La relazione di Maurizio Scarpa

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La relazione di Maurizio Scarpa
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area programmatica
lavoro società - cambiare rotta
La Cgil verso il congresso:
Il ruolo, il contributo e le prospettive
della Filcams
Bologna 28 gennaio 2005
Relazione Introduttiva
Maurizio Scarpa
Segreteria Nazionale Filcams
E’ questa la terza assemblea nazionale che promuoviamo come area programmatica congressuale “Lavoro
Società” della Filcams.
Questi nostri incontri, abbiamo sempre voluto caratterizzarli come un momento di confronto con tutta la
nostra organizzazione
Non ha mai voluto questo nostro appuntamento essere un incontro autoreferenziale di un corpo separato,
ma l’ambizione è sempre stata quella di elaborare idee, proposte, contributi che interagissero con la vita
quotidiana della Filcams.
Dobbiamo dire, con un piccolo senso d’orgoglio, che quest’obiettivo si è più volte concretizzato, soprattutto
nei passaggi importanti della categoria, e anche quando abbiamo segnato punti di dissenso, non si è mai
interrotto il confronto, e di questo va dato atto a tutta la Filcams che non ha mai messo in discussione (se
non in alcuni casi marginali) né il rispetto delle reciproche posizioni, nè l’interesse per il raggiungimento di
una sintesi unitaria, anche quando alla fine non è stato possibile realizzarla.
Questa nostra giornata di discussione, rispetto a quelle precedenti, assume un carattere più impegnativo
perché al confronto d’idee, si viene oggi a sommare una fase che ci chiama a prendere decisioni importanti.
Se, come ormai appare certo, il Congresso si terrà alla sua scadenza naturale dall’inizio dell’iter
congressuale ci separano pochi mesi.
E’ questo un Congresso, come ormai capita sempre più spesso, che si svilupperà in un momento
particolarmente delicato per il paese, che chiama il movimento sindacale, ma anche le forze politiche della
sinistra, a scelte chiare ed impegnative.
Tre sono i filoni che come area vogliamo proporre alla discussione odierna: l’evoluzione in atto nei processi
economici sia nazionali sia internazionali, il ruolo della Cgil e della Filcams nella fase che stiamo
attraversando, e per ultimo, ma non ultimo, quali evoluzioni sono possibili nella vita interna della nostra
organizzazione.
Quale scenario economico si presenta nella fase attuale?
Nel dibattito politico quando si parla dell’iniziativa della Cgil, sia nel bene che per attaccarla, è consuetudine
fare riferimento alle grandi e decise mobilitazioni che abbiamo messo in campo in questi ultimi tre anni. E’
indubbio che esse hanno significato molto nella vita del paese. Viene però sottovalutato che il peso politico
che la nostra iniziativa ha assunto in questi anni, al contrario di quanto affermano i nostri detrattori, non è
dovuto al fatto che abbiamo giustamente detto “no” ai provvedimenti del governo della destra, ma perché
abbiamo colto nella nostra analisi il segno che andava delineando la fase, ne abbiamo denunciato i pericoli e
le probabili evoluzioni. Così è stato per la deriva autoritaria individuata nel libro bianco di Maroni, così come
l’aver individuato il sopraggiungere di una pesante crisi economica, con al centro un preoccupante declino
industriale. Analisi che all’inizio eravamo i soli a fare, ma della quale tutti i soggetti politici e sociali hanno
dovuto, uno dopo l’altro, compresa Confindustria, prenderne atto della correttezza
Ora con questo nostro congresso siamo chiamati ad un nuovo sforzo di lettura della fase, compito reso
ancor più necessario dal provincialismo e "pressapochismo" che il dibattito politico sta assumendo in questi
mesi.
Non è certo confortante lo scenario che presenta il dibattito attuale nella coalizione a sinistra.
Invece i processi di cambiamento rischiano d’essere epocali senza che in Italia ve ne sia la minima
percezione.
La guerra in Iraq ha segnato uno spartiacque netto tra una fase dell’espansione del modello economico e
sociale che abbiamo chiamato globalizzazione e l’inizio del suo declino.
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Infatti, occorre prendere atto che il processo di globalizzazione che ha contrassegnato gli anni ’90 ha
velocemente preso la direzione del declino se non addirittura dell’inversione, fatto che di per se non ha una
connotazione né positiva né negativa, ma che potrà essere uno o l’altra cosa secondo quale evoluzione
prenderà la nuova fase: infatti, ad esempio, se ciò porterà alla nascita di nuove aree economiche omogenee,
che a questo livello sanno costruire una rete di relazione economiche e culturali, ciò non potrà che portare
un beneficio all’intero pianeta, ed in particolare ai paesi meno sviluppati. Lo sviluppo di una globalizzazione
selvaggia dei mercati, abbiamo visto, che al contrario di quello che avevano teorizzato i neocons americani,
è risultato un disastro per i paesi del cosiddetto terzo mondo, che oggi sono più poveri che 30 anni fa.
Il Fondo Monetario e la Banca Mondiale hanno imposto privatizzazioni selvagge di imprese, dello stato
sociale, una riforma fiscale con basse aliquote marginali (oggi tanto cara a Berlusconi), riduzione della spesa
pubblica, liberalizzazione delle importazioni, che ha portato beneficio alla libertà delle imprese e del
commercio dei paesi industrializzati ma un depauperamento degli stati in via di sviluppo. Esempi eclatanti
sono la crisi finanziaria delle cosiddette Tigri asiatiche nel 97 e più vicino a noi la disastrosa crisi
dell’Argentina.
La globalizzazione non è, come si è pensato anche a sinistra e nel movimento antiglobal, un fenomeno
irreversibile. Anzi, rispetto a precedenti globalizzazioni verificatesi nel passato (basti pensare che l’impero
britannico copriva i commerci nella metà delle terre emerse del pianeta e dirigeva la maggior parte degli
scambi finanziari), la nostra fase d’interazione economica è tra le più brevi..
Così come la globalizzazione del secolo XIX finì con la prima guerra mondiale, reintroducendo una
limitazione degli scambi commerciali e finanziari, gli elementi che contrassegnano l’evoluzione della guerra
in Iraq portano nella medesima direzione.
La globalizzazione necessita di tranquillità e di fiducia, solo così il costo della distanza si riduce rendendo
possibile la convenienza di produrre in luoghi diversi da quelli in cui si vende. Ma anche l’integrazione
culturale e sociale è fondamentale per vendere il medesimo prodotto a mercati sempre più vasti.
Le vicende seguite all’11 settembre sempre più denotano che anziché andare verso un’integrazione, si
stanno sempre più alzando barriere insormontabili, politiche, economiche culturali, che minano alla radice la
strategia dei neocons e della presidenza USA.
A ciò si aggiunga che la maggior parte dei prodotti presenti sul mercato, abbassano il loro know how
rendendoli producibili a minor costo negli stessi paesi fuori dal G7.
Mi sono soffermato su questo non per spirito accademico, ma perché, se questa analisi è condivisa, è
evidente che saremo di fronte ad un decennio di profondi cambiamenti economici che ci riguarderanno
direttamente perché investiranno Europa ed Italia.
In questo quadro diviene per noi importante un’accelerazione dell’integrazione europea che si emancipi dalla
dipendenza statunitense che ne soffoca lo sviluppo. Sempre più appare evidente che l’economia Usa, con la
sua politica d’indebitamento e drenaggio di capitali, più che una locomotiva per l’economia mondiale appare
un’idrovora che toglie acqua dove gli altri tentano di nuotare.
