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Massimo Desideri
Confesso che ho insegnato
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e-mail [email protected] e sito web www.aidro.org
Prima edizione ebook, formato PDF: giugno 2012
ISBN: 978-88-534-4029-7
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Società Editrice Dante Alighieri s.r.l. - via Monte Santo 10/A - 00195 Roma
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presso l’Ufficio della Proprietà Letteraria in ossequio a quanto disposto dalla Legge
sul Diritto d’Autore – rimane a disposizione degli aventi diritto che non si sono potuti reperire, nonché per eventuali errori o/e omissioni.
PROFILO DELL'AUTORE
Docente nei Licei per l’insegnamento di Materie letterarie e
Latino, Massimo Desideri è nato a Roma il 6 agosto del 1951.
Si è occupato, in passato, di problematiche relative alla programmazione e alla valutazione nella scuola e si occupa, attualmente, di linguistica italiana e latina, oltreché di tematiche di letteratura italiana: per quella ottocentesca toscana,
anni fa, ha pubblicato, al proposito, articoli sulla narrativa di
Mario Pratesi e di Federigo Tozzi.
Oltre a Confesso che ho insegnato, il romanzo-saggio sulla
scuola italiana di oggi e di un passato molto recente, che qui
presentiamo, ha già pubblicato, con la nostra Casa Editrice,
La diritta via, un Manuale di introduzione essenziale alla
linguistica di base del testo e all’analisi dei testi letterari e
non letterari per la scuola, oltre a una traduzione completa
dal latino delle Sententiae di Publilio Siro, dal titolo Ab antiquo.
INDICE
Premessa
PARTE PRIMA (Capitoli I-XVI)
Virginio e gli inizi di carriera: dalle stalle alle stelle
PARTE SECONDA (Capitoli XVII-XXVII)
Virginio e il riformismo scolastico in salsa italiana: «spes ultima dea»
PARTE TERZA (Capitoli XXVIII-XXXVIII)
Virginio tra Superman e Don Chisciotte: la perseveranza onesta
PREMESSA
Questo libro è uno sguardo “dal di dentro”, ironico e provocatorio,
fuori dal coro, sulla scuola italiana, di cui si svelano le contraddizioni e i meccanismi più segreti, a volte bizzarri, in gran parte
ignoti al grande pubblico.
Un libro molto diverso dall’abbondante saggistica degli ultimi
tempi sulla situazione dell’istruzione in Italia, soprattutto concentrato sul mondo dei licei e della secondaria superiore.
La narrazione segue, nell’arco di circa un trentennio, il percorso
professionale del protagonista, un docente “qualunque”, onesto e
serio, della scuola secondaria superiore, attraverso i suoi rapporti
con circolari e ordinanze ministeriali, con gli studenti e le altre
componenti della comunità scolastica.
Gli episodi narrati nel corso del libro, i dati e i riferimenti ai Ministri e ai loro provvedimenti sono stati ricavati, e fedelmente riportati, rispettivamente, dalle cronache giornalistiche e saggistiche, e
dalle normative ufficiali della legislazione scolastica italiana di
questi ultimi dieci anni: si è preso spunto, tra gli altri, da articoli, a
partire dal 2000, tratti da Il Messaggero, La Repubblica (e dall’inserto Il Venerdì di Repubblica), dal Corriere della sera (e dall’inserto Sette), da Il Sole 24 Ore, da riviste come L’Espresso, e da
alcuni saggi, specificamente citati all’interno della narrazione, sulla situazione della scuola in Italia.
La crisi dell’istituzione scuola, che è pure crisi di un modello familiare ed educativo in genere, viene rappresentata anche attraverso
aspetti e curiosità spesso involontariamente esilaranti, dalle quali,
però, per contrasto, emergono potenzialità inespresse, a volte colpevolmente trascurate, e risorse professionali e umane, di cui l’universo scolastico italiano è, comunque, ricco.
Dal quadro complessivo risulta evidente che oggi le esigenze di
rinnovamento e di ripensamento dei modelli didattici ed educativi, di reclutamento e di aggiornamento degli insegnanti non sono
più procrastinabili; gli standard europei e mondiali, con cui l’istruzione in Italia è chiamata a confrontarsi e ai quali deve dar
conto circa la qualità dei risultati ottenuti, impongono una revisione completa del modo stesso di fare scuola e della professionalità
docente.
Per questo, in “Confesso che ho insegnato”, tutti gli episodi direttamente vissuti dal protagonista, insegnante spesso “scomodo”,
sempre cocciutamente ligio e coerente con se stesso, e quelli che si
raccontano nel corso del libro circa il mondo della scuola, intendono mostrare la situazione com’è e come, invece, auspicabilmente, dovrebbe essere: il professor Virginio Sasso, infatti, è, più che il
personaggio principale, un “mezzo”, una figura-tipo ideale di professionalità docente (dove per “ideale” s’intende un professionista,
preparato, aggiornato e in linea con i modelli europei, capace, in
ogni caso, di rapportarsi, professionalmente e umanamente, sempre, con gli studenti, e non un improvvisatore dell’insegnamento).
La scuola è, per ogni società, specialmente nel competitivo mondo
globalizzato di oggi, un settore strategico, vitale di crescita, mentre, in Italia, sembra solo terreno di scontro politico di tutti contro
tutti e di sterile irresolutezza.
A questo proposito, filo conduttore del libro è, in ultima istanza, la
tesi, forse inammissibile per molti, che anche le modalità delle annuali proteste studentesche (e docenti) italiane, soprattutto ricorrenti in autunno, non siano ormai altro se non uno stanco e meccanico ripetersi di riti, funzionali ad “altro da sé”, testimoni della
mancanza di una vera dialettica politico-culturale e, dunque, di
una reale capacità di ascolto delle reciproche ragioni delle parti a
confronto.
