L`america di John mccain
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L`america di John mccain
Organo ufficiale d’informazione della Federazione dei Verdi Anno IV – n.186 sabato 18 ottobre 2008 Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1 comma 1 DCB - Roma • Direttore responsabile: Enrico Fontana • Editore: undicidue srl, via R. Fiore, 8 - Roma • Stampa: Rotopress, via E. Ortolani, 33 - Roma Registrazione Tribunale di Roma n. 34 del 7/2/2005 • Redazione: via A. Salandra, 6 - 00187 Roma - tel. 0642030616 - fax 0642004600 - [email protected] • Stampato su carta ecologica • La testata fruisce dei contributi di cui alla legge 7 agosto 1990 n. 250 La grande corsa di Obama Anche un autorevole endorsement del Washington Post a favore del candidato democratico alla White House Il Post è un giornale liberal che ha saputo dare anche voce alle opinioni più conservatrici. Adorano McCain, ma scelgono Obama. Nonostante l’esperienza, il giovane senatore ha formulato le proposte più convincenti nei settori politici determinanti per il futuro del Paese Alessio Postiglione a pagina 2 Una vittoria a valanga? Nella settimana in cui Obama sfonda “quota 270” sulle mappe elettorali, l’America si chiede se la corsa sia finita Alessio Nannini S L’America di John McCain Petrolio casalingo, energia nucleare, niente Kyoto: i Repubblicani non invertono la rotta 2 arà una vittoria a valanga da 350 voti elettorali, dicono alcuni strateghi democratici, e parlano di uno “tsunami economico” che spinge Barack Obama verso la Casa Bianca. No, attenzione, può essere una doccia fredda, replicano altri addetti ai lavori, esortando ad evitare entusiasmi prematuri. Nella settimana in cui Obama sfonda “quota 270” sulle mappe elettorali, l’America si chiede se la corsa sia finita o sia ancora possibile un colpo di scena. Da quasi un mese i sondaggi indicano concordi che il candidato democratico è in testa sul repubblicano John McCain. I dibattiti presidenziali non hanno cambiato niente, l’economia punisce il partito che da otto anni detiene la Casa Bianca e gli elettori, se sono vere le rilevazioni, sono pronti a mandare Oba- Barack Obama sta spendendo tre volte più dell’avversario John McCain in spot televisivi, che vengono diffusi in un gran numero di Stati che i democratici puntano a conquistare nelle elezioni presidenziali del 4 novembre prossimo. E’ quanto emerge da uno studio sulle spese dei candidati condotto dall’Università del Wisconsin, a Madison. In un giorno-campione, lunedì 13 ottobre, il senatore democratico ha speso ben 3,3 milioni di dollari acquistando spazi televisivi, mentre il suo avversario repubblicano ha investito circa 900 mila dollari. Il ritmo imposto da Obama indica, secondo lo studio, che si avvia a spendere quasi 100 milioni di dollari solo in spot televisivi nell’ultimo mese della campagna elettorale: una somma superiore all’intero budget che ha disposizione McCain. Il repubblicano ha scelto di accettare i finanziamenti pubblici per la fase finale della campagna e ha ricevuto 84 milioni di dollari da spendere in settembre e ottobre. Obama è stato invece il primo candidato dagli anni Settanta – quando sono entrate in vigore le leggi sui finanziamenti elettorali – a rinunciare ma nello Studio Ovale. Il sito Real Clear Politics, che monitora tutti i sondaggi, per la prima volta sulla propria mappa lo indica oltre i 270 voti elettorali, per il passaggio nel suo campo della Virginia, finora una roccaforte repubblicana. Nel sistema zionale) e servono 270 voti per vincere. Virginia, North Carolina, Ohio e Florida, tutti Stati vinti da George W. Bush nel 2004, sono ora orientati verso Obama. Basta che McCain ne perda uno per essere spacciato, ma tra gli strateghi democratici c’è I dibattiti presidenziali non hanno cambiato niente, l’economia punisce il partito che da otto anni detiene la Casa Bianca e gli elettori, se sono vere le rilevazioni, sono pronti a mandare Barack Obama nello Studio Ovale di Washington americano ogni Stato “vale” un certo numero di voti, quanti sono i suoi