Il dato che colpisce nell’economia USA è che fatto 100 il PIL del 2004, le spese sono stati 106.
Inoltre se si va ad analizzare la crescita del Pil americano di questi anni, si scopre che più che per una
effettiva crescita economica, esso è il frutto dell’intervento dello Stato attraverso le proprie spese e quindi
dell’indebitamento pubblico.
L’intervento statale dalla fine del 2001 al 2002 nell’economia Usa è stato massiccio: innanzi tutto nella spesa
militare, poi con l’introduzione di sgravi fiscali; con la pratica dei sussidi (come accade ad esempio per
l’agricoltura, le linee aeree e l’industria del legname), o attraverso l’introduzione di dazi, com’è accaduto per
la siderurgia nel 2002 che ha impedito l’importazione d’acciaio a prezzi più convenienti. Tutto ciò praticato
dall’iperliberista George W Bush. Ma pur con questo intervento massiccio dello Stato l’economia è cresciuta
ad un ritmo dimezzato rispetto agli anni ’90.
Certo è che un indebitamento come quello attuale, non è sostenibile nel lungo periodo, anche perché
fortemente finanziato da paesi, prima fra tutti la Cina, che intendono avere un ruolo autonomo nell’economia
mondiale anche grazie a tassi di sviluppo del 9% annuo, come quello registrato nel 2004.
Già i segnali di una riduzione degli investimenti esteri in Usa sono evidenti, e a ciò si aggiunga un
rallentamento dell’economia mondiale, con una crescita del PIL americano tra il 3 e il 3,5 % e una crescita
europea al di sotto del 2%.
Una premessa che con facilità produrrà un ulteriore indebolimento del dollaro con conseguenze sia
sull’inflazione USA sia sulla capacità d’esportazione dell’Europa.
E’ evidente che le prospettive per l’economia italiana, con un tessuto produttivo in declino come il nostro,
non sono per nulla favorevoli.
Le politiche economiche del nostro Governo, in questo quadro rischiano d’essere catastrofiche.
Importare semplicemente la ricetta reaganiana della riduzione delle tasse senza la prospettiva di una forte
crescita economica produrrà in tempi brevi un ulteriore indebolimento dell’economia del paese, mettendo lo
Stato in una situazione d’impossibilità di intervenire, proprio mentre abbiamo visto la stessa America
scegliere nella pratica questa strada.
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Ma gli USA non sono l’unico esempio: in Gran Bretagna è stata nazionalizzata la Ferrovia, in Francia le
privatizzazioni sono molto caute (addirittura ai dipendenti “privatizzati” è mantenuto lo status di dipendenti
pubblici) in Giappone alla Banca centrale è stato dato il potere di acquisire azioni d’aziende in crisi,
esattamente come un tempo l’IRI italiana.
Inoltre va ricordato che la politica del basso prelievo fiscale, nella politica reaganiana è stato accompagnata
da provvedimenti di radicale riforma dei mercati finanziari che hanno notevolmente rafforzato le
multinazionali attraverso una forte concentrazione di capitali, con il conseguente rafforzamento
dell’economia americana. Basti pensare che al termine di questa riforma le prime 1000 imprese (su 17mila
quotate nelle borse mondiali) detenevano l’80% del valore di mercato.
Si pensi alle nostre aziende ed alla nostra borsa e forse si ha il senso delle proporzioni.
Al di là del giudizio che le scelte disastrose di Reagan hanno avuto in campo sociale, con la conseguente
limitazione dei diritti e l’aumento delle diseguaglianze, è evidente che ciò non è riproducibile nel nostro
paese, neppure con quelle caratteristiche: il risultato sarà ugualmente di ingiustizia sociale, ma
accompagnata da una pesante crisi economica.
In questi ultimi mesi, in conseguenza della legge finanziaria, molte sono state le analisi riferite alla situazione
economica attuale del nostro paese.
Ora però sia il nostro congresso, sia le forze politiche della sinistra che intendono sconfiggere Berlusconi e
governare il paese, devono dare un’indicazione precisa su quale strategia perseguire.
In uno schieramento bipolare è evidente che come Cgil, pur nella nostra autonomia, ci rivolgiamo allo
schieramento progressista per avanzare le nostre proposte di cambiamento della politica economica e
sociale del paese.
E’ un bene che il nostro congresso si svolga prima delle elezioni, perché uno dei compiti che dovrà svolgere
sarà proprio quello di elaborare un’idea di cambiamento dell’Italia da sottoporre alle forze politiche che
intendono governare il nostro paese.
Da quanto detto sino ad ora assume un forte rilevanza la centralità dell’Europa.
Oltre ad un processo di democratizzazione del sistema politico, obiettivo non certo raggiunto con il trattato di
Roma (quello volgarmente chiamato Costituzione Europea) che sarebbe troppo lungo affrontare ora, il
problema centrale del confronto europeo dovrà essere quello di definire una nuova politica economica
europea che, come si diceva, abbia una connotazione autonoma da quella nordamericana.
In questo quadro non ha senso arroccarsi in una difesa acritica del trattato di Maastricht.
Come sviluppare industria e servizi
Se è vero che la destra pensa ad una revisione del trattato per la nota politica fiscale, per la sinistra la
possibilità di maggior margine di manovra in termini economici da parte dello Stato deve essere un obiettivo
da perseguire.
Il rilancio dell’economia passa attraverso due strade obbligate: il rilancio del tessuto produttivo e un rinato
ruolo dello Stato nell’economia.
Di fronte al declino industriale, di fronte al nanismo delle nostre imprese, di fronte alla debolezza del nostro
mercato finanziario, è non solo sbagliato ma anche utopico pensare ad una ripresa, nella attuale
contingenza economica, dell’economia italiana, senza un intervento dello Stato.
Negli anni ‘80 e ‘90 abbiamo letto libri sulla fine del lavoro, su una società di servizi e banalità di questo
genere.
Oggi per fortuna si è tornati con i piedi per terra e ci rendiamo tutti conto che un’economia si basa ancora
sulla produzione anche se, certamente, i modi di produrre si sono modificati e molto di ciò che oggi noi
chiamiamo servizi sono null’altro che un pezzo della filiera della produzione.
Però il rilancio dell’economia oggi passa per una forte ripresa dei settori produttivi innanzi tutto industriali.
Non appaia strano che lo si dica da questa sede dove spesso si è rivendicato, e lo si farà ancora in questa
introduzione, il ruolo centrale della distribuzione, dei servizi all’impresa dell’industria del tempo libero.
Oggi queste due gambe, industria e servizi, sono complementari, e non si può pensare che una regga senza
il supporto dell’altra.
Come operatori dei servizi e della distribuzione sappiamo, al pari degli operai della Fiat, che la grande
impresa italiana, non solo la Fiat, deve avere un ruolo centrale nel panorama economico europeo e
mondiale.
Si diceva in precedenza che un elemento centrale per il rilancio dello sviluppo industriale e produttivo è
quello di eliminare il nanismo che caratterizza il nostro sistema di imprese.
Ciò è fondamentale per non essere semplicemente l’indotto, seppur di un’economia globalizzata, delle
multinazionali di altri paesi e perciò subalterni tecnologicamente.
Questo però implica un approccio con la forza lavoro esattamente opposta a quella che si è perseguita negli
ultimi 15 anni in materia di flessibilità e precarietà.