M. D.
Nel ricordo di
Giorgia Russo
A Paulina,
nella mente
e nel cuore
PARTE PRIMA
Virginio e gli inizi di carriera: dalle stalle alle stelle
«Nella biografia da lui dedicata al poeta Georges
Perros, Jean-Marie Gibal cita la frase di una studentessa di Rennes, dove Perros insegnava:
“Lui (Perros) arrivava il martedì mattina, con i
capelli scompigliati dal vento e dal freddo, sulla
sua moto azzurra arrugginita. Curvo, con addosso un cappotto da marinaio, e la pipa in
bocca o in mano. Svuotava sulla cattedra una
tracolla piena di libri. Ed era la vita”
“Sì, era la vita, una mezza tonnellata di libri,
pipe, tabacco,...chiavi, taccuini, fatture.....Da
questo caos tirava fuori un libro, ci guardava,
partiva con una risata che ci stuzzicava l’appetito
e si metteva a leggere....Tutte le sue letture erano
dei regali. Non ci chiedeva niente in cambio. […]
E noi capivamo tutto quello che ci leggeva. Noi lo
sentivamo. Non c’era spiegazione del testo più
luminosa del suono della sua voce quando anticipava le intenzioni dell’autore, rivelava un sottinteso, svelava un’allusione...rendeva impossibile il
fraintendimento. […] Ci parlava di tutto, ci leggeva di tutto, perché non dava per scontato che
avessimo una biblioteca in testa. Era il grado
zero della malafede. Ci prendeva per quel che
eravamo, dei giovani maturandi incolti che meritavano di sapere. […] Tutto era lì, intorno a noi,
brulicante di vita. Ricordo la nostra delusione,
agli inizi, quando affrontò i colossi, quelli di cui i
nostri professori ci avevano comunque parlato, i
pochi che pensavamo di conoscere bene e che ritenevamo inaccessibili: La Fontaine, Molière...In
un’ora perdettero il loro statuto di divinità scolastiche per diventarci intimi e misteriosi - cioè indispensabili. Perros resuscitava gli autori. Alzati
e cammina: da Apollinaire a Zola, da Brecht a
Wilde, ce li vedevamo arrivare tutti in classe, vivi
e vegeti, come se uscissero da Michou, il caffè di
fronte. Caffè dove a volte lui ci regalava un secondo tempo. Non faceva il prof-amicone, non
era il suo genere, proseguiva semplicemente
quella che chiamava la ‘sua lezione di ignoranza’. Con lui la cultura smetteva di essere una religione di Stato e il bancone di un bar valeva
quanto un palco […] Avevamo voglia di leggere,
punto e basta […] E più leggevamo, più in effetti
ci sentivamo ignoranti, soli sulla riva della nostra
ignoranza, e di fronte a noi il mare. Ma con lui
non avevamo più paura di buttarci....” [...] “La
cosa più importante era il fatto che ci leggesse
tutto ad alta voce!...L’uomo che legge ad alta
voce ci eleva all’altezza del libro. Dà veramente
da leggere!”» (D. Pennac, Come un romanzo,
Milano, Feltrinelli, 1993, pp. 72-74; 76).
I
Quando ci pensava, e lui si sforzava di far sì che non accadesse
spesso, al Professor Virginio Sasso non sembrava proprio fossero
passati trent’anni dalla sua prima lezione, in quell’aula di tanti visi
un po’ attoniti e, quel giorno lontano, attenti e incuriositi.
Invece, erano passati, quei trent’anni.
Operosi, per la verità, mai noiosi, pieni, sonori di squilli di campanella, di riunioni, di accorate difese e circostanziate arringhe durante gli scrutini; anni trascorsi fra accurate chirurgie a colpi di
matita rossa e blu su faticosi fogli protocollo consegnati dai ragazzi entro limiti orari puntualmente sforati, tra un rimbrotto e l’altro, tra un richiamo e l’altro…; anni spesi a studiare per far studiare, a preparare esercizi per far esercitare, a parlare per far parlare,
a suggerire rimedi, a far intravedere soluzioni, e spiragli su muraglie che sembravano di pietra spessa…
Tutto fa il suo tempo, e anche il suo tutto aveva fatto il suo, ma
non aveva rimpianti il professor Virginio Sasso.
Semmai, piacevoli ricordi e l’orgoglio di aver dato a molti qualcosa
d’importante, se non altro una bussola, come gli piaceva dire, da
tirar fuori, quando c’era bisogno di capire quale fosse la strada migliore da imboccare.
Perché lui non era di quelli che stavano zitti a sentire sparare a
zero sulla scuola, a farsi dire in faccia che non funziona, che non ci
si può combinare niente di buono dentro e che chi ci lavora o va
fuori di testa o è per forza frustrato, o è, nel migliore dei casi, un
perditempo pagato per blaterare al vento mezza giornata tra gli
sbadigli dei ragazzi e farsi tre mesi di vacanza d’estate, per non
parlare delle feste di Natale e di Pasqua, e di tanti ponti e ponticelli vari, fatti apposta per far crepare d’invidia gli altri, che gli snocciolavano improperi sibilando di lavorare sul serio, accompagnati
da amichevoli “Per carità, non è per te, non è per Lei. Niente di
personale, ma sai, ma sa...”.
Lui no, non era di quelli, non sopportava i luoghi comuni, le generalizzazioni, né i preconcetti, né, tanto meno, i soloni improvvisati, e con pacatezza, ma fermo e scientifico, sosteneva le sue ragioni. E ne aveva da vendere.
Difatti, aveva i suoi riscontri, lui: il fatto che i suoi ex studenti, già
donne e uomini fatti, venivano a trovarlo più d’una volta, anche
dopo essere usciti dalla scuola col loro bel diploma in tasca, da
universitari che riuscivano a stare più o meno in linea con gli esami…
E poi, sì, la stima dei genitori, merce spesso più rara di quella dei
ragazzi.
Insomma, non si era pentito, né si sentiva frustrato del suo lavoro,
come tanti, come troppi e troppe dei suoi colleghi. Fin da
quando…..
II
Ricordava quei pomeriggi ancora afosi di settembri lontani, quando, non ancora titolare, si trattava di conquistare una supplenza
annuale, qua e là in giro per la regione.
Ricordava un pomeriggio in particolare, appena usciti e attaccati
al muro i fogli delle graduatorie, lungo i corridoi da bolgia dantesca del Provveditorato agli Studi: faceva caldo, ci si accalcava, con
più o meno sopportazione per gli altri pari, all’unico scopo di individuare, fra i tanti altri, il proprio nome a stento stampato con inchiostro sbiadito, e immaginare l’imminente, sperato destino, la
meta agognata.
In città, in provincia, in un paese comodo da raggiungere, abbarbicato tra i monti o esposto all’aria salmastra del mare Tirreno?
Quel pomeriggio dovette praticamente sdraiarsi per terra, contando sui piedi benevolenti dei più fortunati che leggevano ad altezza
d’uomo, dato che il foglio coi cognomi della sua lettera alfabetica
era il più in basso, il primo a partire dal pavimento…
Fu fortunato anche lui: ebbe solo un paio di calci, involontari e
non dolorosi, da due colleghe festanti, e già appagate per aver individuato il proprio nome.
Una sola si scusò, da lui ricambiata con un sorriso rasoterra, mentre l’altra si era già slanciata verso l’uscita a dar l’annunzio, forse,
ai suoi cari o al fidanzato, magari un po’ annoiato, rimasto in attesa all’entrata di quell’intellettuale carnaio…
Ricordava quasi con nostalgia quelle giovanili flessioni, allora ancora possibili. E quegli estivi contorcimenti acrobatici nell’imminenza di anni scolastici ormai dietro le spalle.
Quell’antico giorno di settembre il prof. Sasso se ne uscì di lì, dopo
essersi anche lui ritrovato nella chilometrica lista e aver saputo
che sarebbe stato a breve convocato per andarsene, quell’anno
scolastico, a V., nel liceo della bella località dei Castelli Romani.
Bei tempi andati.
Adesso il prof., un po’ meno pieghevole, un po’ più cieco, canuto e
occhialuto, rimpiangeva addirittura il periodo dei verdi anni del
precariato, dopo il quale era arrivato, comunque, a superare il
concorso senza raccomandazioni (ma molti amici estranei all’ambiente della scuola non gli credevano e gli ridevano in faccia); il
concorso che gli aveva consentito di conquistare una cattedra da
titolare, tutto sommato giovane, a trentacinque anni.
Eh, sì: aveva tentato, anche se il concorso a cattedre era a zero cattedre (potenza degli italici ossimori!), e gli era andata bene, perché poi le cattedre si materializzarono, come un “pof” di Mago
Merlino, dopo pochi mesi dalla fine delle prove.