membri in Congresso. Chi vince la maggioranza del voto popolare nello Stato incassa tutto il bottino (con l’eccezione di Nebraska e Maine, che hanno un sistema propor- Barack spende in spot tv tre volte più dell’avversario ai soldi pubblici, e può investire tutto quello che riesce a raccogliere dagli elettori. Lo staff di Obama non ha diffuso cifre aggiornate sulla raccolta di fondi (non è tenuto a render noti i dati di settembre fino al 20 ottobre), ma le casse del candidato democratico risultano strapiene. McCain viene aiutato dal partito repubblicano, che ha a disposizione 66 milioni di dollari da spendere autonomamente dal candidato, ma anche unendo le spese del senatore con quelle del partito, resta un forte divario con Obama. In testa nettamente nei sondaggi, il democratico sta inoltre puntando soprattutto su spot “positivi”: solo il 34 per cento dei suoi interventi attaccano direttamente McCain. Al contrario il repubblicano, che è all’inseguimento, secondo l’università del Wisconsin attacca l’avversario nel 100 per cento degli spot. chi, come Paul Maslin, pensa che in realtà Obama se li aggiudicherà tutti, innescando un effetto a catena che porterà nel suo campo, nel West, anche Colorado, New Mexico e Nevada e gli darà una vittoria da 350 voti elettorali, simile a quella che nel 1996 accompagnò la conferma di Bill Clinton alla Casa Bianca. È uno scenario che Doug Schoen, ex sondaggista di Clinton, ha definito su “The Politic” uno “tsunami economico”, legato alla situazione di Wall Street. Ma c’è anche chi invita alla cautela. Primo tra tutti, lo stesso Obama. “Se sarò eletto presidente...”, dice in questi giorni nei comizi e ha ripetuto anche in Ohio, come sempre interrotto dagli elettori che gridano: “Non «se», «quando»!”. “No, no, calma - è la consueta replica di Obama - io sono superstizioso, va bene il «se»...”. Il sondaggista John Zogby, che non è certo di simpatie repubblicane, ha messo in guardia dal non credere troppo presto “che Obama abbia chiuso la partita”. I suoi sondaggi in questi giorni vedono il democratico avanti di soli 2-4 punti su scala nazionale, mentre la Gallup per il secondo giorno consecutivo lo indica in vantaggio dell’11% (52-41%). Secondo Zogby, il precedente da tenere a mente è quello di Ronald Reagan nel 1980, che all’epoca era considerato un po’ un’incognita come Obama: “Solo la domenica prima delle elezioni - ha detto Zogby - si ruppe la diga e la gente decise di fidarsi di lui”. Anche Karl Rove, lo stratega delle vittorie di Bush, sul Wall Street Journal si è detto convinto che la partita non sia chiusa e che gli elettori non siano ancora convinti che Obama abbia le doti che servono alla Casa Bianca. “Dei candidati recenti - secondo Rove - solo Michael Dukakis nel 1988 aveva una percentuale più ampia di elettori che dicevano ai sondaggisti che gli mancavano le qualifiche per essere presidente”. “Più tutele sociali ed economiche” 3 Intervista ad Angelo Bonelli: non importare il modello elettorale bipolare americano Economia batte “pelle nera” Elida Sergi [email protected] Wall Street batte il colore della pelle: meglio Barack Obama, un nero alla Casa Bianca, del bianco John McCain, troppo vicino alle politiche economiche di George W. Bush, che ci stanno costando casa e risparmi. Nessuno, negli Stati Uniti, pronuncerà apertamente una frase decisamente razzista di questo tipo, ma in tanti lo pensano. E sono sempre di più ad esserne convinti nelle aree industriali in crisi di Pennsylvania ed Ohio, due degli Stati decisivi per le elezioni presidenziali del 4 novembre. Nella “Rust Belt”, la cintura della ruggine, le “tute blu” erano pronte ad appoggiare Hillary Clinton, e dopo la sua sconfitta nelle primarie democratiche erano pronte ad appoggiare McCain, dato che il senatore dell’Illinois “manca di esperienza”: una maniera educata per dire “ha la pelle nera”. L’angoscia di non giungere alla fine del mese ha superato il timore del colore della pelle. In Ohio, secondo gli ultimi sondaggi, Obama raccoglie il 48,9 per cento delle intenzioni di voto