A proposito di una politica del personale contraddittoria: la

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A proposito di una politica del personale contraddittoria: la
A proposito di una politica del personale contraddittoria:
la prevenzione del burn-out dei docenti.
Nel 1974 lo psichiatra Freudenberger avviò la ricerca scientifica sul burn-out (letteralmente
“bruciato, esaurito”), cui fecero seguito pubblicazioni di tipo sociologico e psicologico volte non
tanto a definire clinicamente la sindrome quanto a raccogliere dati sulla sintomatologia e sulla
diffusione della stessa. Tra questi studi spiccano quelli dei sociologi Maslach e Jackson (1981) a
cui si devono, tra l’altro, il metodo di valutazione ad oggi ancora più usato per il rilevamento e la
valutazione del burn-out. Più in particolare, la sindrome di burn-out degli insegnanti è stata studiata
sin dagli anni ’80 a livello internazionale, ragion per cui si ricorre ad un questionario apposito per
docenti, il Maslach Burn-out Inventory Educators Survey (MBI-ES). Si tratta di uno strumento di
psicometria messo a punto nel 1996 dai due sociologi, con il contributo di Leiter, che individua i
tratti individuali e le strategie lavorative (coping strategies) adottate spontaneamente dal soggetto
per superare la cause stressogene all’origine del disagio che conduce all’incapacità lavorativa.
Secondo Vittorio Lodolo D’Oria (membro del Collegio Medico della ASL milanese preposto
al riconoscimento dell’inabilità al lavoro per motivi di salute e primo firmatario dello studio
“Getsemani” sulle patologie psichiatriche) attualmente gli indicatori del malessere sono quattro:
l’esaurimento fisico ed emotivo (fatica cronica, sentimenti di impotenza, rabbia, disperazione,
depressione, irritabilità, impazienza, mal di testa, nausea, tensioni muscolari, disturbi del sonno, e
altri tratti psico-somatici); la depersonalizzazione (atteggiamento di apatia, distacco, indifferenza e
negatività verso se stessi, verso il prossimo e verso il lavoro, revisione critica e sfiduciata verso ciò
che si è fatto in passato); il sentimento di frustrazione per la mancata realizzazione delle proprie
aspettative professionali (divario tra modello lavorativo idealizzato e realtà concreta); la perdita
della capacità di controllo (smarrimento del senso critico che attribuisce il giusto valore
all’esperienza lavorativa). Va tuttavia sottolineato che si tratta di diagnosi psico-sociali e non
mediche, infatti la sindrome non è inscritta nella classificazione internazionale delle patologie
psichiatriche, sebbene ne sia un possibile preludio.
Dagli studi di Nagy (1992) e Mark (1990) emerge che i 40 e più fattori che concorrono nel
causare l’insorgenza del burn-out sono riconducibili a tre categorie principali. La prima è quella dei
fattori sociali e personali del soggetto e comprende caratteristiche quali il sesso, l’età, la
personalità, le aspettative professionali, il grado di suscettibilità, lo stile cognitivo, la cultura, la
religione, l’etnia, il grado di autostima, di tenacia, di arrendevolezza, di motivazione, il livello socioeconomico, lo stile di vita, la situazione famigliare, le relazioni sociali, il curriculum, gli hobby,… Il
secondo gruppo è costituito da aspetti inerenti alle capacità relazionali, ad esempio con gli
studenti, con i loro famigliari, con i colleghi, i superiori o professionisti provenienti dall’ambito
extrascolastico (educatori, tutori, psicologi,…). La terza categoria include i fattori oggettivi
professionali ed organizzativi. Varie ricerche rilevano una correlazione tra l’insorgenza della
sindrome e un eccessivo carico di lavoro, unitamente a scadenze troppo ravvicinate, ambiguità di
ruolo, scarsa partecipazione alle decisioni e mancanza di informazione.
In effetti, a differenza dello stress tout court o della depressione individuale, qui siamo in
presenza di una sindrome prevalentemente psico-sociale che si instaura come risposta ad una
condizione di stress lavorativo prolungato, detto anche stress da lavoro correlato (SLC): in
sostanza è un meccanismo di difesa inappropriato basato sul ritiro e sul distanziamento. Le cinque
professioni più colpite sono quelle dei docenti, degli operatori sociali, del personale medicoinfermieristico, degli psicoterapeuti e del settore carcerario (le cosiddette helping professions,
caratterizzate dal marcato coinvolgimento personale e dove le qualità individuali predominano sulle
competenze tecniche).
Nel mese di giugno 2013 il Consiglio di Stato ha varato 11 misure di “sostegno ai docenti in
difficoltà”, eufemismo politicamente corretto (sono ben pochi oggi i docenti che non si ritengono in
difficoltà) per riferirsi alla prevenzione ed alla gestione del burn-out. Le misure prevedono il
rilevamento del fenomeno sul territorio, il ricorso a consulenti psicologici, a tutor per i neo-assunti,
a occasioni formative e informative per docenti e direttori. Vi sono poi la ricerca sul grado di
resilienza dei docenti (ossia sulle strategie di adattamento personale efficace), l’attivazione di
gruppi operativi con vari professionisti per aiutare gli allievi difficili (intervento forse utile, ma più
prossimo all’aggravio che allo sgravio dell’onere lavorativo), progetti per migliorare le capacità
relazionali dei docenti (intrattenimento di colloqui, mediazione, negoziazione, gestione dei conflitti,
problem solving,…) per accrescerne l’autostima, per sensibilizzare e rinforzare la coesione e il
consenso del gruppo, il senso di appartenenza e di identificazione all’interno della “missione”
dell’istituto, per autovalutarsi e per ascoltarsi. Infine si esplorano impieghi alternativi in altri settori
dell’amministrazione cantonale o all’esterno.
