il suo partito punta al distacco totale dalla Cina
Creando così un possibile effetto domino in Asia
GIAMPAOLO VISETTI
DAL NOSTRO INVIATO
TAIPEI
Igiardini immensi e perfetti del Memoriale di Chiang Kai-shek sono deserti. Soltanto un
gruppo di anziani, davanti alla porta della Rettitudine, esegue gli esercizi mattutini del Tai
Chi, incurante di una pioggia leggera. Nessun visitatore chiede oggi di onorare la memoria
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del Generalissimo, fuggito qui nel 1949 dopo aver perso la guerra civile contro Mao
Zedong. Nemmeno a Pechino le colonne di cinesi che ogni giorno sfilano davanti al
Mausoleo del Grande Timoniere sono spontanee. L’indifferenza che seppellisce l’eroe
rivale di Taiwan non è però alimentata, come in Cina, dall’oblio inevitabile della storia: il
simbolo dell’indipendenza è stato trasformato nell’icona paradossale di quella
«riunificazione» che l’«isola ribelle» sembra ora decisa ad allontanare disperatamente
un’altra volta.
A Taipei ignorare Chiang Kai-shek significa oggi opporsi a suoi eredi del Kuomintang
(KMT), il partito al potere da quasi 67 anni, artefice del riavvicinamento alla «madrepatria
»: e l’ex Formosa, con il voto cruciale di domani, si prepara ad una svolta destinata a
rompere gli equilibri sempre più fragili dell’Asia. Per la prima volta una donna è a un passo
dal diventare presidente e per la prima volta il Partito democratico progressista (DPP)
sembra prossimo a conquistare anche la maggioranza in Parlamento.
Gli ultimi sondaggi sono concordi: i filo-cinesi del presidente Ma Ying-jeou, all’addio dopo
otto anni, sono accreditati del 20-25 per cento dei consensi, rispetto al 40-45
dell’opposizione indipendentista. Soltanto tre elettori su cento si sentono cinesi: sessanta
si dichiarano taiwanesi. Per la ventennale democrazia dell’isola si profila così un altro
debutto: la prima alternanza al governo dopo il doppio mandato del democratico Chen
Shui-bian, finito nel 2008 e seguito dall’arresto per corruzione. Nella capitale l’aria della
«storica svolta» è evidente.
Pochi anziani nel quartiere di Wanhua seguono in silenzio il corteo di Eric Chu, leader del
KMT, candidato in extremis alla successione di Ma Ying-jeou e accusato di mazzette per
estromettere dalla corsa la vice del “ Legislative Yuan”, Hung Hsiu-chu. Una folla
fragorosa di giovani, davanti al Memoriale della Pace, acclama invece la minuta Tsai Ingwen, presidente del DPP, avvocatessa di formazione anglosassone, già lanciata come la
«Hillary Clinton di Taipei» e favorita alle presidenziali.
Sarà un caso, ma anche il secondo evento di queste ore suggerisce che Taiwan vuole
festeggiare all’americana il ri-allontanamento dalla Cina e la rinnovata fedeltà al patto di
difesa che la lega agli Usa: oggi e domani è in cartellone il concerto dell’orchestra
sinfonica di Chicago, diretta da Riccardo Muti. «Per Pechino — dice Chen Yu-fang,
direttore del Centro di studi elettorali di Taipei — il problema non è la sconfitta del
Kuomintang: è la fine della tregua nello Stretto di Taiwan, la porta sbattuta in faccia alla
Cina e quella riaperta a Giappone e Stati Uniti».
La vittoria annunciata di Tsai Ing-wen, che in autunno è stata ricevuta a Tokyo e che
promette di volare presto alla Casa Bianca, minaccia di generare nel Pacifico l’effetto di
una bomba. Nell’ultimo confronto elettorale televisivo, ignorando il tentativo del KMT di
trascinare pure lei nel vortice di tangenti e inchieste, ha promesso di mantenere lo «status
quo» nelle relazioni con la Cina: a poche ore dal voto, Pechino avverte però i taiwanesi
che «spingere i rapporti con il continente al livello più basso dal 1949 avrà conseguenze
disastrose».
Per Xi Jinping si profila il primo stop internazionale. A novembre il presidente cinese, a
Singapore, ha fortemente voluto il primo vertice con un leader di Taiwan dopo 66 anni,
basato sullo statuto del «Consenso del 1992», che riconosce il principio di «una sola
Cina».
Non sono stati i missili sparati da Jiang Zemin, nel fallimentare tentativo di influenzare le
presidenziali del 1996, ma il messaggio che Pechino vincola la propria amicizia alla
prospettiva della riunificazione è risultato inequivocabile. Lo storico faccia a faccia con Ma
Ying-jeou, seguito dall’annuncio- beffa che Washington venderà a Taipei due fregate
lanciamissili, rischia domani di rivelarsi un boomerang. Il trionfo dei democratici anticipa
infatti un sorprendente accerchia- mento regionale della Cina: proprio mentre la Corea del
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Nord della corsa atomica si rivela sfuggita al suo controllo, il Giappone si riarma grazie
all’alleanza con gli Usa, il Sudest asiatico è sul piede di guerra per la contesa degli
arcipelaghi nel Mar Cinese Meridionale, la Corea del Sud accetta di rinforzare le basi
americane in chiave anti- Pyongyang, Hong Kong è scossa dalla repressione di Pechino e
Myanmar spinge al potere la democratica Aung San Suu Kyi.
«Concludere che la vittoria del DPP a Taiwan sancirà l’isolamento della Cina e la nuova
avanzata degli Usa in Asia — dice Huang Chun-Hsien, docente di politica internazionale
all’università Chengchi di Taipei — è prematuro. Si può osservare però che la strategia
della pazienza scelta da Pechino è fallita, con le minacce della sua esibita corsa alle armi:
e che il radicamento della democrazia e della libertà a Taiwan coinvolge come minimo lo
scottante dossier di Hong Kong».
Questo voto non è però solo un referendum politico tra Cina e Usa, una scelta culturale tra
Oriente e Occidente, ennesimo revival della Guerra Fredda. Sulla culla globale del boom
tecnologico degli anni Ottanta pesa anche lo spettro di una recessione senza precedenti.
Nel 2015 la crescita reale è riuscita a stento a raggiungere l’1%, mentre Bloomberg
prevede un 2016 con il segno meno e un dollaro taiwanese ai minimi dal 2009. «I prezzi
delle case esplodono — dice il leader studentesco Lin Wei-ting — i salari crollano, i
giovani sono disoccupati, invecchiamento e bassa natalità ingrossano il debito. Per la
prima volta Taiwan non è più sinonimo di innovazione».
Sarà che ogni Paese cerca di scaricare all’estero la colpa dei fallimenti interni, ma anche a
Taipei lo spettro della crisi finisce sul conto del Kuomintang e dunque del suo sponsor
cinese, che vale un interscambio annuo da 170 miliardi di dollari. I sostenitori di Tsai Ingwen alzano migliaia di salvadanai vuoti per suggerire che il KMT ha dissanguato l’isola,
arricchendo i poteri forti e impoverendo la gente: importando, con 23 accordi in otto anni,
la frenata che dopo trent’anni gela la crescita della Cina. «La vittoria dei democratici —
dice Joseph Wu, segretario del partito d’opposizione — nasce nella primavera del 2014,
quando la «rivolta dei girasoli» e l’occupazione del parlamento costrinsero Ma Ying-jeou a
congelare il patto di libero scambio mascherato con Pechino».
I filo-cinesi di Eric Chu, radicati nel mondo degli affari, agitano invece in queste ore
l’incubo opposto. «Export, turismo e investimenti — dice l’imprenditore Ringo Lee —
scontano l’instabilità, non l’alleanza con la super-potenza che mantiene il tasso di crescita
più alto del pianeta. Business e diplomazia delle vacanze non sono un ricatto, ma la
vendetta della Cina non sarà certo compensata dalla riconoscenza degli Usa». Nel piatto
di Taipei, come in quello in Hong Kong, finisce così non solo la scelta tra «cinesizzazione»
e indipendenza, tra autoritarismo e democrazia, ma pure quella decisiva tra il capitalcomunismo di Pechino e il capitalismo finanziario di Washington, alternativi ormai in tutta
l’Asia. «Eleggere una presidente ostile all’assorbimento di Taiwan da parte della Cina —
dice Gordon Sun, direttore del Centro di macroeconomia — può sembrare antistorico, ma
lo spirito dominante nell’isola non è l’odio verso l’altra sponda dello Stretto, o il timore di
diventare la “Crimea asiatica”: il problema è il tenore di vita e per non farlo crollare i
taiwanesi pensano che sia necessario un cambiamento ». Nessuno sa come, umiliando
Pechino e i suoi lobbysti del KMT, la rinascita del «fenomeno-Taiwan» sarà realizzabile. I
nostalgici della «madrepatria » azzardano addirittura che proprio il trionfo pilotato del DPP
nel pieno della crisi, seguito da «un inevitabile disastro », accelererà «il passaggio
naturale del ricongiungimento ». Il rassegnato deserto pro-cinese del Memoriale di Chiang
Kai-shek contro la folla filo-occidentale che già esulta sotto quello della Pace: a Taipei il
palcoscenico per celebrare la prima sconfitta elettorale del modello che la Cina
rappresenta, davanti al parlamento, è già montato. La realtà resta però più complicata
delle apparenze e chiunque vinca le elezioni, per il mondo sarà un problema.
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INTERNI
del 15/01/16, pag. 10
“Fi ai minimi, Silvio molla la politica”
Il pressing di Confalonieri e Letta su Berlusconi: questo partito al 10 per
cento non serve più alle tue aziende Il Cavaliere: ma non posso lasciare
campo aperto a Salvini. A Roma vuole candidare Bertolaso
CARMELO LOPAPA
ROMA.
L’ultimo assalto al fortino, i più intimi lo hanno portato in questi giorni. Al tavolo da pranzo
di casa Berlusconi, Fedele Confalonieri, Gianni Letta e Nicolò Ghedini sono tornati alla
carica: «Silvio non puoi andare oltre, i sondaggi sono in caduta, il partito allo sbando, ma
che te ne fai di Forza Italia al 10 per cento? Non conviene neanche alle aziende questa
guerra a Renzi». Il Cavaliere, raccontano, resta turbato. Ribatte che lui non può «lasciare
campo libero a Matteo Salvini», non può essere lui il candidato premier, occorre prima
trovare il “moderato” che possa guidare il centrodestra.
Ma i dubbi lo assalgono. Ha spiazzato perfino i fedelissimi la notizia del sondaggio di
dicembre per testare Fi al fianco di Renzi e delle sue riforme. Risultato: il partito
crollerebbe al 5, ma col voto contrario di martedì prossimo al Senato lo stesso sondaggio
non riconosce più del 10. L’indiscrezione di un incontro segreto Berlusconi- Verdini nelle
ultime 48 ore a Roma è smentita ufficialmente da entrambi i fronti. Di certo, l’assemblea
coi gruppi di mercoledì ha sortito l’effetto di un rompete le righe («Potrei essere alle
Bermuda», «Scusate ma tra poco ho il Milan»).
Così, tra i fedelissimi è scattata la corsa disperata al si salvi chi può. Per oggi a pranzo
Antonio Tajani ha convocato una decina di parlamentari a Roma per una riunione
«ristretta» per decidere dove riparare. Martedì al ristorante Archimede sempre a Roma
hanno pranzato Paolo Romani, Mariastella Gelmini e Maurizio Gasparri, con lo stesso
interrogativo: lombardi e ex An stanno provato a serrare il blocco della “vecchia guardia”.
Poche ore dopo, martedì sera, in un altro ristorante, una decina di senatori e “nuovi
dirigenti” che si riconoscono nell’ex campione olimpico Marco Marin, coordinatore veneto.
E in questo scenario c’è chi, come i big Giovanni Toti e Mara Carfagna lavorano sulle
primarie.
Il fatto è che il leader che quest’anno veleggia verso gli 80, resiste ancora nel fortino.
L’ultimo colpo assestato è di queste ore: avrebbe quasi convinto Guido Bertolaso, ex
sottosegretario e capo della protezione civile, ad accettare la candidatura a Roma.
Sarebbe lui il «super candidato col quale, se accetta, vinciamo», annunciato due giorni fa
ai parlamentari. Chiunque, pur di mettere fuori gioco Giorgia Meloni.
del 15/01/16, pag. 13
Primarie, Giachetti cerca rivali nel Pd
“A Roma senza il confronto ai gazebo la mia candidatura non esiste”,
dice il vicepresidente della Camera I bersaniani lo bocciano ma non
presenteranno un loro nome. E nel partito scatta il pressing su Tocci
TOMMASO CIRIACO
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ROMA.
Si fa presto a dire primarie. E se la sfida di Roma non decolla? E se nessun big scende in
campo contro Roberto Giachetti? «Non mi sembra che in giro ci sia Adenauer, uno per cui
tutti possono dire “che bello, stiamo tutti con Adenauer” – sussurra agli amici il
vicepresidente della Camera – quindi voglio costruire al meglio il mio percorso. Nelle
primarie, naturalmente, perché senza la mia candidatura non esiste». L’unico contendente
reclama un duello vero, insomma. Ma per ora i potenziali sfidanti si nascondono,
tentennano, si tengono lontani dai gazebo. Per timore o per calcolo, pare quasi che le
minoranze anti renziane giochino a sfilarsi. «Noi bersaniani non presenteremo un nostro
nome – confida Davide Zoggia - Quanto a Giachetti, non va: è mancata una discussione
dal basso». Pessimismo o boicottaggio, fatto sta che sono in pochi ad andare
controcorrente: «Vedrete - promette il capogruppo alla Camera Ettore Rosato - saranno
primarie vere. Contendibili, come a Milano».
Il balletto va avanti da mesi: partecipa Ignazio Marino, anzi ci sta pensando Walter Tocci,
in realtà toccherà a David Sassoli. L’unico dato fino a ieri sicuramente in pista, il
veltroniano Roberto Morassut, adesso sembra aver cambiato idea. Nessuno vuole
bruciarsi: «Diciamo pure la verità – rigira il coltello Stefano Fassina – pochissimi dem
vogliono davvero disturbare Renzi. Marino? Lui è nel Partito democratico, eventualmente
parteciperà alle primarie. Io ho un progetto diverso».
A dire il vero il sindaco sfiduciato dal notaio non ha ancora sciolto la riserva. Però giorni fa
ha ripreso la tessera del Pd, segno che la ricandidatura lo stuzzica. In alternativa, pensa di
schierare una fedelissima come Estella Marino oppure un altro ex assessore, Paolo
Masini. L’unico potenziale sfidante davvero di peso resta comunque Tocci. «Se lui accetta
– rivela il ras della sinistra dem romana, Marco Miccoli - tiene assieme la minoranza del
Pd e pure l’area di Marino».
In effetti è proprio così, tutti corteggiano l’ex vicesindaco di Rutelli. Piace al governatore
Nicola Zingaretti. Ai bersaniani come Zoggia: «Speriamo di convincerlo». E anche a Sel:
«Ci metterebbe in difficoltà», ammette il deputato Filiberto Zaratti. Pure Fassina tende la
mano: «Tocci e Cuperlo propongono un campo largo e senza simboli. Interessante, ma il
Pd del Nazareno ha già detto di no». Dovesse sciogliere la riserva, comunque, lo farebbe
il prossimo 23 gennaio al teatro Brancaccio, assieme ai presidenti dei municipi del
centrosinistra romano. Si ritroveranno per chiedere unità. E invocheranno un nome per
battere Giachetti. Altrimenti che primarie sono?
del 15/01/16, pag. 3
Referendum con le comunali, l’impossibile
blitz del governo
Governo. La consultazione sulla riforma costituzionale a giugno con le
amministrative? Renzi ha interesse ad alzare la partecipazione, ma il
comitato del no può bloccare la corsa semplicemente chiedendo di
raccogliere le firme dei cittadini. La questione già risolta nel 2001 da
Amato: non si possono violare i diritti dei promotori
Andrea Fabozzi
ROMA
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C’è agitazione tra gli avversari della riforma costituzionale, che martedì sarà approvata in
seconda lettura dal senato. Al comitato del No si teme che al governo possa riuscire
un’ennesima forzatura: la convocazione del referendum confermativo — per il quale Renzi
ha interesse a un’alta partecipazione — nello stesso giorno delle prossime amministrative.
Una strada impercorribile, per chi conosce la legge del 1970 che regola i referendum; ma
la notizia che il segretario generale di palazzo Chigi Paolo Aquilanti abbia «perorato la
causa dell’armonizzazione del referendum con le comunali», riferita in aula dal senatore
Mario Mauro, spaventa ugualmente. Perché l’abile Aquilanti è considerato in grado di
trovare qualsiasi soluzione tecnica — è grazie alle sue invenzioni che il disegno di legge di
revisione costituzionale ha scavalcato le insidie dell’ostruzionismo. Renzi in realtà ha detto
più volte che il referendum per il sì o il no alla riforma costituzionale si terrà
«ragionevolmente» in ottobre, e così anche la ministra Boschi. Ci vorrebbe una seria
forzatura rispetto alla legge e ai precedenti per anticipare la consultazione. Ma non
sarebbe la prima. La data possibile per l’election day amministrative più referendum è una
sola, il 19 giugno.
L’aspetto interessante della vicenda è che la possibilità di impedire questa forzatura è
quasi interamente nelle mani degli stessi promotori del comitato per il no. Se infatti si
affretteranno a depositare alla Corte di cassazione l’annuncio della raccolta delle firme per
promuovere il referendum, alla maggioranza renziana non basterà depositare la stessa
richiesta da parte dei senatori o dei deputati per accelerare i tempi.
Uno sguardo al calendario. Il disegno di legge di revisione costituzionale potrà essere
approvato definitivamente dalla camera non prima del 14 aprile. La legge potrà essere
pubblicata il 18 in Gazzetta ufficiale, con il previsto avvertimento che non essendo stata
raggiunta la maggioranza dei due terzi si potrà dare luogo al referendum. Facciamo due
ipotesi. Se la forzatura voluta dal governo — che si suppone stia perorando il segretario
generale di palazzo Chigi — andrà in porto, la Cassazione si accontenterà della richiesta
dei parlamentari filo governativi, non aspetterà i tre mesi previsti per eventuali altre
richieste, «brucerà» anche i 30 giorni previsti per le verifiche e già il 22 aprile ammetterà la
consultazione. A quel punto il primo consiglio dei ministri convocherà le urne il prima
possibile, (tra i 50 e i 70 giorni), appunto il 19 giugno.
Ma è un’ipotesi che non tiene conto che un gruppo di cittadini — il comitato del no — può
decidere di proporre la raccolta di 500mila firme per giungere per quella via al referendum.
La richiesta è un atto ufficiale: permette la costituzione formale dei comitati e viene
pubblicato in Gazzetta ufficiale. I precedenti in questo caso pesano particolarmente,
perché sono solo due. Nel 2006 contro la devolution il centrosinistra depositò le firme dei
cittadini pochi giorni prima della scadenza dei tre mesi. Nel 2001, contro la riforma del
Titolo V, la Casa delle libertà annunciò l’intenzione di raccogliere le firme, la Cassazione
ammise i referendum appena depositata la richiesta dei parlamentari, ma il governo attese
comunque tre mesi per indire il referendum. Attese invano, perché le firme non furono
raccolte, ma il presidente del Consiglio Amato (raffinato costituzionalista ora alla Consulta)
spiegò che «non si può interrompere la procedura senza violare i diritti costituzionali dei
promotori». Tornando al calendario, in questa seconda ipotesi il referendum non potrebbe
tenersi prima del 18 settembre. Poi certo c’è il dibattito nel comitato del no sull’opportunità,
e la praticabilità, di raccogliere effettivamente le firme dei cittadini, atteso che quelle dei
parlamentari di opposizione sono già garantite. Ma è un’altra questione.
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del 15/01/16, pag. 13
Il capo della campagna Usa 2012 ha incontrato il premier a Roma
mercoledì scorso Contratto da 100 mila euro, lavorerà anche per le
elezioni
E per il referendum Renzi si affida a Messina
il guru di Obama
CLAUDIO TITO
ROMA.
«Le migliori soluzioni si basano sui migliori dati». Nell’homepage del suo sito, questo è
uno degli slogan che usa. Ma non è solo un motto. I “Big data” sono il metodo di Jim
Messina, capo della campagna elettorale di Obama nel 2012. Quella che ha portato alla
rielezione del presidente americano. Un curriculum lungo. Con consulenze ad alcuni degli
attuali leader mondiali. Dall’attuale inquilino della Casa Bianca, appunto, al premier
britannico David Cameron.
Da Washington, dove ha sede la sua società – la MessinaGroup – nei prossimi mesi si
trasferirà in Italia. Sarà lui, infatti, il “guru” di Matteo Renzi per i prossimi impegni elettorali.
O meglio, per il prossimo appuntamento referendario sulla riforma costituzionale. Quello
su cui il presidente del consiglio ha deciso di giocarsi la testa. «Se lo perdo – ha detto
martedì scorso - lascio la politica».
Messina e il capo del governo si erano già conosciuti lo scorso anno. Ma l’incontro finale
per firmare l’accordo c’è stato mercoledì scorso a Roma. Il suo datore di lavoro fino ad
ottobre sarà dunque il Pd. Il rapporto, infatti, non è con il governo ma con la segreteria del
partito democratico. Si tratta di una consulenza di natura politica e non istituzionale.
Nel faccia a faccia di due giorni fa, i due hanno già iniziato a fissare alcuni punti fermi della
prossima campagna. Il concetto di fondo sarà il “door to door”, il classicissimo porta a
porta. Fu una delle mosse più azzeccate studiate nel 2012 per Obama. L’idea è di
trasferirla anche nel nostro Paese. Tornare al metodo più antico, ma con sistemi moderni.
Messina, però, non sarà un vero e proprio responsabile della “propaganda” referendaria.
Suggerirà una strategia di fondo. Soprattutto metterà a punto i criteri per organizzare i
comitati per il sì. In modo particolare preparerà i “sostenitori” che gireranno casa per casa.
Si concentrerà su una sorta di “formazione” per i “volontari del referendum”. Spiegherà
dove bussare e quando farlo. E quale tipo di messaggio trasmettere.
Il tutto basato sui metodi americani di analisi dei dati. Per Messina, infatti, la vera bussola
è da cercare nei “Big data”. Raccogliere il maggior numero di informazioni, scomporle,
riaggregarle e poi analizzarle. Il primo passo, ad esempio, sarà lo studio della distribuzione
territoriale degli elettori. Se fossimo negli Stati Uniti si tratterebbe di segnalare i flussi e i
punti deboli di ogni singolo collegio. L’obiettivo è organizzare i famosi “focus group”
provincia per provincia. Accompagnati da sondaggi su base nazionale e locale.
