Massimo Bontempelli Massimo Bontempelli Grande e piccola critica

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Massimo Bontempelli Massimo Bontempelli Grande e piccola critica
«Bollettino '900», 2010, n. 1-2, <http://www3.unibo.it/boll900/numeri/2010-i/>
Massimo Bontempelli
Grande e piccola critica
§1. - Ci sono poeti più e meno valenti, i maggiori e minori; e di questi e di
quelli tal uno è del tempo passato, altri son vivi e operanti fra noi, nostri
contemporanei. Queste distinzioni sono così semplici che non temono di
esser contradette.
Affermazione altrettanto perspicua potrebbe essere: la poesia è sempre
accompagnata e seguita dalla critica.
Dei poeti dunque che vivono e scrivono tra noi sono alcuni maggiori e altri
minori; e grandi che van declinando, e minori che salgono, Insomma, un
materiale vario, una energia in movimento continuo, che richiede
variabilità di mezzi e di intenti a chi voglia esaminarla criticamente. E qui
intendo «critica» nel senso comune ed empirico, cioè quell'atteggiamento
vigile che accompagna l'esame e la valutazione delle singole opere d'arte,
prevalente mente con intenti che si potrebbero chiamar pedagogici. Per
questa sua praticità essa non può avere leggi scientificamente e
stabilmente determinate: sì possiamo, quasi in luogo di norme generiche,
ragionarne i mezzi e gli indirizzi più proficui.
Ciò si fece e si rifece quanto basta - e forse un poco di più - per la grande
critica, quella che si atteggia a scienza o ad arte di largo volo o di indagine
sicura e profonda. Essa si rivolge di preferenza al passato, del quale i
gruppi e i cicli son completi e formano un materiale certo o accertabile in
tutte le sue condizioni. Ma v'ha quella critica minore, spicciola, quotidiana;
che è in qualche modo contemporanea all'opera d'arte perché sèguita così
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immediatamente ciascuna espressione artistica di un autore che può
talvolta operare sulle successive. È una specie di aia che accompagna di
cure spontanee lo sviluppo del fanciullo, lo rimbrotta dei passi mal
condotti, lo prende per mano ai più aspri, lo incoraggia di lodi quando le
pare ch'ei proceda spedito. Il fanciullo cresce per conto suo e si sviluppa e
impara, per la tendenza che la natura ha messo in lui a svilupparsi e.
crescere e imparare; forse l'aia gli ha dato qualche mal vezzo o non ha
modificato in nulla il modo spontaneo del suo svolgersi: ma ciò non toglie
ch'ella poi mostri orgogliosa quell'adolescente che è venuto su tra le sue
cure. In questo modo opera la critica spicciola, contemporanea all'opera di
poesia.1
Ora come si potrebbero dare consigli alle nutrici e scrivere il manuale della
perfetta governante, così può esporsi qualche osservazione sugli
atteggiamenti più opportuni che deve prendere la critica-aia nell'adempire
il suo compito.
§2. - Dell'altra, dicevo, si è parlato sin troppo; il che non impedisce che si
possa ancora parlarne. Ebbe molti e diversi teorici, ed anche la sua
«questione». Ciò basta perché oggi ne discorriamo assai meno. Noi siamo
nemici delle «questioni» quanto ne furono assetate le generazioni che ci
hanno
preceduto,
dal
Rinascimento
in
poi.
Abbiamo
imparato,
guardandole di lontano, quanto ognuna di esse ha in sè necessariamente
di inutile; abbiamo assodato che tutte, sempre, si risolvono in modo
conciliativo, e che tanto si finisce, a qualche distanza di anni, con ridere
ugualmente della Dacier e del La Motte.2 Anche, per esempio, se la lingua
debba chiamarsi toscana o italiana, ci lascia freddi; e oserei affermare che
persino questo - se la storia sia un'arte o una scienza - ci importa poco,
assai poco. Noi facciamo come il De Musset, che in sull'infierire della
questione classico-romantica la risolveva per conto suo, almeno a parole,
uscendone e superandola:
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Racine, rencontrant Shakespeare sur ma table,
S'endort près de Boileau qui leur a pardonné.