contro 45,1 per McCain. Non è certo fatta, ma è possibile. La situazione è invece drammaticamente chiara in Pennsylvania, dove il vantaggio di Obama su McCain è stimato in ben 11 punti, 50,4 contro 39,4 per cento, secondo “Real Clear Politics”. Lo conferma anche il quotidiano online “The Politic”, secondo cui Obama sta ottenendo grossi risultati nell’area di Scranton, quella per eccellenza delle “tute blu” della Pennsylvania. E’ un’area storicamente democratica, è vero, ma che aveva votato alle primarie per Hillary (anche perché la famiglia è originaria della città), a larghissima maggioranza, 74 contro 26 per cento. E’ una città considerata “socialmente conservatrice”, una parola politicamente corretta per in realtà dire “razzista”. Per la prima volta forse nella storia degli Stati Uniti, il fattore razza potrebbe contare molto meno che in passato. E’ vero che i sondaggi devono essere presi con un minimo di prudenza, dato che non pochi elettori voteranno per McCain dopo avere assicurato che avrebbero scelto Obama. Gli esperti calcolano una discrepanza dell’1 per cento, del 2 per cento al massimo: teoricamente insufficiente per rovesciare la situazione. Niente “effetto Bradley o Wilder” quindi, come la questione razziale viene pudicamente definita nelle elezioni Usa. Tom Bradley, lo storico sindaco nero di Los Angeles, non venne eletto governatore della California nel 1982 esclusivamente perché aveva la pelle nera, dato che i sondaggi lo davano in testa. Douglas Wilder diventò governatore della Virginia ma solo per un pelo, nel 1989. I sondaggi lo davano vincitore con ampio margine. 2 sabato 18 ottobre 2008 L’equilibrio: il pregio di Barack La svota del Post: la leadership del senatore dell’Illinois può tirare via l’America dalle secche della crisi economica V dalla prima enerdì 17 non sempre porta male. Obama ha, infatti, ricevuto il prestigioso endorsement per la Casa Bianca da parte del “Washigton Post”. E non è un caso. E’ vero. Il “Post” già aveva appoggiato alle presidenziali John Kerry. Ma è anche vero che molti conservatori considerano questo giornale un classico esempio di liberal media bias. Ovvero un mass medium che, pure quando non appoggia apertamente un partito, viene scritto e confezionato da giornalisti liberal; che orientano il lettore con la scelta delle notizie. Ma sarà vero? Il “Post” ha appoggiato in passato molti politici liberal Repubblicani. Ma non sempre le posizioni politiche dell’autorevole quotidiano della Capitale si possono definire liberali. Chris Matthews, noto anchor man, con la sua ironia, ha parlato di “svolta neocon del Post”. D’altronde, con vari editoriali, il “Post” ha appoggiato la guerra in Iraq del 2003 e il taglio della Social Security. Ed è proprio per questo che l’endorsement a Obama pesa. Il Post ancora reputa McCain un politico di altissima levatura. “McCain è fra i politici che ci piacciono di più”. L’editorialista aggiunge, serafico: “Abbiamo riserve e preoccupazioni per l’inespe- Le politiche sulle quali si gioca il futuro del Paese – a detta dell’anonimo editorialista – sono quattro: redistribuzione della ricchezza, miglioramento della scuola, della sanità e lotta ai cambiamenti climatici. E la proposta di Obama è la migliore La macchina dei sondaggi al lavoro Su scala nazionale le rilevazioni stanno offrendo indicazioni contraddittorie Il sondaggista Neil Newhouse, in un incontro con alcuni giornalisti a Washington, è stato esplicito: “Quello che facciamo con i numeri è più arte che scienza”. Con il voto per la Casa Bianca che si avvicina, gli istituti di rilevazione sono come sempre sotto pressione: i candidati usano i loro numeri per decidere su quali Stati spostare le risorse, ma specialmente su scala nazionale i sondaggi stanno offrendo indicazioni contraddittorie. Il motivo è legato alle particolarità del sistema di voto e alle caratteristiche del Paese. Per votare occorre registrarsi, indicando un’affiliazione come democratico, repubblicano o indipendente. La grande sfida dei sondaggi 2008 è cercare di capire come e quanto