La competitività basata esclusivamente sul contenimento del costo del lavoro è risultata perdente, in quanto
nel mondo vi sono paesi con costi infinitesimali rispetto ai nostri.
La competitività si realizza con la ricerca, l’innovazione di prodotto, le economie di scala, la professionalità
degli operatori dovuta alla loro formazione.
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L’abolizione della legge 30
In questo quadro va riproposta la nostra battaglia contro la legge 30, ora decreto 276.
L’analisi che abbiamo fatto su questo provvedimento va rinconfermato in toto.
Lo dobbiamo contrastare perché figlio di una cultura economica perdente e reazionaria.
Lo dobbiamo cancellare perché è un provvedimento eversivo che mina la natura democratica del nostro
paese.
Lo abbiamo ripetuto mille volte e quindi è già patrimonio di tutti noi. Ma è bene ricordare che questo
provvedimento non è finalizzato solo ad estendere le flessibilità, ma ha come obiettivo prioritario
l’introduzione della contrattazione individuale, con la cancellazione di quella collettiva, con la conseguente
emarginazione della rappresentanza collettiva, cioè del sindacato.
Mettere il lavoratore da solo, di fronte all’impresa nell’arduo compito di tutelare i propri diritti è quanto di più
antidemocratico vi sia, ed è per questo che non dobbiamo smettere di denunciare la natura eversiva di
questa legge.
In questo la legge 30 differisce in maniera sostanziale dai provvedimenti in tema di mercato del lavoro che
anche il governo di centro sinistra aveva prodotto.
Ma all’interno di questa legge emergono elementi comuni a quei provvedimenti che vanno sotto il nome di
pacchetto Treu: flessibilità e precarietà come elemento necessario da pagare, per sostenere la competitività
dell’impresa.
Su questo argomento penso che si incentrerà molto del dibattito a sinistra e forse anche nel nostro
congresso.
Un concetto deve essere chiaro: se si vuole un sistema sociale fondato sulla dignità del lavoro e del
lavoratore, come recita la nostra Costituzione, è elemento fondativo il diritto dell’individuo ad avere, anche
dentro il proprio luogo di lavoro, la possibilità di esigere l’applicazione dei propri diritti, primo fra tutti
l’applicazione del contratto e delle leggi.
Tutti noi sappiamo che ciò non può avvenire se si è sottoposti al ricatto occupazionale.
Una situazione di precarietà prolungata all’infinito nega alla radice la dignità del lavoratore, lo rende
subalterno, e costantemente sottoposto alle vessazione dell’impresa.
Quanti lavoratori precari partecipano alle assemblee? Quanti possono fare uno sciopero? Quanti possono
rifiutarsi di andare oltre il proprio orario di lavoro? Quanti sono anche oggetto di mobbing? Quanti non
percepiscono neppure quanto stabilito dal Contratto Nazionale?
Non sono cose citate per demagogia: basterebbe prendere le pratiche di un qualsiasi ufficio vertenze della
Filcams o della Cgil per vedere quanta verità c’è in questa denuncia.
E sappiamo che quelli che vengono da noi sono solo la millesima parte di ciò che realmente accade.
La cancellazione della legge 30 deve essere accompagnata da una riflessione per un nuovo sistema di
tutele del lavoro che sancisca:
L’assoluta eccezionalità dei contratti a termine
La fissazione di un nuovo orario di lavoro superando il dl 66
La supremazia della contrattazione collettiva su qualsiasi altra forma di contratto
La nascita di una precisa norma sulla rappresentanza sindacale nei luoghi di lavoro
E’ questa una riflessione che sappiamo vede le forze politiche della sinistra su posizioni differenziate. Ma
compito della Cgil è mettere tutto il suo peso per un cambiamento deciso sul tema della rappresentanza
politica del lavoro.
Andare in questa direzione significa dare una chiara indicazione nel segno del cambiamento della politica
economica e sociale alternativa a quello delle destre.
Il dibattito a sinistra
Intanto questo nostro congresso si colloca in una fase diversa da quello ultimo di Rimini.
Allora si diede avvio alla grande stagione di mobilitazione e di lotta, di fatto operando un ruolo di supplenza
alla passività della politica.
L’attuale fase si colloca in un contesto differente e in discontinuità con la stagione che abbiamo conosciuto a
partire dal 2001che ha avuto al centro la grande manifestazione del 23 marzo.
Ma quel grandioso movimento non solo è stato giusto ma è risultato uno dei pilastri della tenuta democratica
del nostro paese.
Si pensi cosa sarebbe oggi l’Italia se anche la Cgil, come affermavano alcuni amici e compagni, fosse stata
compartecipe del patto per l’Italia.
Quale ben più vasta devastazione avremmo oggi nel tessuto sociale e economico del nostro paese.
Quale credibilità avrebbe il movimento sindacale. Quale forza avrebbe oggi il fronte che si oppone alla
destra?
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Quella stagione così come l’abbiamo vissuta non è riproponibile, con le medesime caratteristiche, ma
restano tutte valide le nostre motivazioni e le critiche che ponemmo alla sinistra
La mancanza di una rappresentanza politica del lavoro, segna oggi come allora l’incapacità di definire una
chiara identità ed una prospettiva strategica.
Sinistra e lavoro sono tra loro inscindibili. Ogni tentativo di separarne i destini porta a subalternità culturale e
di elaborazione.
Si è tornati a cancellare il lavoro dall’agenda politica e si sta riproducendo di nuovo una politica che
prescinde dalla rappresentanza reale degli interessi.
E’ assordante il silenzio della coalizione di centro sinistra sul documento proposto dai 12 segretari
confederali.
Così come sono state dimenticate cinque milioni di firme che hanno sostenuto le proposte della Cgil in
materia di diritti.
Il confronto politico vede i partiti della sinistra, compresa quella più radicale, disinteressati alla costruzione di
una rappresentanza politica del mondo del lavoro.
Una richiesta di rappresentanza che tutti noi ricordiamo è emersa con forza sia nelle lotte della Cgil, sia
nell’esito referendario sull’articolo 18, che comunque ha evidenziato come i due terzi dell’elettorato del
centro sinistra condividesse l’obiettivo dell’estensione dei diritti del lavoro.
Tra l’altro sarebbe cosa utile non pensare di aver già sconfitto Berlusconi. La vittoria alle politiche del 2006
non è per nulla certa, anzi è ancora tutta da conquistare.
La mancanza di rappresentanza di classe porta ad una mancanza di identità con la conseguenza che le
distinzioni tra gli schieramenti risultano agli occhi di larghi settori del mondo del lavoro molto sfumate.
La politica ha oggi una grande responsabilità: senza una chiara rappresentanza del mondo del lavoro, la
collocazione politica del singolo lavoratore torna ad essere un fatto individuale e non collettivo, e la politica
lasciata alla sfera individuale è terreno fecondo per la destra. Perché genera paure, irrazionalità in cui si
alimentano quei valori negativi come la xenofobia, la sicurezza come richiesta di uno Stato repressivo,
l’individualismo, l’egoismo di cui è ricco il programma della destra.
La mancanza di identità porta inoltre alla politica spettacolo: ed allora possiamo oggi rallegrarci che i più
votati siano la Gruber, Santoro, così come speriamo nella elezione di Marrazzo a governatore del Lazio; ma
ciò rappresenta una sconfitta per la sinistra perché segna la delegittimazione della politica o meglio
l’abdicazione della politica all’immagine.
La fase è difficile.
Ma noi dobbiamo ripartire da qui.
Dalla capacità di dare rappresentanza politica al mondo del lavoro.