Nello stesso modo abbiamo superato noi pur l'ultima questione, quella
della critica estetica e della storica. Essa del resto si rimase limitata a
pochi campioni, nè ha trascinato gli animi calmi della nostra generazione
come avrebbe fatto dai tempi del Valla e di Poggio Bracciolini fino al
secolo scorso. In essa, non ostante le ire ancor mal sopite dei più ostinati,
l'accordo era implicito.
Già nel '79, mentre il De Sanctis era in pieno vigore, il D'Ovidio
vagheggiava (ma un po' oscuro e forse non del tutto imparziale) una
«critica intera e perfetta» che doveva essere il contemperamento delle
due scuole. E ben presto i migliori scolari del De Sanctis non soltanto
cercarono di operare ma proclamarono anche in teoria la necessità della
fusione; e questo poco prima o poco dopo l' '83; anno della morte del
maestro. Ho pensato al Torraca, allo Zumbini, al Villari. Altri, d'altronde
venuti, già spontaneamente avevan lavorato in quel senso: basti nominare
il Graf e il Carducci. Infine, a chiuder del tutto la questione venne non uno
scolaro ma un epigono del De Sanctis, il Croce,3 dimostrando addirittura
(dimostrazione pur accennata innanzi dal Torraca, dal Ferrieri, da altri)
che
fu
lo
stesso
De
Sanctis
a
volere
quel
temperamento,
a
preannunziarlo, anzi in parte a porlo in atto.
Non so se vi sia stato chi, in furore di eclettismo, pensasse di gettare in
quella fusione anche le teorie dell' estetica sociologica (più fortunata,
credo, in Francia che altrove). Certo gli sarebbe stato facile di mostrare
come nel metodo suo culmini l'esame storico; eppoi come essa,
ammettendo in sè pur le ricerche dell'antropologia e della fisiologia (tanto
care, queste, anche in Italia!), serva di naturale passaggio al metodo
psicologico, cioè estetico, dacchè essi intendono di confondersi.
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Costruzione molto conciliante e simpatica, che consiglio a qualche
eclettico di buona volontà.
§ 3. - Tutto ciò può sembrare una divagazione dall'argomento che mi son
posto più su; ma vi si ricollega, pur che si risponda a una, anzi a due
domande In proposito.
Son queste: - Un tal metodo, complesso di ricerca dei precedenti, di
esame d'ambiente, di ricostruzione psicologica, - questo metodo storicoestetico che si venne imponendo in Italia tra il '70 e la fine del secolo, a
quale altro indirizzo critico generale si oppose? - E a che mira e conduce?
Sì il De Sanctis e sì i propagatori del metodo storico (D'Ancona, Bartoli)
concorsero a chiuder la via a una critica che aveva tenuto il campo nei
due o tre decenni precedenti: la critica patriottica, a base di convinzioni
politiche che tutta l'animavano e la deformavano. Esempio massimo il
Settembrini, del quale ben potrebbe dirsi quello che il Villari di Luigi La
Vista, che «confondeva in uno la critica letteraria e l'esaltazione
patriottica». Ma questa critica non fu che una parentesi, una interruzione
voluta dai tempi: - il De Sanctis, con la sua scuola, fecondandosi di alcune
idee hegeliane, saltava sopra quel periodo e si ricollegava con le teoriche
della «Lettera di Crisostomo» (1816) e con l'esempio del Foscolo; i
banditori della critica storica un poco più in su, col settecento, che ne
aveva maturato tutti i germi senza portarli al lor frutto.