stia cambiando l’elettorato, in un anno che tutti ritengono di svolta. Ma le modalità utilizzate sono spesso controverse. Per esempio, è convinzione diffusa che quest’anno aumenterà la partecipazione al voto degli under 30, in buona parte perché attratti da Barack Obama. Ma prevedere come si orienteranno è difficile con i metodi tradizionali: i sondaggisti usano le linee telefoniche fisse, mentre i giovani comunicano su cellulari e web. Gli addetti ai sondaggi, inoltre, hanno mezzi limitati per tastare il polso alle minoranze, mentre capire per esempio quale sarà la reale affluenza degli afroamericani è stavolta decisivo, vista la presenza di un candidato nero. Le maggiori controversie sono legate a formule che vengono usate per “aggiustare” i risultati. Alcuni istituti ritengono che i dati che ottengono debbano essere “pesati” e modificati per renderli omogenei con le affiliazioni ai partiti su scala nazionale. Così per esempio il sondaggista Scott Rasmussen valuta che gli elettori registrati come democratici superino quest’anno i repubblicani per 39,3% a 33% e modifica i risultati per adeguarli a questa realtà. John Zogby, un altro sondaggista, sta denunciando il metodo dei colleghi. Le sue rilevazioni danno vantaggi minori a Obama e Zogby ha spiegato al Wall Street Journal che il motivo è che “alcuni partono dal presupposto che solo il 27% di coloro che rispondono siano repubblicani: sbagliano, non descrivono l’America”. Ci sono sondaggi, come il Los Angeles Times-Bloomberg, che evitano qualsiasi formula per omogeneizzare i risultati in base alle percentuali di affiliazione e li usano per quello che sono. Altri istituti, come la celebre Gallup, hanno deciso di offrire ogni giorno ben tre risultati diversi. Un sondaggio riguarda semplicemente gli elettori registrati, a prescindere dalla loro effettiva volontà di esprimersi. Ma tra gli aventi diritto e coloro che alla fine votano davvero in America c’è un ampio divario, legato anche al fatto che in molti Stati dove l’esito è scontato gli elettori non sono particolarmente stimolati a presentarsi alle urne. Nel 2004, l’affluenza alle elezioni presidenziali fu del 60,7% (122 milioni di persone) ed è stata la più alta dal 1968. Per questo, Gallup offre adesso anche altri due sondaggi legati agli elettori “probabili”, che si basano su modelli storici e formule studiate sulla base dei cambiamenti della società. Una prima rilevazione, definita “tradizionale”, si serve dei modelli delle passate elezioni ed è quella che attualmente indica un vantaggio minore per Obama. Una seconda, chiamata “modello allargato”, è legata alle effettive intenzioni di voto e tiene conto della possibile maggiore affluenza di giovani e minoranze. rienza di Obama”. Ma qual è il perché, allora, di questo endorsement? Sarah Palin. Al Post proprio non va giù. La sua agenda valoriale ultraconservatrice è ininfluente in tutte le faccende che interessano veramente gli america- ni. Ma non sono solo i demeriti della Palin a costituire le virtù di Obama. Nonostante le preoccupazioni, il “Post” è generoso di acuti rilievi positivi verso il senatore dell’Illinois. Viene descritto come un uomo di sottile intelligenza, di grande capacità di costruire il consenso; nella politica interna sembra possedere quell’equilibrio in grado di portare il Paese fuori dalla crisi economica. Regolamentare quello che non va, credere nel mercato e moralizzare la condotta degli operatori economici riportando il tema della giustizia sociale e della redistribuzione al centro del dibattito politico. Ecco, allora, che la sponsorizzazione del “Post” può rivelarsi decisiva ed orientare un’opinione pubblica che, quando si è fidata del suo giornale, ha dovuto accettare anche George W. Bush. Due anni fa, infatti, il giornale ha anche sottolineato la necessità che le truppe non si ritirassero subito dall’Iraq, sostenendo la strategia neocon pre-Petraesus e scioccando gli americani, in larga maggioranza schierati sul rapido ritiro delle truppe. La sponsorizzazione del “Post”, in definitiva, suona anche