Approaches to Teaching Collodi`s «Pinocchio» and

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Approaches to Teaching Collodi`s «Pinocchio» and
«Bollettino '900», 2010, n. 1-2, <http://www3.unibo.it/boll900/numeri/2010-i/>
Natalie Dupré, Per un'epica del quotidiano. La
frontiera in «Danubio» di Claudio Magris, Firenze,
Cesati, 2009, pp. 208, € 28,00
di Gian Paolo Giudicetti
La prospettiva scelta da Natalie Dupré per affrontare Danubio di Claudio
Magris è l'investigazione sistematica del concetto di frontiera, un concetto
largo, atto a rappresentare entità concrete e astratte di ambiti diversi, così
diversi che la sfida principale, per lo studio di Dupré, è di convincere il
lettore che le frontiere dei diversi ambiti toccati sono legate tra loro e che,
quindi, il concetto di frontiera è utile per comprendere il libro di Magris. Si
potrebbe sospettare che per esempio la frontiera tra i territori che
costituivano l'impero austroungarico e quella tra i generi letterari («In
Danubio la frontiera discorsiva più significativa a livello macrostrutturale è
senza dubbio quella tra il genere romanzesco e saggistico», p. 87) siano
legate solo da un nesso semantico generico. Perché la frontiera tra
romanzo e saggio avrebbe a che fare con quella territoriale? Lo si può
capire esaminando il ragionamento di Dupré.
In effetti la questione di genere è interessante non tanto per determinare il
genere di Danubio, quanto perché può ricordarci l'apertura tanto del
saggio quanto del romanzo, due generi che altri hanno definito come
«invadenti»1, verso altre forme letterarie; questo però, notoriamente, non
vale solo per il romanzo moderno, nel quale la commistione di generi
costituirebbe l'esito del superamento della linearità e del realismo del
romanzo ottocentesco (si legga quello che scrive Robbe-Grillet nei
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Derniers jours de Corinthe), ma per il romanzo in generale, fin da quello
cavalleresco, che assorbiva con naturalezza digressioni storiche o
moraliste, incitazioni didattiche. Tuttavia, l'apertura di alcuni generi letterari
agli altri non significa l'offuscamento dei confini tra di essi; ciò che conta è
se il fine dell'opera sia primariamente argomentativo o estetico e la
distinzione tra romanzo e saggio non è tanto difficile quanto potrebbe
sembrare leggendo alcuni scritti su Danubio o su Gomorra di Saviano.
Come ha scritto Kerbrat-Orecchioni, i testi «non fictionnels décrivent,
analysent,
commentent,
représentent
une
portion
de
U, univers
d'expérience, admis comme préexistant au discours», mentre quelli
«fictionnels (à référence fictive) construisent et "présentifient" un simulacre
de monde plus ou moins autonome et arbitraire par rapport à U». 2
Sull'autonomia dell'opera d'arte è sensato, a mio parere, non retrocedere
rispetto alle conquiste dell'estetica idealista, pena una confusione tra arte
e altre forme dell'attività umana che renderebbe qualsiasi giudizio estetico
inadeguato.
Che Danubio sia un saggio - nel quale hanno un peso ampio le parti
narrative - lo accorda implicitamente anche lo studio di Dupré in quanto ne
riassume, discute, confronta le affermazioni sul mondo molto più di quanto
ne giudichi le qualità estetiche.
Uno degli aspetti della visione del reale di Magris illustrato da Dupré è
quello dell'antiromanticismo (il nemico è il romanticismo pratico,
sentimentale e morale3):
«l'antiromanticismo di Magris, o almeno la sua reticenza nei confronti di
quella cultura sentimentale legata al romanticismo e la sua mancanza di
disillusione nell'affrontare l'assenza: "il romanticismo, scriveva Broch, è
anche la sostituzione di un assoluto, che si sente di aver perduto, con un
surrogato parziale, qualunque esso sia, che dovrebbe rimpiazzare tutti i
valori. Quando questo surrogato viene cercato nell'amore, esso diviene
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una sofferta ma ampollosa retorica, un ridondante pathos sentimentale"»
(pp. 135-136).4
Il rifiuto di sostituire un assoluto scomparso con un surrogato apre un
quesito sulla posizione di Magris rispetto all'identità del singolo, che fluttua
tra l'affermazione di un io volontarista e razionale e il sospetto che il mito
del libero arbitrio sia stato demolito definitivamente dalla filosofia
contemporanea. Dupré descrive questa «tensione», nella quale i limiti del
libero arbitrio sono determinati dall'influenza delle radici culturali delle
collettività a cui si appartiene, «tra l'urgenza dell'autocircoscrizione e
dell'apparire quale individuo autonomo, da un canto, e il transindividuale,
la partecipazione a ciò che oltrepassa i limiti dello stesso Io, dall'altro» (p.
