Nuove prospettive per il trattamento della Cefalea
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Nuove prospettive per il trattamento della Cefalea
ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2001 Nuove prospettive per il trattamento della Cefalea Tensiva Un’esperienza di psicoterapia rogersiana E. Cocco*, A. Celesti *, R. Biancotti** A. Carnemolla*, S. Cavallini*, M. De Santis* M. Imparato*, P. Pennisi * La Cefalea Tensiva (CT) è – fra le cefalee primarie (classificazione IHS, 1988) – la più frequente ma anche la più discussa, quella che presenta le caratteristiche più discordanti. Di solito viene descritta dai pazienti come una sensazione di banda dolorosa nella regione temporale. La CT può colpire indiscriminatamente tutti i gruppi di popolazione, sebbene le osservazioni cliniche ci indichino che colpisce maggiormente il sesso femminile (60-70% dei casi) e che esordisce in età giovanile, di solito prima del 30o anno. Alcuni studi sostengono una maggior frequenza in soggetti con background culturale medio-alto (Schwartz, Stewart, Simon e Lipton, 1998). La classificazione dell’88 distingue una CT “episodica” ed una CT “cronica”. Si parla di episodica quando la sintomatologia si manifesta con una frequenza inferiore ai 15 gg. al mese ed ai 180 gg. all’anno mentre si parla di Gruppo di ricerca sulla cefalea tensiva, Istituto di Psicologia Generale e Clinica dell’Università degli Studi di Siena, Ospedale A. Sclavo, via dei Tufi 1, 53100, Siena. ** Centro Cefalee dell’Azienda Ospedaliera Senese, Complesso Ospedaliero “Le Scotte”, Siena. * 5 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2001 cronica quando questa frequenza viene superata. Si distingue inoltre la forma “con interessamento dei muscoli del pericranio” e quella “senza”. Nella CT il dolore non è quasi mai invalidante, è di intensità medio-bassa e può ostacolare ma non impedire del tutto le normali attività quotidiane. Più spesso non si tratta di vero e proprio dolore ma di un fastidio, di una sensazione di testa pesante e confusa. Le caratteristiche del dolore sono di tipo gravativo costrittivo con la tipica distribuzione a fascia a casco ma tale estensione topografica non è obbligatoria: può essere monolaterale, può presentarsi in forma di parestesie, di fitte che compaiono rapidamente e rapidamente si estinguono. Non è raro che il dolore interessi la zona cervicale o che si localizzi alla faccia. Talvolta può coesistere una modesta fotofobia o una vaga sensazione di nausea. Il dolore è di solito descritto dal paziente come una sensazione di pesantezza, di fascia dolorosa intorno alla testa, talvolta solo di fastidio, ma anche di fitte, bruciori e di confusione mentale. I principali fattori in grado di favorire ed alimentare questo tipo di cefalea sono la tensione nervosa, l’affaticamento mentale, condizioni protratte di concentrazione, lo stress psicosociale, un insoddisfacente rapporto di coppia, insoddisfacenti rapporti interpersonali o di altro genere, lavorativi, finanziari, l’ansia, la depressione, lo stress muscolare tipo una prolungata malposizione durante l’attività lavorativa, la mancanza di riposo e di sonno. La CT, in assenza di elementi etiopatogenetici organici, viene inserita fra le malattie psicosomatiche (Pancheri, 1995; Biondi e Portuesi, 1992). La letteratura evidenzia una struttura di personalità parzialmente simile a quella rilevata in soggetti affetti da altre psicosomatosi, caratterizzata da un pattern specifico originario di tipo psiconevrotico, precedente all’insorgere della cefalea, in cui l’ansietà ed i disturbi emozionali rendono difficoltosa la modalità di adattamento (Biancotti, Celesti e Reda, 1998). Nella etiologia delle psicosomatosi una determinata organizzazione di personalità costituisce infatti il prerequisito per l’emergere di disordini funzionali, che si traducono in un secondo momento in veri e propri disturbi somatici, acquistando le caratteristiche durature di una patologia conclamata (Pancheri, 1995). Numerosi studi hanno infatti messo in luce come le persone affette da CT siano scarsamente efficaci nella gestione dello stress psicosociale e nella elaborazione di risposte adeguate alle problematiche legate alla quotidianità (Ficeck e Wittrck, 1995; Marazziti, 1995; Dalla Porta, 1996; Catherart e Prithard, 1998). Nel trattamento della CT sono state elaborate strategie multiple ed approcci combinati di tipo farmacologico-psicoterapico, sebbene la terapia richieda l’elaborazione di interventi misurati sul singolo paziente (Biondi e Portuesi, 1994). A livello di trattamento psicologico si rivelano efficaci i training di rilassamento guidato associati a terapie cognitivocomportamentali (Mosley et al., 1995) ed all’utilizzo del biofeedback (Blanchard et al., 1990; Penzien e Holroyd, 1994). Nessuno di questi singoli trattamenti appare più efficace degli altri, mentre appare strategica – al fine di una positiva risoluzione del sintomo – l’adeguatezza dell’intervento rispetto ai fattori di insorgenza, alla personalità del soggetto ed alla sua storia anamnestica individuale (Biondi e Portuesi, 1994). 6 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2001 La letteratura clinica in materia di CT mette in luce una serie di interventi psicologici rivolti più che altro al trattamento del sintomo, così che le tecniche presentate prescindono da un approccio clinico globale rivolto alla persona. Sono pressoché sconosciuti studi che comparino l’efficacia di trattamenti globali rivolti alla persona (basati sul counseling e sulla psicoterapia) e trattamenti specifici orientati sul sintomo (tecniche di rilassamento, biofeedback e training cognitivo-comportamentale). Alcuni studi avviati presso gli Istituti di Medicina e Chirurgia e di Psicologia Generale e Clinica dell’Università degli Studi di Siena mettono in luce la possibilità di costruire un modello integrato per la diagnosi e cura della CT che, dopo un attento screening delle caratteristiche di base della personalità del paziente, combini un approccio rivolto alla persona con un approccio rivolto al trattamento del sintomo (Biancotti et al., 1998). Il modello diagnostico proposto in questa sede inquadra la CT all’interno di un modello evolutivo che vede come causa predisponente la struttura di personalità del soggetto (personalità “psicosomatica”, cioè soggetta alla eventualità di sviluppare una psicosomatosi) e come causa scatenante una situazione di vita che comporti difficoltà interpersonali cui il soggetto non riesce a far fronte in modo sufficiente con il proprio repertorio di strategie comportamentali. Questa situazione di “stallo” delle strategie operative efficaci causerebbe una attivazione emozionale protratta che, mantenuta costante nel tempo da ulteriori situazioni di stress anche di minore intensità, esiterebbe in un quadro ansioso-depressivo, rinforzando la preesistente struttura di personalità. Il protrarsi nel tempo di questo circuito (attivazione emozionale, ansia, depressione) produrrebbe un’alterazione dei parametri fisiologici nel distretto corporeo costituzionalmente più fragile (“organo bersaglio”), nel quale si localizza la disfunzione psicosomatica. In questo caso un’inconscia eccessiva contrazione a livello dei gruppi muscolari del capo e del collo, che causerebbe uno stato ischemico locale, responsabile della sintomatologia dolorosa. Il legame tra tensione muscolare e percezione soggettiva del dolore cefalalgico (“ipotesi classica” dell’eziopatogenesi della CT) non sembra spiegare pienamente l’eziologia della CT. Se alcuni studi mettono in luce una stretta correlazione tra la presenza di questo tipo di cefalea e la tensione muscolare locale misurata con l’elettromiografia, altri studi non hanno mostrato così chiaramente l’elevazione dei potenziali EMG in pazienti cefalgici, oppure hanno mostrato nel gruppo dei pazienti affetti da cefalea muscolare una notevole eterogeneità nelle misurazioni della correlazione tra