Due dei suoi “soci” – le basi operative resteranno a Washington e Londra - si trasferiranno
stabilmente a Roma da aprile. Non è un caso che proprio Renzi nei giorni scorsi abbia
annunciato l’avvio della campagna referendaria subito dopo l’approvazione in Parlamento
della riforma costituzionale. Una circostanza che obbligherà il ”super-esperto” a stelle e
strisce a tener conto anche delle elezioni amministrative che si terranno a giugno. La
sovrapposizione dei due impegni è evidente. E seguirà con attenzione anche la “corsa” dei
candidati democratici a Roma, Milano, Torino e Napoli.
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Messina ha garantito la sua presenza nei momenti chiave. Il “campaign maker”
statunitense del resto vola spesso nel nostro paese. Come si capisce dal suo cognome ha
origini italiane e uno degli episodi che preferisce raccontare è legato alla sua vita privata:
«A Firenze ho chiesto a mia moglie di sposarmi». Anzi, da allora proprio in Toscana ha
deciso di comprare casa e di trascorrere parte delle sue vacanze.
Renzi non è il primo a ricorrere ai grandi consulenti americani. In passato lo fece già
Francesco Rutelli nel 2001 con Stanley Greenberg, lo stratega di Bill Clinton. Nel 2006
Silvio Berlusconi accettò il consiglio di George Bush e si affidò ai servizi di Karl Rove,
l’uomo-ombra dell’allora presidente Usa. E nel 2013 Mario Monti si rivolse a David
Axelrod, uno degli artefici delle campagne di Clinton e dello stesso Obama. Ma ancora più
di recente addirittura il sindaco di Lecco, Virginio Brivio, chiamò lo scorso giugno Mike
Moffo, altro uomo dello staff obamiano, per la conferma al comune.
Messina, che potrebbe essere lo “stratega” anche di Hillary Clinton se vincerà le primarie
dei democrats, arriva in Italia dopo tre successi. La conferma, appunto, del presidente Usa
nel 2012. La vittoria del premier inglese Cameron nell’ultima competizione elettorale e in
quella cruciale nel referendum per l’indipendenza della Scozia. Un precedente che ha
pesato non poco nella scelta del segretario democratico. È stata determinante la
circostanza di aver già sperimentato una competizione referendaria in cui non si cura
l’immagine di un candidato ma di un progetto. E in cui gli elettori sono chiamati a una
scelta univoca: si o no.
Ovviamente il ”guru” renziano non lavorerà in Italia a titolo gratuito. Il contratto, stipulato
dal Pd, prevede un compenso che si avvicina ai 100 mila euro. Ma c’è anche un’opzione:
in caso di vittoria, ci sarà anche la conferma per le prossime elezioni politiche.
del 15/01/16, pag. 16
Referendum, contro la stretta del governo c’è
il ricordo all’Onu
Riccardo Magi, Mario Staderini
La riforma costituzionale Renzi-Boschi è un requiem per il referendum abrogativo. Gli
ostacoli che nel corso degli anni lo hanno di fatto reso impraticabile, a partire dal quorum
elevato e dalle procedure borboniche di raccolta firme, si aggravano anziché essere
rimossi.
Introdurre una parziale riduzione del quorum per chi raccoglie in tre mesi 800mila firme
autenticate da un pubblico ufficiale, significa permettere i referendum esclusivamente ai
grandi partiti che dispongono sul territorio di un esercito di consiglieri comunali. I comitati
di cittadini così come i movimenti di minoranza, privi di apparati parastatali, non avrebbero
chance. Un istituto di democrazia diretta nato per garantire ai cittadini il diritto di abrogare
le leggi votate dal parlamento, è stato così trasformato in uno strumento riservato per lo
più ai gruppi di maggioranza che proprio quelle leggi hanno approvato.
Più che un paradosso è un grave vulnus al principio democratico e di uguaglianza. Si
tratta, in realtà, dell’ultimo atto di un sabotaggio antireferendario che prosegue da
settant’anni, rispetto al quale lo stato italiano dovrà rispondere, su nostra denuncia, nel
giudizio dinanzi al Comitato diritti umani dell’Onu per violazione del patto internazionale sui
diritti civili e politici.
Il ricorso, presentato nello scorso mese di luglio con l’assistenza del professor Cesare
Romano e della Loyola Law School di Los Angeles, trae origine da quanto accadde nel
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2013, in occasione dei referendum promossi da Radicali italiani, tra cui l’abolizione del
reato di clandestinità e la depenalizzazione per le violazioni di lieve entità della legge sugli
stupefacenti.
La nostra campagna non raggiunse le 500mila firme, oltre che per il mancato impegno dei
partiti della sinistra ufficiale, a causa di procedure restrittive e omissioni delle istituzioni,
dall’assenza di autenticatori ai Comuni chiusi per ferie passando per la mancata
informazione. Entro aprile il governo italiano dovrà presentare le sue difese all’Onu, sia
rispetto alle condotte di allora che alle leggi che ostacolano il diritto a promuovere
referendum, già in vigore e in corso di approvazione.
Se la politica, le istituzioni hanno perso autorevolezza è anche per come hanno trattato
l’istituto referendario. Su 197 richieste di referendum nazionali presentate, il 66% non è
nemmeno arrivato al voto, negli altri casi sono stati il quorum o il parlamento a vanificare la
volontà di decine di milioni di italiani. Discorso analogo le leggi di iniziativa popolare, per le
quali la riforma Boschi triplica il numero di firme necessarie nonostante dal 1979 solo
l’1,15% di quelle depositate sia stata poi approvata dal parlamento.
Il rischio per la credibilità dell’intero sistema è alto: se si impedisce ai cittadini di
partecipare alla vita politica con la democrazia diretta, si convinceranno che anche la
democrazia rappresentativa non serva a nulla. La modifica costituzionale, purtroppo, non
inverte la rotta ma produce effetti antidemocratici. In parte superabili, ad esempio
rimuovendo gli ostacoli che rendono la raccolta di 800mila firme — e quindi l’accesso al
quorum ridotto — un’impresa impossibile ai più. Basterebbe una legge ordinaria che
superi le disposizioni vessatorie e irragionevoli della legge del 1970.
Dopo quarant’anni, è arrivato il momento di un intervento organico che, sul modello di
Svizzera e California, garantisca l’informazione e semplifichi le procedure, consentendo di
firmare online e ampliando la platea degli autenticatori. Occorre un Referendum Act,
subito, per restituire ai cittadini un diritto fondamentale da troppo tempo compromesso.
In caso contrario sarà l’Onu, nel condannare lo stato italiano, a imporre quei rimedi
complessivi necessari per rientrare all’interno degli standard democratici internazionali. Il
23 e 24 gennaio a Napoli, nell’ambito degli Stati generali delle città e del federalismo, ci
incontreremo con tutti coloro che vorranno partecipare alla stesura del Referendum Act e
alla campagna per la sua approvazione.
* Gli autori sono rispettivamente: Segretario di Radicali italiani e Autore del ricorso all’Onu
contro lo Stato italiano
del 15/01/16, pag. 6
Appalti, con la riforma codice «leggero» e
premi alle imprese efficienti
Il Senato ha approvato la legge delega, decreti attuativi entro il 18 aprile
- All’Anac poteri di vigilanza e regolazione
ROMA
Mai più appalti in deroga (se non per calamità naturali), stop alle varianti che fanno
esplodere i costi delle grandi opere, imprese valutate sulla base della reputazione
conquistata in cantiere o nello svolgimento dei servizi, freno ai ricorsi che bloccano le
opere e monopolizzano le aule dei Tar, spinta all’innovazione con un forte impulso all’uso
del Bim, software di progettazione che consente di anticipare gli imprevisti durante i lavori.
E soprattutto una drastica semplificazione normativa abbinata alla scelta di mettere al
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centro del nuovo sistema l’Autorità Anticorruzione guidata da Raffaele Cantone, che avrà il
doppio compito di scrivere le regole flessibili («soft law») incaricate di calare nella realtà
del mercato il nuovo impianto normativo e indirizzare amministrazioni, imprese e
professionisti con atti finalmente vincolanti.
In una brutale sintesi è quello che promette la legge delega per la riforma degli appalti
approvata ieri a larga maggioranza dal Senato (con il sì di Forza Italia e voto contrario dei
Cinque Stelle che invece in prima lettura avevano optato per l’astensione). Una promessa
da mantenere in fretta, attraverso il decreto legislativo chiamato ad attuare i principi
contenuti nella delega (forte di ben 72 criteri direttivi) in norme cogenti. Il decreto deve
essere approvato entro il 18 aprile, data in cui scade il termine per recepire le tre direttive
europee (23, 24 e 25/2014) che hanno dato il la alla riforma e che il ministro delle
Infrastrutture Graziano Delrio ha ribadito di voler rispettare. «Da oggi il Paese ha una
legge che consente trasparenza, efficacia e legalità nelle opere pubbliche - ha twittato il
ministro - Governo, Parlamento, Anac, imprese, insieme per questa importantissima e
innovativa riforma. Ora tempi rapidi per la sua attuazione in norme semplici». A scrivere
materialmente il decreto, che non dovrebbe superare la misura di 120-150 articoli, rispetto
agli oltre 600 attuali, sarà la commissione di 19 esperti nominata da Delrio lo scorso
settembre. La guida Antonella Manzione, capo del Dipartimento affari giuridici di Palazzo
Chigi. Qualche bozza circola già, ma si tratta di documenti preparatori, già a prima vista
ancora largamente incompleti.
La delega approvata ieri mette in moto la seconda riforma degli appalti nel giro degli ultimi
venti anni. A innescare la prima, con la legge Merloni del 1994 poi ampiamente
rimaneggiata e sfociata nel codice del 2006 fu Tangentopoli. Anche oggi, le inchieste che
negli ultimi mesi hanno attraversato il mondo dei lavori pubblici - dall’Expo commissariato
a Mafia capitale, fino all’ultimo capitolo degli appalti Anas - hanno lasciato il segno. «La
corruzione è uno dei motivi principali che hanno impedito la corretta esecuzione delle
opere pubbliche in Italia - ha spiegato in Parlamento Delrio -. Questo codice sarà una
ricetta efficace».
Non è un caso allora la scelta di far girare il sistema intorno ai (tanti) nuovi compiti
dell’Anticorruzione. Con la riforma che contribuirà a scrivere attraverso la «soft law»
attuativa del nuovo codice, Cantone sarà dotato di poteri di intervento cautelari (possibilità
di bloccare in corsa gare irregolari), mentre il rispetto degli atti di indirizzo al mercato
(bandi-tipo, linee guida, pareri) diventerà vincolante per amministrazioni e imprese. In
questa chiave va anche letta la nascita di un albo nazionale dei commissari di gara e il
divieto di prevedere scorciatoie normative, bypassando o semplificando le gare, per la
realizzazione di grandi eventi. Le deroghe alle procedure ordinarie (90 quelle concesse
per la realizzazione dell’Expo) potranno essere ammesse soltanto in risposta a emergenze
di Protezione civile. All’Anac spetterà anche il compito di qualificare le stazioni appaltanti,
che saranno abilitate a gestire i bandi per fasce di importo in base al grado di
organizzazione e competenza.
Per frenare la deriva dei tempi infiniti dei cantieri arriva la stretta sulle varianti da cui passa
l’aumento dei costi in due casi su tre nelle grandi opere, con la possibilità di rescindere il
contratto oltre certe soglie di importo. Anche qui è prevista una tagliola di Cantone, che
potrà sanzionare le Pa inadempienti sugli obblighi di comunicazione.
Importante anche la scelta di valutare le imprese sulla base di un rating di reputazione che
terrà conto del comportamento tenuto nei contratti precedenti. Chi dimostrerà di saper
rispettare tempi e costi, evitando la prassi del contenzioso per alzare il prezzo in corso
d’opera sarà premiato. Per gli altri potrà scattare invece il cartellino rosso. Un modo per
allinearsi agli standard anglosassoni dove conta molto come viene eseguito il contratto e
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non - come finora accaduto in Italia - se sono state (spesso solo) formalmente rispettate le
complicatissime procedure dettate dal codice.
Mauro Salerno
del 15/01/16, pag. 3
Crocetta e il carrozzone dei giornalisti
“fasulli”
Assegno da un milione all’ente non riconosciuto, parcheggio di politici
trombati
di Giuseppe Lo Bianco
L’istituto superiore di giornalismo è in “disarmo” dal 2014, i dieci dipendenti sono in
aspettativa facoltativa, non ha un sito web e dai fasti di un palazzo nobiliare del centro di
Palermo ha trasferito la sede a Ganci, un paese delle Madonie, a casa del fratello del
sindaco, guarda caso, vicino a Crocetta. Che oggi, con la famigerata tabella H (contributi a
pioggia a enti e associazioni) gli assegna un milione 199 mila euro, un cadeau insperato
per un carrozzone che finora ha inghiottito centinaia di migliaia di euro per illudere
generazioni di aspiranti giornalisti con un’impossibile formazione senza alcuno sbocco
professionale per l’assenza di una convenzione con l’Ordine.
L’ultimo scandalo targato Crocetta porta a galla la sua furia moralizzatrice a corrente
alternata nei confronti dei giornalisti (ne licenziò 23 dall’ufficio stampa della Presidenza)
visto che oggi premia un ente trasformato in un’area di parcheggio per politici trombati: lo
presiedette fino alla fine del 2014 Maria Grazia Brandara, deputata regionale eletta nella
lista Casa della Libertà – Cuffaro Presidente, lo guida oggi l’editore Sebastiano Roccaro,
proprietario di otto emittenti ad Avola, ospitate, dicono i colleghi della zona, in una sola
stanza, il quartier generale del suo comitato elettorale alle ultime regionali, quando
Crocetta lo indicò nella sua squadra di assessori.
Gli andò male e a Palazzo d’Orleans Roccaro non entrò mai, in cambio ha ricevuto la
presidenza dell’istituto che accettò con enfatico entusiasmo: “Qui si sono formate le
migliori firme del giornalismo italiano”, disse in un’intervista, ma si attendono ancora i
nomi. Nell’intervista ne fece uno solo, quello del presidente di Rcs Libri, Mieli (“i corsi di
aggiornamento devono partire al più presto e se sarà necessario chiameremo docenti
come giornalisti del calibro di Paolo Mieli”) che però non arrivò mai. Così come non
partirono i corsi, e l’inattività, oltre a spingere verso l’aspettativa volontaria i dieci
dipendenti, costrinse l’istituto a lasciare i fastosi locali del palazzo nobiliare di via
Maqueda, per trasferire la sede a casa di uno dei revisori contabili, Santo Ferrarello, in un
paesino delle Madonie, Ganci, il cui sindaco, eletto in una lista collegata al Megafono di
Crocetta, è il fratello: Giuseppe Ferrarello.
Con il nuovo cadeau di Crocetta, pari a un milione e 200 mila euro, Roccaro pensa di
rilanciare i corsi di giornalismo, avvalendosi non solo della sua esperienza di editore, ma
anche di giornalista pubblicista, autore di programmi come Sputa il rospo, andato in onda
anni fa in tarda serata su Rai2 e Quattro amici al bar, nella più locale tv Amica di Avola.
Suscitando più d’una perplessità nell’Ordine regionale dei giornalisti, che alla regione che
chiedeva di nominare un componente nel cda dell’istituto, rispose con un rifiuto: “Non ci
hanno mai informato sui programmi e sugli obiettivi organizzativi – dice il presidente
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Riccardo Arena – si sono fatti vivi solo in occasione della spartizione di posti, e abbiamo
risposto: no, grazie. Che il presidente dell’istituto, poi, sia un editore mi sembra poco
compatibile”. Il dubbio è che avessero poco da raccontare sulla formazione dei giornalisti:
sette anni fa l’istituto venne trasformato in una dependance dell’Università Kore di Enna,
fondata da Mirello Crisafulli.
In un’aula di piazza Ignazio Florio, a Palermo, gli studenti potevano assistere alle lezioni
dei corsi ennesi di Scienze della comunicazione multimediale. In pratica, la Regione dava
608 mila euro all’istituto per risparmiare agli studenti un fastidioso pendolarismo. E in
un’intervista, il coordinatore didattico dell’istituto, il criminologo Nicola Malizia, ammise:
“Da qui non escono giornalisti, ma dal prossimo anno organizzeremo corsi di
aggiornamento per giornalisti e pubblicisti”.
del 15/01/16, pag. 20
Cancellati dal codice decine di reati
30.000 processi in meno
Ma il provvedimento non riguarderà la clandestinità
Depenalizzazioni, ultimo atto. Il governo trasforma oggi per decreto una serie di reati
minori da materia penale a questioni amministrative. Per dirne una, l’ingiuria (articolo 485
del codice penale: chiunque offende l’onore o il decoro di una persona presente) non sarà
più un reato con i canonici tre gradi di giudizio, ma un veloce procedimento amministrativo
che porterà a multe fino a 8mila euro se ingiuria semplice, fino a 12mila se aggravata.
DA REATI A ILLECITI AMMINISTRATIVI
La depenalizzazione interesserà quei reati che già ora non venivano puniti con il carcere,
ma solo con una multa. Saranno trasformati in illeciti amministrativi, con sanzione
pecuniaria immediatamente eseguibile. Se il reato avrà la forma aggravata, però, non c’è
depenalizzazione.
CASI DUBBI: DAL CONTRABBANDO ALLA COLTIVAZIONE DI CANNABIS
Un caso su cui gli avvocati s’interrogano, ad esempio, è il contrabbando di tabacchi. Se
«lieve», potrà essere risolto con una multa. Se «grave», resta reato. Viene depenalizzata
anche la coltivazione di piante proibite, tipo la cannabis, ma solo nel ristretto caso di quegli
enti di ricerca (alcuni istituti universitari e l’Istituto farmaceutico militare di Firenze) che
siano stati autorizzati dal ministero della Salute per la produzione a scopo terapeutico.
COSA SUCCEDE SE SI GUIDA SENZA PATENTE?
Altro esempio è la guida senza patente. S’intende quando la patente non è mai stata
conseguita, oppure è stata revocata, o ancora quando uno straniero sia trovato alla guida
con la patente del suo Paese ma non riconosciuta in Italia: si passa da una multa
comminata dal giudice penale fino a 9mila euro, a una multa amministrativa fino a 30mila
euro che va pagata subito, salvo vedersela con Equitalia. Ciò accadrà soltanto alla prima
infrazione; per i recidivi, scatterà anche la denuncia penale. E qui si parla di guidatori che
non hanno causato danni. Se si causa un omicidio stradale, essere senza patente è una
seria aggravante. Non c’entra nulla il caso di chi si trovi con la patente scaduta; rischia una
mini-multa da 159 a 639 euro.
Come ormai ampiamente noto, la depenalizzazione non riguarda il reato di immigrazione
clandestina. Il governo vuole pensarci bene e riscrivere il reato, non semplicemente
abolirlo. Abrogati invece alcuni reati molto particolari tipo l’appropriazione di cose smarrite
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o di un tesoro; l’appropriazione di parti comuni da parte di un comproprietario; la falsità in
scrittura privata; la falsità in foglio firmato in bianco.
GIUSTIZIA PIU’ LEGGERA
Secondo stime del ministero della Giustizia, la depenalizzazione interesserà circa 30mila
procedimenti l’anno, pari a un 2,5% di quelli all’attenzione dei gip. È esclusa dalla
depenalizzazione, infatti, una larghissima serie di reati che abbia a che fare con
l’urbanistica, l’ambiente, gli alimenti, la salute, la sicurezza pubblica, i giochi d’azzardo, le
armi, il finanziamento ai partiti, la proprietà intellettuale. «Desta rammarico – dice Mirella
Casiello, presidente dell’Organizzazione unitaria dell’avvocatura – l’esclusione di ampie
categorie di reati previste dal codice penale, in particolare la fattispecie delittuosa relativa
all’ingresso e soggiorno illegale sul territorio dello Stato».
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LEGALITA’DEMOCRATICA
del 15/01/16, pag. 11
Quarto, indagato il marito del sindaco per la
casa abusiva E Di Maio accusa il Pd
L’abitazione irregolare al centro del ricatto a Capuozzo Il big M5S:
diffamano perché nei sondaggi batto Renzi
DARIO DEL PORTO CONCHITA SANNINO
NAPOLI.
Era l’arma di ricatto usata contro di lei. Ora è un’altra tegola che cade sul capo del sindaco
ribelle. La Procura indaga il marito di Rosa Capuozzo, primo cittadino di Quarto, con le
accuse di falso violazione della normativa edilizia. Al centro del nuovo filone, la
trasformazione e l’ampliamento di quel sottotetto diventato l’appartamento dove il sindaco
vive con il coniuge, Ignazio Baiano. E mentre la maggioranza ex pentastellata perde i
pezzi, la Capuozzo torna davanti ai magistrati come teste per la sesta volta.
Quasi cinque ore di faccia a faccia con il procuratore aggiunto Giuseppe Borrelli e il pm
Henry John Woodcock. Ma la sua posizione resta quella di persona informata dei fatti. Il
procuratorre Borrelli si limita a commentare: «La teste ha fornito risposte che riteniamo allo
stato esaustive, naturalmente non si possono escludere ulteriori approfondimenti». Il
sindaco resta dunque parte lesa della tentata estorsione contestata al più votato della lista
pentastellata, Giovanni De Robbio. E tra i nodi affrontati nell’ultima deposizione
comparirebbero sia i termini e le circostanze in cui furono esercitate le pressioni di De
Robbio contro il primo cittadino, sia i successivi passaggi del sindaco, anche in relazione
ai suoi contatti con esponenti nazionali del Movimento.
Nelle stesse ore, si apre ufficialmente anche l’indagine sugli abusi edili realizzati nella
casa della Capuozzo. Su mandato del pm Francesca De Renzis e del procuratore
aggiunto Nunzio Fragliasso, i carabinieri sono tornati in mattinata al Comune. I magistrati
ipotizzano i reati di falso e violazione della normativa edilizia. Al centro dell’inchiesta, la
dichiarazione in base alla quale l’opera (una mansarda di uso industriale, trasformata in
ampia abitazione) risultava completata e l’appartamento abitato entro il 31 marzo 2003,
ultimo giorno utile per ottenere il condono. Ma l’ipotesi della Procura è che questa
dichiarazione non corrisponda al verità.
Proprio facendo leva sull’abuso, il consigliere comunale ex grillino De Robbio aveva
tentato di ricattare la Capuozzo mostrandole in tre circostanze la foto dell’area in cui si
trova l’abitazione. «Rosa, hai un problema », le disse De Robbio.
È questo lo scenario su cui divampa il caso che scuote il Movimento. Anche il fronte
politico resta agitato. Il capogruppo Cinque stelle, Alessandro Nicolais, si è dimesso da
consigliere: «I motivi sono personali e riguardano tutto quanto accaduto in questi giorni»,
ha scritto su Facebook. Poi ha aggiunto: «Sono stato eletto col 5 Stelle, questo Sindaco è
stato eletto col 5 Stelle, oggi sono cambiate le condizioni e non mi è più possibile
continuare. Questo simbolo era ed è un’opportunità per cambiare le cose, soprattutto in
luoghi difficili come Quarto, ringrazio chi mi ha dato questa occasione. Ora tocca ad altri.