101).
La domanda posta da Dupré sul dissolvimento della frontiera tra romanzo
e saggio è quindi davvero legata alle altre accezioni del termine frontiera
affrontate nel saggio di Magris; essa mostra infatti come i quesiti affrontati
dall'io durante il suo viaggio romanzesco mirino ad acquisire un valore
collettivo che trascenda l'esperienza e l'individualità dell'io.
Un altro aspetto della visione del mondo di Magris su cui Per un'epica del
quotidiano si sofferma è l'atteggiamento antipostmoderno, interpretato
come l'adesione ad alcuni valori non scalfiti dalla crisi della ragione, come
una «resistenza alla riduzione della realtà alla propria rappresentazione e
all'apparenza» (p. 102), una resistenza, scrive Magris (citato a p. 103), al
«gusto dell'ideologia amputata dalle idee», ove ciò che conta è tanto la
crisi delle idee quanto il compiacimento della crisi, il «piacere kitsch del
falso e del pacchiano». Si tratta, quindi, di ritracciare limiti e frontiere per
restituire ordine all'indistinto (p. 188). La domanda che si pone chi non
accetta il crogiolarsi di una componente del postmodernismo nella crisi di
valori, quel facile compiacimento che spinge a rinunciare a qualsiasi
fedeltà - alla propria parola, ai propri ideali - è quella di come opporsi a
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questo compiacimento senza mascherare la crisi mettendo avanti valori
morti, i quali impedirebbero di comprendere il reale. Oggi l'aspirazione alla
totalità si coniuga necessariamente con la coscienza, anche ironica, dei
limiti della totalità: «Ogni totalità - anche quella hegeliana, diceva con
faziosa acutezza Kierkegaard - si offre al riso degli dèi [...]. Questo lato
comico non sminuisce certo la grandezza di Hegel o di Heidegger; ogni
pensiero veramente grande deve aspirare alla totalità e questa tensione
comporta sempre, nella sua grandezza, anche un elemento caricaturale,
una punta di autoparodia» (Danubio, citato da Dupré a p. 50).
Ma l'ammissione della necessità dell'ironia non esime dalla domanda:
quali limiti e distinzioni vanno opposti alla tendenza verso il dissolvimento?
Il disgusto per il compiacimento della crisi non costituisce un programma o
un sistema di valori. Magris oppone al kitsch del pacchiano l'insegnamento
di chi, dopo aver creduto nel comunismo staliniano, constatatone il
fallimento, ne ha «conservato l'immagine unitaria e classica dell'uomo»
(citato a p. 102). Così Magris sembra preferire un errore ideologico dalle
conseguenze funeste a un presente orfano di ambizioni politiche, ma il
paragone, a volte velato di nostalgia, con i valori di un mondo tramontato
lo spinge forse, romanticamente, a riproporre idoli vuoti di senso, a
formulare astrazioni staccate dal reale, a una diffidenza nociva verso il
pragmatismo. È forse questa, si può aggiungere, la differenza rispetto a
Le città invisibili di Calvino, in cui l'opposizione tra mantenimento dei
confini e loro dissoluzione (in particolare, nelle serie Le città e i segni e Le
città continue) era disegnata senza nostalgia, guardando verso il futuro
(quello della serie Le città nascoste).
L'altro rischio di fronte al dissolvimento dei valori - il rischio opposto a
quello del compiacimento nella crisi - è la presa di distanza eccessiva, che
coincide con l'impotenza a svolgere un ruolo nel mondo. Esiste una «dura
distanza necessaria ad ogni arte e ad ogni esperienza liberatrice»
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(Danubio), ma essa può coincidere con l'autoesilio dalla vita dell'inetto
novecentesco delle letterature mitteleuropee (e di altrove). Dupré scrive:
«La strategia per eccellenza [della "civiltà danubiana"] è stata la
sospensione del rapporto tra individuo e realtà; il rifiuto dell'Io di
partecipare alla realtà, il suo bisogno di autoemarginazione e di latitanza
dalla vita sono da considerare come una ricerca di perifericità in grado di
conferire all'Io quel minimo d'autonomia che lo possa salvaguardare
dall'espansione di un potere centrale centrifugo. Gli autolesionisti e gli
inetti della letteratura mitteleuropea sono lì a confermare che la frontiera è
innanzitutto un'entità cognitiva e che i concetti di "centralità" e di
"perifericità" funzionano come modalità cognitive che determinano il tipo di
rapporto tra l'Io e la realtà» (p. 159).