Quelle prove, specialmente le scritte, che lui - ricordava -, unico
nello stanzone dove si svolgevano e dove erano in tanti, si era presentato ad affrontare solo con penna e documenti, tra il disprezzo
malcelato, i sorrisetti o il dileggio dichiarato di chi, invece, previdente, aveva fatto il suo ingresso in aula con ponderosi borsoni
pieni di libri.
Ancora una volta, ci cascava fin dall’infanzia, aveva creduto all’indiscutibilità delle regole e alla loro applicazione, che lì erano promesse e minacciate ore rotundo dalle frasi ufficiali del bando, con
cui si proibiva “tassativamente”, pena l’esclusione dal concorso,
l’uso di qualsiasi cosa che non fossero, appunto, la penna per scrivere sui fogli forniti dallo Stato e il documento per farsi riconoscere.
Invece, i commissari d’esame, i temuti tutori dello Stato e della
Repubblica, non ci facevano nemmeno caso a tutta quella gente
carica di bagagli come alla stazione, che si riversava nell’ampio
stanzone: chissà, forse pensavano - pensava Virginio nella bianca
armatura della sua anima retta - fossero solo vettovaglie per nutrirsi in quelle otto ore abbondanti da passare lì dentro.
E, come lui - sempre pensava Virginio -, onesti e discreti, non volessero umiliare con umilianti controlli quegli aspiranti professori,
certo futuri onesti tutori dello Stato e delle Repubblicane, Democratiche Istituzioni.
E così, sicuri della condivisa da quelli onesta fede nello Stato, lasciavano passare bagagli e persone, persone e bagagli, senza fiatare, solo annotando le presenze dal documento esibito, col cipiglio
imperturbabile della Vergine Astrea.
Durante le prove scrisse quello che riuscì, anche senza i libri, che
gli altri leggevano tranquilli e da cui annotavano, mentre i mansueti cerberi - quattro, più lo spessocchialuto Presidente - tra loro
celiavano seduti dietro la cattedra lontana o altri leggevano inderogabili notizie dal giornale del giorno.
Nessuno lo disturbò, né gli rivolse la parola, pur potendo, come altri facevano, almeno a voce più bassa che in chiesa per un senso di
grato pudore istintivo ai blandi custodi della regolarità della prova: solo una matura collega, dal banco dietro al suo, già moglie e
madre presunta - dalla fede incassata all’anulare sinistro, che intravide voltandosi -, gli chiese sommessa, se si scrivesse “sufficente” o “sufficiente” e se “qual è” volesse l’apostrofo o meno.
Esaurita in un paio d’anni anche la prova orale, riuscì a piazzarsi,
a dispetto della sua spudorata onestà, tra i primi quaranta e cominciò la sua vita da titolare, da TITOLARE (roba da rotolarsi in
camera la sera prima di andare a letto), in una nota e tuttora ridente località di mare a quaranta chilometri da Roma, dove risiedeva in un appartamento del quartiere Appio Latino, acquistato
con un mutuo ventennale in unità d’intenti e di sacrifici con sua
moglie Alba, sposata tre anni prima.
III
Tutto sommato, nonostante le alzatacce cui l’avrebbe costretto per
tutto l’anno, a Virginio non dispiaceva di essere stato destinato al
liceo di A.
Anzi, proprio per dimostrarselo, profittando del fatto che ancora
le nove non erano scoccate, ora di convocazione della prima riunione, e che la giornata evocava tuttora l’estate da poco sopita,
prima di raggiungere la scuola, volle indugiare un po’, verso Stella
Marisi, da dove si vedeva il mare del Lido di Marechiaro.
Lì presso, in un bar che gli piacque, ordinò e sorbì il primo caffè
dell’anno scolastico incipiente, se non altro come autoauspicio di
un inizio importante e fecondo di una sua nuova fase di vita.
Arrivò per tempo davanti all’edificio, assolato e come sorpreso di
dover già riaprirsi all’accoglienza di tanti educatori di nuovo là
convenuti a ricorroborare d’aria sapienziale e pedagogica quelle
aule per troppo poco tempo chiuse a riposo, e notò subito, entrando, uno studentesco, arguto graffito.
La scritta, non molto grande e ormai non più tanto fresca, vergata
con pennarello nero, sanciva: «Preside chi legge».
Virginio, colà inviato dalla Provvidenza Ministeriale a insegnar l’Italiano insieme all’antica sua nobile madre, fu quasi confortato nel
constatare come in quella sede qualcuno avesse così bene appreso
e in modo tanto creativo saputo applicare i linguistici veli della
metafora.
Ripensando a quella remota sua esperienza di inizio carriera e a
quel suo primo impatto, tanto ingenuamente ed eccessivamente
sopravvalutato, in così lucido uso ornato della lingua di Dante su
mura scolastiche, non aveva poi che potuto, di lì a qualche tempo,
commiserare i posteri di quel faceto e preparato studente, costretti, nella scuola ventura del XXI secolo, a veder trasformato il titolo
di Preside in quello più asettico e meno retoricamente utilizzabile
di Dirigente Scolastico.
Ad ogni modo, lì per lì, all’inizio del suo percorso di docente
TITOLARE, di fronte a tale sottile edulcorazione linguistica dell’eterno conflitto Preside/Autorità-Studente/Vittima, Virginio, certo
più ingenuo che giovane, si sentì subito irrorare di fierezza il cuore
per essere approdato in un Liceo, in particolare in un Liceo Classico, dove anche un insulto al Preside, immortalato sullo stipite della porta d’ingresso e mai cancellato, si sapeva rivestire di così face ti e poetici abbellimenti.
“Che abisso!”, pensò, rispetto alla laida bestemmia, incastonata
tra altre irripetibili scritte, che aveva letto, invece, lungo il corrido io del primo piano di un Istituto romano non di istruzione classica, dove si era trovato, due anni prima, a far da commissario d’esame, quando era ancora supplente.
Al suo rilievo, un operatore scolastico di mezza età, fosco e un po’
truce (di quelli che, prima delle ultime conquiste lessical-democratiche, si chiamavano, certo più volgarmente, “bidelli”), aveva
risposto: - A professo’, io ‘a scritta, si propio jé dà fastidio, ja ‘a
posso pure cancella’ co ‘na bòtta de’ pennello, ma quelli domani ‘a
riscriveno, e ce ne scriveno pure l’artre, de sopra e de sotto. Io ci’o
‘o so! Perciò, ch’ ‘a cancell’a ffa’? Pe’ lavora’ de più e a vòto? Mejo
lassà pèrde’ e mettes’ a fa’ cose più serie. Presempio a pulì li cessi,
ché ‘sti zozzi me li lasceno tutti i ggiorni come fogne e stalle de’
porci -.
Virginio non replicò al volgare e brutale grido di dolore, torvo e
provocatorio, del bidello, comprendendo l’autentica sofferenza interiore dell’uomo, frutto palese di tante irredimibili ferite.
Evidentemente, la sua esperienza era tale, la sua saggezza mediterranea così temprata e incrollabile da fargli considerare quell’utenza giovanile, mai governata, ormai ingovernabile, e in toto regredita allo stadio subumano, senza alcuna speranza o possibilità
di recupero.