Le buone idee restano. A Quarto il Movimento 5 Stelle c’è». Ma all’Huffington Post
racconta di un incontro a dicembre tra il componente del direttorio grillino Roberto Fico e il
sindaco Capuozzo. Poi lancia una stoccata a Luigi Di Maio: «L’unica cosa che mi ha
disturbato è stato sentire il mio nome spiattellato da un ragazzino, che è il vicepresidente
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della Camera. Di tutta questa faccenda ognuno si farà un esame di coscienza». Di Maio
però guarda oltre Quarto: «Il Pd ci diffama perché supero Renzi nei sondaggi.
Ringraziamo comunque la Procura di Napoli e il pm Woodcock per ciò che stanno facendo
emergere».
del 15/01/16, pag. 6
Quarto, Capuozzo comincia a parlare
In 5 ore di interrogatorio il sindaco dà risposte “coerenti” sulle
pressioni della camorra. Il marito indagato per l’abuso edilizio
di Vincenzo Iurillo
Sotto la lente di cinque ore di interrogatorio, il quinto in meno di due mesi, nel chiuso di
una stanza al dodicesimo piano della Procura di Napoli, il sindaco di Quarto Rosa
Capuozzo offre per la prima volta al procuratore aggiunto della Dda Giuseppe Borrelli
risposte coerenti e convincenti alle domande che ipotizzano un tentativo della camorra di
infiltrarsi nell’amministrazione (ex) pentastellata e che sottolineano come le intercettazioni
hanno spiattellato i ricatti interni al mondo Cinque Stelle. La Capuozzo così scansa
l’iscrizione al registro degli indagati per falsa testimonianza e mantiene la posizione di
parte lesa. Ma non sa che nel frattempo la sua maggioranza si sta disfacendo come il
pane in una zuppa di latte. Tra paure e delusioni, dopo che Roberto Fico annuncia “che
abbiamo tolto il simbolo del Movimento all’amministrazione, nei fatti a Quarto il M5s non
c’è più”, e nonostante l’ottimismo del vicesindaco Andrea Perotti (“il gruppo è compatto,
Grillo venga qui”), molti perdono la voglia di andare avanti.
Si dimettono il capogruppo Alessandro Nicolais (quello dell’intercettazione n cui diceva:
“Fico ha scritto di stare tranquilli ed andare avanti”), il consigliere Lucia Imperatore,
l’assessore all’Urbanistica Tullio Ciarlone. Si aggiungono all’assessore e al consigliere che
avevano lasciato il 31 dicembre, una settimana dopo le prime perquisizioni che hanno
svelato l’inchiesta sul voto di scambio camorristico dietro l’elezione di Giovanni De Robbio.
Nelle stesse ore l’ex Pd Mario Ferro, il “collante” tra i voti al M5s e l’imprenditore delle
pompe funebri Alfonso Cesarano, ritenuto vicino al clan Polverino, conferma a Fanpage.it:
“Sì, ho votato e fatto votare M5s e De Robbio”. Mentre ilfattoquotidiano.it pubblica un
commento di Cesarano sul profilo Facebook della Capuozzo due giorni prima del voto:
“Aspettavamo una stella ma tu ci guiderai sei la migliore delle cinque forza che ce la
faremo”. E sempre nelle stesse ore diventa di pubblico dominio la notizia che il marito
della sindaca, Ignazio Baiano, è indagato per abuso e falso: la sezione Ambiente della
Procura di Napoli, procuratore aggiunto Nunzio Fragliasso, fornisce un elemento utile al
pm della Dda Henry John Woodcock. Ne esce infatti rafforzata la tesi della tentata
estorsione aggravata dal metodo mafioso, contestata all’ex consigliere De Robbio.
Quando l’ufficiale di Guardia Costiera le esibiva le foto aree dell’immobile di famiglia
Baiano-Capuozzo e le diceva “Rosa, hai un problema”, quel problema non era un trucco
del photoshop.
I dubbi che l’istanza di condono abbia “retrodatato” la costruzione della mansarda abusiva
per farla rientrare nei termini del condono Berlusconi sono fondati, il pm Francesca De
Renzis vuole vederci chiaro. “Il Movimento non è un simbolo, il Movimento sono dei
princìpi” rispose tre giorni fa la Capuozzo a chi le chiedeva se era possibile andare avanti
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senza simbolo. Ma forse ha mentito ai suoi consiglieri e il principio della sincerità è saltato,
perché Nicolais ha ribadito: “Mi aveva detto che le carte della casa erano a posto”.
Tra le dichiarazioni che rimbalzano tra Roma e Quarto c’è il contrasto tra il mondo virtuale
del blog e la dura realtà del territorio a rischio, dove l’onestà non è sufficiente a risolvere
un problema se non sei attrezzato. Fico dice: “Se ti pugnalano alle spalle come è avvenuto
con De Robbio, non è certo un problema di selezione. Quel che conta è la reazione: la
nostra è stata forte e chiara. Vantiamo la selezione di quasi 2.000 amministratori di alto
livello, il tutto senza finanziamenti pubblici e senza strutture. Eppure la nostra selezione è
migliore”. Nicolais non ha letto le sue parole mentre parla col cronista: “Eravamo
sprovveduti, in erba. Avremmo avuto bisogno di qualcuno che ci stesse vicino”. E poi si
sfoga: “Sono demoralizzato e segnato, ho perso ogni residuo di speranza. La Capuozzo
può andare avanti, anche senza di me. Le mie dimissioni sono giustificate, non ho
assorbito il colpo del video di Fico e Di Maio. Se in questa vicenda c’è stata omertà,
certamente non c’è stata da parte mia. Sono ascoltato dal pm e ho fiducia in lui: riuscirà a
fare chiarezza su chi è stato omertoso e chi no”. Poi c’è il giallo della chat degli eletti M5s
in Campania, forse depositaria dei segreti di questa storia e della consapevolezza del
direttorio delle minacce alla Capuozzo. Fico ne conferma l’esistenza: “È su WhatsApp, ci
sono tutti gli eletti e ci ascoltiamo, ma se in quella chat avessero scritto qualcosa, allora
tutti avrebbero saputo. Mentre non è così, e può confermarlo chiunque. Si tratta di una
chat organizzativa che può essere resa pubblica in qualsiasi momento”.
del 15/01/16, pag. 6
Il voto disgiunto dei boss, tra 5Stelle e Pd
Flussi elettorali - Non determinanti per la vittoria grillina: radiografia
delle preferenze
Fabrizio D’Esposito
Se a Quarto i voti puzzano di camorra e la questione diventa nazionale, allora la
radiografia in corso da giorni va completata coi numeri. Si scopre così che, rispetto ai più
“tradizionali” Pd e Forza Italia, il Movimento 5 Stelle mantiene comunque il suo trend
“normale”, fatto di voti senza boom di preferenze e che fanno spiccare ancora di più
l’anomalia De Robbio, dal nome del consigliere cacciato. Un’analisi che rafforza quella
tremenda frase di Beppe Grillo: “I voti della camorra non sono stati determinanti”.
Il 31 maggio dello scorso anno, dunque, a Quarto si vota per due competizioni elettorali: le
amministrative e le regionali campane. Al primo turno delle comunali il M5S prende 6.700
voti pari al 39,57 per cento. La sua candidata sindaca, Rosa Capuozzo, un po’ di più:
6.983 (40,50 per cento), che diventano 9.744 al ballottaggio (70,79 per cento). Nella città
del Napoletano gli aventi diritto sono 31.858 ma vanno a votare in 18.883, il 59,27 per
cento. Alle amministrative, infine, non sono presenti né il simbolo del Pd, escluso per
irregolarità, né quello di Forza Italia, non concesso dal partito. Tenendo presente questi
dati, nello stesso giorno il M5S perde 2.661 voti tra comunali e regionali, basando il
raffronto sulle liste. I grillini infatti scendono a 4.039 voti pari al 23,88 per cento mentre il
loro candidato presidente, Valeria Ciarambino prende 4.169 voti. I voti che mancano,
2.661, si sovrappongono quasi alla cifra del Pd, presente sulla scheda per le regionali:
2.800 voti, il 16,55 per cento. Non solo. La lista pentastellata per le regionali ha una
graduatoria tipica di chi ha votato il simbolo, come voto di opinione. In testa c’è
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Ciarambino, che è anche capolista nella circoscrizione di Napoli, che mette insieme 576
voti. Poi gli altri 19 candidati: tutti sotto le 100 preferenze, se non le 50 in molti casi. Il
rapporto tra voto di lista e preferenze, invece, aumenta considerevolmente coi candidati
del Pd. I consensi maggiori, 509, vanno a un ras democrat della Campania: l’ex dc doroteo
Raffaele Topo detto Lello, figlio dell’autista storico di Antonio Gava, Francesco Topo.
Come fare, quindi, a distinguere i voti buoni dai cattivi che puzzano nelle due urne?
L’anomalia De Robbio, ben 955 voti al primo turno, quando 2.661 elettori del M5s alle
comunali scelgono perlopiù il Pd alle regionali, si conferma isolata anche nel confronto coi
dati delle europee dell’anno precedente, tenutesi il 25 maggio 2014. Il Movimento 5 Stelle
si mantiene in media con 4.150 voti, il 29,89 per cento. I voti di lista sono in linea con il
trend del voto d’opinione: sette candidati tra i 100 e i 200 voti, il resto sotto le tre cifre. Ad
avere un boom, di voti e di preferenze, è il Pd renziano: 4.633, il 33,37 per cento. La lotta
interna, a Quarto, è agguerrita con ben altri numeri rispetto ai grillini. Il più votato è Gianni
Pittella, con 744 voti. Poi il bassoliniano Massimo Paolucci (716) e il sindaco di Ischia
Giosi Ferrandino (638 voti), in seguito arrestato per l’inchiesta sulla Cpl Concordia. La
capolista del Pd al sud, Pina Picierno è solo quinta: 391 voti. Nicola Caputo, indagato per
voto di scambio politico-mafioso, conquista 219 voti. Con questa cifra sarebbe stato terzo,
a Quarto, nella graduatoria grillina delle europee.
del 15/01/16, pag. 21
Il silenzio delle vittime di ’ndrangheta: “A
Torino c’è più omertà che a Locri”
Minacce con teste di maiale mozzate e pizzini per non essere
intercettati. I carabinieri: nessuno ha denunciato spontaneamente gli
estorsori. Arrestati 20 affiliati
giuseppe legato - massimiliano peggio
torino
«A Torino? Più omertosi che a Locri». Ecco come vengono descritti dai carabinieri questi
torinesi in balia degli strozzini, minacciati con teste di maiale mozzate, impauriti e costretti
al silenzio con i pizzini, umiliati al punto di dover vendere le catenine d’oro dei figli per
appagare le richieste dei signori della ’ndrangheta, che bevono caffè in un bar a pochi
passi dal Tribunale e sorridono spavaldi alle ragazze che passano di fronte al dehors.
Nonostante le inchieste degli ultimi anni e l’impegno sociale nel recupero dei beni
confiscati alle mafie, la ’ndrangheta sembra inestirpabile, il coraggio della denuncia quasi
impalpabile.
IL BUSINESS
Da ieri sono finiti in cella in venti, arrestati dai carabinieri del nucleo investigativo con
accuse che vanno dall’associazione di stampo mafioso, all’estorsione, al possesso di armi
e commercio di hashish e cocaina. Indagine durata due anni, non facile, perché nessuna
delle vittime si è presentata spontaneamente a denunciare le estorsioni. Per paura di
ritorsioni. «Il nostro auspicio – afferma il procuratore capo Armano Spataro, autorizzando
la diffusione dei filmati dell’inchiesta - è che altre vittime di questi odiosi atti minatori
trovino la forza di denunciare».
A capo dell’organizzazione due padrini e fratelli: Adolfo e Aldo Cosimo Crea, 44 e 41 anni,
già finiti in carcere in altre inchieste, compresa Minotauro, indagine monumentale
sull’infiltrazione criminale calabrese a Torino e provincia, con un esercito di condannati in
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via definitiva. «Lo sapete no, a Torino comandiamo noi» dicevano agli imprenditori,
incassando migliaia di euro al mese. Agli affari di famiglia collaborava anche il figlio di
Adolfo, il giovane Luigi, al suo debutto in carcere, che si lamentava di non poter vivere con
meno di 10 mila euro al mese, per colpa del costo della vita troppo alto. «I soldi partono
come niente» dice in un’intercettazione. Attorno ci sono gli altri “associati”: autisti,
comparse, emissari. Passeggiano nel centro della città, siedono ai dehors dei caffè,
intascano il pizzo in mezzo alla strada, ostentano forza.
Altro che mafia silente, che non si manifesta. I Crea sono violenti e lo dimostrano mentre
chiedono il pizzo per sostenere «gli affiliati finiti in carcere»: botte, schiaffi, minacce
terribili. Lo fanno con Simon Longato, piccolo industriale della cintura torinese, che ha
riconquistato la sua libertà quando ha raccontato ai carabinieri di aver ricevuto una testa
mozzata di maiale, con dentro una messaggio di morte, vecchio stile, con le lettere
ritagliate dal giornale: «la prossima volta mettiamo la tua testa». Ma non l’ha fatto
spontaneamente. Si è liberato del fardello quando i carabinieri lo hanno chiamato in
caserma, dopo aver intercettato le conversazione dei sui aguzzini. Lui è una delle vittime
intrappolate nella rete di estorsioni e minacce di questo gruppo criminale di ’ndranghetisti
con solidi legami «con la terra madre», radicata al nord da alcuni anni. Affari nella droga,
nel gioco d’azzardo, in alcune attività commerciali. «Per colpa di queste bestie - si sfoga
oggi l’imprenditore - mi sono trasferito in Svizzera. Ho paura di morire, ancora oggi. Spero
solo che lo Stato faccia lo Stato e li tenga dove meritano. Mi fa star male pensare che
tanta gente ha negato le estorsioni di fronte ai carabinieri e ha continuato a pagare. Non
pagare rende liberi».
Quella dei Crea è una mafia sfacciata che bivacca in una bella piazza di quartiere e fa
affari alla luce del sole. «Questa è Torino, non Locri» commenta esaustivo il colonnello
Domenico Mascoli, comandante del nucleo investigativo, mostrando le immagini ad alta
definizione registrate nel corso delle indagini. Nei filmati si vedono mani che afferrano
soldi, stropicciano pizzini tra il via vai indifferente della gente. Nel blitz di ieri sono state
fatte anche 41 perquisizioni domiciliari e sequestrati 7 immobili; automezzi; conti bancari, e
due società.
del 15/01/16, pag. 22
Nomine al Comune indagati a Roma
Alemanno e Marino
L’accusa è di abuso d’ufficio e sono coinvolti anche assessori delle
ultime due giunte in Campidoglio
GIUSEPPE SCARPA
ROMA.
Sono indagati per abuso d’ufficio gli ultimi due sindaci di Roma, Gianni Alemanno e
Ignazio Marino. Rischia un nuovo scandalo giudiziario la politica romana. Al centro di
un’informativa della Guardia di finanza inviata ai magistrati capitolini ci sono presunte
nomine irregolari a dirigenti, capi dipartimento, membri dello staff, eseguite dalle giunte
targate centrodestra e centrosinistra. E dietro alcuni incarichi sospetti ci sarebbero non
solo i due ex primi cittadini ma anche molti assessori delle rispettive giunte. Per questo i
nomi dei componenti dei due governi capitolini affollano almeno due informative, spedite
nei mesi scorsi in procura, che ipotizzano il reato di abuso d’ufficio. Gli investigatori
indicano 58 persone, in gran parte si tratta di politici. Le Fiamme gialle hanno passato al
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setaccio anche la veridicità di alcuni titoli di studio forse mai conseguiti ed esibiti nel
curriculum pur di ottenere gli incarichi lavorativi. E’ un’indagine agli inizi che potrebbe far
tremare gli ultimi due governi della città. Entrambe le giunte sarebbero responsabili delle
stesse identiche “sviste”.
Una informativa del Nucleo di polizia tributaria della Finanza inviata al sostituto
procuratore Francesco Dall’Olio, ha messo il focus sulla questione nomine. Benché per
certe posizioni nulla vieti la cosiddetta “nomina diretta” sarebbe comunque sempre
necessario operare una verifica delle risorse interne al Comune prima di assumere
personale esterno. Un passaggio obbligatorio per cercare di alleggerire le già esauste
casse pubbliche.
Ebbene dalle indagini svolte dagli investigatori, mancherebbero i documenti che attestino
una ricerca interna al Campidoglio di candidati per ricoprire determinate cariche apicali.
Una condotta che ha portato il pm Dall’Olio a iscrivere sul registro degli indagati i due ex
primi cittadini.
Un’inchiesta che individua le prime irregolarità a partire dal 2008 quando in Campidoglio si
insedia Alemanno. Ma c’è dell’altro. Un’altra informativa inviata in procura, i pm sono
Roberto Felici e Giuseppe Deodato, potrebbe creare altri guai nei palazzi del potere
romano, ma per ora in questo secondo filone nessuno risulta indagato. Tuttavia anche in
questa circostanza ci sarebbe stata la pratica bipartisan, ipotizzata dagli investigatori, di
pagare più del dovuto alcuni capi dipartimento di nomina politica visto che, durante la
giunta guidata dal chirurgo dem così come in quella targata centrodestra, sarebbero stati
concessi gli stessi maxi- emolumenti, ben oltre quanto stabilisce la legge.
Investiture decise in autonomia da parte degli assessori che poi avrebbero fatto riferimento
a un quadro normativo errato per contrattualizzare alcuni capi dipartimento o persone dello
staff. Interpretazioni di legge inesatte che avrebbero permesso di erogare alle già esauste
casse del comune di Roma stipendi nettamente più elevati.
del 15/01/16, pag. 5
Altro che Severino, Galan non decade e vale
35 mila euro
Tanto ha guadagnato come deputato dal giorno, 7 mesi fa, della
condanna definitiva. Ieri salvato dalle assenze dei dem
di Gianluca Roselli
Ancora una fumata nera per la decadenza da deputato di Giancarlo Galan. Con scambio
di accuse tra Movimento Cinque Stelle e Pd. I grillini, infatti, hanno accusato i dem di
rallentare l’iter che, secondo la legge Severino, porterà l’ex governatore del Veneto alla
perdita del seggio parlamentare. Galan, infatti, nell’ottobre del 2014 ha patteggiato una
condanna a 2 anni e 10 mesi diventata definitiva il 3 luglio 2015, arrivata per l’inchiesta
relativa agli appalti del Mose, che Galan sta scontando ai domiciliari dopo aver passato 78
giorni in carcere.
Da allora sono passati sette mesi, ma l’ex ministro berlusconiano è ancora deputato. “È
intollerabile che Galan sia ancora un deputato della Repubblica nonostante la sua
condanna definitiva. Questo succede perché il Pd ha disertato per ben due volte la giunta
per le elezioni permettendo a Forza Italia e Ncd di prendere tempo”, ha attaccato ieri
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Davide Crippa, capogruppo dei Cinque Stelle in giunta per le elezioni. Secondo il grillino
“la diserzione in massa dei deputati del Pd non può essere casuale, ma è evidentemente
frutto di un ordine di scuderia”. Accuse rispedite al mittente dai dem. “Le parole di Crippa
stupiscono assai. Avendo chiarito con lui che il Pd vuole senza dubbio andare avanti sulla
decadenza di Galan nella prossima riunione, le polemiche strumentali lasciano il tempo
che trovano”, ha osservato il capogruppo dem Giuseppe Lauricella.
Per la precisione ieri è saltata la riunione del comitato permanente per le incompatibilità,
ovvero un incontro della giunta ristretto, che dovrà relazionare sulla vicenda. Poi la parola
tocca alla giunta per le elezioni nel suo complesso, che si esprimerà con un voto, e infine
la palla passa all’aula, che voterà anch’essa.
“Le polemiche dei grillini sono strumentali. Gli slittamenti sono successi a causa degli
impegni parlamentari, per esempio, a dicembre, la legge di stabilità. Ma da parte nostra
non c’è alcuna remora, anzi siamo più decisi che mai a votare la decadenza”, ha
assicurato Lauricella. Ma il Movimento Cinque Stelle non sembra convinto e aspetta il Pd
al varco alla riunione prevista per la prossima settimana. Sta di fatto, però, che il deputato
azzurro continua a percepire denaro pubblico nonostante la condanna definitiva. Non tutte
le indennità previste dal trattamento economico dei parlamentari, ma una buona fetta.
Galan, infatti, riceve i 5 mila euro netti mensili previsti dallo stipendio. Mentre non gli viene
assegnata né la diaria (circa 3.500 euro), né il rimborso spese per l’esercizio di mandato
(3.690), e nemmeno gli altri rimborsi previsti, come quelli per le spese telefoniche.
Dalla condanna, luglio 2015, Galan a oggi, gennaio 2016, ha percepito circa 35 mila euro
come deputato ancora in carica. A cui vanno aggiunti gli accantonamenti per il vitalizio.
All’ex governatore sono stati contestati i reati di corruzione, concussione e riciclaggio.
Secondo la procura del capoluogo veneto, infatti, l’ex ministro della Cultura ha percepito
“uno stipendio di un milione di euro l’anno più altri due milioni una tantum per le
autorizzazioni necessarie all’opera”. Così, il 22 luglio 2014, la Camera decise sul suo
arresto, nonostante il tentativo di rinvio da parte del capogruppo di Forza Italia Renato
Brunetta perché Galan, a causa di una frattura del perone, era ricoverato in ospedale e
non poteva essere in Aula a difendersi. L’Aula concesse l’arresto non ravvisando il fumus
persecutionis con 395 voti e favore e 138 contrari. E ora, a causa della Severino, arriverà
anche la decadenza. Sempre che la giunta per elezioni riesca a riunirsi e a votare.
del 15/01/16, pag. XVII (Roma)
Mafia capitale “Armi da guerra nell’arsenale
di Carminati”
In aula gli investigatori del Ros “Qualcuno avvertì il gruppo così
vennero fatte sparire”
RORY CAPPELLI
PER LA QUARTA volta, ieri, è salito sul banco dei testimoni il capitano del Ros Giorgio
Mazzoli. Ha parlato dell’arsenale, mai trovato, dell’organizzazione di Massimo Carminati.
Le armi sono un punto delicato e importante di tutta l’indagine. Dimostrano, secondo la
procura, la ferocia e gli intenti omicidi dei soggetti coinvolti, che spesso, intercettati,
parlano di fare «morti» («lo ammazzo come un cane», «entro 48 ore o ti ammazzo io o
c’hai un uomo che ‘mmazza », dice in due diverse occasioni Carminati, e così via). E sono
un forte collante con il passato violento ed estremista di Nar di Carminati e anche del suo
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braccio destro Riccardo Brugia, da giovane ugualmente coinvolto in organizzazioni di
estrema destra.