Questo deve essere anche uno dei compiti del congresso Cgil.
Far tornare la rappresentanza del lavoro nell’agenda politica delle forze di sinistra e nella coalizione della
GAD, partendo dalla difesa delle condizioni materiali delle persone.
Il dibattito sulla legge 30, se cancellarla o se sottoporla “a manutenzione”, se lo si affronta come se fosse
una questione accademica, finisce per essere miope.
Occorre dire se si condivide o no l’analisi sui processi in corso economici, sociali, culturali.
Dall’analisi che si fa ne esce conseguente il giudizio sulla legge 30 e le conseguenti soluzioni
A questo deve servire anche il congresso della Cgil.
Conferma delle scelte del XIV congresso
E’ nota la condivisione che come area abbiamo avuto nei confronti delle conclusione del XIV congresso di
Rimini, e della pratica conseguente che la Cgil ha sviluppato negli anni successivi.
La condivisione dei valori fondativi che ci accomuna nella militanza nella Cgil, hanno trovato nella sintesi
congressuale anche una proposta unanime di unità azione relativa alla fase.
La lotta al neoliberismo, la difesa e l’estensione dei diritti, l’alleanza con i movimenti cresciuti in questi anni,
la difesa dello stato sociale in esso contenuti sono elementi importanti che possono essere il punto di
partenza per l’approfondimento e l’elaborazione del nuovo documento, base di discussione per il prossimo
congresso.
E queste basi hanno costituito le fondamenta della linea sulla quale si è mossa la Cgil con scelte che a
livello confederale hanno visto un consenso unanime nel direttivo.
Per ovvie ragioni di tempo non tutti questi argomenti oggi potranno essere approfonditi. Ma questi omissis
non risulteranno delle lacune, perché su questi temi, la posizione della Cgil non presenta ambiguità.
Un esempio per tutti è la questione della pace: la determinazione della nostra organizzazione nel richiedere
il ritiro delle truppe dall’Iraq, senza se e senza ma, non potrà che trovare piena conferma nel nostro
prossimo congresso.
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La strategia contrattuale della Cgil
Se da un lato, uno dei compiti principali di questo congresso è di incidere sulla fase politica del paese,
dall’altro assume, per il sindacato, un’importanza vitale definire la propria politica contrattuale per i prossimi
anni. Su questa tema invece il dibattito appare alquanto aperto.
Il documento conclusivo del XIV congresso si è dimostrato un punto alto di elaborazione e di prospettiva
politica. Per questo esso rappresenta ancora un’impostazione strategica in grado di orientare la nostra
azione nella prossima fase.
Il dato significativo fu rappresentato dal fatto che il congresso di Rimini si unificò intorno alla presa d’atto che
il modello contrattuale caratterizzato dall’accordo del 23 luglio si era esaurito.
Pur rimanendo le due mozioni congressuali convinte dei propri giudizi su quell’accordo, che evidentemente
rimanevano profondamente differenti, si condivise che quel modello di relazioni sindacali non era più attuale.
Per questo nel documento finale si scrisse con precisione:
“La CGIL ritiene essenziale una politica rivendicativa per l’aumento del potere d’acquisto delle retribuzioni,
dei salari e delle pensioni dei lavoratori e delle lavoratrici.
Il Congresso conferma il modello contrattuale su due livelli, con funzioni distinte: il livello nazionale di
recupero dell'inflazione reale e redistribuzione della produttività di settore e della parte normativa
generale, un secondo livello per la contrattazione del salario per obiettivi, della modulazione degli orari,
dell’organizzazione del lavoro, della sicurezza, della formazione, ecc..”
Concertazione e inflazione programmata non rappresentavano quindi più un punto di riferimento per i
Contratti Nazionali.
Tanto meno la concertazione come ipotizzata dall’accordo del 23 luglio, alla luce del quadro politico,
rappresentata dal bipolarismo, non può più avere per la nostra organizzazione senso di esistere, a meno che
si teorizzi che la concertazione è una strategia applicabile solo con il governo “amico”. Cosa credo per tutti
noi impraticabile, visto che una strategia non si elabora sulla fisionomia delle controparti.
La stagione contrattuale che ha caratterizzato questi tre anni, seppur sviluppatasi dentro il contesto definito
confederalmente, nella sua pratica, è risultata contradditoria, al punto che come area programmatica, in
alcune categorie, tra cui la nostra, abbiamo anche espresso giudizi negativi sugli accordi raggiunti.
Una delle cause della debolezza dell’impianto contrattuale degli accordi di questi ultimi due anni è che nelle
categorie ci si è dovuto muovere all’insegna del pragmatismo, tra il superamento dell’accordo del 23 luglio e
le nuove normative sul mercato del lavoro.
Al di là dell’analisi di singoli aspetti nei vari contratti firmati, è risultato evidente che il vuoto lasciato dalla fine
del 23 luglio, non è stato ancora colmato da una nuova strategia contrattuale.
Il giusto rispetto della confederazione per l’autonomia negoziale delle categorie, si è però nei fatti tramutato
in un navigare a vi sta che non sempre ha dato i frutti sperati.
Tutti noi sappiamo che l’avvio dell’iter congressuale è affiancato dalla discussione per la redifinizione del
nuovo modello contrattuale.
E’ una discussione molto delicata il cui esito influenzerà significativamente la vita della Cgil con una ricaduta
importante nel dibattito congressuale.
Come direttivo nazionale della Cgil abbiamo affermato la disponibilità della nostra organizzazione a rivedere
i vecchi modelli, sia contrattuali che di relazioni sindacali, ponendo però un’unica pregiudiziale, e cioè che
portino ad una maggior distribuzione del reddito prodotto a vantaggio del lavoro dipendente, dei redditi da
pensione ed a un’estensione della democrazia nei luoghi di lavoro.
Sappiamo che la congiuntura negativa dell’economia farà riproporre al padronato una riedizione della politica
dei redditi fondata sostanzialmente sul contenimento dei salari e dei redditi da lavoro.
Un’ipotesi che non può essere condivisa dalla nostra organizzazione, anche perché, al di là dell’ingiustizia
sociale insita in tale ipotesi, sarebbe l’accettazione di una nuova contrazione dei consumi interni, ormai scesi
al minimo storico.
Ormai tutte le ricerche sono unanimi nel fotografare nell’ultimo decennio una perdita del potere d’acquisto
perlomeno intorno al 10%, ma alcuni istituti di ricerca arrivano sino a percentuali doppie. Infatti, l’inflazione
sui redditi da lavoro, in questi anni, ha inciso molto più profondamente, in quanto l’aumento dei prezzi ha
colpito significativamente i generi di largo consumo, come gli alimentari.
Le famiglie con un reddito più contenuto o povero, devono spendere la maggior parte del loro reddito per i
beni e servizi di prima necessità mentre per i redditi più alti la spesa, ad esempio per alimentari, incide
evidentemente in maniera poco significativa.
Di conseguenza l’aumento dei prezzi dei generi alimentari sarà sentito maggiormente dai redditi più bassi.
Così come non è strano scoprire che apparentemente i consumi delle famiglie appaiono schizofrenici.
Se si guarda alla spesa in beni durevoli, che sono i più costosi e che in tempi di crisi vengono più sacrificati
dalle famiglie, la situazione economica apparirebbe in piena espansione, con incrementi nell’acquisto di
auto, elettrodomestici a due cifre come quelli del 1999 quando il PIL era del 3,4%.