Se vogliam dunque trovare, avanti la moderna, una compagine completa,
un indirizzo vasto e sicuro, di linee decise e precise dobbiamo riferirci alla
critica del rinascimento. La quale, più che l'aspetto di disamina esercitata
come operazione mobile e vigile del pensiero sui fatti letterari, ebbe quello
di «Poetica»: una congerie di osservazioni ingabbiate in categorie, una
costruzione esatta e immobile di norme per . un numero determinato di
generi letterari. L'attività critica riducevasi ad avvicinare un' opera d'arte a
quelle costruzioni, e, confrontandola col tipo fisso, giudicare dalle
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superficiali somiglianze o discordanze loro. Il massimo di indipendenza
era in chi fosse disposto, che so? - a derivar precetti anche da Quintiliano,
per esempio, oltre che da Aristotile. Se taluno, come il Giraldi, dà qualche
autorità ai moderni, al Boiardo e all'Ariosto, si mette a compilar su di loro i
canoni del «romanzo» col solito sistema di svellerne alcuni caratteri e
ridurli a legge; e se il Patrizi si dichiara addirittura contro Aristotile, una
delle sue ragioni è che l'insegnamento dello Stagirita sembragli in
opposizione con quelli della Chiesa cattolica; e se il Guarini intravvede il
principio che sol nella vita l'arte deve riconoscere il suo modello, pur gli
occorre appoggiarsi ad Aristotile e l'opera nuova costituire in genere, il
genere tragicomico, coi soliti articoli di legge. La teoria fondamentale era
quella dell'«ornamento», e le Poetiche eran cataloghi d'ornamenti da
sovrapporre al tema. Quando (nel 1585) Giordano Bruno afferma reciso:
«le regole derivano dalle poesie, epperò tanti son generi e specie di vere
regole quanti son generi e specie di veri poeti»4 pone un germe da cui si
svolgerà, a superare la Poetica, la Estetica o filosofia dell'arte: mentre la
nuova attività critica si prepara tra noi, per una sua parte, nel secolo XVIII;
esce, per l'altra, dal seno stesso della rivoluzione romantica, come
abbiamo accennato.
§ 4. - Un' altra domanda ci siam fatta: - A che mira, e che ottiene la nuova
critica complessa di ricerca storica e di esame estetico?
La ricerca storica non conduce per sé sola a un giudizio sul valore artistico
dell'opera.
Può
Goti»5 rispondesse
dimostrare,
meglio
se
del
vuole,
che
«Furioso»
«L'Italia
a
certi
liberata
dai
atteggiamenti
fondamentali dello spirito dei tempi. Può dimostrare anche che
1'«Acerba»6 fu composta su «fonti» migliori che non la «Commedia». E
che per ciò? Ciò dimostra invece a noi quanto sia vano l'affannarsi a
scovare, e più il chiamar «fonti», le somiglianze superficiali con altre
opere, e tutti quelli altri fatti storici e biografici che van sotto quel nome, e
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di cui troppo si nutrono talvolta le università e le accademie. Esse
università si compiacciono pure sovente di studiare la «fortuna» di un'
opera, e allora se ne allontanano ancor più. Cercar la fortuna
delFurioso non è studiare l'Ariosto, ma il commentatore Fornari, o il
continuatore Filogenio, o Marco Guazzo, o l'Espinosa, o il La Fontaine, o il
Wieland o i gusti artistici del '600, o gli studi di Galileo... mille cose, non
l'Ariosto. Già novant'anni sono il Giordani volle spiegarsi l'abuso di
erudizione attorno ai grandi autori latini, dicendo che essa «se non altro
giova a considerare quanto poco di originale è al mondo, e quanto di
ripetuto; e in qual cerchio van girando le opinioni, per quanti secoli, ora
niente mutate, or mirabilmente sconvolte». Che, se fosse il solo, sarebbe
frutto molto diverso da quel che i cultori ne sperano.
L'osservazione
naturalistica,
e
occorrendo
fisio-antropologica,
che
completa il processo storico, continua a trattenere l'opera d'arte fuori
dell'arte.
Il giudizio sul valore artistico del poema incomincia soltanto con l'esame
operato dalla critica estetica. Questa denominazione anzi per sè dovrebbe
bastare, e comprendere nel modo più completo tutto 1'ufficio della critica.
Ma nell'uso si è limitata anch'essa a sola una parte dell'esame necessario.
Essa lo ha ridotto a una indagine psicologica sulla condizione del poeta
innanzi la piena espressione dell'impressione che vuoi farsi arte, e a un
confronto tra esse. Essa cioè si rivolge a un lettore che una impressione
ha già avuto, e glie la dimostra; oppure gli dimostra che ei poteva anche
averne .una affatto diversa. È un sovrapporre un'opera d'arte ad un' altra.