Le armi nelle intercettazioni saltano fuori tantissime volte. Conversazioni che sottolineano
come ”Er Cecato” e Brugia avessero un vero pallino per le armi in genere e per quelle da
guerra in particolare — «che i privati per legge non possono detenere», spiega il capitano
— e come si sforzassero di trovare nascondigli adatti a occultare il loro arsenale. Ricco
oltre che di «Makarov 9 con il silenziatore», «che non senti neanche il clack», anche di
mitragliatrici, silenziatori (per cui spendono «25mila euro»), munizioni e giubbotti
antiproiettile in kevlar, perché «se c’hai quello ti salvi» non come il «povero Danilo», dice
Brugia, riferendosi a Danilo Abbruciati, della banda della Magliana, ucciso in un conflitto a
fuoco. Dalle intercettazioni si capisce anche che già da tempo Carminati è in possesso di
un’arma: «Certe volte, quando mi sento aggressivo me la prenderei quella, cioè hai capito,
per annà a minaccia’ la gente ».
Nelle conversazioni telefoniche Brugia spiega al capo della sua idea di ricavare nel muro
vicino alla legnaia uno spazio per nascondere l’arsenale, in quel momento occultato nella
stalla. Ma nelle perquisizioni non è saltato fuori niente. Soltanto due cassette vuote: una
interrata sotto una catasta di legno, una sotto il tetto di un forno. Oltre a un kit per la pulizia
delle armi.
Ma perché le armi sono sparite? Un’ipotesi è che Carminati e i suoi complici siano stati
avvertiti dai componenti delle forze dell’ordine con cui avevano rapporti. La mattina del 4
ottobre 2013, per esempio, nella stazione di servizio Eni di corso Francia, luogo di incontri
e di scambi, Carminati si ferma a parlare con due uomini che arrivano a bordo di un Alfa
Romeo 156 intestata alla questura di Roma. Uno dei due dice a Carminati in tono
ammirato che «io starei due giorni a sentirti». Il Ros non è mai riuscito a individuare i due
poliziotti. Anche se con targa e orario forse non sarebbe stato così difficile.
Nel pomeriggio, poi, Salvatore Buzzi si è collegato in videoconferenza per affermare di
non aver mai conosciuto l’imprenditore Cristiano Guarnera.
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
del 15/01/16, pag. 10
Giustizia. «Serve un pacchetto più ampio»
Orlando: sul reato di clandestinità non c’è
rinvio sine die
roma
Oggi a Palazzo Chigi il governo non eserciterà la delega conferita dal Parlamento per
abolire il reato di clandestinità. La norma penale, dunque, resta in vigore a tutti gli effetti.
Ma «non è un rinvio sine die» ha detto ieri il ministro della Giustizia, Andrea Orlando. Il
guardasigilli parla invece di «un sistematico ripensamento» della materia dell’immigrazione
fino a ricondurre «l’intervento a un più ampio pacchetto». Orlando, durante il question time
alla Camera, ha chiarito che nella discussione in seno al governo è emersa «l’esigenza di
ulteriori approfondimenti» sia «sulle misure espulsive» che dovrebbero avere «un
potenziamento» sia su quelle relative «al riconoscimento dello status di rifugiato». In
generale sarebbe emersa una riflessione sulla «necessità di confrontarsi con il complesso
degli strumenti volti ad affrontare il problema dell’immigrazione». Il ministro ha poi
ricordato come «il reato di immigrazione clandestina fosse stato inserito tra le fattispecie
interessate dall’intervento di depenalizzazione in quanto ritenuto non solo inidoneo a
contrastare efficacemente il fenomeno dell’ingresso clandestino, ma anche perché la
fattispecie a oggi prevista - sottolinea Orlando - si traduce in un rallentamento
all’espulsione e in un ostacolo per le indagini, specie quelle relative alla tratta di esseri
umani, come segnalato, tra gli altri, dal procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo»
Franco Roberti. All’atto pratico, tuttavia, oltre la riflessione politica descritta da Orlando
non c’è nient’altro. Di certo non c’è, soprattutto, alcun testo più o meno in bozza
quantomeno al ministero dell’Interno, guidato da Angelino Alfano, che poi ha la gestione
diretta dei flussi immigratori. Tutta la questione, del resto, è così effervescente da
suggerire a più di qualcuno tra gli esponenti del governo la massima prudenza. Lo
conferma, del resto, anche il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, che pure ribadisce
l’annuncio di Orlando. «Abbiamo a che fare con la materia politica più incandescente che
c’è in Europa oggi. Il reato di clandestinità è obiettivamente inutile, abbiamo un’esperienza
di alcuni anni e si è visto che non è che il flusso di migranti clandestini, visto che c’è quel
reato, sia precipitato». Ma, aggiunge Gentiloni, «l’operazione di eliminare questo reato,
che io ritengo sacrosanta» deve essere «inserita in un pacchetto di riforma di diverse
norme che hanno a che fare con l’immigrazione, che sta preparando il ministro della
Giustizia». Il numero uno degli Esteri spiega così il rinvio dell’abolizione: «Sappiamo
quanto sia delicata questa cosa in termini di opinione pubblica». Questione che rinvia
anche all’omicidio della giovane americana Ashley Olsen, a Firenze, delitto per il quale è
stato fermato «con gravi indizi di colpevolezza» il senegalese irregolare Cheik Tidiane
Diaw. Ironizza su Facebook il leader della Lega Matteo Salvini: «Fermato un clandestino?
Strano...». Roberto Calderoli sostiene che «se fosse stato espulso, non saremmo a
piangere». La comunità dei senegalesi a Firenze invita però «a non cadere nelle
provocazioni. Un fatto gravissimo - replica a Salvini - ma poteva succedere» a prescindere
dalla nazionalità.
Marco Ludovico
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del 15/01/16, pag. 15
Migranti, scontro a Bruxelles. Roma frena sui
3 miliardi per Ankara
L’Italia non ha ancora versato la sua quota di 300 milioni. Si profilano
nuove tensioni con la Germania di Schäuble
DAL NOSTRO INVIATO
BRUXELLES Un nuovo scontro tra Italia e Germania si annuncia oggi all’Ecofin del
ministri finanziari sui tre miliardi promessi dall’Ue alla Turchia — soprattutto su pressione
della cancelliera tedesca Angela Merkel — in cambio di collaborazione nel rallentare il
maxi-esodo di migranti siriani e iracheni diretti principalmente in Germania. Nella riunione
a Bruxelles il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble intenderebbe contestare
al responsabile dell’Economia Pier Carlo Padoan di essere l’unico a bloccare l’esborso,
mettendo a rischio i rapporti con Ankara.
Fonti diplomatiche hanno spiegato che in realtà l’Italia resta sostanzialmente favorevole al
contributo finanziario alla Turchia. Ma a Roma pretendono che l’intero importo provenga
dal bilancio comunitario, mentre al momento l’orientamento è di farlo gravare soprattutto
sulle casse degli Stati membri.
Al ministero dell’Economia, dopo aver sborsato somme miliardarie per aiutare le banche
tedesche esposte in Grecia e negli altri Paesi a rischio, non intendono appesantire i conti
pubblici nazionali con un’altra uscita (si stima di circa 300 milioni) per risolvere il problema
dei flussi eccessivi di migranti diretti in Germania tramite la rotta dei Balcani. Tra l’altro
proprio Schäuble da sempre preme — insieme a Merkel e ai suoi alleati del Nord Europa
— affinché i Paesi mediterranei dell’Eurozona attuino politiche di bilancio rigorose e di
contenimento della spesa pubblica. Padoan, che ha in corso un duro confronto con
Bruxelles per ottenere decimali di «flessibilità» di bilancio a copertura degli esborsi per
fronteggiare l’emergenza migranti nel Mediterraneo, non intenderebbe rischiare di vedersi
poi contestato uno sfondamento. Ma questo contenzioso ha fatto circolare a Bruxelles
anche indiscrezioni che ipotizzano, dietro le riserve dell’Italia sui tre miliardi alla Turchia,
un altro segnale del governo di Roma contro lo strapotere della Germania in Europa:
nell’ambito della contrapposizione frontale lanciata nel dicembre scorso dal premier
Matteo Renzi al massimo livello del summit dei 28 capi di Stato e di governo dell’Ue.
Ivo Caizzi
del 15/01/16, pag. 3
Berlino pensa a una mini-Schengen per dare
una lezione a Italia e Grecia
La Germania alla guida della “coalizione dei volenterosi” con Austria,
Belgio, Lussemburgo Francia e Olanda contro le inadempienze dei
partner sui migranti. Rischia anche l’euro
Tonia Mastrobuoni
inviata a berlino
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Se salta Schengen, salta l’euro. In parole semplici, è questo il concetto espresso da
Angela Merkel nei giorni scorsi durante un convegno a Magonza. «L’euro e la libertà di
movimento attraverso i confini sono strettamente legati», ha spiegato la cancelliera.
Dunque, «nessuno può illudersi di mantenere una moneta comune senza garantire un
modo semplice di attraversare i confini». Ma secondo un’autorevole fonte governativa
tedesca, la Germania non ha affatto rinunciato all’idea di usare «l’atomica» della chiusura
delle frontiere, alla luce delle miriadi di inadempienze sui rifugiati dei partner europei – non
solo al di là della Oder, ma anche al di là delle Alpi e dei Balcani. E per evitare
un’implosione economica, la mini-Schengen che i tedeschi hanno in testa includerebbe
comunque un nocciolo di Paesi forti dell’area euro.
Il progetto di una mini-Schengen, con un ripristino dei controlli ai confini che includerebbe
Belgio, Lussemburgo, Olanda, Austria, Francia e Germania, era affiorato a dicembre,
ispirato dagli olandesi e ufficializzato dal capo della cancelleria, Peter Altmaier, che aveva
anche battezzato il gruppo: «coalition of the willings», coalizione dei volenterosi. Poi il
piano era sparito dai tavoli, riassorbito dalle emergenze terrorismo, persino parzialmente
smentito. Ma in questi giorni a Berlino si torna prepotentemente a parlare di «coalizione
dei volenterosi», ai piani alti del governo. Sintetizza la fonte: «L’ho detto anche agli amici
polacchi: Schengen serve a tutti. Se domani vi ritrovate una valanga di profughi ucraini in
casa e noi chiudiamo le frontiere, che fate?».
Ma a Berlino il malumore non riguarda solo il comportamento del blocco dei Paesi dell’Est
che frena sul riassorbimento delle quote di profughi e si compiace delle proprie involuzioni
illiberali e autocratiche quando non barbariche - nei giorni scorsi il premier ceco ha
paragonato i rifugiati alle esondazioni. L’irritazione riguarda anche la Grecia e l’Italia,
accusate di non fare gli hot spot e di chiudere da tempo un occhio sia sugli ingressi sia
sulle registrazioni delle impronte digitali. «Troppo comodo fare i generosi o i leader “di
sinistra” quando sai di essere un Paese di transito», sintetizza una fonte parlamentare. Ma
è l’umore prevalente nella Grande coalizione, nei confronti di Italia e Grecia.
Oltretutto, il 2016 non è un anno qualsiasi, per Angela Merkel. Ed è iniziato, notoriamente,
con i peggiori auspici. Accolti un milione e centomila profughi nel 2015, concessa agli
avversari di partito la promessa di una riduzione degli arrivi, la cancelliera si prepara ad un
anno elettorale – sono cinque gli appuntamenti per il rinnovo dei governi nei Land – con
cattivissime premesse. I sondaggi danno il suo partito in cantina, gli anti immigrati dell’Afd
sono col vento in poppa e l’Ue sta reagendo troppo lentamente alle pressioni della
Germania per garantire un rallentamento dei flussi e un rapido accordo con la Turchia.
Senza l’aiuto dei vicini, Berlino minaccia di ispessire i confini. Le conseguenze sarebbero
catastrofiche anzitutto per noi.
del 15/01/16, pag. 19
Schengen, l’effetto valanga delle nuove
frontiere
L’allarme di Bruxelles - Il commissario europeo Avramopoulos avverte:
“Rinunciare alla libera circolazione è la fine del progetto europeo”
di Stefano Feltri
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Il primo luglio del 2000, il ponte di Oresund ha unito ciò che la fine dell’era glaciale aveva
diviso: cioè Svezia e Danimarca. Sedici chilometri, sette anni di lavoro, 14 euro di
pedaggio (oggi), quel ponte è diventato il simbolo di un’Europa ricca e pacifica che si
poteva attraversare in auto, senza confini, grazie all’accordo di Schengen che giusto
l’anno prima aveva raccolto nuovi membri, contando tutti gli Stati dell’Unione europea
tranne Irlanda e Gran Bretagna. Alla mezzanotte di domenica 3 gennaio 2016, la Svezia
ha deciso di ripristinare almeno per un mese i controlli sul ponte di Oresund, con una
sospensione temporanea di Schengen. “Difenderemo Schengen a spada tratta, sapendo
che oggi è in pericolo: se crolla la libera circolazione è la fine del progetto europeo”, ha
detto ieri in audizione davanti al Parlamento europeo il commissario Affari Interni, Dimitri
Avramopoulos. Ma i partiti della destra antieuropea hanno scelto quell’accordo come
bersaglio su cui scaricare le tensioni dovute alla crisi dei rifugiati. E ne chiedono la
sospensione.
Nel 2015 Eurobarometro ha rilevato che per gli europei la libertà di movimento è il risultato
più apprezzato dell’Unione europea subito dopo la pace. Eppure, oggi, in tanti, soprattutto
a destra, chiedono il ritorno delle frontiere. Colpa anche delle idee confuse su che cosa è
Schengen e su cosa sta succedendo.
Schengen è un villaggio di 4000 anime in Lussemburgo. Lì, nel 1985, finiscono le frontiere
interne all’Unione europea, o almeno tra alcuni dei Paesi fondatori (Belgio, Francia,
Olanda, Lussemburgo, Germania): è un accordo tra governi, verrà assorbito nella
legislazione europea solo nel 1999. Dopo il primo accordo, che ha compiuto 30 anni a
giugno, ne arriva un altro, Schengen II, nel 1990: una politica comune per i visti e rafforzati
i controlli alle frontiere, elemento questo cruciale per il dibattito di oggi. Se si lascia
circolare tutti liberamente dentro, bisogna essere più chiari su chi ha diritto di entrare nella
zona senza barriere. Nasce l’idea di “Fortezza Europa”, al cui interno però si può muoversi
senza visti, soltanto con un documento di riconoscimento che certifica l’appartenenza a
uno dei Paese Schengen (oggi 22 membri dell’Unione, quattro esterni).
Con l’ondata di richiedenti asilo arrivata nel 2015, tutto questo sembra a rischio. Ma le
prime tensioni risalgono al 2011, l’anno delle primavere arabe: il governo Berlusconi
riconosce ai tunisini un permesso temporaneo di soggiorno che, nella grande maggioranza
dei casi, viene usato per raggiungere la Francia. L’allora governo conservatore di Nicolas
Sarkozy nega che un semplice permesso di soggiorno sia sufficiente per muoversi
liberamente e minaccia di rispedire in Italia i tunisini. Il ministro dell’Interno dell’epoca,
Roberto Maroni, replica: “Allora la Francia esca da Schengen”. Anche la Danimarca, tra
settembre e ottobre 2011, rafforza i controlli alle frontiere. La Commissione europea
decide allora di modificare l’accordo di Schengen, stabilendo a quali condizioni uno Stato
membro può imporre limiti alla libertà di circolazione, modifiche in vigore dal 2013 che
sono state utilizzate nella crisi dei rifugiati, come ricostruisce un paper del Ceps, What is
happening to Schengen?, di Elspeth Guild, Eveln Browner, Kees Groenendijk e Sergio
Carrera.
La sospensione di Schengen è ora prevista e regolata. Si può chiedere in base all’articolo
25 che stabilisce il ritorno dei controlli immediato e senza preavviso in caso di minacce alla
sicurezza interna o all’attuazione delle politiche di uno Stato membro. I limiti hanno durata
di dieci giorni e possono essere prorogati per 20 giorni, senza superare i due mesi. C’è
anche l’articolo 26 che prevede blocchi alla circolazione per minacce serie e durature
relative al controllo dei confini esterni dell’area Schengen. Però richiede allo Stato che ne
fa richiesta procedure più complesse per dimostrare la minaccia che deve riguardare
l’area nel suo complesso. Molto più facile usare l’articolo 25, come fanno tutti.
Di solito queste limitazioni venivano usate per i grandi eventi (come il G8 de L’Aquila del
2009). Poi è iniziata la crisi dei rifugiati e il 13 settembre 2015, la Germania ha iniziato a
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picconare Schengen, quando ha deciso di arginare l’assalto dei richiedenti asilo dovuto
alla decisione improvvisa di Angela Merkel di sospendere per i profughi siriani
l’applicazione del trattato di Dublino 2 (che attribuisce la gestione dei rifugiati al primo
Paese in cui arrivano e presentano la domanda di asilo). A catena seguono l’Austria, il 15
settembre, e la Slovenia il 16, che reintroducono controlli. A novembre si aggiunge la
Svezia, seguita dopo pochi giorni dalla Norvegia, entrambe adducono come motivazione il
flusso ingestibile di migranti. La Francia aveva già previsto un aumento dei controlli per il
vertice sul clima Cop 21, poi sono arrivati gli attentati di Parigi che hanno portato a un vero
ripristino delle frontiere (in vigore fino alla fine di febbraio).
Tutti i Paesi che in questo momento hanno ripristinato i controlli aboliti dall’accordo di
Schengen, citano come motivo i migranti o, più esplicitamente (come fa la Svezia), i
richiedenti asilo.
C’è un problema giuridico: anche il ripristino temporaneo delle frontiere non autorizza in
alcun modo i Paesi europei a venire meno ai propri impegni verso la concessione di asilo.
Che non sono regolati dalla Convenzione di Ginvera del 1951, recepita dalla Carta dei
diritti fondamentali dell’Unione europea. Quando nel 2013 l’accordo di Schengen è stato
modificato per regolarne le sospensioni, è stato scritto all’articolo 3 che non c’è possibilità
alcuna di deroga. È addirittura vietato aumentare i controlli di polizia all’interno della
propria frontiera, un modo surrettizio di ripristinare il confine. Finora la Commissione
europea, che deve valutare la fondatezza giuridica delle limitazioni a Schengen, ha fatto
finta che fosse tutto a posto. Ma diventa sempre più difficile sostenere che i diritti dei
rifugiati sono garantiti mentre vengono ripristinate le frontiere proprio per scoraggiarne
l’arrivo.
Quindi Schengen sta morendo e le frontiere sono destinate a tornare stabili? Lo spirito
dietro l’accordo del 1985 non sembra svanito del tutto. Anche i Paesi europei che hanno
alzato più barriere, come l’Ungheria di Viktor Orbàn, non hanno sfidato direttamente
Schengen, ma hanno cercato di infilarsi nelle sue pieghe, rispettandone almeno la forma.
E la scelta del Consiglio europeo di costruire un sistema europeo di confini e di guardia
costiera, come evoluzione dell’agenzia Frontex, è un tentativo di conservare il metodo
originario, aperti dentro e chiusi fuori. Schengen è vivo, ma senza qualche evoluzione le
sue falle diventeranno sempre più evidenti.
del 15/01/16, pag. 17
«Charlie Hebdo, giornale razzista» Rabbia per
la vignetta su Aylan
Il disegno: «Il bambino siriano da grande? Sarebbe diventato un
molestatore»
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
PARIGI Una vignetta di Charlie Hebdo provoca polemiche, ancora una volta. L’ha
disegnata Riss, il direttore che ha preso il posto di Charb ucciso nell’attentato islamista del
7 gennaio 2015. Si vede la figura riversa sulla sabbia di Aylan Kurdi, il bambino siriano di
tre anni morto sulla spiaggia turca di Bodrum mentre cercava di raggiungere l’Europa con
il padre e il fratello. «Che cosa sarebbe diventato il piccolo Aylan se fosse cresciuto?» si
chiede il vignettista. Sotto al disegno di un Aylan adulto, con la faccia da maiale, la
risposta: «Un palpatore di sederi in Germania».
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Il riferimento è ai fatti del 31 dicembre di Colonia, dove decine di donne sono state
molestate da gruppi di stranieri di origine nordafricana e mediorientale. La vignetta appare
nel nuovo numero di Charlie Hebdo con in copertina una caricatura di David Bowie.
La reazione più addolorata arriva dalla zia, Tima Kurdi, che vive in Canada assieme al
padre del bambino e ha definito il disegno «disgustoso». «Speravo che le persone
rispettassero il nostro dolore. Ferirci un’altra volta è ingiusto». Riss aveva già dato
scandalo a settembre, pochi giorni dopo il dramma, con due vignette. Nella prima c’è
Cristo che cammina sulle acque e un bambino a testa in giù nel mare. «La prova che
l’Europa è cristiana: i bambini musulmani affondano». Nella seconda vignetta, c’è una
pubblicità McDonald’s: «Promozione! Due menu per bambini al prezzo di uno», poi il
disegno di Aylan morto sulla spiaggia e la scritta finale: «Così vicino al traguardo…».
Oggi Charlie Hebdo vive in pieno la contraddizione di essere un foglio libertario, anarchico,
folle e marginale, diventato suo malgrado — ci sono voluti 12 morti — un giornale noto in
tutto il mondo, commentato da osservatori che prima neanche sapevano della sua
esistenza.
Ci si stupisce del cattivo gusto di Charlie Hebdo , ma il cattivo, anzi pessimo gusto è un
tratto costante e voluto dei suoi 40 anni di storia. Charlie Hebdo non è mai stato Le Monde
o il Tg delle 20 e non pretende di esserlo adesso: era e resta un giornale per pochi
appassionati che amano quel gusto di deridere tutto, dalle religioni alle tragedie, nel modo
più crudo possibile.
Le reazioni indignate arrivano soprattutto dai Paesi anglosassoni, dove molti accusano
Charlie Hebdo di razzismo. Ma il direttore Riss è noto per il suo impegno anti-razzista, e
questo è il significato delle vignette su Aylan. Non è Riss a pensare che il bambino
sarebbe diventato un molestatore; lo pensano i razzisti che Riss vuole prendere in giro.
Bisognava forse renderlo più chiaro anche ai nuovi, smarriti lettori di « Charlie ».