Di contro l’incremento generale dei consumi delle famiglie nel secondo e terzo trimestre 2004, è
rispettivamente del +0,2 e di –0,5 % sull’anno precedentemente.
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Il che significa che i consumi dei soli beni non durevoli, come il cibo, sono da economia da recessione.
Il che non è così strano come appare. Ma si sta verificando ciò che come sindacato denunciamo da tempo:
un impoverimento dei redditi da lavoro, che come abbiamo visto spendono molto nei beni non durevoli, e un
incremento della ricchezza dei redditi alti, che spendono al contrario in beni durevoli.
Nei dati troviamo anche la risposta a quello strano termine, tanto irritante, che chiamano inflazione percepita,
inventato per spiegare perché i numeri statistici non corrispondono a quanto esce dal nostro borsellino.
Scorporando l’inflazione, infatti, si scopre che nel medesimo periodo abbiamo un’inflazione dei beni durevoli
(auto elettrodomestici etc) che è negativa con un - 2,6%, mentre per i beni non durevoli, come gli alimentari,
l’incremento è del 2,4 % e dei servizi addirittura del 3,3 %.
Tutto questo per dire che al centro della politica rivendicativa del sindacato non può che esserci una risposta
a quella che senza enfasi si può definire un’emergenza salariale.
E’ una risposta che ci chiedono i lavoratori per rispondere all’erosione del potere d’acquisto di questi anni, è
una strategia necessaria all’economia del paese per rilanciare i consumi interni, che insieme ad un
incremento della spesa pubblica può ridare ossigeno all’asfittica situazione economica dell’Italia.
Anche se è bene subito aggiungere che, senza un’adeguata politica industriale di rilancio delle imprese
nazionali, l’aumento dei consumi può generare ossigeno alle imprese straniere produttrici della maggior
parte delle merci vendute.
In questo contesto appare del tutto evidente il ruolo che assume il contratto nazionale.
Nella discussione apertasi in sede unitaria sul modello contrattuale, il ruolo della contrattazione nazionale
sappiamo essere uno dei punti più controversi.
Come riconfermato in questi anni, per noi il contratto nazionale assume un ruolo unificante del mondo del
lavoro, con una grande valenza strategica per garantire una certezza dei diritti su tutto il territorio nazionale.
Un’ipotesi di contratto nazionale “leggero”, ne snatura il compito di strumento di regolazione, redistribuzione
e tutela dei redditi del lavoro dipendente, e nel contempo lo esautora dalla possibilità di essere un efficace
strumento di unificazione del mondo del lavoro in tema di diritti e di tutele.
Il contratto nazionale deve mantenere ed estendere il ruolo di strumento di recupero dell’inflazione reale e
della redistribuzione della produttività di settore.
Non dobbiamo però sottovalutare una discussione che analizzi il ruolo del secondo livello di contrattazione
Fermo restando il ruolo del CCNL, dobbiamo ridare protagonismo alla contrattazione di secondo livello, per
riappropriarci della capacità di contrattare l’organizzazione del lavoro e conseguentemente ridare potere
negoziale ai delegati oggi fortemente limitati negli spazi di contrattazione.
A fianco della richiesta di una legislazione per la definizione della rappresentanza sindacale occorre dare
gambe alle RSU. Ciò è fondamentale per la nascita di una nuova generazione di dirigenti sindacali.
La contrattazione di secondo livello, su contenuti avanzati, può predeterminare la contrattazione
nazionale.Oggi al contrario la contrattazione decentrata assume le caratteristiche dello scambio tra aumenti
salariali (spesso incerti perché legati alla produttività) con maggior flessibilità.
Contrastare la legge 30 significa anche una riappropriazione del controllo sull’organizzazione del lavoro, che
significa orari, turni, qualità della vita. E’ un modo concreto di contrastare precarietà e flessibilità.
Ciò però va coniugato con un CCNL forte e con vincoli precisi.
Per questo il contratto nazionale oltre al salario, ovviamente, dovrà anche riprendere il bandolo della
matassa dell’estensione dei diritti, non solo della loro difesa, perché oggi anche lasciare lo status quo dopo
la devastazione dell’attuale quadro legislativo non è più sufficiente.
Fermo restando la nostra richiesta di abolizione della legge 30, è evidente che comunque nella
contrattazione e nella vita quotidiana tale legislazione ha inciso in maniera negativa nella realtà lavorativa
del nostro paese.
Per questo è condivisibile l’impostazione che la Confederazione ha dato in un documento di dicembre nel
quale “pur rimanendo in campo l’ipotesi referendaria di legge abrogativa” come sindacato occorrerà lavorare
ad una proposta contestualmente abrogativa e sostitutiva”.
Evidentemente non sarà marginale andare a definire quali parti si intendono abrogare.
La parte propositiva è fondamentale per indirizzare la nuova stagione contrattuale. Ma cosa andiamo a
proporre nelle prossime piattaforme?
I padroni in questi ultimi rinnovi si sono presentati senza una piattaforma, ma semplicemente chiedendo
l’applicazione delle leggi.
Aver noi aperto i tavoli solo ponendosi l’obiettivo di difendere l’esistente, e cioè i vecchi contratti, non ha
prodotto grandi risultati.
Occorre una strategia offensiva anche sul terreno del mercato del lavoro, delle tutele collettive, della
riduzione della precarietà a partire dai contratti nazionali. La linea esiste ed è rappresentata dalle proposte di
legge della Cgil sottoscritte da cinque milioni di cittadini e lavoratori
Qui è rappresentata una platea di lavoratrici e lavoratori che vivono quotidianamente il disagio della
precarietà e della flessibilità.
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Le formule di contratti a termine sono le più disparate e fantasiose. L’apprendistato impone quattro anni di
incertezza del proprio futuro e nessuna garanzia individuale di conferma del contratto. Contratti a termine
che si rinnovano negli anni. I vecchi Co.Co.Co. oggi contratti a progetto, emblema dello sfruttamento senza
regole. Sono solo alcuni esempi delle innumerevoli tipologie contrattuali con cui si entra nel mondo del
lavoro. Ma anche quando si è fortunati ad avere il cosiddetto posto “fisso”, gli spazi per decidere della
propria vita non sono molti.
L’orario di lavoro è sempre meno una certezza, costantemente modificato in base alle esigenze aziendali. Il
part time, troppo spesso enfatizzato anche a sinistra come libera scelta della lavoratrice, rappresenta molto
spesso un’imposizione coercitiva.
Riguardo i Co. Co.Co., recentemente NIDIL CGIL, il sindacato che rappresenta questo settore, ha
commissionato una ricerca su queste figure che, per alcuni aspetti, è un efficace spaccato della condizione
del lavoratore precario. Vi sono dati che smentiscono alcuni luoghi comuni spesso usati dai mass media.
“Precario è giovane”: il 65% dei Co. Co. Co. ha più di 30 anni. “I giovani non ricercano più il posto fisso”: il
66% è in cerca di un altro lavoro con contratto stabile. “Sono contratti, che coinvolgono solo un periodo della
propria vita, che servono per l’ingresso al mondo del lavoro”: solo l’8,8 % di questi contratti vengono
tramutati in contratti di dipendenza.
Se il sindacato vuole rimanere il soggetto della contrattazione collettiva deve porsi l’obiettivo di cambiare lo
stato di cose esistenti nel mercato del lavoro.
Difenderci non basta più.
Noi siamo una categoria in prima linea nella difficile realtà della frammentazione del mondo del lavoro. Ma
questo problema non riguarda esclusivamente noi.