D’altronde, una simile, sconfortante impotenza, benché rivestita
di ragioni più sobrie ed eleganti, forse inconsciamente autoassolutorie, aveva colto anche nella disarmata apertura di braccia con
cui il Preside aveva accompagnato la risposta al quesito di Virginio
su quelle blasfeme brutture e sui motivi per cui non fosse pensabile tentare di insegnare a quegli studenti dal pennarello incontinente a non imbrattare i muri della scuola; magari cercando di
spiegare loro il valore di quel bene pubblico, che a tutti apparteneva.
Sul volto del Preside, persona mite e di educata canizie, a Virginio
sembrò perfino di cogliere, in quella circostanza, un seppur non
voluto sorriso come di paterno compatimento per la di lui ingenuità, certo scusabile - pensò che pensasse - in ragione dell’età
ancor giovane, tuttora non abbastanza temprata dalle prove sul
campo e al momento non sufficientemente esperta, dunque, della
dirompenza studentesca e della sua conseguente, incorreggibile e
turpiloquente grafomania.
Insomma, Virginio ebbe l’impressione che quel Preside pensasse
che fosse solo questione di tempo e di smacchi scolastici, ma che
poi anche lui, Virginio, avrebbe acquisito, come tanti bravi, esperti
ed equilibrati docenti, il necessario patrimonio di saggezza, di
sana tolleranza e di salvifico menefreghismo verso le giovanili intemperanze così fantasiosamente certificate dalle vissute mura
delle scuole pubbliche d’Italia, più o meno da un po’ tutte; certo in
quella scuola esse si mostravano particolarmente manifeste e rigogliose, ma né più né meno che in tanti altri educativi e non certo
per questo ignobili edifici scolastici.
Il fatto è che Virginio, oltre che frutto di una educazione familiare
rigorosa e un po’ fuori dai tumultuanti tempi moderni, era anche
ex-allievo di una scuola, pur pubblica, forse mosca bianca - cominciava a pensare -, o forse già lontana nel tempo, in cui le aule
erano pulite, i muri molto vigilati nel loro inviolato marroncino
chiaro da un Preside occhialuto, cipiglioso e onnipresente, spina
nel fianco di tutte le componenti scolastiche (dai professori, agli
alunni ai bidelli), ma che era riuscito ad insegnare e a far credere,
ai discenti, e forse, addirittura, anche ai docenti più disincantati e
ribelli, che democrazia e scuola pubblica perfino fisicamente pulita potessero convivere; anzi, che fossero l’una la credenziale dell’altra.
Poi, nel giro di pochi anni, l’irrobustimento culturale della Rivoluzione sessantottina si era incaricato di spazzar via estrosamente
quella vetusta, pia e impopolare illusione, ma, intanto, i semi gettati da quel preside nel lontano tempo della sua età studentesca
erano germogliati nel cuore e nella mente di Virginio, tanto da
renderlo accanito indagatore di mura interne ed esterne delle
scuole pubbliche d’Italia, con scandalo, spesso, di colleghe e colleghi, unito a legittimo dubbio sulla sua affidabilità mentale, con so-
spetto e a stento contenuta sopportazione istituzionale di Presidi
pur comprensivi e preparati, e con occhiate intimidatorie e sbuffi
evidenti di ostile disaccordo da parte di alunni creativamente inclini al graffitismo, ma insofferenti della coattiva e, a detta di molti esperti di scolastiche psicologie, antipedagogica e illiberale insofferenza del prof. Sasso verso quella, invece, sana, e, anzi, in
ogni modo incoraggiabile, esuberante espressività giovanile.
Ma ora, lì, quel giorno, il primo suo da titolare, si trovava in un LI CEO CLASSICO, nel gotha - pensava entrando - degli ordini delle
scuole superiori.
Certo, il Classico non era più, nella cosiddetta scuola di massa
odierna, culla e fucina della futura classe dirigente italiana, o non
solo, com’era quando fu concepito casta d’eletti dal ministro del
fosco tiranno littorio, ma di sicuro un indirizzo tuttora prescelto
da ragazze e ragazzi motivati, e inclinati, fascinati, ab ovo conquistati agli studi umanistici, né pregiudizialmente preclusi, seppur
non similmente votati, a quelli scientifici.
Chissà, pensava un po’ trasognato Virginio, quale entusiasmo sarebbe riuscito ad infondere nei suoi per allora sconosciuti studenti! Quali classi, si chiedeva, avrebbe avuto affidate dallo ieratico
Preside che aveva conosciuto qualche giorno avanti? Di quale corso - buono, medio, da risollevare - sarebbe entrato a far parte? Chi
erano i suoi studenti? Quale percorso scolastico avevano compiuto? Con quali facce l’avrebbero accolto? Con curiosità, con speranza, con buona disposizione d’animo? O con curiosa speranza d’animo ben disposto?
Tutte domande per allora destinate a rimanere insoddisfatte, ma
lui, ora giovane insegnante titolare di liceo classico, ovvero, come
lo incoronavano le carte ministeriali, ufficialmente docente di Materie letterarie e latino nei licei e negli istituti magistrali, sentiva
ogni sua fibra farcita della potenza entusiasmante del neofita.
Quanti lontani ricordi evocava in Virginio quella solenne dicitura
impressa in bei caratteri in grassetto corsivo sulla sua nomina!
Ora, invece, nel XXI secolo, per esempio, l’Istituto magistrale era
definitivamente trascolorato, come altre vecchie sigle usurate dal
tempo, in un’altra liceale, più moderna e più specialistica sembianza, per italica mutazione verbale baldanzosamente ribattezzata “Liceo psico-pedagogico”.
Con quale maggiore e tangibile pubblico vantaggio, però, Virginio
non era riuscito a capire, né all’inizio di detto cambiamento, né
poi, quando, commissario stavolta TITOLARE, agli Esami di Stato, aveva trovato i programmi di studio svolti uguali a quelli di prima, le relazioni finali dei professori sulle classi pure, uguali di
tono e di parole a quelle di prima, e gli studenti, e non solo, ugualmente, o poco più, quasi del tutto uniformemente o più diffusamente ignoranti.
Ma allora, agli inizi della sua carriera ufficiale, di fronte al mare di
A., che quel giorno vedeva quasi per lui più azzurro, simili dubbi e
pensieri ancora non lo prendevano. Aveva solo voglia di fare, fare,
fare, ascoltare quel che il Preside di lì a poco avrebbe detto, e cominciare con i migliori propositi la sua nuova avventura...
Così entrò nell’Aula Magna con lo stesso stato d’animo di quando,
bimbo seienne, aveva varcato tremante, per la prima volta, la soglia della sua classe di prima elementare: come allora i suoi piccoli
coetanei, anche ora molti suoi pari, più o meno coevi d’età, erano
già seduti fra i banchi allineati, disposti, quasi aspiranti, verso un
ampio tavolo sopraelevato su una lunga pedana; certo, la postazione del Capo d’Istituto, da cui l’agorà sarebbe stata diretta.