Stefano Montefiori
del 15/01/16, pag. II (Roma)
“Pestaggi terapeutici ai bengalesi”: indagati
indagati tredici militanti dell’estrema destra
L’orrore del tour delle botte agli extracomunitari L’identikit dei violenti il
più giovane ha 19 anni
«NOI SIAMO CAMERATI e combattiamo l’immigrazione clandestina». Sono 13 i camerati
dell’estrema destra romana indagati ieri dai carabinieri del Ros, diretti dal colonnello
Massimiliano Macilenti. Il più grande ha 26 anni e il più giovane 19, tutti legati da un
comune denominatore: quello di avere una vocazione ideologica di estrema destra e
dunque di dover punire il diverso. L’indagine del Ros è nata da un’inchiesta di Repubblica,
così scrive nell’ordinanza il pm Sergio Colaiocco con cui ieri sono state disposte nei loro
confronti perquisizioni. Il nostro quotidiano raccontava un anno fa di come un gruppo di
militanti di destra si divertisse a picchiare cittadini del Bangladesh e come quel banglatour
fosse il test da superare per le nuove reclute. Pestaggi e percosse e insulti come prova
per valutare l’appartenenza al gruppo di estrema destra. Ieri Roberto Begnetti, Gabriele
Masci, Daniele De Santis, Alessio Costantini, Andrea Di Cosimo, Giovanni Maria
Camillacci, Matteo Stella, Alessio Castelli, Stefano Pinti, Andrea Palmieri, Alessio
Evangelista, Alessio Mursia e Alessio Lala, a vario titolo sono stati indagati perché in
concorso «promuovevano e dirigevano nell’ambito di iniziative della sezione di Forza
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Nuova di via Lidia 52/54 prima e di via Amulio 41 avente lo scopo di incitare alla
discriminazione e alla violenza per motivi razziali e religiosi ». Attività che si è
concretizzata, secondo l’accusa, con la diffusione, anche online, attraverso profili
Facebook come quello aperto con lo pseudonimo “Burzum” poi diventato “Gabriele Roma”
di idee fondate sulla superiorità della razza bianca e sull’odio razziale ed etnico e con i
pestaggi nei confronti di cittadini del Bangladesh.
Per due di loro si è proceduto per il pestaggio di un bengalese, uno dei pochi che dopo le
percosse si fece refertare in ospedale dove arrivò con un labbro e il sopracciglio spaccati.
Quel “Bangla Tour” per cui sono stati arrestati e processati un diciannovenne e un
sedicenne iniziò una notte di maggio. Il 18 maggio in via Oddi una testimone vide tutto dal
suo balcone: i ragazzi che chiesero d’accendere al bengalese, lui che cercò l’accendino
nella tasca e i due che lo scaraventarono a terra picchiandolo a sangue e con una
violenza inaudita. Il minorenne massacrato, pensando a un pestaggio a scopo di rapina
anche se mentre le prendeva di santa ragione venne insultato per il colore della sua pelle,
tirò fuori il suo cellulare e lo consegnò. Ennesimo segno di una resa incondizionata. I due
lo presero, per poi gettarlo nel primo cassonetto. Non era un bottino quello che volevano.
Era picchiare il “bengalino” il loro scopo. Peccato però che nella fuga persero il loro di
cellulare che fu ritrovato appunto dalla polizia, avvertita dalla testimone. Rintracciati i
ragazzi coi vestiti ancora sporchi di sangue furono portati in commissariato. «Dietro queste
spedizioni punitive dichiarò l’avvocato Massimiliano Scaringella, difensore del sedicenne
romano picchiatore - a mio avviso c’è un vero e proprio indottrinamento. Il mio assistito
rispondeva alle mie domande come un invasato. Picchiare i bengalesi per lui non era solo
un modo per divertirsi, mi spiegò, ma era una vera e propria crociata, una battaglia che
doveva combattere a tutti i costi. Qualcuno, più grande di lui, lo aveva attirato a
frequentare la sede di Forza Nuova e l’idea che mi sono fatto è che il Bangla Tour fosse
una sorta di iniziazione per essere accettato nel gruppo». E così infatti era. Questo
dimostrano le indagini del ros.
(f.a. e g.s.)
del 15/01/16, pag. II (Roma)
E per i camerati che sgarravano scattavano
anche i riti punitivi
FEDERICA ANGELI
GIUSEPPE SCARPA
«DAI andiamoci a fare un bengalino ». Iniziava così il gioco degli adolescenti della destra
romana. Partire in squadre, al grido di “Camerata della destra romana, azione”, per andare
a massacrare di botte uno straniero. Il ciak di un film surreale che ha ormai centinaia di
proseliti, si chiama “Bangla Tour” e comincia davanti alle sedi di Forza Nuova. Una di
queste si trova all’Appio, ai civici 52 e 54 di via Lidia. È da lì che le baby squadre partivano
«per sconfiggere il nemico », ovvero lo straniero, ovvero il bengalese, soggetto che, a dire
dei sedicenni patecipanti, è perfetto per le spedizioni punitive. Perfetto perché non
reagisce e non denuncia. Perfetto perché incarna l’immigrato debole su cui si può infierire
senza timore di essere perseguiti. Quindi, con l’adrenalina a mille, si lascia la sede di
Forza Nuova tappezzata da bandiere con croci celtiche e da poster inneggianti il Duce, si
sale tutti insieme in una macchina, dove l’unico maggiorenne è colui che guida, si scegli il
quartiere dove andare a fare il raid - Torpignattara, Casilino, Prenestino, Acqua Bullicante,
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zone dove la comunità del Bangladesh ha la sua più alta concentrazione - e una volta
individuato il soggetto, si passa all’azione. Un pestaggio “terapeutico” e “ideologico”. Un
massacro che “ti scarica i nervi e la tensione” e che racchiude un credo, quello di
combattere l’immigraizione.
Banglatour ma non solo. Dal pestaggio dei deboli immigrati ai riti punitivi per i camerata
che “sgarravano”. La violenza e i riti di iniziazione del gruppo di estrema destra che ieri è
stato indagato dalla procura di Roma non si sfogava solo sui bengalesi. No. Le reclute
venivano introdotte nel gruppo attraverso regole dure e chi non rispettava quelle regole
veniva punito sempre secondo un codice non scritto “dei camerata della destra romana”.
Uno su tutti l’episodio che, secondo i carabinieri del ros e riportato nell’ordinanza firmata
dal pubblico ministero Sergio Colaiocco, spiega le modalità con cui i camerata regolavano
i conti, anche tra loro. Raccontano le carte di una violenza sessuale subita da una ragazza
che frequentava la sede di Forza Nuova da parte di uno dei militanti. La giovane «prima
militante di Casa-Pound e successivamente di Forza Nuova, aveva manifestato personali
problematiche familiari e Giovanni Camillacci le offre assistenza ospitandola presso la
sede di Forza Nuova di via Amulio. La ragazza temeva possibili azioni sconsiderate del
gruppo di ragazzi che frequentava la sezione, che avrebbero potuto approfittare della sua
presenza». Qualche sera prima infatti «in una sorta di festa tenutasi a casa del Masci con
De Santis Daniele e alcuni componenti del sodalizio, durante la quale sarebbero state
consumate anche sostanze stupefacenti », sarebbe appunto avvenuta la violenza
sessuale nei suoi confronti. Ad abusare di lei Daniele De Santis. Ecco allora il rito punitivo.
Si legge ancora nell’ordinanza. «Giovanni Camillacci e Alessio Costantini organizzavano
un vero e proprio rito punitivo, nei confronti di De Santis. I due convocarono anche altri
militanti responsabili di condotte non conformi alle regole del gruppo ai quali venivano
contestate mancanze caratteriali e comportamentali legate a atti difformi dalle logiche del
gruppo». Il 1 ottobre 2014 i camerata «erano stati fatti disporre in semicerchio con i
soggetti responsabili del violazioni, in ginocchio. Questi venivano sottposto a umiliazione e
percosse da parte degli anziani del gruppo. Costantini e Camillacci, che agivano
incappucciati e che, inoltre, un trattamento ancora particolare veniva riservato a De Santis
in quanto, oltre a percuoterlo, gli veniva esploso un colpo di arma da fuoco vicino
all’orecchio, gesto che doveva servire da monito anche a tutti gli altri come punuzione per
la gravità del gesto compiuto, in violazione delle regole del gruppo».
Poi c’erano anche le spedizioni punitive del gruppo di Forza Nuova all’esterno, quelle
politiche, nei confronti di chi aveva osato aggredire un camerata. Era il 31 marzo del 2015
quando Alessandro Catani, militante di CasaPound viene aggredito a suon di coltelli
all’Esquilino da Costantini, Di Cosimo, Camillacci, Stella, Castelli, Pinti e Palmieri per
«ritorsione per una rissa - scrive il pubblico ministero Colaiocco - precedentemente
avvenuta all’interno di un locale di Ponte Milvio in cui questi ultimi avevano subito la
condotta di Catani e di suoi amici non identificati».
del 15/01/16, pag. 1/7 (Roma)
«Il Cie maschile è inagibile»: clandestini
liberati
Nuova tegola sul Centro di identificazione ed espulsione di Ponte Galeria. Dopo incendi e
rivolte i pompieri hanno dichiarato inagibile il settore uomini. Ci sarà una gara per i lavori di
ristrutturazione ma intanto gli ospiti clandestini non pericolosi sono stati liberati.
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È il Centro di immigrazione ed espulsione più importante d’Italia, tanto più adesso con
l’allarme terrorismo, le polemiche sulle espulsioni e sull’abolizione del reato di
clandestinità. Ma da metà dicembre - la notizia non è mai stata resa nota - il settore
maschile del Cie di Ponte Galeria è stato dichiarato inagibile dei vigili del fuoco e per
questo svuotato di tutti gli ospiti. Unico settore a rimanere operativo è quello, decisamente
ridotto, femminile. La decisione del comando dei pompieri è arrivata all’indomani
dell’ultima rivolta nel Centro, con gli immigrati clandestini che hanno dato alle fiamme
materassi e suppellettili provocando ingenti danni alle strutture. Fra le prime conseguenze
dello svuotamento del Cie il trasferimento dei poliziotti in servizio all’Ufficio immigrazione,
visto il calo degli incarichi nella struttura. Ma anche la liberazione - tranne per casi
particolarmente a rischio - di stranieri che non è stato possibile trasferire in analoghe
strutture sul territorio. Critici i sindacati degli agenti: «Roma non ha più il Cie ed il governo
parla di garantire le espulsioni», sottolinea Giorgio Innocenzi, segretario generale
nazionale della Consap, la Confederazione sindacale autonoma di polizia, che protesta
«contro l’improvvisazione che regna sovrana nella gestione dell’emergenza immigrazione,
strettamente correlata a quella del terrorismo internazionale. Quella a cui assistiamo sul
fronte della gestione dell’emergenza immigrazione – aggiunge Innocenzi - è una resa
incondizionata a tappe, che ogni giorno ci riserva nuove sorprese». La via d’uscita
sarebbe l’appalto annunciato per i lavori di ristrutturazione del Cie.
Il progetto prevederebbe la divisione del centro in moduli autosufficienti da 25 persone,
anche per evitare rivolte con un gran numero di partecipanti. Per questo lunedì scorso
Viminale e Prefettura si sono incontrati per stabilire i termini dell’intervento, ma «non è
stata indicata alcuna tempistica. L’intervento si farà, ma non è stato chiarito quanto sarà
stanziato e quando si terrà la gara d’appalto», conclude Innocenzi.
Rinaldo Frignani
del 15/01/16, pag. 7
Sì allo ius soli sportivo
Solo la Lega vota contro
Saranno tesserabili i minori stranieri, residenti in Italia prima dei 10 anni
Ilario Lombardo
Cè chi dice che è abbastanza, c'è chi dice che nonio è: stadi fatto che per la prima volta il
Parlamento partorisce una qualche forma di ms soli. Chiamiamola 'cittadinanza sportiva"
anche se cittadinanza propriamente non è. Ma è un lasciapassare per tutti quei ragazzi,
potenziali risorse per lo sport italiano, che al compimento del l4esimo anno di età, quando
si passa a fare sul serio, nell'agonismo, si sono visti sbattere in faccia le porte della
burocrazia che li considera stranieri, figli di una terra lontana, anche quando lo slang è
ormai quello delle nostre città e il cuore batte per i colori azzurri. Da ieri sera tutto è questo
è passato: viene introdotto lo ius soli sportivo, confezionato da Bruno Molea, deputato di
Scelta civica e presidente Aics (Associazione italiana cultura e sport), attraverso una legge
sostenuta da tutti i partiti tranne la Lega Nord. Il testo è semplice, due soli articoli che
permettono il tesseramento di minori stranieri, residenti in Italia prima di aver compiuto i 10
anni, nelle società sportiva appartenenti alle federazioni nazionali. lJai 18 anni in poi potrà
essere tesserato chi realizza lo stesso requisito dei più piccoli e sia in attesa della
cittadinanza. I puntigli anagrafici hanno una loro ragione. E a spiegare meglio cosa ci sia
dietro, ci pensa Josefa Idem, campionessa olimpionica, senatrice del Pd, ministro dello
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Sport per una manciata di mesi, e, a sua volta, straniera (tedesca) naturalizzata italiana:
«Abbiamo deciso di fissare il tetto dei dieci anni per evitare il travaso di talenti, presi da
fuori e camuffati da italiani. Un costume da calciomercato che viene alimentato soprattutto
dall'Africa, invece di far crescere in casa i giovani campionI». 11 provvedimento è
destinato a valorizzare bambini e ragazzi che vivono iii Italia da tempo, pienamente
integrati, spesso nati qui, che dimostrano qualità e potenzialità ma a 14 anni trovano la
strada sbarrata. Piccoli profughi anche, o come sono chiamati: minori stranieri non
accompagnati, che arrivano, imparano lalingas, sono affidati a famiglie italiane, si
impegnano, entrano nei movimenti sportivi e poi, all'improvviso, si trovano di fronte un
dirigente con gli occhi bassi che cerca le parole per spiegare loro che non potranno più
giocare coni compagni di squadra e vestire i colori di quella divisa. «Certo non dà una
risposta a tutte i problemi ancora aperti legati allo ius soli e all'integrazione ma è un primo
passo». A compiere questo passo, ma già diversi anni fa e autonomamente, furono poche
federazioni sportive: pugilato, hockey e ericket, discipline che già considerano italiani a
tutti gli effetti i giocatori di origine straniera nati in Italia. Ms a sentire il presidente della
Federazione Cricket Simone Gambino, la legge approvata ieri «è puramente decorativa, è
un placebo». Gambino è uno schietto, uno che ha provato a sfidare Giovanni Malagò per il
trono del Coni, e subito dopo lo ha trascinato nella battaglia per far approvare la
cittadinanza sportiva. Nel 2009 la nazionale italiana di cricket under 15, formata da oriundi
«figli di seconda generazione, vinse i campionati europei. Con il tricolore sul petto e la
pelle caffellatte che tradiva le origini cingalesi, pakistane e indiane, i giocatori si
presentarono in Parlamento per sostenere la legge sullo ius soli, Gambino, ironicamente,
dedicò la vittoria a Umberto Bassi. Quattro anni dopo, nel luglio 2013, a vincere gli europei
a Londra è stata la nazionale maggiore, ovviamente multietnica. «Nel cricket, lo ius soli
sportivo lo abbiamo dal 2003: questa legge è una roba per i vivai, permette ai ragazzi solo
di giocare. Altra cosa sarebbe stata se fosse stata concessa la cittadinanza a chi
rappresenta i colori dell'Italia».
del 15/01/16, pag. 5
Premio De Beauvoir a Giusi Nicolini
La sindaca di Lampedusa commuove
Giusi Nicolini, sindaca di Lampedusa, ha ricevuto ieri a Parigi il premio Simone de
Beauvoir per la libertà delle donne. Il Premio, conferito dalla Fondazione Simone de
Beauvoir e sostenuto dal comune di Parigi, dall’università Paris Diderot e dall’Institut de
France, giunto alla nona edizione, premia personalità o associazioni che si sono distinte
nella difesa della causa femminile, incarnando i valori della filosofa femminista. La giuria,
composta da una trentina di personalità, tra cui la saggista Julia Kristeva, l’ex ministra
Yvette Roudy o la scrittrice Annie Ernaux, ha premiato Giusi Nicolini per la sua «azione
coraggiosa e pionieristica a favore dei migranti e dei rifugiati». Con un discorso
emozionante alla Maison de l’Amérique Latine, Giusi Nicolini ha denunciato una volta di
più la «responsabilità» di tutti i Paesi nella tragedia dei rifugiati che «diventa ogni giorno
più insostenibile, come si può accettare nel XXI secolo di chiedere l’asilo a nuoto?». Giusi
Nicolini continua a interrogare i leader europei, che voltano lo sguardo dall’altra parte, e
insiste sul dovere di accoglienza, malgrado le crescenti difficoltà e l’ostilità sempre più
diffusa nell’opinione pubblica, sfruttata dai governi per chiudere le frontiere.
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WELFARE E SOCIETA’
del 15/01/16, pag. 5
Silenzio, si privatizza: vietato il corteo delle
maestre a Roma
Asili nido. La protesta delle maestre precarie contro la privatizzazione,
prevista dal commissario Tronca, era stata indetta dal sindacato di base
Usb nella mattinata di sabato in via Covelli, sede di uno degli asili nido
in predicato di passare nelle mani dei privati
ro. ci.
ROMA
Due manifestazioni di sabato a Roma sono troppe. Nella città del Giubileo, presidiata da
un esercito, una manifestazione contro la guerra nel quartiere Esquilino e un’altra contro la
privatizzazione degli asili nido comunali prevista dal Commissario Tronca (e stabilita da
una delibera del defenestrato ex sindaco Marino) comportano troppi rischi. Meglio vietarne
una, quella delle maestre precarie al capo opposto della città, in zona CollatinoPrenestino. La gestione commissariale della Capitale è pronta a tutto, ma non a sostenere
un impegno così gravoso.
La protesta delle maestre precarie, da mesi in lotta per la stabilizzazione e contro il
progetto di privatizzazione contenuto nel documento unico di programmazione (Dup)
2016–2018, era stata indetta dal sindacato di base Usb nella mattinata di sabato in via
Covelli, sede di uno degli asili nido in predicato di passare nelle mani dei privati. La
Questura di Roma ha respinto la richiesta, sostenendo che nella stessa giornata è già
prevista un’altra manifestazione, quella contro la guerra organizzata non al mattino, ma al
pomeriggio, all’Esquilino. Usb denuncia il «diktat» che grava su Roma contro la libertà di
manifestare. La regola seguita dalla Questura e dalla Prefettura riguarda il centro storico
della città dove si può manifestare solo dal lunedì al venerdì. «Adesso scopriamo che
hanno deciso di estendere i loro criteri arbitrari all’intero territorio cittadino e a tutti i giorni
della settimana — denuncia Guido Lutrario della federazione romana del sindacato — la
gestione commissariale di Roma sta cercando di soffocare le voci di protesta».
Al centro delle polemiche c’è il documento unico di programmazione, un testo di centinaia
di pagine che prospetta un futuro difficile per Roma. Nel 2016 si annuncia la
privatizzazione di 17 asili nidi. Tra il 2017 e il 2018 ne dovrebbero seguire molte altre tra i
206 nidi dove lavorano circa 6 mila insegnanti e educatrici in maggioranza precarie. Tra
due anni non tutti i 13 mila bambini potranno usufruire dei servizi che la città mette a
disposizione. Dovranno rivolgersi ai privati che a Roma gestiscono 221 strutture private
che ospitano 7 mila bambini. Nel frattempo aumenteranno le rette degli asili. Per i prossimi
anni si prevede un aumento in media di 200 euro in più a famiglia all’anno. È la
conseguenza di un altro atto della giunta Marino nel 2014, la “rimodulazione delle tariffe
per i servizi”, varata tra le proteste delle famiglie. A Roma c’è la sensazione che si voglia
rinchiudere il futuro in precise coordinate di austerità ed eccezione, indipendentemente da
chi vincerà le elezioni.
Dopo le proteste, Tronca ha cercato di mettere una toppa. «Al momento nessuna
decisione è presa» ha detto. Ma nel frattempo ha acceso la miccia. Le proteste
continueranno. «La difesa del servizio scolastico-educativo — sostiene Lutrario — si basa
su ragioni analoghe a quelle dei lavoratori dei trasporti o delle persone sotto sfratto, o delle
associazioni che vengono sgomberate».
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del 15/01/16, pag. 23
La cannabis a uso terapeutico non sarà reato
LIANA MILELLA
LA RIFORMA/ OGGI IL CONSIGLIO DEI MINISTRI DÀ IL VIA LIBERA ALLA
DEPENALIZZAZIONE NONOSTANTE L’OPPOSIZIONE DEL NUOVO CENTRODESTRA
ROMA.
Niente da fare definitivamente per la cancellazione del reato di clandestinità. Il
Guardasigilli Andrea Orlando garantisce che «non sarà un rinvio sine die anche perché la
Ue sollecita un intervento », ma oggi non se ne discuterà neppure nel Consiglio dei
ministri che, sul filo di lana (la delega scade dopodomani), darà il via libera alla
depenalizzazione di molti reati. Il preconsiglio dei tecnici che si è svolto ieri ha definito la
lista dei reati. Tra questi la spunta, nonostante l’opposizione di Ncd, la coltivazione della
cannabis, ma solo quella a scopo terapeutico, per cui sono già autorizzati laboratori e
aziende. Dall’arresto fino a un anno e l’ammenda da uno a 4 milioni in caso di abusi, si
scende a una sanzione amministrativa da 5 a 30mila euro. Il tecnici della Salute, su input
del ministro Lorenzin, fino all’ultimo hanno insistito per mettere ulteriori paletti e altre
insistenze non sono escluse. Nessuna depenalizzazione ovviamente per la coltivazione
individuale, che resta reato.
Via libera, almeno dai tecnici, all’eliminazione del reato di guida senza patente, già oggi
punito con un’ammenda fino a 9mila euro. Prevista solo una sanzione da 5 a 30mila euro
e la confisca del mezzo, ma se si tratta della prima volta. Per i recidivi resta l’arresto fino a
un anno. Non è escluso che oggi la questione venga ulteriormente approfondita, alla luce
del reato di omicidio stradale di prossima approvazione. Da una parte si depenalizza la
guida senza patente, dall’altra si prevede “l’ergastolo della patente” in caso di omicidio.
Sono in molti ad avere dubbi e a ritenere intempestivo l’intervento che potrebbe essere
armonizzato nel futuro reato di omicidio stradale.
Lungo l’elenco dei reati che diventano illeciti amministrativi, come il mancato versamento
delle ritenute Inps, se entro i 10mila euro. Multa da 5 a 10mila euro per gli atti osceni in
luogo pubblico, l’abuso della credulità popolare, il rifiuto di un aiuto in casi di tumulto, le
rappresentazioni teatrali e cinematografiche abusive, gli atti contrari alla pubblica decenza,
il noleggio di materiale coperto da copyright. Sanzioni da 5mila a 30 mila euro. Molti i reati
abrogati: ingiuria, sottrazione di cose comuni, appropriazione di oggetti smarriti, falsità in
scrittura privata. Per tutti basterà la richiesta al giudice civile del risarcimento del danno.
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DIRITTI CIVILI E LAICITA’
del 15/01/16, pag. 6
Unioni civili, Pd diviso sulle adozioni dei gay
“Lista nera” dei contrari
Gay.it mette in rete i volti dei senatori anti-Cirinnà Family day il 30.
Saviano: non vietate la felicità
TOMMASO CIRIACO
ROMA.
Ora il duello diventa duro per davvero. A due settimane dall’approdo al Senato del testo
sulle unioni civili, i cattolici del Pd bocciano sonoramente la stepchild adoption,
proponendo di sostituirla con una forma di affido rafforzato. Lorenzo Guerini, a nome della
segreteria, replica però che si procederà senza modifiche e che in Aula arriverà il testo
Cirinnà. In questo clima incandescente, il sito Gay.it pubblica nomi e foto dei parlamentari
contrari alle adozioni. «Squadrismo», rispondono i democratici.