«Il libro del poeta è l'universo, il libro del critico è la poesia: è un lavoro
sopra un altro lavoro». Così lo stesso De Sanctis. Verrebbe voglia di
ricordare che infatti sulle cose della natura, sull'universo, spesso il poeta
fantastica e vede in esse quel che non v'è. In ogni modo questo dello
«scomporre e ricomporre» il Villari stesso, mentre lo esalta, chiama «dono
misterioso» e «metodo divinatorio»: non trasmissibile dunque, a me pare,
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ad epigoni o eredi. Tutto questo certamente è assai bello ma non è un
metodo. È un'arte come un'altra. Un rinato compilatore di poetiche
potrebbe farne un nuovo genere e dettarne le regole. Ed essa può
certamente, come ogni arte, produrre compiacimenti senza dare una
persuasione logica di ciò che espone. Io poco mi diletto di leggere il
Berchet e molto di quel che ne scrive il De Sanctis, che lo ama. Ho a
fastidio il decasillabo, e mi paiono bellissime le lodi ch'egli ne fa nella
lezioni sul secolo decimonono. Così di quel che dice del Leopardi e del
«Consalvo», ecc.
Qui non è dunque tutta la critica: esercizio non fervido ma pacato, non
prevalentemente soggettivo ma quanto è possibile ad attività umana
oggettivo, dello spirito di osservazione e non della divinazione. Non
vogliamo studiare una relazione di causa ad effetto, ma l'effetto
considerato per astrazione come una cosa a sè, in sè compiuta e con una
sua individualità ormai del tutto diversa da quella del suo operatore. La
critica limitata a quell'osservazione dei movimenti creativi non è che un sol
passo di più dell'esame storico e naturalistico (ch'essa, del resto,
dovrebbe presupporre necessario). Esaminati i precedenti storici, i
possibili modelli letterari o «fonti», eppoi le fonti più prossime e intime,
cioè il mezzo il costume gli accidenti della vita e gli studi dell'artefice,
ancora un passo, a vedere il lavorìo ch'egli ha dovuto compiere per
produrre l'opera. Ma alla critica perfetta e veramente utile (se anche meno
dilettosa) l'opera interessa in qualche momento più del lavorio, onde
desidera e si studia di farne un esame e daene un giudizio di natura
particolare.
§ 5. - Esame e giudizio del tutto empirici, è vero; e prodotti da una
illusione, da una astrazione o distrazione artificiosa. Ma questa astrazione
e quel desiderio sono pur fatti positivi, e avere una loro ragione, una
possibilità di appagamento.
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La ragione e la possibilità stanno in un altro fatto: che noi siam soliti
servirei d'un solo epiteto -bello, - riferendolo a cose fra loro diversissime,
sia alle cose della natura, sia ai prodotti dell'arte.
L'esame della critica psicologica non può applicarsi che al bello d'arte,
cioè all'espressione: non si può estendere a un albero, a un cane, a un
paesaggio. Eppure dalla considerazione di quell'uso diverso della parola
unica «bellezza» nasce, ripeto, un bisogno critico che la critica completa
dovrebbe soddisfare.
Questa considerazione ch'io fo non è nuova, s'intende; e trasse taluno a
curiose esagerazioni. Esempio: le elucubrazioni del Levèque7 (ch'io cito
dalla seconda parte della «Estetica» del Croce), il quale vide nel Bello otto
caratteristiche ch'ei riusciva a riconoscere in ugual modo in tre cose belle:
un fanciullo che scherza con la madre - una sinfonia di Beethoven - la vita
di Socrate. Più moderato e più arguto Teofilo Gautier si disse un giorno:
Se bello è un quadro,bella una donna, io potrò esercitare l'analisi estetica
su questa come su quello. E inaugurò nel «Figaro» un feuilleton di critica
delle attrici, cantatrici e ballerine, per il solo rispetto della bellezza: vere
critiche stilistiche, sul tono di quelle che si fanno per le opere d'arte, e con
confronti e richiami a tipi, a monumenti dell'antica statuaria, ad altre
bellezze. «La signorina Ellsler ha polsi sottili e caviglie fini. Le sue gambe,
di elegante disegno, ricordano la sveltezza vigorosa delle gambe di Diana:
le rotule sono nette, bene spiccate, e il ginocchio è tutto irreprensibile».
Ma fa qualche riserva quanto alla testa, per la chioma nera che «risalta
troppo
meridionalmente
sul
germanismo
ben
caratterizzato
della
fisionomia». Un'altra assomiglia a un'Iside dei bassorilievi eginetici:8 ne
loda il naso, le sopraciglia, lo sguardo; ma... anche per essa c'è
un ma come in tutti i poemi e in tutti i drammi per qualunque recensore.