come un’autocritica quando individua in Obama l’uomo giusto per trascinare l’America via dalla condizione disastrosa nella quale l’ha precipitata l’ultima presidenza. Le politiche sulle quali si gioca ilfuturo del Paese – a detta dell’anonimo editorialista – sono quattro: redistribuzione della ricchezza, miglioramento della scuola, della sanità e lotta ai cambiamenti climatici. E la proposta di Obama è la migliore. In tutti i casi. L’America di John McCain Petrolio Usa, energia nucleare, niente Kyoto: i Repubblicani non invertono la rotta Francesco Benetti [email protected] L’ energia, la pace, il futuro. E ancora le riforme, la prosperità. In ogni programma politico troveremo sempre queste parole, e ci mancherebbe altro. Anche il programma McCain-Palin 2008 non si discosta dallo standard di una democrazia moderna. Quello che è importante, è non fermarsi ai titoli. Alla voce “Energia”, per esempio, il punto fondamentale è ridurre o eliminare la dipendenza statunitense dal petrolio straniero. Utilizzando il proprio. Certo, qualche timida apertura alle fonti rinnovabili viene fatta, ma che peccato rinunciare a quei “trilioni di dollari di petrolio presenti nel territorio americano”. Probabilmente l’idea viene dalla vice Sarah Palin, direttamente da quell’Alaska costantemente a rischio trivellazioni. Sul fronte innovazioni, il mondo dei trasporti offre le migliori possibilità: auto ibride e nuovi carburanti diventano la nuova frontiera. L’ottica, però rimane quella dell’automobile e del trasporto su strada, lungi dall’intaccare il predominio delle grandi case automobilistiche, per le quali sono pronti milioni di dollari per l’innovazione e l’efficienza. Bicchiere mezzo pieno quindi. Tornando alle energie rinnovabili, o, come vengono definite dal programma repubblicano, “fonti alternative e pulite”, si arriva alla grande contraddizione: dopo una breve e irrilevante introduzione (“Non c’è motivo per cui gli Usa non dovrebbero essere leader in questo settore”), non troviamo sole, acqua o vento, ma “45 nuove centrali nucleari entro il 2030”. Più Le vere energie pulite sono relegate all’ultimo punto, un fastidio necessario a cui devolvere qualche risorsa statale finché “non riusciranno ad essere autosufficienti e avranno un mercato”. O almeno questo è ciò che pensano i suoi spin-doctor… realistico forse del progetto italico del nostro Governo, è comunque rappresentativo della nuova utopia conservatrice di questo inizio di millennio, secondo la quale l’energia nucleare, i cui problemi di immagazzinamento delle scorie non è ancora stato risolto, sarebbe il futuro. Le vere energie pulite sono relegate all’ultimo punto, un fastidio necessario a cui devolvere qualche risorsa statale finché “non riusciranno ad essere auto-sufficienti e avranno un mercato”. Allo stesso modo si parla di cambio climatico. La sensazione è che sia inserito nel programma proprio perché non si poteva evitare: l’approccio è totalmente economico, e la lettura che ne viene fatta è nell’ottica dello scambio di quote e del profitto, della crescita e del “non interferire con l’interesse delle aziende”. La politica sul clima “deve favorire gli sforzi internazionali” per risolvere i problemi. Ma Kyoto non viene nominato, mentre l’ipotesi vede gli Stati Uniti alla testa di un non meglio definito sforzo per combattere il cambio climatico. Questo approccio rientra sicuramente in un più generale bisogno degli States di sentirsi leader e non solamente partecipi di uno sforzo multilaterale – di qualunque natura esso si tratti. Dal programma per l’agricoltura, poi, ritroviamo un grande classico della politica statunitense: supporto e aiuto agli agricoltori americani, nei confronti dei quali vige un onesto impegno alla protezione di un settore vitale (anche in termini demografici); al tempo stesso, però, la “battaglia” sui tavoli di contrattazione di tutto il mondo vedrà l’amministrazione McCain impegnata nell’eliminare ogni tipo di resistenza estera all’export nordamericano, perché “il 95% dei consumatori sta al di fuori del nostro