L’offensiva dei “cattodem” è repentina. Con un documentoanticipato ieri da Repubblica 37 deputati stroncano la stepchild, chiedendo di «sostituirla con soluzioni normative che,
nel garantire la piena tutela ai diritti dei minori, evitino di legittimare o incentivare
comportamenti gravemente antigiuridici». Per essere ancora più chiari, i firmatari
avvertono: «Con il voto segreto la legge rischia il naufragio».
L’iniziativa si traduce in un emendamento presentato a Palazzo Madama a favore di un
«affidamento personale del minore». L’iniziativa non preoccupa comunque Monica
Cirinnà, prima firmataria del ddl: «L’Italia avrà nei tempi stabiliti una legge sulle unioni
civili».
A pochi giorni dalla stretta finale sul testo, intanto, si moltiplicano le prese di posizione.
Una è di Roberto Saviano: «Sulle stepchild adoption, per una volta, si decida di rispettare i
diritti civili e si metta da parte il compromesso politico di bassa lega». Non è giusto,
aggiunge, «impedire la felicità». Dall’altra parte della barricata si schierano invece gli
organizzatori del Family day. Sostenuti da sessanta parlamentari - per lo più di
centrodestra - scenderanno in piazza il 30 gennaio, con una marcia che si concluderà a
Roma a San Giovanni.
del 15/01/16, pag. 6
Ma Renzi scommette sul testo originale “Voti
liberi. E passerà”
GOFFREDO DE MARCHIS
IL RETROSCENA
ROMA. Portare a casa il bottino pieno: unioni civili e stepchild adoption. «Non credo a
nuove mediazioni anche se non voglio interferire con il lavoro parlamentare. Ci sono tutte
le garanzie possibili e immaginabili: libertà di coscienza e voto segreto », ripete Matteo
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Renzi ai suoi collaboratori. Perciò, al di là delle garanzie, il premier-segretario aggiungerà
l’indicazione del Pd e quella del gruppo del Senato su ogni passaggio della legge che va in
aula il 28. Non il parere del governo dunque, non la questione di fiducia, ma una
prospettiva che indichi chiaramente la scelta del Partito democratico, sì. Sui singoli articoli
e sugli emendamenti. Questa indicazione, è la scelta di Palazzo Chigi, sarà a sostegno del
disegno di legge Cirinnà anche nella parte contestata dell’adozione del figlio del partner.
Renzi non minimizza la tensioni interne al mondo dem. Gli appelli, i manifesti dei cattolici,
l’emendamento per l’affido rafforzato che 28 senatori Pd hanno reso pubblico ieri in attesa
di presentarlo entro il 22. «Ma non voglio neanche drammatizzare la discussione. E sono
convinto che alla fine troveremo i numeri per approvare il provvedimento ». Di questa
parte del problema si occuperà, sul filo di lana come al solito, il sottosegretario a Palazzo
Chigi, Luca Lotti, come ha fatto sull’Italicum e sulla riforma costituzionale. Con le sue
telefonate, con la presenza in aula nei momenti decisivi.
Se rimane la stepchild adoption, molti sono convinti che solo il voto dei 5stelle potrà
salvare il testo originario e l’adozione per le coppie gay. «È un regalo che non ci faranno
mai - dice la senatrice cattolica Rosa Maria Di Giorgi -. Figuriamoci. Il nostro attacco su
Quarto è molto forte. Non vedo le condizioni». Ma a Palazzo Chigi e a Largo del Nazareno
la pensano in modo diverso. Il gruppo grillino del Senato è molto più a “sinistra” del suo
omologo alla Camera. In più ha subito parecchi fuoriusciti e la maggior parte di loro lo ha
fatto da “sinistra” appunto più che da destra. È un altro modo per dire che la situazione è
certamente fluida nel Pd, ma lo è anche negli altri partiti. Comprese Forza Italia e Nuovo
centrodestra dove alcuni senatori, nel segreto, voteranno a favore dell’adozione.
Si arriverà quindi in aula senza relatore e senza il vincolo di una posizione del governo.
Ma anche senza nuove mediazioni, sebbene il dibattito interno continui e il comitato
interno abbia in programma una nuova riunione mercoledì. Lo stesso giorno si riunirà il
gruppo del Senato e farà il bis il 26, a due giorni dall’appuntamento con l’aula. «Conterà
soprattutto la gestione dell’aula», avverte il presidente dei senatori Pd Luigi Zanda.
Negando implicitamente che si arrivi, alla fine, con un emendamento concordato del Pd,
con un compromesso siglato da tutte le anime del partito. Il manifesto dei cattolici
promuove lo stralcio. I contrari del Senato ne hanno approfittato per presentare l’affido
rafforzato. Come dire: una mediazione tra il ddl Cirinnà e la posizione di chi vuole
cancellare l’adozione. «Noi speriamo che questo aiuti la trattativa», dice la Di Giorgi. Ma
l’affido non è certamente la soluzione che ha in testa Renzi. Ivan Scalfarotto parla di una
via d’uscita che «crea figli di serie A e di serie B, con un giudice che starà sempre sopra la
coppia a vigilare sul figlio».
Può essere invece meno impervio il cammino di modifiche alla stepchild minime, che
garantiscano meglio e più profon- damente il perseguimento della pratica vietata dell’utero
in affito. Lo dice lo stesso Alfredo Bazoli, promotore del “manifesto” cattolico. «Lavoriamo
su correzioni che escludano qualsiasi interpretazione estensiva dell’adozione ». Lo stralcio
è ormai stato archiviato, lo sanno anche i 37 deputati firmatari dell’appello. «Hanno
piantato la loro bandiera, ma adesso si può lavorare a una soluzione», dice Walter Verini.
Ma non a una mediazione, è la risposta da Palazzo Chigi. Renzi resta aperto all’ascolto e
al dialogo. Ma poi, anche se non in prima persona, parteciperà alla battaglia e guiderà le
scelte del Partito democratico attraverso le indicazioni del gruppo. Che saranno nette su
ogni articolo, pur lasciando la libertà di coscienza. E l’annunciato intervento di Lotti per
vigilare sulla maggioranza numerica anche in presenza di voti segreti, lascia capire che
per Renzi il passaggio rimane fondamentale. Soprattutto per evitare la catastrofe di un
fallimento dell’intera legge.
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del 15/01/16, pag. 9
Per non discriminare i transgender
Nel Regno Unito l’ipotesi di togliere
«maschio» e «femmina» dai documenti
DALLA NOSTRA INVIATA
LONDRA Se l’Italia ancora litiga per dare parità di diritti alle coppie di fatto, etero e non, la
Gran Bretagna guarda avanti, verso un futuro «gender free». Un comitato parlamentare
bipartisan, guidato dall’ex ministra conservatrice alla Cultura, Maria Miller (foto Reuters) ,
invita a rimuovere le parole «maschio» e «femmina» dai documenti ufficiali, quando la
distinzione non è necessaria, e a introdurre l’opzione «genere x» sui passaporti (come in
Australia). Il rapporto dell’ Equalities Committee definisce «problematico» l’obbligo di
indossare divise differenziate a scuola, pantaloni o gonna, e di frequentare classi separate
per le attività sportive. Sono oltre 30 le raccomandazioni, fra cui la revisione dei protocolli
del servizio sanitario nazionale. «I transgender soffrono oggi le stesse discriminazioni che
gay e lesbiche subivano decenni fa», ha concluso la Miller. Insomma, l’Italia ha ancora
decenni di strada da percorrere.
Sara Gandolfi
del 15/01/16, pag. 37
LE UNIONI CIVILI E IL GIOCO DELL’OCA
CHIARA SARACENO
DOPO un’intervista di mons. Galantino, che di fatto ha definito la posizione della gerarchia
cattolica sul progetto di legge sulle unioni dello stesso sesso, anche i parlamentari che si
identificano come cattolici dentro il Pd sono usciti allo scoperto con un documento
collettivo contro, non solo l’adozione del figlio del partner, ma ogni sospetto di somiglianza
tra unioni civili e matrimonio. Bontà loro, si dichiarano a favore dei diritti individuali, come
se questi non dovessero essere già garantiti dalle leggi vigenti. Ma si oppongono ai diritti
delle coppie e scaturenti dalle relazioni di coppia. Di più, dopo aver imposto modifiche al
progetto di legge originale, proprio per accentuare le differenze con il matrimonio, ora
dicono che, a seguito di quelle modifiche, il progetto di legge è pasticciato ed è meglio
riscriverlo daccapo, rimandandone la discussione alle ennesime calende greche. Poco o
nulla è cambiato rispetto a quando venne affossato il progetto di legge sui Dico, e con
esso il governo Prodi, nonostante oggi anche chi si oppone al progetto di legge Cirinnà
affermi che si deve fare qualcosa per le coppie dello stesso sesso.
Chi, ingenuamente, pensava che la Chiesa di papa Francesco, con la sua enfasi sulla
misericordia piuttosto che sulla condanna, non solo cambiasse la propria posizione in
materia, ma incoraggiasse i cattolici ad essere più rispettosi delle posizioni di chi non si
identifica con le posizioni della Chiesa, deve fare i conti con il principio di realtà. Il Sinodo
della famiglia ha ribadito la tradizionale posizione della Chiesa in argomento, sia pure con
il linguaggio del rispetto e della compassione. Appunto, misericordia e compassione non
sono in contraddizione con la ribadita pretesa di essere depositari del potere di definire il
lecito e l’illecito, l’umano e il disumano, non solo all’interno della comunità dei credenti, ma
erga omnes e nei confronti degli Stati che legiferano in argomento.
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È, ovviamente, un diritto della Chiesa affermarlo. Ma non sta, non dovrebbe, essere nel
potere di parlamentari e governanti imporre la visione del magistero cattolico nel
legiferare. So bene che ci sono anche alcuni non cattolici che la condividono, così come ci
sono molti cattolici che invece dissentono. Ma il fatto politico è che sia gli organizzatori dei
vari “family day”, delle sentinelle in piedi e consimili iniziative, sia ora i parlamentari pd che
hanno firmato il documento si identificano esplicitamente come cattolici. Il fatto che la
gerarchia cattolica, come esplicitato anche da mons. Galantino nell’intervista al Corriere
della Sera, non ritenga utile in questa fase un nuovo “family day” per contrastare
l’approvazione del progetto di legge Cirinnà non deve essere frainteso. Nella logica della
Chiesa di papa Francesco funziona meglio la moral suasion, la proclamata disponibilità al
dialogo, ove i valori “non negoziabili” non sono più gridati, ma dati per scontati, con
“misericordia” e “compassione” certo, ma sempre immodificabili.
I parlamentari pd che hanno firmato il documento hanno colto il messaggio e, dopo aver
lavorato a lungo sottotraccia per annacquare e stravolgere le intenzioni originarie del
progetto di legge, ora hanno lanciato la bomba, rimettendo in discussione l’intero impianto,
dando così un poderoso assist sia a chi, dentro la maggioranza, aveva esplicitato il proprio
dissenso, sia alle opposizioni. In discussione non è più solo l’adozione del figlio del/della
partner, quindi il diritto di questi bambini ad avere due e non solo un genitore, ma il
riconoscimento delle coppie dello stesso in quanto tali. Si torna alla prima casella del gioco
dell’oca. Forse è solo una mossa tattica, per costringere i sostenitori del progetto di legge
ad accettare un ulteriore compromesso sulla pelle e a scapito dei diritti dei bambini.
Comunque sia, si tratta di una mossa che non va sottovalutata per le sue implicazioni di
breve e lungo periodo e per la difficile laicità di questo nostro Paese, dove le grida contro il
fondamentalismo religioso altrui nascondono quello autoctono, di casa nostra.
Renzi, così decisionista da mettere la fiducia, troncando il dissenso interno alla sua
maggioranza, su materie non marginali come la riforma costituzionale, ha pensato di
uscire dall’impasse lasciando il voto alla libertà di coscienza. Non ho mai capito il ricorso
alla libertà di coscienza a corrente alternata, di fatto quando sono in gioco i diritti civili,
come se questi non fossero il bene fondativo della stessa cittadinanza in un Paese
democratico, quindi non a disposizione di una o un’altra ideologia o concezione valoriale.
In ogni caso, non credo che Renzi possa cavarsela così. È in gioco la sua credibilità.
del 15/01/16, pag. 7
Duecento italiani l’anno in fuga in Svizzera
per scegliere di morire
Pagano tariffe dai 10 ai 13mila euro. La maggior parte sono malati
oncologici. I volontari che li seguono: «Sono esuli del suicidio»
Giacomo Galeazzi
roma
Per porre fine alle loro sofferenze devono emigrare laddove è legale la morte volontaria
assistita. Si affidano ad una rete di associazioni che li accompagnano da casa all’hospice.
Nelle ultime tre settimane sono una cinquantina le persone che hanno contattato i Radicali
«in forma non anonima» per informarsi sui viaggi dell’eutanasia. Sono in eguale misura
uomini e donne, la maggior parte di loro sono malati oncologici, una parte minoritaria
soffre di malattie psichiche (quindi non possono essere aiutati nemmeno in Svizzera) e il
resto sono affetti da malattie degenerative, Sla e distrofia muscolare.
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L’ULTIMO VIAGGIO
Ogni anno 200 italiani arrivano in Svizzera per trovare la dolce morte: pagano dai 10 ai
13mila euro. Per ogni paziente che ottiene l’eutanasia almeno 50 non ci riescono. I
volontari che li accompagnano nell’ultimo viaggio difendono il diritto al fine vita e li
chiamano «esuli del suicidio». Non esistono cifre ufficiali sugli italiani che dall’Italia
arrivano in Svizzera: le cliniche non forniscono dati. Il 46% degli italiani che si suicidano
hanno la malattia come movente, stima l’Istat. Prima di Natale Marco Cappato si è
autodenunciato ai carabinieri di Roma: «Ho aiutato Dominique Velati ad andare in
Svizzera, le ha pagato il biglietto del treno». Ora l’esponente radicale aggiunge: «La parola
eutanasia non figura nel nostro codice penale, eppure la morte è buona, cioè meno
cattiva, solo se posso sceglierne le modalità». Quindi «testamento biologico, suicidio
assistito, sospensione delle terapie, sostanza letale somministrata dal medico su richiesta
reiterata del paziente, come accade in Olanda, Belgio, Lussemburgo».
Ma solo in Svizzera l’eutanasia non è riservata ai residenti, ossia a chi fa parte del sistema
sanitario nazionale. In clinica, con una pastiglia di un potente narcotico come il
pentobarbital sodico, in tre minuti ci si addormenta per non svegliarsi più. «E’ un fenomeno
sociale diffuso e in costante crescita- spiega Cappato-.Il potenziamento delle tecniche di
rianimazione rende sempre più spesso la morte un processo lungo e non un fatto
istantaneo. In tutti i sondaggi europei la maggioranza è favorevole alla legalizzazione
dell’eutanasia, persino tra cattolici e leghisti del Nordest».
Squarci di umanità dolente. La casistica è ampia. «Ci sono persone che vogliono morire
per solitudine e disperazione: vanno aiutate e curate da assistenti sociali e medici ma in
Italia è difficile intercettare questa richiesta di aiuto - racconta Cappato -. I pazienti la
avvertono come un potenziale atto criminale». Disagio sommerso, piaga invisibile. Il 40%
delle persone, dopo il colloquio con medici e psicologi, desiste dal suo proposito e torna a
casa. «Una milanese malata di Sla ha dato l’assenso per il viaggio in Svizzera - prosegue
Cappato -. Il marito è contrario e lei, del tutto immobilizzata, è di fatto sequestrata nella
sua scelta. In Svizzera può andare solo chi trova i soldi ed è trasportabile, quindi la
maggioranza dei malati terminali deve rinunciarvi».
CORSA CONTRO IL TEMPO
Dal momento in cui viene fatta la richiesta a quando dalla Svizzera arriva l’assenso
passano mesi tra invio di documenti, analisi, perizie. Troppo per quanti nel frattempo
diventano intrasportabili. «In Olanda, Belgio e Lussemburgo il medico somministra la
sostanza letale, in Svizzera deve essere il paziente ad assumerla, anche attraverso un
marchingegno». Ma la Svizzera è l’unico paese in cui dal 1942 sono ammessi al suicidio
assistito anche stranieri provenienti da paesi in cui l’eutanasia è illegale. Il primo contatto è
in Rete, la stanza di una clinica è l’ultima fermata.
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DONNE E DIRITTI
del 15/01/16, pag. 15
Nella superpotenza si muore di aborto
di Daniela Ranieri
Task force, Dream Team, Jobs Act, Buona Scuola, Bonus mamme, #lavoltabuona… Non
sentite la croccantezza, la luccicanza da Nord Europa, che emana dalla neolingua della
“grande potenza culturale”? La definizione ovviamente è di Renzi, che la ripete
periodicamente anche nella variante “super potenza culturale”, come all’Expo, e a
sostegno cita Leonardo e Michelangelo, non a caso suoi conterranei.
Deve essere dunque per un bug, per un contatto elettrico, se “nell’Italia che riparte”
succedono cose turche: lo slogan “per ogni euro speso in sicurezza un euro investito in
cultura” crolla già davanti ai tagli alla Sanità pubblica, che è la cartina di tornasole del
grado di progresso e di civiltà di un Paese. Chiunque non possa permettersi
un’assicurazione medica o cliniche private sa bene che curarsi è un inferno, specie al
centro-sud, mentre non riflettiamo abbastanza sul fatto che il 70 per cento dei medici (7 su
10) si rifiutano di praticare l’aborto perché obiettori di coscienza (ma in Lazio, Campania e
provincia di Bolzano sono 9 su 10).
Tutto sommato ci sembra normale che, invece che nelle sagrestie, questi scienziati –
profumatamente pagati da noi, e spesso, come si sa, altrettanto profumati evasori –
esercitino i loro scrupoli di coscienza presso strutture pubbliche, dove ci rechiamo se
dobbiamo abortire e non ci va di usare un ferro da maglia.
Peccato. Anche perché questo fa vacillare l’altra rassicurante narrazione, quella secondo
cui noi siamo l’avamposto della democrazia e dei diritti umani, del welfare e delle lotte
femministe, mentre l’islam bussa alle nostre porte col suo bagaglio di oscurantismo e
misoginia, composto com’è da “tribù” dedite a “lotte per i pozzi, abigeato e ratti di
femmine” (è la convinzione non di Salvini, ma del direttore de La Stampa Maurizio
Molinari). Se ogni clandestino è un potenziale stupratore delle “nostre donne”, come ha
osato dire Bruno Vespa presentando una puntata della sua trasmissione dedicata alle
violenze di Colonia, ecco che la bilancia degli investimenti, nella percezione comune, si
sposta dalla cultura alla sicurezza. È per questo che Renzi ha deciso di non abolire il reato
di clandestinità, anche se “non serve a niente”: per solleticare l’adipe dell’opinione
pubblica.
Intanto, da capo di una grande potenza culturale, si reca in Arabia Saudita a mangiare
datteri coi torturatori, assassini, lapidatori di donne; ma, mentre tutti dormono e i cammelli
riposano, la sua corte di alti dignitari si reca nottetempo in salone per sgraffignare i Rolex
donati dai sauditi, che li beccano, come in peplum con Franco e Ciccio.
Nel frattempo si sente odorino di progresso. È il Family Day. A fine mese, il mondo che ha
a cuore il matrimonio, i bambini, la vita, si riunirà a Roma in difesa della famiglia
tradizionale contro la legge sulle unioni civili, che peraltro ha un piede nella fossa. Fossimo
in loro, staremmo sereni (non nel senso renziano) perché nella maggioranza tira una
brutta aria, e il provvedimento, probabilmente, finirà tra le scartoffie in cui si reincarnano i
buoni propositi del governo. Dipende dai 30 deputati cattolici del Pd che hanno promesso
guerra al ddl, anch’esso incidentalmente del Pd. Renzi non molla: strano, per uno che nel
2007 pensava che la legge per le coppie di fatto fosse una “battaglia mediatica” e
partecipava allegramente al Family Day dicendo: “Sbaglia chi non ne coglie la portata”.
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La portata è chiara: sentinelle in piedi, anti-abortisti, reazionari, cattolici di ritorno, omofobi,
sono solo il braccio armato di una cultura che opera con perfetta efficienza in background
e condiziona la vita di tutti, in particolare delle donne, intervenendo sulla struttura della
società, sui suoi servizi essenziali, sulla sfera dei delicati rapporti tra vita umana e politica.
Al di là del sapore medievale delle quattro morti per parto avvenute tutte al Nord e della
morte durante un aborto di una diciannovenne in un ospedale campano (dove comunque il
ministro Lorenzin, Ncd, ha inviato una task force e quattro medici sono indagati), il tempo
che viviamo è un permanente Family Day, una specie di giorno della marmotta retrivo e
plumbeo che dura 365 giorni l’anno, e che allunga le sue mani su ogni aspetto “sensibile”
della nostra vita, peraltro col nostro consenso (ne abbiamo avuto un saggio nel 2005,
quando sotto l’artiglieria pesante del Papa e dei preti tutti i referendum proposti dai
Radicali non raggiunsero il quorum e fu confermato il divieto di fecondazione eterologa e
di diagnosi pre-impianto).
La realtà svolge la funzione che il terreno ha per le bolle di sapone: la narrazione, sia
quella ottimistica e spinterogena del renzismo, sia quella del razzismo neocolonialista da
tinello, svapora a contatto col mondo reale. Ma mi sa tanto che non basta qualche slide
per gettarci nel futuro, né paragonarci all’Isis per essere una superpotenza culturale.
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BENI COMUNI/AMBIENTE
del 15/01/16, pag. 2
L’Abruzzo (del Pd) rompe il fronte
referendario antitrivelle
No Ombrina. Il governatore renziano Luciano D'Alfonso si tira indietro.
«Il Consiglio non è stato interpellato» Il coordinamento nazionale No
Triv chiede le dimissioni del presidente della Regione
Serena Giannico
L’Abruzzo abbandona il referendum antitrivelle. E lo fa con una decisione della Giunta
regionale che, in gran segreto, ingrana la marcia indietro, ignorando il mandato del
Consiglio regionale che, invece, compatto, il 24 settembre 2015 aveva scelto di portare
avanti la consultazione popolare insieme ad altre nove Regioni (Basilicata, Marche, Puglia,
Sardegna, Veneto, Calabria, Liguria, Campania e Molise). Voltafaccia del presidente
Luciano D’Alfonso (Pd) che in questa maniera lancia un chiaro segnale di fedeltà al
premier Matteo Renzi che si sta muovendo su ogni fronte per evitare il referendum
antipetrolio.
D’Alfonso baratta la cancellazione del progetto «Ombrina Mare» e i soldi del Masterplan
(753 milioni) con l’abbandono del referendum? Sta di fatto che la Regione Abruzzo, senza
farlo sapere troppo in giro, ha revocato l’incarico all’avvocato Stelio Mangiameli per i
quesiti referendari antitrivelle che il 19 gennaio saranno all’attenzione della Corte
Costituzionale.