«Ma il collo invece di arrotondarsi internamente dalla parte della nuca,
forma un contorno rigonfio e sostenuto che unisce le spalle alla testa
senza sinuosità», come nell'Ercole Farnese. D'altra deplora che «gli occhi
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siano troppo riavvicinati, difetto che deriva forse dalla soverchia
sottigliezza degli attacchi del naso». - «La fronte della signora Leplus attira
e trattien bene la luce». I suoi capelli sono «flavi, rutilanti; e la transizione
da questa tinta alle sfumature opache e bianche della nuca e del collo è
ottenuta con piccoli riccioli capricciosi ove s'indugia sempre qualche
pagliuca di luce». E gli pare un po' corta, nella signora Fa1con, la distanza
dal naso all'estremità dell'ovale. - Continuò così per parecchi mesi. Del
resto, l'estetica del corpo umano è uno studio ormai saldamente fondato e
con suoi cultori geniali ed esatti.
Mi son dilungato in questo ricordo per divagare un po' la materia ormai
arida. Vennero, gli esempi del Levèque e del Gautier, al proposito
dell'applicarsi comunemente l'aggettivo bello sì alle cose di natura e sì ai
prodotti d'arte.
Ciò avviene appunto perché nella coscienza comune l'opera d'arte,
quando vogliam valutarla, si presenta come individualità distinta con un
suo organismo completo e per sè giudicabile.
«Organismo» ho detto. Ecco il punto che deve attrarre il critico quand'egli
abbia esaurite tutte l'altre osservazioni. L'armonia tra le varie espressioni,
il mover delle secondarie a preparare o coronare la maggiore, il
concorrere o il repugnare degli effetti, - questa è una parte della disamina
estetica che può assumere efficacia speciale, sì da costituire un compito
separato e supremo. Ecco quel che il De Sanctis e i suoi seguaci
trascurano, paghi di una serie di analisi. Eppure ciò non si pone contro ai
loro principii e alla teoria dell'espressione: perché la bellezza che nasce
dall'armonia di parti ben congegnate fra loro, è pur essa, in fondo, una
espressione, una forma di espressione superiore, che abbraccia le
singole, se ne nutre, le fonde, le illumina, e - qui sta il punto - può dare un
valore anche a quelle che, prese singolarmente, il critico ha dimostrato
manchevoli. E questo può avvenire appunto perché la nostra coscienza
considera una cosa d'arte come individuo in sè perfetto e distinto, e lo dice
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più e meno bello come dice più e meno bello un corpo umano, una cosa di
natura.
Ora s'intende che con tutto questo io non vorrei se non aggiungere al
compito della critica (in ispecie di quella critica-aia che esercita sui
contemporanei, e massimamente sui giovani) qualcuno dei modi che
furono propri della' critica del Rinascimento. Senza giungere, s' intende,
non che alla teoria dell'ornamento, neppure al pregiudizio dei generi e del
loro evolversi, - pregiudizio che pare abbia qualche radice in necessità
della critica empirica, e che può in certi casi avere buona efficacia
insegnativa.
Rieccoci al punto di partenza, al primo proposto da cui sembravamo
dilungati senza possibil ritorno. Ma innanzi di aggiungere qualche
avvertimento pratico mi è necessario ricordare che il mio desiderio non è
nuovo. Lo mise fuori, rendendo conto della commemorazione del De
Sanctis pubblicata dal Villari nell' 84, lo Zanella. Dopo qualche lode ad
entrambi i metodi in lotta, egli aggiunge: - «ciò non basta per la vera
critica: conviene anche indagare se la composizione corrisponda ai canoni
dell'arte, se le parti armonizzino fra loro, se alcuna ecceda o
soggiaccia».9
Lasciamo stare, ahimè, i canoni. Lo Zanella, ch'era, tra il '70 e l' '80,
divenuto assai noto e ammirato per certa gentilezza prosastica della sua
poesia, fu dalla sua fama tratto a dar giudizi; e riuscì un critico assai
debole, come sono in generale questi spiriti soavi: solo i poeti di forza
seppero essere anche critici grandi; il Foscolo, ad esempio, il Carducci.