territorio, ed è nostro dovere raggiungerli”. Nessun accenno agli Ogm, che saranno pertanto ben accetti: l’innovazione tecnologica nel campo agricolo sarà una delle priorità della nuova amministrazione, nel perenne inseguimento del massimo profitto, della crescita. È ancora il sogno americano, che nonostante le battute d’arresto e le recenti lezioni economiche continua a correre, incurante (o perlomeno poco attento a giudicare da questo programma elettorale) delle conseguenze, fintanto che l’economia e la crescita saranno garantite. sabato 18 ottobre 2008 3 “Più tutele sociali ed economiche” Intervista ad Angelo Bonelli: “Sarebbe dannoso importare nel nostro Paese il modello elettorale bipolare americano” Valerio Ceva Grimaldi [email protected] A ngelo Bonelli, già capogruppo dei Verdi alla Camera, esperto di politica internazionale: tra poche settimane negli Usa si voterà per eleggere il presidente. Quali crede saranno i temi principali su cui i candidati Obama e McCain si giocheranno l’elezione? “Sarà certamente la crisi economica e sociale, in particolare il crollo di un modello solo liberista. Obama sta dando un’impronta di forte attacco all’operato di Bush, chiedendo più tutele sociali ed economiche per gli americani. Per quanto riguarda la politica estera, i temi portanti saranno il ritiro delle truppe dall’Iraq, il recupero del multilateralismo e del ruolo degli organi sovranazionali, a partire dall’Onu”. Dopo una grande evidenza con il Nobel ad Al Gore, le questioni ambientali sembrano tornate un po’ marginali anche nel dibattito politico americano. Come mai? “Tra le priorità della campagna elettorale americana c’è certamente la lotta al cambiamento climatico, questione strettamente legata alle questioni economiche e finanziarie. Il fatto è che però è sopraggiunta la crisi economica e quindi è normale che se ne parli in modo prevalente in quest’ultimo dibattito. Va ricordato, come dice Jeremy Rifkin, che la crisi alimentare è legata all’aumento del prezzo delle materie prime e quindi è evidente lo strettissimo legame che esiste tra l’ambiente e l’economia. In caso di vittoria di Obama ci auguriamo che, finalmente, gli Stati Uniti possano sottoscrivere il protocollo di Kyoto. Purtroppo in Italia il presidente del Consiglio Berlusconi ha invece acquisito le posizioni antiambientaliste di Bush...”. In base a numerosi sondaggi, negli Usa sembrerebbe riemergere la questione razziale. Ritiene che una forma di razzismo strisciante possa influenzare l’esito del voto? “C’è un tentativo da parte repubblicana di alimentare quest’aspetto in un modo basso, retrivo. Addirittura indicando Obama come “l’amico dei terroristi”… si è persa davvero la bussola. Peraltro, alcuni sondaggi della Cnn e di altre testate indicano che, in luoghi dove i democratici non vincono fin dal 1964 come in Virginia, nell’attuale fase politica prevarrebbero. Ciò dimostra che Obama rappresenta un segno di svolta, un vero cambiamento, tutto ciò in una modalità che va oltre la “pancia” dell’America più profonda, va oltre (e quindi, elettoralmente, li compensa fino a superarne gli eventuali effetti contrari) i pregiudizi”. Anche nel nostro Paese ci stiamo avviando verso un bipolarismo come quello americano? E con quali conseguenze? “La volontà dei due leader dei maggiori partiti italiani, Berlusconi e Veltroni, sarebbe proprio questa, perché funzionale a un sistema economico che non vuole elementi critici. Il bipolarismo consente agli interes- “In caso di vittoria di Obama ci auguriamo che, finalmente, gli Stati Uniti sottoscrivano il protocollo di Kyoto. Purtroppo in Italia il presidente del Consiglio Berlusconi ha invece acquisito le posizioni antiambientaliste di Bush...” La battuta che cambia la vita Per gli esperti, la chiave del successo di una campagna elettorale sta nei dibattiti in Tv Simone Di Meo [email protected] E ra il 1960: John F. Kennedy batte un cupo Richard Nixon, impreparato per la Tv. 1976: Gerald Ford spara una gaffe fatale sull’Urss. 1984: Ronald Reagan con una battuta vince un secondo