«Si tratta di un atto gravissimo ed irresponsabile, dell’ennesimo colpo inferto alla
democrazia nel nostro Paese», fa presente il Coordinamento nazionale No Triv. «Non solo
il referendum non è più da tempo nella disponibilità di nessuno se non della Corte
Costituzionale – aggiungono i portavoci dei No Triv — ma, volendosi spingere fino ad
infrangere le regole, avrebbe dovuto essere il Consiglio regionale, che rappresenta tutti gli
abruzzesi, a discutere e decidere se deliberare su questo drastico cambio di rotta. Il
presidente D’Alfonso e la giunta si dimettano immediatamente!!!».
«L’Abruzzo ha rotto di fatto il fronte delle Regioni che si erano coalizzate contro il dilagare
delle trivellazioni in mare — commenta Maurizio Acerbo, di Rifondazione comunista -. La
cosa più grave è che lo ha fatto non solo nascondendolo alla cittadinanza ma persino in
maniera illegittima visto che il Consiglio regionale è all’oscuro di tutto. Da quel che mi
risulta l’Abruzzo ha deciso non solo di non affiancare le altre Regioni nel conflitto di
attribuzione davanti alla Corte Costituzionale, ma persino di ritirarsi definitivamente dalla
compagine referendaria. Lo avranno deciso D’Alfonso e il suo esecutivo per ingraziarsi
Renzi ma va sottolineato che non era nelle loro facoltà in quanto queste decisioni
spettavano al Consiglio. Tutto ciò — prosegue l’ex consigliere regionale ed ex
parlamentare, Acerbo — dà la misura della senso dalfonsiano delle istituzioni ché neanche
la conferenza dei capigruppo è stata sentita. Non credo che l’avvocatura regionale o il
delegato Lucrezio Paolini in questa materia possano legittimamente assumere posizioni
senza mandato del Consiglio come invece sembra sia accaduto».
«Può il presidente surrogare il Consiglio regionale, che aveva deliberato in tal senso? O in
un delirio di onnipotenza crede di poter sostituire chicchessìa?»: lo chiede il senatore
Fabrizio Di Stefano (FI), che aggiunge: «Una cosa è certa: questa scelta non rappresenta
la volontà degli abruzzesi e sicuramente dei consiglieri regionali di Forza Italia, che si
faranno sentire per contrastare questa iniziativa che di certo nessuno vuole. Non si dica
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che la Legge di stabilità ha fermato “Ombrina” — aggiunge Di Stefano -. “Ombrina” forse è
stata bloccata, ma altre trivellazioni, anche più devastanti, possono ancora essere
autorizzate. Sommiamo la sospensione dell’autorizzazione ad “Ombrina”, l’autorizzazione
alla società Petroceltic in Puglia e questa iniziativa: sono a mio giudizio indizi che ci fanno
preoccupare».
del 15/01/16, pag. 43
Dalle migrazioni forzate alle armi di distruzione di massa, il World
Economic Forum stila la classifica dei pericoli globali
Il pianeta
Più caldo, più muri, più sete i rischi per il
mondo che verrà
ENRICO FRANCESCHINI
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
LONDRA
ALMENO dieci piaghe minacciano il mondo, ma la più terribile è quella che pensiamo o
almeno speriamo di avere risolto: il cambiamento climatico. O meglio: l’incapacità di
governi e istituzioni internazionali di prendere le misure necessarie a fermare l’effetto
serra. Nonostante l’accordo di Parigi, firmato l’anno scorso dalle potenze mondiali, il clima
rimane per così dire il pericolo pubblico numero uno per il nostro pianeta secondo il Global
Risks Report, il rapporto annuale stilato da 750 esperti e leader del World Economic
Forum, l’associazione che si riunisce ogni anno a Davos per discutere i problemi del
globo.
Il rapporto 2016 mette dunque la insufficiente o fallimentare risposta al cambiamento
climatico in cima alla lista dei rischi all’orizzonte, seguita nell’ordine da altre minacce: le
armi di distruzione di massa, la crisi delle risorse idriche, la migrazione involontaria su
larga scala, gravi sbalzi nei prezzi dei prodotti energetici (come una nuova crisi
petrolifera), una nuova ondata d’instabilità dei mercati finanziari, attacchi cibernetici alla
rete informatica mondiale, un aumento di disparità economica e disoccupazione, catastrofi
naturali ed epidemie virali (come l’Ebola). Riassumendo, dal titolo del dossier: più muri, più
caldo, meno acqua. Questo è lo stato del mondo nell’anno appena cominciato.
La lista non finisce qui, ma continua con il collasso di interi Paesi (è il caso della Siria), i
conflitti inter-statali, le crisi di governo. Dalla graduatoria manca però il terrorismo in
quanto tale: l’incubo che domina spesso le prime pagine dei giornali e i notiziari tv non è
giudicato dal rapporto un rischio “globale”, probabilmente perché il sedicente Califfato oggi
come al Qaeda ieri non appaiono in grado, da soli, di stravolgere l’ordine mondiale.
Possono temporaneamente accecarlo, confonderlo, spaventarlo, ma non ne prenderanno
il posto, né ambiscono a farlo. Perciò il terrore non figura nella classifica dei rischi globali
di per sé, ma solo come complice o “grilletto” di altri pericoli: quello delle armi di
distruzione di massa, per esempio, nella temuta ipotesi di un attentato biochimico o
nucleare, o quello di un attacco informatico che possa far saltare i sistemi militari, civili o
finanziari. D’altra parte il rapporto segnala un nuovo, preoccupante sviluppo proprio
nell’interconnessione fra un rischio e l’altro: è evidente che il cambiamento climatico può
contribuire a scatenare l’immigrazione su larga scala, spingendo la popolazione a fuggire
da una regione per cercare sollievo in un’altra. E lo stesso collegamento si può fare tra la
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scarsità delle risorse acquifere, un’epidemia, una catastrofe naturale, un collasso
finanziario. Viviamo in un mondo sempre più globalizzato e inevitabilmente anche i rischi si
sono globalizzati.
È la prima volta da quando esiste il Global Risks Report che il cambiamento climatico
viene messo in testa all’elenco dei problemi, sebbene la valutazione sia diversa nel breve,
medio o lungo periodo: per i prossimi 18 mesi il primo rischio risulta la migrazione
involontaria, quella dei popoli costretti a lasciare il proprio Paese da guerra, miserie,
instabilità politica; per i prossimi dieci anni il primo rischio è la crisi dell’acqua. «I rischi
globali vanno mitigati, ma individuarli serve anche ad adattarvisi», dice Margareta
Drzeniek- Hanouz, uno degli autori del rapporto, basato su un sondaggio fra i 750 esperti.
«Avvenimenti come la crisi dei profughi in Europa e gli attacchi terroristici hanno
aumentato l’instabilità politica globale al livello più alto dai tempi della Guerra fredda»,
osserva John Drzik, presidente del settore Global Risk della Marsh, la società che
sponsorizza l’iniziativa. Un giudizio condiviso dall’Economist nel numero annuale “The
World in 2016”, in edicola in questi giorni: un mondo globalizzato è alle prese con minacce
crescenti e troppo poco viene fatto per respingerle, scrive Zanny Minton Beddoes, la
direttrice del settimanale britannico.
del 15/01/16, pag. 21
Le antenne del Muos fanno male? Spaventa
anche il test, tutto sospeso
Il prefetto di Caltanissetta: i tecnici ignorano se attivare per poche ore il
Centro di telecomunicazioni Usa possa creare danni alla salute
Fabio Albanese
catania
Il Muos fa male? Per saperlo bisogna fare dei test, ma siccome nessuno sa dire se,
facendoli, si danneggia la salute della popolazione, per il momento sono sospesi. La
vicenda del Muos, il mega impianto per le telecomunicazioni voluto dal governo Usa e
sorto alla periferia di Niscemi, in Sicilia, si arricchisce di un nuovo, paradossale capitolo.
I SIGILLI
Un passo indietro. La procura di Caltagirone un anno fa ha messo i sigilli alle tre grandi
parabole del Muos all’interno di una struttura militare che ospita già 46 antenne di
trasmissione, sempre di proprietà Usa. Motivo: le autorizzazioni per la costruzione del
Muos sarebbero illegittime. Lo ha ribadito pure il Tar cui si erano rivolti i No Muos e il
comune di Niscemi. Il governo italiano, che nel 2009 aveva dato l’ok alla costruzione, ha
quindi fatto ricorso al Consiglio di giustizia amministrativa (Cga), che in Sicilia sostituisce il
Consiglio di Stato.
Il Cga si è rivolto a una commissione di verificatori formata da 5 tecnici (3 di nomina
ministeriale) per sapere se le emissioni elettromagnetiche del Muos - e delle 46 antenne sono davvero nocive per la popolazione della Sicilia orientale e dannose per i vicini
aeroporti di Catania, Comiso e Sigonella. Il 3 febbraio il Cga dovrà decidere e per questo
attende per la fine di gennaio la relazione dei tecnici. I quali avrebbero dovuto fare le
rilevazioni ieri e l’altroieri. Ma loro stessi non hanno saputo dire alla prefettura di
Caltanissetta se, in effetti, mettere le tre parabole del Muos e le 46 antenne alla massima
potenza, anche solo per poche ore, avrebbe provocato dei danni.
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Lunedì scorso, 48 ore prima dei test, la presidente del collegio di verificatori, Maria
Sabrina Sarto, docente alla Sapienza, ha scritto al dirigente della Digos di Caltanissetta
informandolo dell’accensione del Muos per il 13 e 14 gennaio, «al fine di consentire
l’implementazione, da parte delle amministrazioni territoriali competenti, di tutte le misure
precauzionali che si possono ritenere necessarie». Si, ma quali sono queste misure?
Il prefetto di Caltanissetta Maria Teresa Cucinotta convoca per il pomeriggio dello stesso
lunedì una riunione tecnica con rappresentanti di Asp, Arpa, Vigili del fuoco e comune di
Niscemi «nel corso della quale - scrive l’indomani il prefetto al Cga di Palermo - è emersa
l’impossibilità di indicare alcuna misura precauzionale da adottare, in assenza di ogni
elemento di conoscenza e valutazione in proposito». Cita anche la conversazione con il
capo dei verificatori: «Il medesimo presidente (Sarto, ndr) ha assicurato per le vie brevi
che avrebbe approfondito la questione con gli altri componenti del collegio e, a seguito di
un programmato incontro con le autorità statunitensi teso ad acquisire ulteriori dettagli sul
funzionamento del citato sistema, avrebbe proposto l’accensione dei sistemi radianti alla
minima potenza».
Cosa che, però, non avrebbe fornito le giuste indicazioni. Risultato, non se ne fa nulla, i
test sono rinviati. «L’unica misura che potrei prendere è quella di evacuare il paese - dice il
sindaco di Niscemi, Francesco La Rosa - La verità è che nessuno qui vuole il Muos».
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CULTURA E SPETTACOLO
del 15/01/16, pag. 52
Annunciate ieri mattina all’alba le nomination I premi saranno
consegnati il 28 febbraio a Los Angeles
Oscar selvaggio
“Revenant” e “Mad Max” verso la statuetta
SILVIA BIZIO
LOS ANGELES
LA musica “italiana” va forte agli Oscar. Fresco della vittoria del Golden Globe per la
colonna sonora di The Hateful Eight, Ennio Morricone conquista la sua sesta candidatura
all’Oscar (tuttora mai vinto: l’unica statuetta è quella alla carriera) con il film ambientato
dopo la guerra civile americana di Quentin Tarantino, un grande ammiratore del Maestro
la cui musica aveva usato in cinque suoi film del passato. Il regista tuttavia non ha avuto i
riconoscimenti in cui sperava: oltre alla colonna sonora The Hateful Eight ha conquistato
solo candidature per Jennifer Jason Leigh come miglior attrice non protagonista e per la
direzione della fotografia di Robert Richardson. Nella sezione “canzone originale” si
candida anche Simple Song # 3 di David Lang nel film di Paolo Sorrentino, Youth. Niente
da fare per Giulio Ricciarelli, regista italiano naturalizzato tedesco candidato dalla
Germania per Il labirinto del silenzio come miglior film straniero: entrato nella shortlist, ora
è fuori dalle nomination.
Sorprese e omissioni in queste candidature all’Oscar annunciate alle 5.30 del mattino dai
registi Ang Lee e Guillermo del Toro: Revenant- Redivivo, il film di Iñárritu con Leonardo
DiCaprio che sfida il gelo e un orso per vendicarsi di chi gli ha ucciso il figlio, è in testa con
12 candidature, compresa quella di miglior attore per DiCaprio e di non protagonista per
Tom Hardy, avvicinandosi ai due film della storia con più candidature (14): Eva contro Eva
e Titanic. Lo segue da vicino il film di George Miller Mad Max: Fury Road con 10
candidature. Entrambi entrano nella rosa di otto miglior film con Il ponte delle spie di
Steven Spielberg, La grande scommessa di Adam McKay, Sopravvissuto -The martian di
Ridley Scott, Il caso Spotlight di Tom MacCarthy, Brooklyn di John Crowley e Room di
Lenny Abrahamson. Ridley Scott, la cui candidatura come regista era data per scontata, è
stato escluso dalla lista (in cui entrano invece McCarthy, Abrahamson e McKay).
Per il secondo anno consecutivo i venti attori candidati - protagonisti e non - sono tutti
bianchi, cosa per cui il presentatore dell’Oscar, Chris Rock, darà senz’altro filo da torcere
ai membri dell’Academy il 28 febbraio. Candidati che includono DiCaprio alla sua quinta
candidatura, accanto a Bryan Cranston ( L’ultima parola- La vera storia di Dalton Trumbo),
Eddie Redmayne ( The Danish Girl), Matt Damon ( Sopravvissuto - The Martian) e Michael
Fassbender ( Steve Jobs), mentre le attrici protagoniste sono Brie Larson ( Room),
Charlotte Rampling ( 45 anni), Cate Blanchett ( Carol), Jennifer Lawrence ( Joy) e Saoirse
Ronan ( Brooklyn). Sorpresa per l’esclusione di Helen Mirren e Jane Fonda come migliori
non protagoniste (per Trumbo e per Youth).
Le attrici non protagoniste sono Rooney Mara ( Carol), Alicia Vikander ( The Danish Girl),
Kate Winslet (che ha appena vinto il Golden Globe per lo stesso ruolo in Steve Jobs) e
Rachel McAdams per Il caso Spotlight. Candidato come non protagonista il favorito
Sylvester Stallone per Creed.
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Una forte presenza di candidature per Star Wars: Il risveglio della Forza avrebbe forse
aiutato l’audience dello show, che negli ultimi anni ha segnato un calo fra gli spettatori, ma
il film di J.J. Abrahms ha conquistato sono 5 nomination, tutte tecniche.
del 15/01/16, pag. 12
L’alba degli Oscar ha un gusto «estremo»
Cinema. Annunciati ieri i candidati alla statuetta. «The Revenant» di
Iñarritu si impone come il favorito con 12 nomination seguito da «Mad
Max:Fury Road» di Miller
Luca Celada
LOS ANGELES
I candidati all’Oscar vengono resi noti ogni anno alle 5.27 di mattina per accomodare le
dirette dei morning show sulla costa Est. Sin da ben prima dell’alba quindi la sala grande
nell’austero edificio dell’Academy su Wilshire Boulevard ha cominciato a riempirsi di
rappresentanti degli uffici stampa accorsi sperando di celebrare candidature dei propri
assistiti, e centinaia di giornalisti e corrispondenti tv incipriati sotto i fari delle telecamere.
All’ora prestabilita sul palco della sala Samuel Goldwyn sono usciti Ang Lee e Guillermo
del Toro per annunciare il primo gruppo di candidati. I due registi erano incaricati di
annunciare le categorie minori ma già da queste un titolo ha cominciato a ricorrere con più
frequenza. Alla fine della mattinata The Revenant il «north-western» di Alejandro
Gonzalez Iñárritu aveva collezionato 12 candidature imponendosi come favorito di questa
88esima edizione degli Academy Awards. Lo seguono nella classifica delle nomination:
Mad Max: Fury Road (10), Sopravvissuto –The Martian (8), Spotlight, Carl e Ponte delle
Spie (6) e La Grande Scommessa (5).
È un quadro che conferma molteplici legittimi pretendenti ma allo stesso tempo indica un
favorito nel film «estremo» di Iñárritu già vittorioso domenica scorsa ai Golden Globes. Le
nomination confermano alcuni pronostici e mettono fine invece a molte supposizioni.
Non c’è stato l’effetto Star Wars che alcuni prevedevano. Qualche settimana fa la
Broadcast Film Critics Association, alla luce del fenomeno globale, aveva modificato
retroattivamente la propria classifica per inserire il film di JJ Abrams uscito a fine anno
senza proiezioni stampa. Ma il successo della Minaccia Fantasma non è bastato a
impressionare gli elettori dell’Academy che pur avendo a disposizione dieci posizioni
hanno nominato quest’anno solo otto film nella categoria principale; a Guerre Stellari sono
andati una manciata di riconoscimenti «tecnici» e quello per le musiche di John Williams.
In quella categoria il compositore amatissimo a Hollywood — si contenderà l’Oscar con
Ennio Morricone che stacca una nomination fresco di Golden Globe per Hateful Eight.
Williams, Jennifer Jason Leigh (attrice non protagonista) e la fotografia 70 mm. di Robert
Richardson sono le uniche nomination nella Colonna di Tarantino: risultato deludente per il
regista che pur beneficiando del poderoso ingranaggio promozionale Weinstein, sconta un
diffuso astio nei suoi confronti e alcune polemiche con poteri forti: la polizia di New York e
LA che lo aveva attaccato dopo la sua partecipazione a una protesta contro gli abusi
violenti, e la Disney che gli aveva sottratto il Cinerama Dome imponendo la proiezione di
Guerre Stellari al posto di Hateful Eight nella principale sala 70 mm. di Los Angeles.
La consacrazione di Revenant potrebbe significare invece, il primo, a lungo anelato, Oscar
per Leonardo di Caprio. Uno che invece la prima statuetta non la vincerà nemmeno
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quest’anno è Ridley Scott, rimasto escluso proprio dalla categoria – quella dei registi – in
cui molti lo davano addirittura per favorito.
In rappresentanza dei registi «di genere» c’è invece George Miller. Dopo una gestazione
ventennale e sei mesi di riprese nel deserto della Namibia le dieci nomination per il suo
reboot di Mad Max sono un risultato abbastanza straordinario. Con lui e Iñárritu fra i registi
ci sono Lenny Abrahamson il cui bel Room su una donna e suo figlio prigionieri di un
maniaco ha una favorita anche nella protagonista Brie Larson, il rigoroso Tom McCarthy di
Spotlight (presentato a Venezia) e Adam McKay, autore de La Grande Scommessa.
Quest’ultimo è certo il candidato più politico dell’anno, un adattamento esplosivo di Big
Short, il libro di Michael Lewis sulla mastodontica e impunita frode subprime di Wall Street
– storia vera e parabola apocalittica sulla finanza assurta a filosofia e politica del nostro
tempo. Le cinque candidature al film sono un premio importante per un regista
situazionista e dissacrante, «immigrato clandestino» dalla commedia demenziale
all’accademia di Hollywood.
Fra gli stranieri il franco-turco Mustang, il colombiano Abrazo de la Serpiente e
l’ungherese Il figlio di Saul. È quest’ultima opera prima di László Nemes – un notevole,
quasi insostenibile sguardo in soggettiva sulla Shoah – a presentarsi come film da battere
nella categoria.
Meritata la nomination di Charlotte Rampling fra le attrici per 45, quella di Anomalisa,
inquietante animazione stop motion di Charlie Kaufman che era stato fra i migliori film di
Venezia. Ovazione per Sylvester Stallone candidato come non protagonista nei panni di
un Rocky invecchiato e vulnerabile in Creed del giovane regista afro Americano Ryan
Coogler che avrebbe meritato un pò più di attenzione.
E a questo proposito segnaliamo la principale polemica che circonda queste nomination:
fra le candidature annunciate dalla presidente dell’Academy Cheryl Boone Isaacs, lei
stessa african American, non vi è nessun nero. Hollywood cioè, in un anno caratterizzato
dalla rinascita di un movimento di protesta nero con black lives matter, di un film come
Straight Out of Compton, che al di là del riconoscimento critico ha avuto uno straordinario
successo commerciale, nell’anno di Samuel Jackson in Hateful Eight e di Coogler
appunto, non è riuscita a riconoscere neanche un attore o un autore di colore. Chissà se il
28 febbraio ne parlerà durante la cerimonia Chris Rock, il comico black assunto di
proposito come conduttore dello show.
del 15/01/16, pag. 13
La poesia di un ragazzo strafottente
Lutti. Scompare a ottant’anni l'attore Franco Citti, icona di Pasolini,
indimenticabile «Accattone». Presenza inquieta e fuori dal tempo, era
diventato il volto del sottoproletariato nel nostro cinema. Regista lui
stesso con «Casotto», protagonista una giovane Jodie Foster
Silvana Silvestri
L’ultima volta che abbiamo visto Franco Citti è stato qualche anno fa durante un incontro
molto speciale voluto dal fratello Sergio per informare la stampa delle prove che avrebbero
cambiato il corso delle indagini sull’assassinio di Pasolini. Loro sapevano. Franco Citti
seguiva i discorsi, ascoltava le domande e gli brillavano gli occhi ai tanti apprezzamenti
che venivano fatti al suo lavoro, non senza lampi di ironia, ma non poteva parlare, colpito
da un ictus. Arriva adesso la notizia divulgata da Ninetto Davoli della sua scomparsa
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avvenuta nella sua abitazione all’età di ottanta anni, malato da tempo, anche se neanche
un mese fa aveva partecipato a una partita di calcio nell’ambito delle celebrazioni per il
quarantennale della morte dello scrittore.
Erano stati loro a far scoprire a Pasolini il calcio di strada, la libertà di togliersi la cravatta
da professorino, diceva. Ed era stato Pasolini a «scoprirlo» negli anni cinquanta, quando
ancora scriveva le poesie in friulano e iniziava a pensare a Ragazzi di vita. Glielo presentò
il fratello Sergio («annamose a magnà na pizza») lui tutto sporco di calce, racconta,
perché faceva il muratore con il padre. Avrebbe rappresentato la visione concentrata di un
mondo, era l’accattone, il diavolo, la preda del destino tragico (dalle pieghe del suo volto e
del suo animo fiorisce un Edipo re che non si dimentica), una presenza su cui il poeta
poteva a lungo immaginare, elaborare concetti e immaginare storie, a dispetto della sua
semplicità. Da una parte l’angelico Ninetto e dall’altra l’oscuro Franco, da difendere dal
giudizio dei borghesi seduti di fronte alla tv, come raccontava Pasolini a Carlo Di Carlo:
«per loro è facile condannare chi perde ore e ore del suo giorno e della sua notte a
combattere contro la dolce violenza della tentazione».