Lasciamogli dunque i «canoni»; ma nella frase che segue è adombrato
qualcosa di giusto, poi subito abbandonato per divagazioni della retorica
più vieta (- tre cose nell'opera: invenzione, composizione, stile; - tre cose
nello stile; colorito, disegno, movimento; - e così via). È adombrata, nella
frase che ho riportata, quella necessità dell'esame che parmi essere la
parte più importante della critica pedagogica, cioè la critica dei recensori o
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recensionisti alla giornata, dei feuilletonistes. I quali hanno a che fare,
d'ordinario, con principianti e con mediocri. È naturale: dovranno
esaminare, poniamo, cento volumi in un anno; quanti ne possono essere
di eccellenti? Certo, se incontri l'autore d'importanza, anche il recensore al
minuto può sfoderare utilmente un po' di metodo storico e di studio
d'ambiente: per capire il Pascoli, ad esempio, è forza scendere le estreme
correnti del manzonismo, e porre, anche, la sua poesia in relazione con gli
ultimi guizzi della filosofia cristiana. Il simile per gli altri, non più di due o
tre. Ma in generale per i contemporanei l'esame storico non ha importanza
perché esso serve soprattutto a trasportarci nel mezzo dell'autore, quando
questo mezzo è lontano nel tempo.
§ 6. - Per molti poi può giovare, con la critica dell'organismo dell'opera,
anche qualche cosa di più umile: la revisione dello stile. Altro argomento
scabroso, e forte a sentirsi per due schiere: i critici-filosofi, e i criticastri
orecchianti.
l filosofi, dimostrato che i generi, la grammatica, la stilistica, la metrica, il
comico, il patetico, le figure, ecc., non hanno esistenza categorica, sono
portati a diffidare di qualunque osservazione o ricerca si faccia, anche con
intenzioni semplicemente empiriche, con quelli o su quelli argomenti; e per
ricordare che 1'arte è espressione dimenticano (specialmente quando si
tratti di arte della parola) che essa espressione ha strumenti e mezzi
materiali diversi: i quali strumenti sono un fatto positivo, di cui si ha pur
diritto di ragionare.
L'altra schiera è la genìa più fastidiosa che sia. In generale (non credo che
le eccezioni sieno più di tre o quattro, al momento, in Italia) sono giornalisti
che, tra gli altri uffici maggiori e più lucrativi, hanno anche l'incarico di
tenere al corrente una rubrica letteraria in un dato giornale. Essi soglion
farsi teoria di qualche principio abbracciato senza troppo esame e senza
dubitazioni e studi profondi, e in quello procedono lisci e diritti alla
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fabbricazione meccanica dell'articolo. Ottimi industriali, cercan di capire il
gusto o il pregiudizio corrente del pubblico e vanno alla deriva di quello.
Ora il pregiudizio comune in questi tempi è quello del «materiale poetico».
Una specie di nuova retorica, opposta alla vecchia dell'ornamento e delle
formule stilistiche, li fa diffidare di tutto ciò che nell'arte (specialmente del
giovine) è finitezza, è studio accurato dello strumento, è decorosa ritrosia
di spirito avveduto che non si avventa a gran volo con poche forze, ma
incomincia a provarle ad esercitarle cauto, e reprime in sè le aspirazioni
più vaste perché possano nel lavorìo intimo farsi più sicure, più dense,
tormentose infine sì da potere un giorno, nella sicurezza di strumenti ben
destri a soccorrerle, rompere alla espressione loro ultima e più perfetta.
No: il critico, oggi, non vuole. Egli cerca per ogni canto la ispirazione,
l'èmpito, la «giovenilità» e si illude di trovarne ove non è che vano gridìo
senza numero. Perché il critico odierno crede al «materiale poetico», ciòè
a un contenuto anche senza forma, a un quid che si vede espresso senza
che abbia saputo trovar l'espressione, a qualcosa, insomma, che per poco
se ne cerchi una definizione sfuma nell'assurdo. Onde non son rare le
frasi come questÈ: «Il giovine A. B. è troppo guardingo, troppo
"letterario", scrive troppo bene». Oppure: «fa piacere di scorgere nel
giovine C. D. un notevole impeto, un'anima poetica rara. Il C. D. non sa
maneggiar bene il metro, e spesso la rima è contorta, il verso
metricamente scarso o soverchio, l'aggettivazione trascurata e impropria».