Spesso notiamo troppo disinteresse nelle categorie per i processi di esternalizzazione, dopo che questi si
sono conclusi. Non vediamo spesso interesse nell’andare a controllare ad esempio i capitolati dell’appalto
nelle pulizie, nella vigilanza e nelle mense, nei fatti lasciando libertà all’azienda committente di scaricare la
riduzione dei costi sui lavoratori delle ditte esterne.
Occorre un impegno di tutte le categorie della Cgil, dalla Funzione Pubblica alla Fiom, dalla Fisac ai
Trasporti, solo per citarne alcuni, non solo della Filcams, nel controllo delle garanzie dei lavoratori che
operano in servizi appaltati a ditte esterne.
Finchè le esternalizzazioni saranno esclusivamente operazioni per ridurre i costi attraverso contratti con
minor costi e diritti, questi processi non avranno mai fine.
Troppe RSU e categorie appaiono disinteressate alle condizioni di lavoro e contrattuali dei lavoratori di ditte
esterne, che operano magari dentro le stesse mura.
Dobbiamo inoltre - in un mercato del lavoro così frammentato, se vogliamo dare tutele a chi non le ha individuare quali sono i fattori che unificano i lavoratori attraverso le rivendicazioni contrattuali.
Dobbiamo ricomporre il ciclo di un sito produttivo al fine di unificare richieste e rapporti di forza, attraverso
piattaforme rivendicative rivolte sia all’azienda madre che alle aziende espressione dei processi di
esternalizzazione o di appalto che sono intervenuti.
Dobbiamo individuare la forma politico-organizzativa per realizzare questa obiettivo.
Occorre inoltre realizzare il coordinamento fra categorie per quei luoghi dove le esternalizzazioni hanno
consentito alle imprese di operare attraverso una molteplicità di contratti nazionali di lavoro, creando le
condizioni per sperimentare in queste realtà produttive una contrattazione di II° livello unificante al fine di
difendere l’insieme dei lavoratori e combattere l’uso che le grandi aziende hanno fatto con i processi di
esternalizzazione e cessione di rami d’azienda, tutte improntate alla riduzione di costi e diritti.
Il tema della riunificazione del mondo del lavoro attraverso anche la riunificazione della contrattazione nei
luoghi di lavoro deve essere un tema centrale per il congresso ed un impegno per tutta la Cgil.
Come Filcams un contributo lo abbiamo già iniziato a portare, attraverso un piccolo, ma importante esempio
di contrattazione decentrata, con l’esperienza che i nostri compagni di Arezzo. In questa realtà prima
dell’apertura di un nuovo centro commerciale, l’Outlet Village, la Filcams ha saputo imporre un accordo che
tutelava non solo i nuovi assunti della casa madre, ma anche tutti i lavoratori che opereranno in quel
magazzino.
La stagione contrattuale de lla Filcams e l’evoluzione del settore
Il 2004 ha segnato la chiusura di alcuni tra i più importanti contratti nazionali che coinvolgono la nostra
categoria. Ve ne sono ancora di significavi aperti, come quello della Vigilanza Privata, e altri, come quello
tutt’altro che secondario, delle Imprese di Pulizie, per il quale si sta avviando il dibattito.
Non intendiamo qui riaprire il dibattito sul giudizio che ci ha visto divisi, sull’accordo che ha riguardato il
settore del terziario privato della distribuzione, e dei servizi e della Cooperazione.
Abbiamo come area programmatica abbondantemente esplicitato il nostro pensiero.
Dalla conclusione di questa stagione contrattuale però è necessario far scaturire una seria riflessione su
come si stanno evolvendo i settori che riguardano la nostra categoria, in particolare il settore della
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distribuzione commerciale, sia sul versante delle modificazioni strutturali ed economiche, sia per quanto
riguarda il mercato e l’organizzazione del lavoro.
E’ evidente che il mondo dei servizi e della distribuzione in quest’ultimo decennio ha avuto una crescita
esponenziale che non è solo quantitativa, ma che, come nel resto del mondo, ha inciso pesantemente nella
struttura economica e sociale del paese.
Essendosi frantumata la filiera produttiva, quello che oggi chiamiamo servizi all’impresa non sono più aspetti
marginali della attività economica; così come la distribuzione, nella società globalizzata, nel generare la
ricchezza del paese, assume un’importanza quanto quella della produzione delle merci stesse.
I processi di esternalizzazione hanno creato un sistema molto diffuso e articolato di servizi all’impresa, sia
con basso contenuto tecnologico come è rappresentato dal settore delle imprese di pulimento, sia ad alto
contenuto professionale come ad esempio i servizi informatici.
Sempre più inoltre crescono società multiservizi, che sono in grado di offrire una pluralità di servizi
all’impresa attraverso un’unica azienda appaltatrice
Interessante in questo senso constatare come, se prima con il famoso outsourcing si sia fatto uno
spezzatino dei servizi, successivamente il sistema, per creare economia di scala, li riunifica ma ovviamente a
condizioni salariali e di tutele peggiorate rispetto all’origine.
Pur essendo in presenza del cronico nanismo dell’impresa italiana, i nostri settori hanno comunque visto una
crescita significativa della dimensione delle aziende, sia dal punto di vista della rilevanza economica, sia sul
versante delle potenzialità di sindacalizzazione, fattori che pongono il nostro settore tra i più significativi dal
punto di vista politico nel prossimo futuro.
Tra il 1970 e il 2000 – la quota dei servizi (complessivamente intesi, quindi non solo quelli che fanno
riferimento alla Filcams) sul valore aggiunto totale è aumentata di oltre 17 punti percentuali (dal 51,3 al
68,8%), e quella sull'occupazione di quasi 23 punti (dal 40,9 al 63%).
Dal ‘95 al 2000 l’aumento dell’occupazione in Italia, nel terziario, è stato del 10%, pari a 1 milione 278mila
unità, di cui bel 518 mila unità nei servizi all’impresa (al cui interno ben 491 mila addetti sono ai servizi alla
produzione).
La fase del settore servizi come rifugio dei “diseredati” è storia del passato.
La metabolizzazione di questo concetto però non è ancora avvenut o appieno anche nel nostro quadro
sindacale.
Certo permane una prevalenza di microimprese (in Italia poco meno dei due terzi dell'occupazione nei
servizi è assorbita da imprese con meno di dieci addetti, mentre in ambito europeo la quota di occupazione
nelle piccole imprese è ampiamente inferiore al 50%), ma non deve sfuggire che si sono radicate realtà di
importanza tale che ci consentono di poter affermare che, con una strategia sindacale adeguata, questa
categoria insieme a meccanici e pubblico impiego rappresenterà nel prossimo futuro uno dei pilastri
fondamentali del sindacalismo confederale.
L’analisi dell’evoluzione del sistema della distribuzione è emblematica e richiederebbe maggiore attenzione
anche da parte della confederazione.
Dal ‘97 al 2003 la crescita delle superfici commerciali (che rappresenta il dato reale di espansione) è stata
del 116% negli ipermercati, del 29% nei supermercati del 16 % nei grandi magazzini.
Il dato emblematico è che oggi la grande distribuzione con quasi 10 milioni e mezzo di metri quadri è ormai il
25% dell’intera superficie distributiva.
Ma queste cifre nascondono un processo ben più importante di modificazione della rete distributiva.
La concentrazione della distribuzione delle merci è un processo che paradossalmente troverà ancor più
un’accelerazione con la crisi economica.