E, di lì a poco, il Preside avrebbe fatto il suo ingresso e cominciato
a beneaugurare, a dire, a disporre, ad auspicare, a proporre, ad assegnare, a indicare propositi e mete, a fare bilanci dell’anno appena concluso, a illustrare obiettivi raggiunti, a metterne su di nuovi
per il nuovo, ma migliori, migliori dei vecchi, e finalmente, forse, a
parlare di scuola e di studenti, a dare istruzioni per l’uso su come
progettare il lavoro didattico e come fare uscire migliori i ragazzi
da quelle porte da cui meno robusti e molto, molto meno sapienti
erano entrati.
Dopo l’ingresso nella sala della riunione, con un nutrito gruppo di
colleghe e colleghi, neofiti o già colà decani, pur pregandoselo nel
cuore, non poté evitare a lungo, come altri suoi consimili, la comune, naturale, umana curiosità del ceppo antico pei nuovi rami
gemmiferi che in esso si innestavano.
Così, più che dieci minuti trascorse tra presentazioni e domande
su sé e il suo cammino, che là, quell’anno, l’aveva condotto, e tra
commossi richiami alla memoria a colleghi in passato, lungo la
sua pur breve via, a lui noti e, altrove, anche da quelli condivisi,
che ora lo premevano nel festoso assedio di quella lieta e cordiale
accoglienza.
Un brusio uniforme e diffuso, tanti piccoli gruppi che si ricompattavano dopo le vacanze estive e altri, che si formavano, aprendosi
a raggiera e richiudendosi quasi in un abbraccio ideale, fraterno e
tutelare, intorno alle nuove forze sussidiarie del glorioso sodalizio
educativo, quel giorno benedetto ancora dal puro effluvio azzurro
del mare settembrino, sonnacchioso al di là delle socchiuse finestre.
Quel giorno iniziatico aveva osato indossare una leggera giacca di
lino color turchese su una polo di cotone blu scuro, ma dopo un
po’, al caldo ancora umido dell’ambiente, si rese conto dell’azzardo; ciononostante, ormai, non poté che imporsi di opporsi all’afa
opprimente e resistere in nome dell’istituzione, che in lui, pensava
convinto, dovesse incarnarsi anche negli abiti, doverosamente
convenienti all’occorrenza del compito, che lì, tra quei molti suoi
pari, l’aveva posto a sedere.
Certo, un po’ di disagio avvertì nel constatare che tale sua scelta
non era stata, quel giorno, da nessun altro adottata: pur volgendo,
infatti, con molta discrezione lo sguardo all’intorno, per non dar
mostra di curiosità eccessiva, vide molti colleghi, pur eminenti le
irsute braccia, e non solo, da camicie, talune incredibili, dar segni
di insofferenza al caldo notevole.
E molte colleghe notò, pur più garbate e seriose, sventolare, vezzose, policromi ventagli su generose e generosamente sostenute
scollature, e, un po’ afflitte e sudate, cercare di soddisfare, peraltro
invano, l’urgente fabbisogno di frescura, che le opprimeva.
In ogni caso, sembrava che ognuno, pur a suo modo, fosse ben disposto a iniziare con buoni propositi il nuovo anno di lavoro e che
i colpi di coda di quell’estate bollente fossero tutto sommato previsti, visto l’abbigliamento necessariamente quasi da spiaggia appena dismessa di molti.
D’altra parte, nessuno nemmeno era da mai abituato a pensare
che, almeno in casi eccezionali, si potessero installare, e addirittura utilizzare, condizionatori d’aria nelle scuole; già le risorse economiche pubbliche erano scarse e, dunque, ognuna sarebbe stata
da sfruttare per tutto meno che per quello.
Solo un suo amico, uno solo, docente in una scuola confessionale
d’élite, gli aveva rivelato che loro, nell’istituto liceale in cui lavorava, avevano, in Sala Professori, un impianto di aria condizionata:
ma quella notizia era rimasta, in Virginio, come avvolta in un’aura
favolosa, fuori dal tempo e dallo spazio comuni: forse era solo una
pietosa, comprensibile rivalsa, pensava fra sé, del suo amico, per
non essere mai riuscito ad emanciparsi da quella scuola privata.
Comunque, non gli aveva mai rivelato, com’è ovvio, questo suo segreto pensiero, per non mortificarlo, e così, per compiacenza e
sensibilità, quando d’estate si incontravano, gli lasciava raccontare, senza interromperlo, rapito com’era, il suo amico, nell’atmosfera quasi onirica della sua narrazione, del lungo tavolo nero, lucido e terso, predisposto nella Sala Professori di quell’antica scuola privata per le riunioni e gli scrutini, ad uso della correzione delle prove scritte durante gli esami finali, e delle confortevoli sedie
in pelle che lì si trovavano per i docenti e il Preside, e della piacevole frescura così opportunamente soffusa da davvero benedetti
climatizzatori, per rendere più proficuo e gradito il lavoro degli insegnanti.
Virginio, allora, per amicizia e fine sensibilità, gli raccontava, a
sua volta, degli ultimi esami di stato, cui aveva partecipato nella
scuola pubblica dove era stato destinato, del caldo africano dell’aula dove la Commissione d’esame aveva la sua sede operativa,
della patetica e velleitaria coppia di ventilatori che il Segretario
della scuola aveva messo a disposizione, e del mancamento che
era intervenuto a una studentessa durante la prima prova.
La poveretta, peraltro una delle migliori della classe, s’era accasciata sul banco, certo più per il calore insopportabile che per la
tensione dell’esame, e lui, Virginio, insieme al collega di Scienze,
prontamente accorsi, mentre il Presidente della Commissione si
teneva all’erta per chiamare un’ambulanza, l’avevano spostata,
con tutta la sedia, all’istante promossa gestatoria sul campo, verso una finestra del corridoio su cui s’affacciava l’aula, per far prendere alla ragazza, involontaria papessa colà trasferita, qualche refolo d’aria che si fosse eventualmente deciso a passare di lì.
Nel frattempo, mentre i compagni, un po’ preoccupati per la sorte
della compagna, ma anche per la loro, venivano rassicurati e controllati a vista dagli altri colleghi della Commissione, i bidelli, sta-
volta davvero “operatori scolastici”, come ora li si definiva, nel
senso che operavano andando su e giù tra il corridoio e il bagno a
prendere un po’ d’acqua con cui rinfrescare l’infortunata, si davano da fare per assicurare i contatti tra quel pur controllato trambusto e la Presidenza della scuola, preallertata, appunto, nel caso
fosse necessario chiamare il 118.
Ma, finalmente, come più Dio che il Presidente volle, dati i loro
ben differenti poteri, la ragazza, pur ancora debole e pallida, socchiuse i languidi e chiari occhi e, pian piano, cominciò a riacquistare un po’ di colore in viso, tanto da poter riprendere il suo posto, rientrando da sé nell’aula, alquanto intimidita per la non voluta gazzarra, tra il sollievo e il contenuto applauso dei compagni,
seguita da Virginio, con la sedia in alto come un esorcizzato feticcio, e dal collega di Scienze, a sua volta rinfrancato dalla favorevole svolta degli eventi, pur persistendo una temperatura d’ambiente
di poco inferiore ai trentacinque gradi e un tasso di umidità da
soffocamento.
Ad ogni modo, in compenso del rischio corso, la rinfrancata ma
tuttora provata studentessa ebbe, stavolta, il posto più vicino a
uno dei due patetici ventilatori, con cui, se non altro, sostenere la
sua ripresa dopo il mancamento.