In tutto questo, nonostante qualche riferimento nel rapporto finale (ottobre 2012) del gruppo
di lavoro istituito ad hoc, non c’è alcuna misura inerente alla dimensione primaria del problema,
ossia all’analisi dell’ambiente e a miglioramenti delle condizioni lavorative. I fattori personali e
relazionali sono innegabilmente importanti, ma è impossibile pensare di tutelare realmente la
salute dei docenti (e la qualità della scuola) senza intervenire, come preconizzato dai ricercatori,
sullo squilibrio strutturale tra le risorse dell’insegnante e le richieste del datore di lavoro. I fattori
organizzativi oggettivi non dipendono dal profilo psicologico del docente, bensì competono alla
gestione delle risorse umane (ragion per cui i cantoni di Zurigo e Ginevra hanno analizzato proprio
il carico di lavoro*). Le ricerche più recenti (Mark, 1990; Pithers 1995,…) dimostrano in modo
inconfutabile che la maggior parte delle tensioni e dei disagi deriva dal mancato coinvolgimento nei
processi decisionali, dall’erosione dell’autonomia, dalla scarsa considerazione sociale, dalla
frequenza delle riunioni, dall’opacità dei regolamenti, dal passaggio dal lavoro individuale a quello
*
Vedi per esempio lo studio del canton Ginevra sul settore secondario: http://www.ocst.com/attachments/category/217/Analysedelachargedetravaildesenseignantsdusecondaire_2010.pdf
di équipe. Farber nel 2000 notò che tra le maggiori fonti di stress per gli insegnanti vi sono fattori
come la scarsa organizzazione, le classi numerose e l’indisciplina degli allievi, oltre a scoprire che i
più colpiti erano i docenti di scuole medie o medio-superiori, specialmente le persone più motivate
ed idealiste, di età inferiore ai 40 anni e introverse. Inoltre evidenziò che la sindrome è
particolarmente diffusa nelle aree urbane, in ambienti rumorosi o caratterizzati da strutture
inadeguate ai compiti, o dalla gestione burocratica e poco manageriale, nonché dalla marcata
discrepanza tra intensità di lavoro e riconoscimento istituzionale.
Maslach, nel 1997, ha sottolineato il valore della gratificazione, dell’autonomia decisionale e
dell’organizzazione generale della mansione lavorativa quali elementi di prevenzione primaria del
burn-out (dimensione professionale dello stress) relegando invece in secondo piano tutte la
questioni soggettive. La molteplicità di ruoli spesso discordanti tra loro e l’aumento di
contraddizioni implicite nella professione del docente, inteso come “mediatore culturale”, come
“valutatore”, come “esperto didattico-disciplinare”, come “genitore alternativo”, come “psicologo”
sempre accogliente, rendono assai difficile un’impostazione armonica durevole. Infine Cherniss
(1980), Rossati e Magro (1999) hanno spiegato il fenomeno introducendo la categoria (la quarta)
di cause socio-culturali, tra cui la società multiculturale e multietnica, la delega genitoriale
all’educazione dei figli, l’assenteismo dei genitori-lavoratori, le difficoltà delle famiglie
monoparentali, il crescente inserimento di portatori di handicap nelle classi, la maggior diffidenza
delle famiglie, la svalutazione sociale ed economica della professione.
Pertanto, per evitare di trasformare le nostre scuole in una sorta di centro terapeutico per
allievi e docenti, si eviti di ricorrere a regolamenti e a mansionari che attribuiscono agli insegnanti
compiti di segreteria, di portineria o volti addirittura a dirimere le controversie tra il personale di
servizio (cuochi, personale di pulizia,…). Non si introducano nelle classi allievi problematici senza
aver prima predisposto le risorse e le competenze opportune. Si definiscano invece chiaramente
compiti e responsabilità in modo coerente, realmente sostenibile ed efficace. Si permetta ai docenti
di lavorare spontaneamente in gruppo, ma non per una terapia collettiva o per fronteggiare
l’ennesima emergenza educativa, bensì con sgravi orari mirati che creino le condizioni per
affrontare con dignità ed efficacia le necessità quotidiane della professione, destinandoli
all’aggiornamento della programmazione, all’innovazione dei metodi didattici, al confronto e alla
riflessione sulle pratiche professionali. Il primo passo di prevenzione del burn-out è investire in
condizioni di lavoro adeguate che tutelino la salute del personale, altrimenti per l’identità
professionale del docente e per la scuola ticinese non basterà la sala di rianimazione.
Gianluca D’Ettorre, presidente del Sindacato OCST-Docenti