Il ritiro nella periferia consente anche la ricchezza del multiforme, 5 la
resistenza all'omologazione grazie a una sorta di federalismo culturale
germanico che contrasta - o, che contrastava, perché forse è un miraggio
nostalgico - con il centralismo napoleonico (cfr p. 157). È il secondo
aspetto positivo per Magris del concetto di frontiera (il primo era quello di
baluardo, della saldezza di un io vigoroso di fronte alla disgregazione
relativizzante), il mantenimento delle distinzioni di fronte all'uniforme.
L'esilio, situazione estrema del ritiro nella periferia, diventa il simbolo di
una posizione che implica di «concepire la propria identità in termini plurali
e non più come costituita da esperienze unitarie» (p. 39); «considerata
invece da un punto di vista periferico (o ritenuta periferica da un altro
punto di vista centrale) la perifericità diventa a sua volta centro; anche le
nozioni di centralità e di perifericità vanno quindi definite in termini di
posizioni» (p. 43). Magris non omette la zona d'ombra: il mantenimento
ostinato della differenza può diventare chiusura verso il diverso, verso
l'altro, un chiudersi su di sé provinciale: «Forse la cultura danubiana; che
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sembra cosí aperta e cosmopolita, educa anche a questa chiusura e a
quest'ansia; è una cultura che, per troppi secoli, è stata ossessionata
dall'argine, dal baluardo contro i turchi, contro gli slavi, contro gli altri»
(citato a p. 180).
La risposta alla chiusura nella provincia è quella del viaggio, nota Dupré,
inteso anche metaforicamente (p. 150) come apertura verso l'altro, non
per un accostamento indistinto e acritico di realtà diverse, ma per una
messa in discussione della propria realtà grazie al confronto con altri
mondi e, poi, eventualmente, la proposta di una nuova sintesi.
Il libro di Dupré aiuta a ritrovare nel continuum di Danubio, grazie all'uso
del concetto di frontiera, i nuclei ideologici che strutturano il discorso di
Magris e i legami tra di essi; fa comprendere che, ancor più di quanto
appaia a una prima lettura, Danubio è un'opera unitaria e coesa.
Note:
1
Cfr I. Langlet, Théories du roman et théories de l'essai au XXe siècle , in G. Philippe (a
cura di), Récits de la pensée. Études sur le roman et l'essai, Université de Picardie,
SEDES, 2000, pp. 45-54.
2
C. Kerbrat-Orecchioni, L’implicite, Paris, Colin, 1986, p. 123.
3
La distinzione tra il romanticismo pratico, sentimentale e morale da una parte e quello
speculativo dall'altra è proposta da Croce nell'Introduzione ad una storia d’Europa.
4
Dupré cita C. Magris, Danubio, Milano, Garzanti, 1994, p. 202.
5
H. Hendrix, Acqua e arte della memoria nella narrativa di Claudio Magris , in «Incontri»,
2002, pp. 69-73: «l’universo presentato nell’opera di Claudio Magris predilige [...] il
marginale e il periferico a ciò che si può considerare centrale, in un senso politico,
culturale o ideologico. Difficilmente si potrà sottovalutare il suo sforzo persuasivo quanto
efficace di dar voce a popoli e culture che rischiano di cadere nel dimenticatoio in seguito
al corso degli eventi politici» (p. 71).
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Bollettino '900 - Electronic Journal of '900 Italian Literature - © 2010
<http://www3.unibo.it/boll900/numeri/2010-i/Giudicetti.html>
Giugno-dicembre 2010, n. 1-2
Questo articolo può essere citato così:
G. P. Giudicetti, recensione di: Natalie Dupré, Per un’epica del quotidiano. La
frontiera in «Danubio» di Claudio Magris (Firenze, Cesati, 2009), in «Bollettino
'900», 2010, n. 1-2, <http://www3.unibo.it/boll900/numeri/2010i/Giudicetti.html>.