Così, nei giorni successivi, anche se per fortuna senza altri danni
visibili e immediati per studenti e insegnanti, erano proseguiti gli
esami, tra le infuocate mura di quell’Istituto.
A questo racconto, Virginio s’avvedeva che il suo amico della scuola privata, pur senza alcun dubbio volerlo, mostrava un’intima, inconsciamente sadica soddisfazione, forse pensando ai devoti climatizzatori delle sue linde aule scolastiche private; e Virginio, che
aveva un grande senso dell’amicizia, aggiungeva altri particolari,
apparentemente solo realistici, ma, per il suo amico, segni che, anche solo per quei motivi estivi, aveva fatto certo bene a non forzare
il proprio destino e, pur potendolo fare, a non muoversi da quel
suo sicuro e climaticamente controllato rifugio.
E ora lì, Virginio, in quel caldo, propedeutico mattino, nella sua
nuova sede di A., la sua prima da titolare, pur sudato e affidato
alle virtù del suo deodorante, che per ora ben si opponeva al nemico, ripensava a quelle e altre vicende della sua ancor breve carriera, e si compiaceva, in cuor suo, di essere lì, di far parte di quella
nuova comunità, alla quale, davvero, sentiva di dovere tutto il suo
impegno e la sua onesta dedizione.
E gli piaceva anche ascoltare il Preside, che parlava, e magari diceva cose già dette allo stesso modo all’inizio dell'anno prima, ma
cose che lui voleva credere sincere in assoluto, dato che, per allora, e sperava anche poi, non aveva alcuna ragione per non crederle
tali.
La riunione terminò nel giro di un paio d’ore, con l’impegno per
tutti, stabilito dal Preside, di continuare per l’indomani e nei giorni seguenti con l’espletamento di più specifici compiti, distribuiti
ai singoli gruppi di docenti delle varie discipline, allo scopo di discutere e preparare strategie didattiche o, come era ormai invalso
dire, predisporre temi da organizzare nei piani di programmazione individuale (per non chiamarli più, semplicemente e vetustamente, “programmi”): il “nuovo” si sarebbe dovuto affermare anche attraverso “forme” nuove.
Finalmente, dopo un paio di settimane di lavoro, Virginio poté approfondire la conoscenza dei nuovi colleghi e da qualcuno già anche sinceramente farsi apprezzare.
Finché arrivò, anche quell’anno, il giorno dell’inizio delle lezioni:
il giorno in cui tutto quello che era stato detto e teorizzato si sarebbe convertito nella realtà quotidiana del lavoro scolastico.
Virginio si trovava bene nel nuovo ambiente, colleghe e colleghi
avevano già cominciato ad assumere per lui un loro caratteristico
profilo individuale, di “persone”, coi loro pregi e i loro difetti, le
loro tipicità: si era avviato un processo di reciprocità, per allora
positivo.
E Virginio rideva delle battute, o dei nomignoli, che l’uno svelava
dell’altro, anche se non di tutti, delle debolezze, più che delle forze, di ciascuno, di cui veniva informato; di ognuno dei suoi compagni di quel suo viaggio “ufficiale”, che iniziava nel mondo della
scuola, pure non certo nuovo per lui.
Anche di chi meno si esponeva, gli si rivelava, o da altri veniva rivelata, la ‘maschera’, con cui, ogni giorno, faceva il suo ingresso
tra le aule e i banchi e con cui esisteva per chi lì lo o la conosceva e
gli era o le era collega, o amico, o sodale, o alunno, più o meno
contento di essergli o esserle tale.
C’era sempre chi non poteva fare a meno di scherzare alle spalle di
qualcuno, anche con lui, che pure era appena arrivato: così gli fu
presentato, col suo vero nome, verso la fine della prima settimana
di scuola, in un bar vicino all’istituto, dove si erano concessi una
pausa tra un’ora e l’altra di lezione, il collega di scienze, il prof. Ta verna, detto, però, gli fu riferito “in gran segreto” dal Biondini,
esperto docente di Arte, Chilo di batteri, dato il suo vezzo di concludere spesso i suoi ragionamenti con l’espressione un po’ fatalistica «Tanto, ragazzi, voi dite e fate, vi credete chi sa chi, ma avete
dentro, come tutti noi, un bel chilo di batteri a testa!».
E conobbe anche, stavolta per merito di una collega di lettere, la
Tiraboschi, un’altra collega di lettere, la Cipriani, che, vista da dietro, illudeva per lunghi e lisci capelli biondi e un abbigliamento da
teen ager, ma che, sul versante opposto, rivelava ben più vissute e
numerose primavere: a lei era stato gettato sulle spalle, a quanto
pare assolutamente a sua insaputa, con la particolare crudeltà con
cui le donne si feriscono tra loro, l’appellativo di Nonna di Barbie.
Certo, a vederla muoversi e a sentirla parlare, sembrava proprio
che non lo sapesse; o, quanto meno, che non lo desse a vedere,
con una noncuranza, o una conquistata superiorità, nel secondo
caso, a dir poco straordinaria…
Virginio, tutto sommato lusingato di essere messo a parte di tali
“segreti”, evidentemente segno della benevolenza della vecchia
guardia di quella scuola e dell’affidabilità che, come persona, suscitava, non poteva fare a meno di ridere a tali spiritose invenzioni
e di ammirare l’inventiva dei suoi colleghi più faceti.
Poi, alla fine della giornata scolastica, sul pullman del ritorno, serio pensava tra sé a quanto avrebbe impiegato, lui pure, a meritare
qualche bel nomignolo o qualche scherzoso soprannome tra i colleghi, …naturalmente a sua totale e garantita insaputa.
IV
Come tutti i docenti d’Italia, qualche pomeriggio Virginio doveva
trattenersi a scuola, per un consiglio di classe o per un collegio dei
docenti, più raramente per un corso di recupero di latino, cui il
Preside gli aveva fatto capire di tenere…; e quell’anno per lui era
l’anno di straordinariato, l’anno “di prova”, da concludersi con
una relazione finale davanti al comitato di valutazione dei docenti,
presieduto dal Preside.
Una prassi, quella dello straordinariato o anno di prova, difficile
da comprendere per i non addetti, che il buon Virginio aveva dovuto spiegare ad Alba con dovizia di particolari, dato che lei, all’inizio, non afferrava molto bene come potesse essere in prova lui,
che non solo aveva vinto un concorso, ma che aveva, come
“prova”, già sette anni di esperienza di supplente alle spalle; mentre altri insegnavano, o avevano insegnato, nella scuola, per molti
più anni da precari, e poi, magari, erano stati immessi in ruolo
ope legis, cioè per effetto della diretta applicazione di una legge
apposita, come la sua cara amica Giovanna, senza mai aver superato un concorso, o roba del genere, e aver dovuto passare quella
specie di esame finale.
E, poi, non si capacitava, Alba, più in generale, come il lavoro pomeridiano delle riunioni a scuola potesse essere gratuito; e, così
pure, quello della correzione a casa dei compiti svolti in classe dai
ragazzi, che tanto tempo prendeva a Virginio.