L’erosione del potere d’acquisto porta sempre più consumatori ad indirizzarsi verso la grande distribuzione a
scapito dei negozi di prossimità.
Questa potenzialità è favorita dal fatto che in Italia la presenza del piccolo esercizio è ancora diffusissima. La
cosa contraddittoria è che nelle zone povere del paese, (Campania, Puglia, Sicilia) evidentemente a causa
della mancanza di occupazione, continuano ad espandersi nuovi esercizi non alimentari, la cui
sopravvivenza è dovuta solo alla diffusa evasione fiscale e al lavoro nero.
L’espansione della grande distribuzione in Italia è accompagnata da una pericolosa uscita delle imprese
italiane; se si esclude la Cooperazione, con il passaggio del settore alimentare da Rinascente alla francese
Auchan, con la vendita di Coin, con la ormai consolidata presenza di catene come Carrefour e Metro, la
distribuzione in Italia vede ormai una forte prevalenza di capitale straniero.
Ciò è ancor più grave se si pensa che attraverso i gruppi d’acquisto queste società, di fatto, non solo
controllano la distribuzione, ma sono in grado di condizionare anche la produzione, indirizzando il mercato
verso prodotti e marchi a loro più funzionali.
Per un tessuto produttivo, anche nel settore alimentare, di dimensioni così ridotte, tale evoluzione del settore
mette in pericolo anche la nostra industria alimentare, che dovrebbe essere considerata dal governo un
settore strategico. E’ questa una riflessione che coinvolge la Confederazione ed anche la Flai, con cui
dovremmo aprire un confronto.
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Di fronte a questa situazione il sindacato deve agire in fretta perché siamo ad un bivio e alla fine delle due
strade gli scenari sono totalmente differenti.
O, in tempi rapidi, noi riusciamo a radicarci sindacalmente, con un forte controllo sull’organizzazione del
lavoro, assumendo il ruolo che compete ad un sindacato confederale, oppure da questa realtà ne saremo se
non espulsi, almeno fortemente marginalizzati.
Qui si colloca la riflessione che ci consegnano i contratti appena firmati, in particolar modo quello del
commercio.
Una domanda non è più eludibile: con questa struttura di tutele e flessibilità sancite dai contratti possiamo
pensare di avere un ruolo negoziale vero, dentro i singoli luoghi di lavoro, in modo da dare una dimensione
collettiva alla contrattazione, mettendo in tal modo radici al sindacato?
La presenza di una molteplicità di contratti flessibili e precari, consentiti dalla nostra contrattazione, rendono
la maggioranza dei lavoratori in grado di esercitare il proprio diritto di contrattazione collettiva e di esigere i
propri diritti?
La realtà quotidiana ci dice che già oggi queste possibilità sono fortemente incrinate.
Ora sarebbe ingeneroso non valutare gli aspetti positivi che la nostra contrattazione ha prodotto.
Certamente si è avuto una grande attenzione alla tutela individuale del lavoratore nella storia della
contrattazione della Filcams. E per una certa fase storica di questo settore, è stato certamente una scelta
importante. Se sino agli inizi degli anni ‘80 oltre il 90% della forza lavoro si presentava in unità produttive di
uno o due dipendenti, il problema non era quello del controllo dell’organizzazione del lavoro, ma quello di
tutelare l’individuo.
Frutto di quegli anni è anche il fatto estremamente positivo che da noi, a differenza dell’industria, il contratto
abbraccia sia il grande gruppo da quasi 30 mila dipendenti, sia l’esercizio commerciale con un commesso o
un cameriere che lavorano insieme al proprietario.
Ma le cose sono cambiate.
A fianco a questa impostazione di forte attenzione alla tutela individuale occorre imporre relazioni sindacali
che siano efficaci nelle grande aziende di dimensione “industriale”.
Negli ultimi contratti firmati per il Turismo e per il Commercio (anche se tra i due settori esistono differenze
enormi) abbiamo dato le stesse flessibilità in materia di mercato del lavoro al negozio di prossimità che ha
due dipendenti che al gruppo GS Carrefour che ne ha 27 mila.
Questo è, secondo noi, il problema da analizzare prima che parta la nuova stagione negoziale soprattutto a
livello di contrattazione di gruppo.
A fianco di un’esplosione di adesione alla Filcams, dovremo anche analizzare come mai negli ultimi anni
nella grande distribuzione registriamo in percentuale, un arretramento degli iscritti. Crescono gli addetti, ma
le adesioni sono sempre ferme.
Da tutti i territori ci dicono della difficoltà di iscrivere i nuovi assunti, e della quasi impossibilità ad entrare
nelle nuove aperture.
La Filcams primo sindacato ad Auchan ha 1800 iscritti su 12 500 addetti. Complessivamente le tre OOSS
raggiungono il 30% di sindacalizzazione.
Sono elementi di riflessione anche perché occorre prendere atto che anche le nostre controparti nel settore
della distribuzione stanno cambiando.
La Confcommercio, al di là della gestione monarchica di Billè, segna dei punti di crisi.
E’ di qualche giorno fa l’uscita dalla Confcommercio della Fiavet, la principale associazione delle agenzie di
viaggio italiane, ma segnali di tensione emergono anche in altri settori.
Il più importante lo abbiamo visto proprio al nostro tavolo contrattuale dove l’associazione della grande
distribuzione, la Faid ha costantemente delegittimato il ruolo di Confcommercio.
La Grande Distribuzione sempre più vuole giocare un ruolo autonomo, sia sul versante politico, sia su quello
delle relazioni sindacali.
La grande distribuzione teorizza un modello di relazioni sindacali con caratteristiche sempre più simili a
quelle della Confindustria. Il modello Auchan è emblematico ma non più isolato: laddove è possibile si
pratica l’espulsione del sindacato, in subordine se ne alimenta la marginalizzazione.
La fase conosciuta nel passato, dove la debolezza strutturale di Confcommercio portava la stessa a
ricercare il rapporto con il sindacato per ricavarne una legittimazione politica, è finita per quando riguarda la
grande distribuzione.
Occorre cogliere il cambiamento di fase.
E’ essenziale rilanciare la contrattazione in tutti i grandi gruppi, sia del Turismo che del Terziario,
riconquistando attraverso la contrattazione di secondo livello elementi di rigidità e di tutela, innanzitutto, sul
mercato del lavoro, che ci consentano di continuare ad esercitare la rappresentanza collettiva nei luoghi di
lavoro.
La ripresa della riappropriazione del controllo della propria vita lavorativa passa attraverso il controllo
dell’organizzazione: non dobbiamo più avere remore a contrapporre alla filosofia delle flessibilità senza
regole, una rigidità nella certezza delle regole.
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Non possiamo fare le analisi generali sulla legge 30, e non cogliere che elementi di quella legge sono
presenti nella vita quotidiana dei nostri settori.
Come Segreteria Nazionale abbiamo avviato una riflessione sui contenuti che dovrà avere la contrattazione
di secondo livello nel prossimo futuro. Come deciso dal direttivo questa riflessione passerà attraverso un
momento seminariale del direttivo stesso: sarà questo un momento molto importante per la nostra categoria.
A questo punto, questo approfondimento diverrà anche un tassello dei contributi che come categoria
porteremo al congresso.
Avremo inoltre due importanti test contrattuali con cui verificarci. Quello della vigilanza aperto da circa 8
mesi, con già due scioperi alle spalle, che vede controparti asserragliate su posizioni di retroguardia, anche
sul profilo del rinnovamento del settore, incapaci persino di applicare una legge iperliberista come i dl 66
sugli orari, perché ritenuto troppo rigido per il settore.