mandato alla Casa Bianca. Sono alcuni dei momenti-chiave di dibattiti presidenziali dell’ultimo mezzo secolo, che hanno segnato svolte nelle campagne elettorali, rovinato carriere politiche e cambiato la storia dell’America. Barack Obama e John McCain sono arrivati al loro terzo faccia a faccia tenendo a mente le molteplici lezioni imparate dai dibattiti del passato. I loro strateghi hanno passato al setaccio esperienze ed errori per aiutare i candidati a cercare di evitarli. Non è solo una questione di preparazione degli aspiranti presidenti: quasi sempre i dibattiti Tv si vincono sulla base della percezione che resta agli elettori e basta una battuta sbagliata o una smorfia per rovinare tutto. Lo ha imparato a proprie spese Al Gore, che nel 2000 mostrò gesti di esasperazione di fronte alle risposte di George W. Bush, e finì con l’apparire agli elettori saccente e presuntuoso. E’ anche una questione di luce e makeup. Il 26 settembre 1960, nel primo dibattito presidenziale trasmesso in Tv nella storia americana, Kennedy apparve solare e rilassato, mentre Nixon, con il volto pallido, si mostrò cupo e sudato sotto i riflettori. Risultato: per i 66,4 milioni di americani che videro il dibattito sugli schermi, Kennedy fu il chiaro vincitore, mentre gli 8 milioni di persone che lo seguirono alla radio ebbero l’impressione opposta. “Le luci sono tutto”, amava ripetere Michael Deaver, lo stratega di Reagan recentemente scomparso, un mago del settore. Il suo trucco era “inondare” il presidente-attore con luci che scendevano dall’alto e ne esaltavano il volto scavato dalle rughe. Nel 1984 lo staff dell’avversario di Reagan, il democratico Walter Mondale, si fidò a tal punto del talento di Deaver che gli lasciò carta bianca nel decidere le luci. Il problema è che ciò che funzionava benissimo per Reagan – che non usava cerone - risultò invece una pessima soluzione per Mondale: il pesante make-up che aveva sul volto richiedeva luci dirette, non dall’alto. I dibattiti sono momenti a rischio per le campagne elettorali perché si prestano a gaffe poi difficili da rimediare. Nel 1976 l’allora presidente repubblicano Gerald Ford, nel faccia a faccia con lo sfidante democratico Jimmy Carter, si lasciò scappare una frase ardita: “Non c’è alcun dominio sovietico sull’Europa dell’Est e non ci sarà mai sotto un’amministrazione Ford”. Nonostante i tentativi del moderatore di dare a Ford la possibilità di chiarire la sua idea che la Polonia o la Romania all’epoca fossero da considerare “indipendenti e autonome”, il presidente non fece retromarcia. Carter, che aveva perso il precedente dibattito per aver studiato troppo ed essersi presentato sovraccarico di dati, recuperò posizioni e vinse le elezioni. Reagan, nel 1984, perse malamente il primo dibattito con Mondale perché, a differenza di Carter, non aveva studiato. Ma nel secondo - illuminato dalle luci di Deaver - guadagnò un applauso anche dall’avversario e vinse le elezioni con una battuta. Buona parte del dibattito quell’anno era incentrata sul fatto che Reagan era troppo vecchio, a 73 anni, per un secondo mandato: un tema sensibile oggi per McCain, che ne ha 72. Quando arrivò l’inevitabile domanda sull’età, Reagan sfoderò il miglior sorriso hollywoodiano e replicò: “Non farò dell’età un tema di questa campagna. Non voglio sfruttare a fini politici la giovinezza e l’inesperienza del mio avversario”. E Mondale, a 56 anni, era più anziano di Obama di un decennio. Se tutta l’attenzione, di solito, è dedicata ai dibattiti tra candidati presidenti, spesso a far notizia sono anche quelli dei vice. Sicuramente è questo il caso nel 2008, per lo scontro in Tv della repubblicana Sarah Palin contro la vecchia volpe democratica Joe Biden. Un precedente del 1988 turba i sonni degli strateghi repubblicani: Dan Quayle, l’allora giovane candidato vice di George Bush Sr., nel dibattito contro l’avversario Lloyd Bentsen si paragonò a John F. Kennedy. L’anziano ed esperto Bentsen lo gelò: “Io ho lavorato con Kennedy. Jack Kennedy era un mio amico. Senatore, lei non è Jack