Che importa? Il «materiale poetico c'è». Seguono, inconsciamente e nella
sua interpretazione più grossolana, una teoria del contenuto puro, che
nella sua forma teorica fu già combattuta, superata e obliata da tempo. Il
«materiale poetico» non esiste se non come stato mentale anteriore
all'espressione. Se esce senza prender forma e vita organica sua, è
qualcosa di paragonabile - sia detto con sopportazione - alla materia del
rècere, che non ha saputo assimilarsi e torna fuori corrotta e
nauseabonda.
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Se una cosa può (non in teoria, ma per utilità insegnativa) considerarsi
separabile, non è il materiale, ma la forma, anzi: lo strumento della forma,
che per l'arte della parola è lo stile. Lo stile non è se non l'aggruppamento,
per varii gradi, di sillabe secondo una legge fisiologica d'armonia, la qual
legge la storia naturale delle sensazioni ha potuto praticamente
determinare solo in piccola parte. Chi vorrebbe rimproverare al critico di
pittura frasi come queste: - Tu hai una bella pennellata, un bel tratto nel
disegnare, difetti nell'ombra - e simili? Eppure la pennellata, l'impasto dei
colori, il, disegno, come fatti isolati, non avrebbero valore che di sgorbi. Lo
stesso è del verso. Dire che il verso d'un autore è bello, è dire che gli
aggruppamenti sillabici di cui si compone seguono ordinariamente certe
norme empiriche di sonorità. E si può ragionarne (e cosi di tutti gli altri
elementi dello stile) come se fossero separati dal lavorìo preparatorio
dell'espressione. Credo, insomma, che la poesia abbia il dovere di subire
o il diritto di richiedere la stessa maniera di critica che si concede alle altre
arti, in cui l'espressione appar meno immediata; cioè la critica dello stile,
insieme a quella dell'organismo: ciò appunto che, esagerato a teoria,
moltiplicato di pregiudizi, offuscato dalla venerazione cieca per autorità
inconcusse, era la poetica del rinascimento.
§ 7. - Questa critica-aia, che si riserba un tale diritto, può anche, d'altro
canto, allargarsi a qualche cosa che apparisce ancora più repugnante ad
ogni teoria: cioè dare consigli all'autore non soltanto sugli istrumenti della
espressione, ma pur sulla materia, intesa come una scelta fra il contenuto
extra-poetico delle impressioni. Non già, s'intende, alla maniera di quel
critico che, ragionando della canzone leopardiana «A un vincitore nel
pallone», biasima il poeta di aver ricorso alla Grecia quando poteva
trovare 'buoni -esempi nei tiratori svizzeri e tirolesi; - ma secondo la
temperata avvertenza del Foscolo: «essere difficilissimo, a chiunque
intraprenda di scrivere, lo scegliere uno stato di animo corrispondente .alla
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tempera del proprio cuore e alle forze del proprio ingegno; e dipendere
assai volte da questa scelta la misera o la felice riuscita di un'opera».
Perché non è da dimenticare - e questo pure si rivolge ai filosofi che han
certa tendenza a limitare ai critici l'ufficio loro pedagogico- come il
movente dello scrivere sia spesso letterario,senza che perciò l'opera che
n'esce debba necessariamente perdere di poetica naturalezza. Letterario
è poi sempre l'avviamento all'arte dello scrivere; voglio dire che se il poeta
maturo scrive per la necessità di esprimere, di liberarsi da un soverchio
d'impressioni
e
di
pensiero,
il
primo
movente
di
lui
giovine
fu l'ammirazione per chi espresse le proprie, il desiderio di far come loro.
Si veggan gli studi iniziali del Leopardi, del Foscolo. Fino a qualche
decennio fa si traduceva o si imitava da altri per molti anni prima di
esprimere se stessi: nè le canzonette saviolesche e gli sciolti younghiani
od ossianeschi nocquero, ch'io sappia, ai «Sepolcri»; nè la visione
varanesca e il travestimento d'Orazio ai «Canti»; nè gli «Iuvenilia» alle
«Odi Barbare».Oggi si vuoi essere originali subito: creare. Oggi il critico
impone al giovine la foga, e lo dirige alla sciattezza e al disordine, nel'
quale, per l'arte, non può essere che il vuoto.