Lo scenario non appare favorevole ad una conclusione rapida del negoziato.
La mobilitazione di fine anno ha dato un risultato più che soddisfacente per un settore che sappiamo non
facile. In alcuni casi le adesioni agli scioperi sono state molto alte tant’è che le c ontroparti, che
pubblicamente negano la riuscita dello sciopero, si sono rivolte alla commissione nazionale di garanzia per il
controllo degli scioperi per tentare di bloccarne gli effetti.
L’altro contratto aperto è quello delle imprese di pulimento, un settore che nel passato ha vissuto difficoltà
enormi nel rinnovo del contratto. Anche in questo settore si preannuncia una contrattazione delicata, visto la
ventilata ipotesi delle controparti di voler mettere in discussione l’importante articolo 4 del CCNL che
garantisce il posto di lavoro in caso di cambio di appalto.
Credo che per la Filcams la difesa del posto di lavoro sia un valore che sovrasta qualsiasi altra contropartita.
Ma dentro il congresso, anche a livello confederale, dovremo valorizzare alcune esperienze positive in
termini di relazioni sindacali che, come Filcams, abbiamo realizzato. Troppo poco eco hanno avuto nella
confederazione la decisione che, unitariamente, come categoria abbiamo assunto, di far validare attraverso
il referendum alcuni importanti accordi di gruppo come nel caso di GS Carrefour, qui in presenza di
posizione differenti tra le organizzazioni sindacali, del gruppo Metro ed infine la volontà della Filcams di
effettuarlo anche in Esselunga.
Questa forma di consultazione si dimostra sempre efficace sia per la partecipazione che produce, sia per la
validazione democratica con cui sancisce gli accordi.
Dispiace invece che nella consultazione del commercio si sia tornati a metodi che inducono a qualche
perplessità sul reale coinvolgimento dei lavoratori e delle lavoratrici.
Il fatto che abbiano votato soltanto 60 mila lavoratori su 1 milione e mezzo di lavoratori interessati, è un dato
che non può essere acquisito come fisiologico.
Anche con il referendum non si sarebbe raggiunto il 51% degli aventi diritti, ma era possibile coinvolgere
almeno altri 300 mila lavoratori e lavoratrici del settore. Tutti sappiamo che ciò è possibile.
Queste assenze sono un fatto politico che noi dobbiamo recuperare e portare velocemente ad una
partecipazione attiva nella vita del sindacato.
Come affrontiamo questo congresso
Abbiamo sino ad ora parlato a lungo del congresso in termini di contenuto.
E’ questo un aspetto indispensabile perché la natura programmatica della Cgil deve rimanere una
caratteristica identitaria della nostra organizzazione.
Però appare evidente che alla politica di contenuti deve seguire la politica del che fare.
Come area programmatica confederale, il due ottobre scorso, in un incontro alla presenza del segretario
generale e di molti dirigenti di categoria e confederali, abbiamo dato la nostra disponibilità a verificare un
percorso che conduca ad un documento unitario al congresso.
E’ stata una dichiarazione impegnativa. Non nata dal caso, ma dalla condivisione di un percorso cominciato
a Rimini e che si è sviluppato nell’arco di quasi 3 anni.
Noi abbiamo preso l’iniziativa, ma come si dice, per sposarsi occorre essere in due, per separarsi basta che
lo decida uno.
Ci aspetta ora un serrato confronto di merito. E questa assemblea vuole proprio essere una prima tappa di
questo percorso. Il congresso unitario è per noi l’obiettivo da raggiungere: è bene che sia chiaro che non è
un dato acquisito.
Sul merito si è detto.
Vi sono poi alcune considerazioni che sugli aspetti organizzativi.
Innazittutto valutiamo che la natura programmatica della Cgil debba uscire confermata dal XV congresso sia
come modalità di elaborazione della strategia, sia per regolare la vita democratica interna.
Questo passaggio è indispensabile, anche dentro un quadro unitario, per evitare la perdita di autonomia
della Cgil: una scelta diversa porterebbe alla riproposizione di logiche di collateralismo politico.
Per la sua autonomia di giudizio e di elaborazione, la Cgil ha rappresentato, e continua ad esserlo per larghi
settori del popolo di sinistra a prescindere dalla propria collocazione politica, un punto di riferimento. Grazie
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a questa nostra azione autonoma abbiamo portato linfa vitale ad una sinistra che dopo la sconfitta elettorale
del 2001 appariva confusa ed afona.
La ricerca della sintesi unitaria intorno ad un documento quindi non deve annullare una dialettica interna
nella Cgil che giudichiamo estremamente positiva. Un’organizzazione di cinque milioni e mezzo di iscritti non
può ricondurre la sua ricchezza di posizioni politiche all’interno di un falso unanimismo.
Per questo nella discussione preparatoria un ruolo importante assumerà la modalità organizzativa delle
assemblee congressuali, modalità che dovrà dare visibilità ai pluralismi presenti nel nostro sindacato.
Se come detto appare inaccettabile la riproposizione di un collateralismo partitico, altrettanto riduttive ci
appaiono posizioni che pensano ad un confronto interno alla Cgil delegato al solo ruolo delle strutture.
Seppur è auspicabile che le varie posizioni presenti nel dibattito possano liberamente alternarsi nella guida
delle diverse strutture, nel momento in cui ne conquistano la maggioranza dei consensi, e da ciò dando vita
ad un confronto dialettico anche a questo livello, ricondurre il riconoscimento del pluralismo solo attraverso
questa forma appare come un arretramento rispetto all’attuale livello di discussione. Non solo. Questa idea
della dialettica tra strutture, porta con sè il pericolo di creare strutture monocratiche e monolitiche, dove la
posizione maggioritaria in quella struttura diviene il pensiero unico, perché non è dato ad altri di
organizzare, con garanzie di “sopravvivenza”, il dissenso a quella posizione politica.
E’ un’esperienza che in Cgil, anche in strutture note per le posizioni radicali, sono state vissute, e non
sempre hanno dato prova di sincero spirito democratico.
La soluzione di un documento aperto anche a contributi diversi appare, alla luce delle necessità della
dialettica interna, quella più consona.
Sino ad ora le nostre regole di vita interna hanno previsto solo l’ipotesi di documenti alternativi congressuali,
lasciando un vuoto nella determinazione di modalità di confronto all’interno del medesimo documento
congressuale.
E’ evidente che per dare un quadro compiuto al dibattito congressuale, occorre riconoscere il pluralismo
anche nelle forme diverse da quello del documento alternativo, in modo da garantire il confronto anche
successivamente al congresso.
Il nodo che non abbiamo invece risolto in questo congresso è quello della costruzione dei gruppi dirigenti,
alla luce del governo unitario. Come Lavoro Società siamo stati certamente tra i più coerenti nel praticare le
indicazioni emerse dal XIV congresso, ma a questa condivisione della politica non ha corrisposto un uguale
riconoscimento nella direzione della Cgil.
Crediamo che l’assetto dei gruppi dirigenti, senza false ipocrisie, dovrà riconoscere la pari dignità anche a
quei compagni e quelle compagne che in questi anni hanno lavorato con determinazione, seppur partendo
da posizioni minoritarie, per quella evoluzione della politica che oggi in Cgil è patrimonio della stragrande
maggioranza.
Si conclude qui questa lunga relazione introduttiva.