E lui lì a spiegare, con amore e pazienza, che alla scuola italiana
bisognava lasciare quel po’ di inspiegabile, quasi di occulto che
aveva da sempre, quel pizzico di vezzo omertoso con cui non si
concedeva del tutto neanche a chi ne viveva; e che, però, per
esempio, un titolare stava a un supplente come un marito a un
amante; che la faccenda di correggere i compiti a casa aumma
aumma (o chissà dove, come facevano molti, magari nelle sale
d’aspetto dei dentisti), scorretta e illecita fuori d’Italia, nel Bel
Paese rientrava, invece, a forfait, al di là di come ognuno, a sua discrezione e senza controlli, la praticava, nell’insieme dei doveri
della “funzione docente”, come diceva il contratto; e che, per
esempio, se lui, per parlar d’altro, avesse - puta caso - anche accettato di far parte del Consiglio di Istituto, cosa cui era riuscito a
sottrarsi, quella sarebbe stata una carica elettiva, quindi un onore,
perbacco!, non un onere, e come tale, dunque, non compensabile:
insomma, sarebbe stato, doveva essere, gratuito anche quello…
Ad Alba, però, che pur si riteneva molto paziente e comprensiva,
le spiegazioni di Virginio sembravano labirintiche elucubrazioni di
un sofista, tanto più incorreggibile in quanto non consapevole di
esserlo.
Sicché, a volte, tolti i più tranquilli sabato pomeriggio e le domeni che finalmente coniugali, di solito se ne usciva con le amiche,
mentre Virginio rimaneva in casa a riparare qualche sgangherato
congiuntivo dei suoi alunni più renitenti alla lingua di Dante o si
esaltava quasi alle lacrime per i risultati di quelli migliori.
E poi, ritenendolo suo specifico e inderogabile dovere, come le diceva spesso, non c’era pomeriggio o sera che non si preparasse con
cura le lezioni per il giorno dopo.
Sicché, a fronte di questo impegno diuturno del marito e di quello,
invece, di tante sue conoscenze e amicizie personali anche nel pianeta scolastico, Alba si lasciava sfuggire qualche pensiero a voce
alta, del tipo: «Per te, mio caro, lo stipendio che ti danno, in generale, è poco; per tanti, che non sono come te, è troppo. Ma, visto
quello che fai tu, come lo fai, nonostante quello che prendi, e che
più non puoi prendere per quanto tu faccia e t’ammazzi di lavoro,
io dico che te ti pagano pure troppo».
Quelle volte, però, che lei diceva così, era Virginio a non capire
granché, e le ribatteva scherzando, con un sorriso e un buffetto,
che la sua micetta arzigogolava, voleva fare la filosofa.
O, forse, lui preferiva non voler capire..., e continuava a preparar
compiti, a correggerli e a studiare, col suo testone sormontato da
una scritta, che aveva incorniciato e affisso sulla parete dietro la
scrivania, e che recitava: “Dicesi maestro chi non ha nessun interesse culturale quando è solo”. Firmato: Don Milani.
V
Nella sede di A., la prima di sua titolarità, Virginio si trattenne tre
anni: per la verità, avrebbe voluto rimanerci anche di più, perché
ci si trovava bene, benché Alba preferisse vederlo rientrare a
Roma, in una scuola più vicina alla loro abitazione.
Ma il fatto fu che, nel corso di quel suo terzo anno, l’istituto di cui
faceva parte registrò una contrazione di cattedre, determinata da
una diminuzione del numero delle iscrizioni e Virginio, posizionato verso la coda della graduatoria interna dei docenti di lettere,
vide segnato il suo destino per l’anno successivo, che era quello di
“docente soprannumerario”, cioè, di troppo.
Questo, essendo lui un titolare di cattedra, non significava perdita
del posto di lavoro, ma necessità di trasferirsi in una scuola con
cattedre disponibili, magari lì vicino o a Roma, dove maggiori erano le possibilità.
A Virginio la certezza di non poter conservare il suo posto per l’anno seguente in quella scuola dispiaceva sinceramente, perché, anche se all’inizio aveva dovuto superare certe diffidenze dei suoi
studenti, che gli rimproveravano una eccessiva rigidità nelle regole e nei risultati che da loro esigeva a fronte di voti a loro dire
troppo bassi, poi le cose si erano aggiustate e i ragazzi avevano capito che l’onestà, la preparazione, l’impegno e la sincera passione
del loro insegnante per il suo lavoro andavano messi davanti a
ogni altra considerazione e ad ogni riserva mentale.
Essi avvertivano, con l’istintività acuta e infallibile dell’adolescenza, l’età delle passioni assolute e intransigenti, che quell’onestà e
quell’impegno erano, per loro, una garanzia e un bene preziosi, ed
essi sempre più convintamente apprezzavano ed ammiravano
quelle qualità, tanto che la loro stima per il prof. Sasso, nonostante fosse spesso severo, in qualche circostanza addirittura scontroso ma, in compenso, mai ottusamente chiuso al loro ascolto, a volte rasentava l’idolatria; e, per questo, era inevitabile che qualche
mugugno serpeggiasse tra i colleghi di lui.
Il fatto era che gli studenti di Virginio non avevano mai avuto un
insegnante che leggesse loro a voce alta la letteratura, che facesse
vivere gli autori, quasi evocandone la presenza nell’aula, lì, in
mezzo a loro, come se fossero amici in carne ed ossa, e loro potessero guardarli negli occhi, scrutarne i gesti, intuirne i pensieri; sicché, poi, l’analisi dei testi e il loro commento, l’esame della lingua
e della forma che essa assumeva come lingua letteraria, venivano
sempre dopo un dibattito e una discussione, anche divertenti e fitti di battute, che sembravano nascere spontaneamente, come può
succedere di qualsiasi scambio d’opinioni sui più disparati argomenti.
In questo metodo il prof. Sasso era bravo, la cosa gli riusciva bene,
perché per lui era davvero spontanea e naturale, dato che, durante
quelle lezioni, si lasciava andare alla sua stessa passione per la lettura e la letteratura, che, dunque, non erano semplice materia
d’insegnamento, ma condivisione e “interpretazione in diretta”,
come gli piaceva dire, dei testi letterari, che non sono mai morti,
ma aspettano solo di rivivere per noi attraverso di noi, insieme ai
loro autori.
Così riusciva anche, umanizzando i suoi protagonisti, a rendere
meno indigesto lo studio del latino e della sua cultura, che certo
qualche problema in più poneva, se non altro a causa dell’osticità
della lingua: ma anche lì, l’empatia, immediata, che aleggiava nell’aula, la riflessione sulla lingua, più che sulle sue rigide regole,
“abitudini” linguistiche diverse - diceva lui - e non norme assolute
e fisse, facevano il miracolo, e, con lui, i ragazzi studiavano “il latino” e affrontavano le sue difficoltà senza paure e senza sentirlo
“inutile” o una perdita di tempo, come lo sentono e lo vivono gli
sciagurati, gli ignoranti e gli imbecilli, che rinnegano la loro stessa
civiltà (parole un po’ forti, che però il prof. Sasso sapeva dosare
con un sorrisetto ironico, molto divertente per i suoi ascoltatori. I
suoi “spettatori” li chiamava a volte, perché lui, in fondo, era docente, ma proprio per questo anche un po’ attore, un’altra persona, insomma, rispetto al Virginio casalingo).