Incominci il giovine a vedere, pensare, vivere non altro che versi
belli. Quando la maturazione dell'età e dell'osservare lo avranno nudrito,
allora il suo pensiero, la sua vita si esplicheranno e si esprimeranno
naturalmente in forma adeguata, cioè saranno essi stessi più pieni, più
«poesia». E per raggiungere questo non isdegni l'avvertimento del critico
che vuoi rifargli lo stile, come fosse cosa isolata dalla ispirazione. - Il
Croce, lucidissimo teorico, descrive così il processo dell'arte: -«L''individuo
A cerca l'espressione di un' impressione che sente, ma che non ha ancora
espressa... Eccolo a tentare varie parole e frasi, che gli diano
l'espressione cercata, che dev'esserci, ma ch'egli non possiede. Prova la
combinazione m, e la rigetta come impropria, inespressiva, manchevole,
brutta... Dopo altre vane prove... d'un tratto forma (par quasi che gli si'
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formi da sé spontaneamente) l'espressione cercata, e lux facta est».
Ottimamente. Ma il Croce stesso non vuol poi che si parli di
«padroneggiamento della tecnica» nel senso comune che si dà a questa
parola. Ora il dire all' individuo A: «il tuo periodo è mal costrutto, il tuo
verso è sillabato con monotonia, le parti dei tuoi componimenti sono
disgregate» e via via tutte queste frasi che formano l'armamentario della
critica tecnica e oggettiva dello stile, - tutto ciò val come dirgli né più né
meno che così: «abitualmente tu arresti a mezzo il processo espressivo, e
non sai esteriorizzare, per imperfezione di mezzi materiali, le tue
impressioni in maniera che si riproducano gradevolmente nel lettore». È,
insomma, un fare implicitamente della critica psicologica; onde non si
dovrebbe dalla «critica intera e perfetta» escludere un poco di quella
«poetica» che a prima vista sembrava repugnare ad ogni altro ragionevole
metodo, e che tutta la critica moderna, di qualunque tendenza, sembrava
aver escluso del tutto: - una «Poetica» variabile, con qualcosa di
soggettivo più che nell'antica; un mezzo termine fra il minimum di
soggettivismo necessario al metodo storico e il maximum concesso dal
metodo estetico.
Note:
Pubblichiamo qui, a cura di Simona Cigliana, il testo bontempelliano originariamente
apparso su «Rassegna contemporanea», anno I, fasc.2, febbraio 1908, alle pp. 128-140.
Per un commento di questo articolo cfr., in questo stesso numero di «Bollettino ‘900», il
saggio di Simona Cigliana Gli antidoti della ragione: classicismo, ironia, metafisica in
Massimo Bontempelli.
1
In modo affabile e discorsivo, Bontempelli prefigura già qui quell’idea, tutta militante,
della critica che egli perseguì ed esercitò vita natural durante.
2
Si riferisce a Anne Le Fèvre Dacier (Preuilly-sur-Claise, 1647 – Parigi, 1720) traduttrice
e filologa, che fu membro dell’Accademia dei Ricovrati, ricordata per le sue versioni in
prosa dell'Iliade (1699) e dell'Odissea(1708), che riaprirono in Francia l’annosa «querelle
des Anciens et des Modernes» e a per le quali entrò in polemica con il noto letterato e
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drammaturgo Antoine Houdar de La Motte (Parigi, 1672 – 1731), che, senza conoscere il
greco, versificò in francese la sua traduzione.
3
La definizione di Benedetto Croce «epigono del De Sanctis» non può che suonare
polemica e quasi offensiva, soprattutto considerando che siamo già nel 1908.
4
In De gli eroici furori.
5
Di Gian Giorgio Trissino, 1547.
6
Di Cecco d’Ascoli, non a caso definita de Gianfranco Contini l’«Anti-commedia».
7
In La Science du beau étudiée dans ses applications et dans son histoire (2 voll.,
1861).
8
Tipici delle sculture prodotte nell’isola di Egina
9
Cfr. G. Zanella, Paralleli letterari, Verona, Munster, 1885, pp. 277-98.
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<http://www3.unibo.it/boll900/numeri/2010-i/Bontempelli.html>
Giugno-dicembre 2010, n. 1-2
Questo articolo può essere citato così:
M. Bontempelli, Grande e piccola critica [1908],
in «Bollettino '900», 2010, n. 1-2, <http: // www3 . unibo . it / boll900 / numeri /
2010-i / Bontempelli.html>.