Quando Pasolini esordì nel cinema divenne il protagonista di Accattone. «Lui e Accattone
sono la stessa persona» diceva Pasolini e sarebbero stati interessanti i commenti di
Franco nel sentirlo parlare di estetica di morte, lo definiva «sto cavolo di accattone», ma
anche «un bel film sincero, girato con tutti gli amici», però poi meditava sul fatto che
avrebbe fatto meglio a fare il muratore, troppa gente falsa nel mondo del cinema.
Da quel film in poi rappresentò nel nostro cinema il volto del sottoproletario di tutte le
epoche, senza bisogno di recitare ma, si raccomandava il regista, bastava che rimanesse
se stesso. Diventò Carmine che torna a sfruttare Mamma Roma, il cannibale di Porcile
(1969), Ciappelletto de Il Decameron (1971), un diavolo dei Racconti di Canterbury (1972),
un altro demone ma orientale ne Il Fiore delle Mille e una notte (1974).
Come succedeva nel cinema del neorealismo, aveva ricevuto il marchio del suo regista.
Pasolini, diceva, non gradiva che accettasse ruoli in Francia (a parte Marcel Carné di
Dietro la facciata del 1963) o peggio ancora negli Usa e guai a imparare l’inglese che
avrebbe potuto corromperlo (anche se poi partecipò al Padrino nel 1972 e nel 1990)).
Invece la sua presenza nel cinema italiano è stata piuttosto intensa, inquieto e strafottente
personaggio nei film del fratello Sergio che lo riportavano alle location e frequentazioni
delle sue origini: Ostia, Storie scellerate, Casotto, Il Minestrone, Magi randagi, e Cartoni
animati a cui teneva molto. In teatro nella Salomé di Carmelo Bene (nel ’63) in
Requiescant di Lizzani (’67) Seduto alla sua destra di Zurlini (1968), Colpito da improvviso
benessere di Giraldi (1976), Todo modo di Elio Petri (1976), La Luna di Bertolucci (1979),
Il segreto di Maselli (1990).
In «Vita di un ragazzo di vita» scritto con Claudio Valentini parla di Pasolini come di «un
caso di purezza, impossibile tradirlo». Ma lui, dice, si è autotradito, ha parlato troppo, dava
troppa amicizia («Quanto gli piaceva parlare, non sarebbe arrivato vivo») e sottolineava:
«Abbiamo fatto le indagini io e mio fratello Sergio, il regista, nelle borgate. È escluso che
sia stato Pelosi. Nessuno parlò perché venivano minacciati di morte».
del 15/01/16, pag. 48
Quattrocento anni fa moriva il Bardo. Che è entrato nella nostra vita
descrivendoci davvero
Anche chi non lo ha mai letto potrà dirsi amletico. E quale donna non si
è mai sentita presa in un gioco come Ofelia?
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Shakespeare
Perché parliamo tutti come il poeta di
Stratford upon Avon
NADIA FUSINI
Se Shakespeare è davvero quel tale William battezzato a Stratford upon Avon nelle
Midlands il 26 aprile del 1564, la sua morte non desta incertezze: morì all’età di 52 anni
sempre a Stratford upon Avon, il 23 aprile del 1616. Sì che quest’anno, a distanza di
quattro secoli, dovunque nel mondo si celebrerà la sua scomparsa. E già dall’inizio di
questo fatidico 2016, per lo più bisestile, in tutta Europa fervono le iniziative per ricordare
l’anonimo, elusivo, sfuggente scrittore di teatro e poeta, che risponde a quel nome, della
cui vita privata non sappiamo poi molto, ma che identifichiamo con un corpus di opere,
fondamentali alla nostra identità. Opere in cui, ricordando il settecentesco
Samuel Johnson, un altro lettore forte di Shakespeare, nostro contemporaneo, e cioè
Harold Bloom, riconosce l’invenzione della nostra stessa idea di umanità. Cioè a dire,
siamo quel che siamo perché chiunque si nasconda dietro il nome di Shakespeare in molti
modi ci è padre, e dalla lontananza di una paternità tutta spirituale e immaginaria ci offre
una galleria di tipi umani che sono nel tempo diventati icone del nostro mondo
immaginario. E della nostra coscienza. E cioè, caratteri che partecipano della nostra vita e
ricorrono nei nostri discorsi perché riconosciamo in loro emozioni che sono le nostre,
diverse, eppure medesime, come quando diciamo non fare l’amletico a qualcuno che
dubita, o non sarai mica geloso come Otello, di qualcuno che sospetta della fedeltà della
sua donna, o sei più cattivo di Iago di qualcuno la cui malignità non riusciamo a spiegarci...
In realtà, Shakespeare non è mai stato “classico”, piuttosto sempre “popolare”. Non è
l’accademia ad avere “salvato” Shakespeare, né con le spuntate armi della pedanteria
saccente si raggiunge la bellezza dell’invenzione shakespeariana. È piuttosto attraverso
media quali il teatro e il cinema, che Shakespeare è entrato nella nostra vita. Anche chi
non ha letto Romeo e Giulietta, può invocare Romeo come proprio fratello, nel caso un
destino avverso lo divida dalla propria amata. Anche chi non ha letto l’Amleto, in certi
momenti della sua vita potrà dichiararsi “amletico”. E cioè, indeciso riguardo al proprio
atto, svogliato rispetto al compito che il padre morto o la famiglia o la società tutta gli
impongono. Ci sono poi altri giorni in cui si insedia nella nostra mente un cattivo pensiero
che la parte buona non riesce a vincere, e allora ci sentiamo vicini al nobile Macbeth, il
quale fa quello che fa, e cioè uccide il buon re Duncan, che pure ama, perché sente delle
voci, le voci delle streghe, che danno parola al suo desiderio inconscio. E altri giorni
ancora in cui prendiamo la vita al modo di Falstaff, e non vorremmo che godere — del
cibo, del sesso, del gioco, e barare e rubare e mentire come fa lui, con strafottenza, e cioè
da vero playboy qual è, da quel grandissimo ed esasperante ed espansivo eroe della
“carne” che è Falstaff.
In questo senso, e cioè alla lettera, il teatro di Shakespeare dispone per noi in scena una
comédie humaine, al cui vasto repertorio possiamo attingere nelle più diverse e varie
occasioni, quando emozioni nuove insorgono dentro di noi, e rimangono lì sospese, in
attesa che, oltre a provarle, le si trasporti a una qualche forma espressiva.
Che modella la nostra stessa interiorità. E cioè, il nostro teatro interiore. Chi di noi donne
non si è sentita Ofelia, l’innamorata, che presa in un gioco tutto maschile si fa ignara
pedina, che pezzi più forti di lei sulla scacchiera inghiottono? E altre volte non ci siamo
forse sentite Gertrude, la regina vorace che morto un marito, se ne fa un altro, senza
troppo tergiversare? Non sarà forse da ammirare, e non da criticare al modo violento con
cui lo fa il figlio Amleto, la sua vivace abbreviazione del tempo del lutto, quasi ci
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discolpasse di una certa superficialità, che fa comunque trionfare la voglia di vivere,
rispetto alla tetra sosta nelle oscure caverne del lutto? Esistono donne così, fedeli al
proprio piacere, costanti rispetto a una bussola con sfacciata fede puntata a godersi la
vita, anche il sesso. Perché no? Come esistono altrettante donne “ideali”: la Porzia
romana, moglie di Bruto, figlia di Catone, che all’ideale del nome del padre e del marito si
sacrifi- ca. O come Cordelia, la figlia che al vecchio padre dice la verità, perché solo e
soltanto la verità si deve a chi amiamo. O la veneziana Desdemona, eroina del free- will,
che contro la volontà paterna e a dispetto delle convenzioni sociali, liberamente sceglie il
Moro contro più addomesticati cicisbei veneziani. D’accordo, non finisce bene, ma l’atto di
libertà della Desdemona shakespeariana resta, e trionfa contro le più tarde sentimentali
incarnazioni del personaggio. Come resta indimenticabile la libertà di Caterina, che
Petruccio tenta invano di domare, finché non è lui a cedere alla superiore potenza della
lingua indomabile della donna, equivalente fallico di un membro virile non altrettanto attivo.
Sì che da domatore si ritrova domato, e l’avvertito lettore non potrà che domandarsi
perplesso, alla fine: a che cosa servono questi concetti così fallaci? Non concetti, in realtà,
ma pure convenzioni di comodo, come le distinzioni di genere? A ordire una grammatica,
rispetto alla quale tutti scartiamo? E nessuno è al posto suo?
E se un uomo è un uomo e adora il potere, e giustamente identifica nell’oggetto corona o
scettro il simbolo più efficace della potenza fallica, non gli verrà spontaneo alla bocca il
nome di Riccardo III, così cattivo e feroce e spietato? Capace di tutto, perfino di prendere
in sposa la stessa donna a cui ha ucciso il padre e il marito, se serve alla sua carriera.
Finché si ritrova solo sul campo di battaglia ed emette quello sconsolato grido: «Un
cavallo, un cavallo, il mio regno per un cavallo!». Tutto ora scambierebbe per qualcosa
che non ha. E sempre tra gli uomini, quale uomo di potere sapiente e audace nei suoi
giorni più maturi non s’è perso, anche se non in Oriente, tra le braccia di una seduttrice?
Non c’è uomo politico di razza che non abbia sfiorato il pericolo Circe o Cleopatra,
specchiandosi in tal caso in Antonio. E cioè, subendo la tentazione di lasciar naufragare
Roma nel Nilo, per dirla con il romano tra le braccia della regina di Egitto. Che comunque
è un bel modo di finire; di certo non peggiore di chi come Lear impazzisce per non sapersi
arrendere all’evidenza della vecchiaia, che disarma l’uomo potente. Staccarsi dalla propria
potenza, devolvere il potere al più giovane, è mossa difficile all’uomo abituato al comando.
Quanto all’uomo tout court, all’uomo comune, all’uomo normale, non ce n’è uno che non si
sia ritrovato almeno una volta con le orecchie di Asino come Bottom, scoprendo la propria
vulnerabilità di fronte agli incostanti capricci di una donna-regina... È il mistero della vita
che Shakespeare incarna per noi, offrendoci di volta in volta nei suoi personagggi le
maschere grazie alle quali venire in contatto con le nostre più segrete pulsioni,
confermando che la pulsione, o più semplicemente la passione di vivere è di per sé
teatrale, esibizionista.
del 14/01/16, pag. 40
Musica & app Come imparare a suonare
Ultimate Guitar Tabs è la più grande raccolta di spartiti del mondo: 800
mila brani per chitarra e ukulele. Maestro di pianoforte (2,99 euro) è un
supporto per imparare a leggere la musica, acquisire il ritmo e imparare
a suonare brani noti. Molte le app che funzionano come un mini studio
di registrazione e offrono la possibilità di suonare più strumenti. E’
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possibile collegare più dispositivi Per chi inizia CoachGuitar è studiato
per chi vuole suonare la chitarra ma non sa leggere la musica Per chi è
bravo Auxy permette di creare le proprie basi e di divertirsi con i loop
come i grandi DJ
C’ era un tempo in cui era necessario passare dalla «Canzone del sole» per imparare a
suonare la chitarra. Dal 1971, anno della sua pubblicazione, intere generazioni sono
passate dal brano di Lucio Battisti prima di puntare ad altro. Impossibile scapparne. Ora
invece la storia cambia. Passati i corsi su musicassetta, i videocorsi in VHS e i libri
distribuiti in edicola, la musica viaggia sulle app. Quotidianamente nascono nuove
applicazioni per smartphone e tablet che si ripropongono di insegnarci l’agognato
strumento attraverso contenuti multimediali, video di artisti celebri, partiture interattive.
Una delle più note è CoachGuitar. Dedicata a chi si sta avvicinando alla sei corde, offre un
corso completo di chitarra a portata di dito. Scaricabile su iOS, Android e Windows, è
pensata per i neofiti, per chi non ha mai visto una tablatura in vita sua e non sa leggere la
musica. La sua forza sta nell’insegnare i primi accordi tramite brevi video molto dettagliati
che possono essere ripetuti finché non sono stati assimilati. I colori poi illustrano il
posizionamento delle dita sulla tastiera per memorizzarlo meglio. La si può provare
gratuitamente poi, se piace, offre l’acquisto di singole canzoni a 3,99 euro o pacchetti
tematici con sei brani di artisti come Beatles o Bob Marley a 14,99 euro.
Una volta presa la mano, possiamo affiancarle Ultimate Guitar Tabs, la più grande raccolta
di spartiti del mondo per iOS, Android e Windows. All’interno del suo sconfinato database
troviamo gli accordi, le note e le tablature per chitarra e ukulele di oltre 800 mila brani e
nonostante sia statunitense non mancano tanti successi italiani. C’è pure la Canzone del
sole. Davvero. Passiamo alla batteria con Drum Guru. L’approccio qui è differente: non è
solo per neofiti ma si rivolge anche agli esperti e offre videolezioni di grandi batteristi come
Steve Gadd, Steve Smith o Mike Portnoy dei Dream Theater. L’app per iOS e Android è
gratuita e offre alcuni video di prova a cui poi vanno aggiunti dei pacchetti di lezioni da
scegliere in base al proprio livello di abilità e allo stile che si intende imparare o raffinare.
Lo stesso sistema è alla base dell’applicazione gemella Bass Guru. Solo per iPad e
iPhone, è dedicata al basso e tra gli insegnanti troviamo artisti del calibro di Victor
Wooten, Tom Kennedy e Lincoln Goines. Va detto che in entrambe le lezioni sono tutte in
inglese ma anche non conosce la lingua si troverà a proprio agio grazie ai numerosi video
molto chiari. Guardare per credere.
Dalle corde ai martelletti, ecco Maestro di pianoforte, applicazione per iPad che per 2,99
euro offre un valido aiuto per imparare a leggere la musica, acquisire il ritmo e riprodurre
brani noti. Pianoforte + per Android (gratuita) ha invece un approccio ludico: sul display
compare una tastiera e delle note a cascate indicano quali tasti suonare. Va detto che
anche i più piccoli possono avvicinarsi agli 88 tasti divertendosi. Per i bambini dai 4 anni in
su c’è Music4Kids. Disponibile per iOS e Android (2,99 euro) consente di comporre e
suonare muovendo le note su un pentagramma. La grafica cartoonesca rende il processo
di apprendimento immediato e divertente mentre centinaia di sfide musicali stimolano il
piccolo a riconoscere e imparare le note mentre giocano. Per i più grandi c’è Piano Dust
Buster (iOs, 0,99 euro), che miscela gioco e insegnamento. Qui possiamo suonare
direttamente sul display dell’iPad oppure mettere il tablet sul leggio del pianoforte per
vedere quali tasti premere al momento giusto.
Ora che abbiamo posto le basi è arrivato il momento di esercitarsi e, perché no, incidere
qualcosa. GarageBand di Apple (4,99 euro) porta su iPhone, iPad e iPod Touch un piccolo
studio di registrazione. Offre la possibilità di suonare numerosi strumenti come pianoforte,
organo e batteria, simula un amplificatore per chitarra, possiamo connetterla al microfono
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e permette di creare jam session collegando fino a tre dispositivi tra loro. Volendo poi
possiamo anche registrare, arrangiare e mixare i nostri brani ovunque ci troviamo.
Per creare le proprie basi e divertirsi con i loop c’è Auxy, applicazione semplice e gratuita
per iPad e iPhone caratterizzata da un’interfaccia colorata e molto intuitiva. Premendo sul
display creiamo e spostiamo blocchetti di beat che saranno poi riprodotti a tempo da
batteria, basso e due synth. Basta un tap poi per passare da un loop all’altro come i grandi
DJ. Insomma, le possibilità sono davvero tante e ora sì che sarà davvero tutta un’altra
musica.
Alessio Lana
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ECONOMIA E LAVORO
del 15/01/16, pag. 5
Bruxelles sospende il giudizio
Ma studia la procedura sull’Italia
Sul tavolo l’ipotesi di scostamento significativo sul deficit
Non è vicino l’esame della Commissione Ue sui conti pubblici dell’Italia. La valutazione sul
bilancio 2016 non partirà prima di febbraio e uscirà in primavera, probabilmente in aprile. A
Bruxelles non ci sono dunque decisioni già prese sull’assetto trasformato in legge in
dicembre.
Ci sono però due certezze. La prima è che il quadro è più difficile di un anno fa, quando il
governo attraversò il filtro del fiscal compact europeo con una blanda richiesta di risanare
il bilancio un po’ di più in seguito. Ma il secondo dato a Bruxelles è che, senza correttivi,
sembrano esserci le condizioni per aprire sull’Italia una procedura vincolante anche se il
deficit resta sotto al 3% del reddito nazionale (Pil). Nel gergo europeo, si chiama
procedura per «scostamenti significativi» dagli impegni. Riguarda il «braccio preventivo»
del patto di Stabilità, non quello «correttivo» previsto quando il disavanzo è già oltre le
soglie, e ha una caratteristica importante: può portare a vere e proprie multe, se dopo tre
anni il Paese coinvolto non corregge la rotta. Qualunque sia la probabilità di una sanzione,
questa è dunque una gabbia disegnata per diventare sempre più stringente.
Non doveva andare così. La legge di Stabilità proposta dal governo in ottobre aggiungeva,
rispetto agli accordi, uno 0,4% di deficit pubblico in più sull’anno prossimo. Quello
scostamento era stato discusso in anticipo da Pier Carlo Padoan a Bruxelles. Il ministro
dell’Economia aveva motivato la sua scelta in gran parte con l’intenzione di investire di più,
fino un nuovo obiettivo di deficit per il 2016 al 2,2% (quello precedente era all’1,8%).
All’epoca pendeva anche una richiesta dell’Italia di aumentare il disavanzo di un ulteriore
0,2% del Pil, 3,6 miliardi, per le spese «eccezionali» dell’emergenza immigrazione. La
Commissione Ue e l’Eurogruppo, il club dei ministri finanziari dell’euro, chiesero i dettagli
di quegli esborsi e risultò — secondo Bruxelles — che in realtà erano di appena 200
milioni. La nuova «flessibilità» sul deficit fu dunque rifiutata, prima che Matteo Renzi se la
riprendesse senza discuterla prima con nessuno. Dopo gli attentati di Parigi, in novembre,
il premier annunciò che nel 2016 l’Italia avrebbe speso altri 3,6 miliardi per la «sicurezza»
(incluso un bonus da 500 euro i consumi culturali dei neo-diciottenni anni).
L’esame dei conti dell’Italia riparte da qua. La «teologia» delle regole europee di bilancio è
sempre più complessa, al punto che neanche nella Commissione Ue si pensa che possa
sempre essere applicata alla lettera. Tutti però a Bruxelles vedono in quelle norme uno
strumento per spingere i governi nella direzione giusta, e i dettagli contano. Uno di questi
riguarda il punto in cui è diretto davvero il deficit dell’Italia quest’anno: il governo lo
prevede al 2,4% del Pil, ma a Bruxelles si dubita. Può essere più alto. La crescita nel 2015
è stata inferiore allo 0,9% atteso da Padoan, dunque il punto di partenza del bilancio
arretra. In più l’inflazione viaggia molto sotto al previsto, e deprimerà le entrate fiscali.
Forse anche per questo Padoan ora cerca a ridurre un po’ il disavanzo già annunciato,
nella speranza di prevenire la procedura. Certo conterà il deficit «strutturale», quello al
netto delle oscillazioni del ciclo. Ma se l’Italia sta per tornare dentro una gabbia europea
“con i denti”, lo si inizierà a capire presto: a inizio febbraio la Commissione pubblica le
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prossime previsioni sull’economia. Dietro quei numeri ci sarà già molto di ciò che a
Bruxelles si pensa di fare nei mesi seguenti.
Federico Fubinii
del 15/01/16, pag. 10
Ora è ufficiale: gli evasori saranno salvati per
legge
La Cassazione sancisce che le nuove soglie di non punibilità penale
volute dal governo sono retroattive: primo assolto, addio a migliaia di
processi
Doveva succedere ed è successo. La Terza Sezione penale della Cassazione – come ha
rivelato il Sole 24 Ore – con una sentenza depositata mercoledì ha annullato senza rinvio
una condanna in appello per dichiarazione infedele e dichiarazione fraudolenta: “Il fatto
non sussiste”, la formula scelta. O meglio, non sussiste più: l’annullamento è frutto del
decreto legislativo 158 – entrato in vigore il 22 ottobre scorso – che alza le soglie per la
punibilità penale dell’evasione fiscale.
La Suprema Corte ha così stabilito che le nuove previsioni si applicano retroattivamente: è
il principio del favor rei, secondo cui vale la norma più favorevole all’imputato. Quella del
governo Renzi, effettivamente, lo è: il dlgs 158, infatti, ha alzato l’asticella – da 50 a
150mila euro per singola imposta evasa e da due a 3 milioni in totale – del denaro che è
possibile sottrarre al Fisco senza incorrere in sanzioni penali. Il recupero del “maltolto” da
parte dell’erario, ovviamente, resta possibile.
Da mercoledì è insomma ufficiale quel che il Fatto Quotidiano aveva denunciato all’entrata
in vigore del decreto: migliaia di fascicoli già aperti dalle procure andranno al macero.
Tempo e soldi buttati: nella sola Milano si è cominciato a chiedere l’archiviazione per
1.200 processi sull’evasione dell’Iva e altri duemila abbondanti su ritenute e altri tributi.
Come ha sintetizzato il procuratore di Udine, Antonio De Nicolo: “Prima inseguivamo gli
evasori per farli pagare, ora per restituirgli i soldi”.
In realtà, siamo solo all’inizio di una slavina. Molte norme volute dall’attuale governo
rendono più difficile perseguire penalmente gli evasori: da ottobre, ad esempio, non basta
più che nella dichiarazione siano stati inseriti elementi “fittizi”, dovranno essere proprio
inesistenti (si può, legalmente, barare un po’); la frode “mediante altri artifici”, per dirne
un’altra, non è più reato fino a 1,5 milioni (la soglia prima era un milione).
Quanto all’abuso del diritto – cioè tutte le condotte, in sé legittime, che vengono usate al
solo fine di avere vantaggi fiscali indebiti – non sono più reato: un colpo alla lotta
all’elusione che ha effetti pure sulle condotte “fraudolente”. Il processo contro Emilio Riva
e due ex manager Ilva per una frode da 52 milioni s’è infatti concluso con un’assoluzione:
“Il fatto non è più previsto dalla legge come reato”.
Dalla Cassazione, però, arriva anche una buona notizia: contrariamente ad altre sentenze,
come quello che ha garantito l’assoluzione al sondaggista Luigi Crespi, la Quinta Sezione
penale ha sancito che anche le “valutazioni” (la maggior parte delle poste che concorrono
a un bilancio) sono rilevanti ai fini del reato.
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Al netto della pessima scrittura della legge, se nella giurisprudenza si affermasse questa
interpretazione si potrebbe sostenere che davvero il falso in bilancio è tornato nel codice
italiano dopo l’era Berlusconi.
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