Sicché proprio gli studenti, quelli di prima e di seconda liceo, anche quelli coi voti meno brillanti col prof. Sasso, furono i più sorpresi e delusi dalla notizia che l’anno seguente il loro insegnante
se ne sarebbe andato: e vollero sapere il perché.
Specialmente quelli che, insieme ai loro genitori, contavano sulla
“continuità” dell’insegnamento, da anni, ormai, “venduta” dal Preside e dalla scuola, all’atto dell’iscrizione nell’istituto, come crite-
rio di garanzia per il “conseguimento dei migliori obiettivi” da
parte dei discenti.
Ma, in quella circostanza, quella della “contrazione” delle cattedre,
la scuola non c’entrava niente, perché alle regole bisognava attenersi.
- Ma quali regole? - sbraitava una mamma, peraltro istigata da
una figlia, alunna del prof. Sasso, sostenuta da un’altra, madre di
un suo compagno di classe.
- Se i nostri figli si trovano bene con questo insegnante e con il suo
metodo, a differenza che con altri - e qui lanciò uno sguardo significativo e complice all’altra mamma, rivolgendosi al Preside, che
aveva dovuto riceverle nel suo studio, - non si vede perché dovrebbero cambiarlo -.
- Ma, cara signora - interloquì il Preside -, se abbiamo avuto meno
iscrizioni per il prossimo anno e dobbiamo procedere a una riduzione degli incarichi, chi ha meno punteggio, tra gli insegnanti, è
in soprannumero e, dunque, anche se ci dispiace, se ne va in un’altra sede e noi dobbiamo dare la sua cattedra a un altro, che ha
maggiore punteggio -.
La spiegazione non ottenne però l’effetto voluto e la signora non la
finiva più di protestare, tanto che il Preside, visti per il momento
vani i suoi sforzi di calmarla, fu contento, quando lei gli annunciò
che gli avrebbe portato una richiesta, firmata da genitori e studenti, da inoltrare al Ministero, per far rimanere il prof. Sasso: così il
Preside si liberò per quel giorno e prese tempo, pur sapendo che
quell’iniziativa era inutile.
Il fatto era che il Preside, persona di carattere ma quel giorno davvero stanco, non aveva avuto, alla fine, l’energia sufficiente per
rinvigorire di nuovo la discussione con quell’agguerrita madre: e
si ripromise di ammansirla in un secondo tempo, quando, naturalmente cadute le sue illusioni e quelle degli altri, sarebbe di nuovo tornata all’attacco.
Così, nell’immediato, pensò di rivolgersi proprio al diretto interessato, sicuro di poter contare sul suo buonsenso, e convocò in Presidenza il Prof. Sasso.
- Caro Professore - disse il Preside con cordialità, rivolgendosi a
Virginio appena questi entrò nel suo ufficio - venga, si sieda. Le
ruberò solo pochi minuti.
Dunque, il fatto è questo: purtroppo, e non creda che non mi dispiaccia moltissimo, lei risulta, come già sa, per il prossimo anno
soprannumerario. E noi, anche se le regole non ci piacciono, dobbiamo applicarle, finché sono queste nella scuola italiana. Io,
come prima cosa, le garantisco, perché la stimo, che seguirò la sua
domanda di trasferimento, che le conviene fare, senza farsi trasferire d’ufficio, in modo che lei abbia una sede gradita. Almeno, farò
il possibile, anche se l’imponderabile, chiamiamolo così, è sempre
in agguato.
Comunque, mi scusi, non è questo il punto: il fatto è che, siccome
lei è stimato nella scuola, e questo certo mi fa molto piacere, ricevo da qualche giorno, da quando si è diffusa la notizia che lei è soprannumerario, delegazioni di genitori e studenti delle sue classi,
che mi chiedono di evitare il suo trasferimento.
Ora, noi che siamo gente di scuola, “operai” della scuola a me piace definirci, sappiamo che, in casi come questi, non è la nostra volontà che conta, ma quella delle norme.
Sicché, visto che certe mamme non lo capiscono, chiedo a lei, di
spiegare ai ragazzi come stanno le cose: certo, conto sul suo equilibrio e la sua onestà intellettuale. Potrei venire anch’io nelle classi,
ma la cosa acquisterebbe una forma di ufficialità, che non è il caso
di mettere in campo.
Sa, anche per riguardo ad altri docenti, per cui mai ho fatto un
passo del genere; anche perché, glielo confesso, succede più di frequente che studenti e genitori siano contenti che un docente se ne
vada e, dunque, in quel caso, tutto va più liscio.
Per me, intendo, anche se so che questo le sembrerà egoistico e
magari qualunquistico. Il fatto è che in una scuola i problemi sono
sempre tali e tanti, che la gente nemmeno se li immagina. Mah,
cosa vuole che le dica. Veda un po’ quello che può fare -.
E qui il Preside si interruppe, guardando in volto Virginio, che, al
di là della scrivania che li divideva, non riusciva a nascondere, evidentemente, una certa sorpresa.
Tanto che il Preside riprese: - Oh, Professore, non mi fraintenda:
le chiedo solo di far capire ai ragazzi, se lei vuole, s’intende, in
modo che lo spieghino loro ai genitori, che le scuole pubbliche applicano le leggi dello Stato. E meno male, comunque, che ancora ci
sono le scuole pubbliche, non trova, Professore? - concluse il brav’uomo con un sorriso cordiale d’intesa e di sperata condivisione
con Virginio.
Il quale rispose: - Certo, Preside, meno male che ancora ci sono.
Comunque, vedrò di spiegare un po’ la faccenda ai ragazzi. Magari, mettendola sul piano dell’educazione civica. E dicendo loro che,
se cambiano le condizioni, se le iscrizioni tornano ad aumentare e
se proprio vogliono, magari, per quelli che sono in prima, potrei
tornare a chiedere questa scuola...-.
- Ecco, bene, la ringrazio. Faccia così. E ora vada: l’ho già trattenu ta abbastanza. L’ora è già ricominciata da qualche minuto e non
vorrei che proprio a causa mia i ragazzi profittassero della sua assenza in classe -.
- Oh, non dubiti, Preside, devo andare in terza. Sono ragazzi abbastanza responsabili: per questi pochi minuti certo non avranno
nulla da ridire, né corriamo rischi che creino qualche problema.
Arrivederla. Buona giornata -.
E, detto questo, Virginio uscì dall’ufficio di Presidenza e si avviò
lungo la breve rampa di scale, che l’avrebbe portato al piano superiore, dove l’aspettava la terza B.
VI
Per quel giorno Virginio decise di non dar seguito alla richiesta del
Preside, anche perché parlarne in terza, dove aveva due ore, sarebbe stato inutile, visto che quei ragazzi avrebbero avuto di lì a
poco l’esame di Stato e, dunque, non erano interessati al fatto che
lui, l’anno dopo, non ci sarebbe stato.
Semmai, ne avrebbe parlato in seconda, dove sapeva che c’erano
le maggiori insofferenze per il cambiamento d’insegnante di lettere per l’anno seguente; e non solo per i motivi addotti dal Preside,
che lo riguardavano direttamente come persona e insegnante, ma