Kennedy”. Lo ha imparato a proprie spese Al Gore, che nel 2000 mostrò gesti di esasperazione di fronte alle risposte di George W. Bush, e finì con l’apparire agli elettori saccente e presuntuoso. E’ anche una questione di luce e make-up si economici consolidati, come più volte ho detto, di “cadere” sempre in piedi indipendentemente da chi vince. Nel nostro Paese serve sì una semplificazione del sistema politico, ma ciò non dovrà mai avvenire a discapito del pluralismo e della democrazia. Quando una fetta importante della politica (come i Verdi, l’Italia dei Valori, l’Udc, Rifondazione comunista ed altri) rischia di non aver più rappresentanza (le proposte di modifica della legge elettorale per le europee vanno verso un meccanismo che prevede lo sbarramento al 5% e l’abolizione delle preferenze, ndr), oltre a costituire un fenomeno di riduzione del pluralismo politico, pone anche un problema di mancata partecipazione alla vita politica. Non è infatti detto che gli elettori di queste forze si “riversino” a sostenere i due partiti più grandi, e questo fenomeno comporta un impoverimento complessivo del sistema politico. In più, bisogna tenere presente che in questo quadro è solo chi ha più soldi che può fare politica. Negli Usa, per essere eletto “solo” consigliere comunale a New York, bisogna spendere l’equivalente di diversi milioni di euro. Per i tanti che hanno cominciato a fare politica indipendentemente dal censo si annunciano tempi durissimi. Sarebbe davvero un danno per la democrazia arrivare a un sistema bipartitico. Peggio: un colpo mortale”. Allora che fare? “E’ necessario organizzare una grande battaglia politica che non significa riproporre la frammentazione ma fare in modo che cittadini e forze politiche possano portare avanti le proprie idee e non essere fermati. Ciò sarebbe inaccettabile da un punto di vista democratico. Serve quindi una forte mobilitazione delle forze politiche e sociali che hanno a cuore la democrazia per difendere il pluralismo della rappresentanza”. Una previsione: chi vincerà? “Sono per Obama” La gaffe E sulla scheda elettorale comparve Barack “Osama” Un refuso che crea imbarazzi e qualche polemica: una contea nello Stato di New York ha inviato agli elettori schede per il voto per corrispondenza, per le elezioni presidenziali, nelle quali il candidato democratico è indicato come Barack “Osama”, invece di Obama. “E’ stato un errore fatto in buona fede”, ha detto Edward McDonough, uno dei responsabili delle procedure elettorali per la contea di Rensselaer, un democratico. “E’ un refuso, abbiamo tre persone incaricate di rivedere le bozze e in qualche modo non è stato notato”, gli ha fatto eco il collega repubblicano Larry Bugbee. Il quotidiano “Times Union” di Albany, che ha portato alla luce la vicenda, ha però sottolineato come su qualsiasi tastiera la lettera “S” sia abbastanza lontana dalla “B” da far pensare più a un lapsus, o a un gesto deliberato, che non a un refuso. Le schede sbagliate, secondo le autorità locali, sono state inviate a circa 300 elettori. Chi lo chiederà avrà la possibilità di riceverne una corretta, ma alcuni elettori si sono chiesti se, votando per “Osama”, la loro preferenza resti valida o possa venir annullata il 4 novembre al momento dello scrutinio. baleniera 220x335 1-02-2008 19:20 Pagina 1 WWW.GREENPEACE.IT ACCETTARE IL DENARO DELLE AZIENDE E DEI GOVERNI SAREBBE TRADIRE NOI STESSI. Noi non lo faremo mai. Per non limitare, in nessun modo, le nostre azioni. Proprio per questo, abbiamo bisogno del tuo aiuto. Per rimanere quello che siamo sempre stati. P e r i n f o r m a z i o n i c h i a m a l o 0 6 . 6 8 1 3 6 0 6 1 o p p u r e v i s i t a i l n o s t r o s i t o . DEVOLVI IL 5 X1000 A GREENPEACE. N E L T U O M O D U L O P E R L A D I C H I A R A Z I O N E D E I R E D D I T I , F I R M A N E L S E T T O R E D E N O M I N AT O : " S O S T E G N O D E L L E O R G A N I Z Z A Z I O N I N O N L U C R AT I V E D I U T I L I T À S O C I A L E . . . " E I N S E R I S C I I L C O D I C E F I S C A L E 9 7 0 4 6 6 3 0 5 8 4