intensità del dolore e attività EMG, o tra quest’ultima e la semplice presenza di cefalea.1 Sebbene dunque il tradizionale modello “tensivo” sia da ritenersi un buon criterio valutativo a livello clinico, bisogna supporre che esistano quadri cefalgici non direttamente connessi con una situazione di tensione muscolare. A questo proposito Biondi e Portuesi (1992) propongono due spiegazioni: in primo luogo questi dati contraddittori potrebbero essere imputabili all’esistenza di quadri misti di cefalea vascolare-muscolo-tensiva; Per una disamina delle fonti citate a questo proposito consultare la bibliografia proposta da Biondi e Portuesi, 1992. 1 7 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2001 in secondo luogo la sensazione soggettiva di dolore potrebbe essere spiegabile anche da meccanismi di tipo centrale, che amplificano, inibiscono, oppure riproducono le sensazioni di dolore anche in assenza di tensione muscolare. In questo caso, aggiungiamo noi, la percezione del dolore cefalalgico potrebbe diventare, dopo ripetute esperienze, un evento psicologico appreso e riprodotto dal soggetto in concomitanza con particolari condizioni ambientali. A questo proposito ci sembra interessante anche chiarire, con la nostra ricerca, se i pazienti cefalalgici in terapia che denunciano una riduzione della percezione del dolore mostrino anche una apprezzabile riduzione dei livelli di tensione muscolare. Il nostro modello di intervento prevede che i soggetti siano preliminarmente sottoposti ad uno screening medico che escluda cause organiche o vascolari della cefalea e dunque diagnosticati con un buon margine di certezza come affetti da CT. I soggetti vengono poi sottoposti ad una batteria di test (MMPI 2, ACL e misurazione Bio-lab), che hanno la funzione di registrarne il profilo di personalità e di risposta psicofisiologica (fra cui i livelli base e l’ampiezza di variazione della tensione muscolare cefalica). L’analisi del profilo di personalità, oltre che costituire una rilevazione pre-trattamento, consente anche di potere escludere dalla sperimentazione i soggetti che presentino connotazioni psichiatriche conclamate. Dai risultati ottenuti al setting psicodiagnostico i pazienti senza connotazioni psichiatriche vengono indirizzati verso differenti modalità di trattamento: a) psicoterapia rogersiana (la terapia prevede una seduta settimanale per circa quattro mesi); b) training autogeno (programma di primo livello in 10 sedute con cadenza settimanale); c) Bio-lab (tre mesi di sedute con trattamento in biofeedback); d) counseling (interventi di consulenza in relazione alle necessità del paziente). Ogni soggetto inserito nel programma viene sottoposto al setting psicodiagnostico prima e dopo il trattamento al fine di valutare l’entità dei cambiamenti sia sotto il profilo della valutazione della personalità (MMPI 2 e ACL), sia sotto il profilo dell’espressione psicofisiologica del sintomo (misurazione Bio-lab). Si chiede inoltre ai pazienti di compilare nel corso della vita quotidiana un “diario” in grado di fornire una stima soggettiva della frequenza e dell’intensità degli attacchi cefalalgici. Al profilo dell’MMPI 2 rileviamo la “personalità psicosomatica” riscontrando una elevazione delle tre scale comprese nella triade nevrotica (Hs, D, Hy: tratti isterico, depressivo e ipocondriaco) rispetto alle altre aree. Il profilo appare dunque attendibile, con tutti i valori nella norma ad eccezione della triade nevrotica spostata sensibilmente verso valori più alti. Per quanto riguarda il tipo di intervento scelto per il soggetto questo dipende dalla configurazione della triade nevrotica riscontrata all’MMPI 2 ed al Biolab. Se il profilo si mantiene all’interno dei parametri normativi, pur con la triade nevrotica innalzata, si ritiene che i soggetti non manifestino ancora una personalità psicosomatica conclamata, pur manifestando una difficoltà a 8 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2001 gestire le situazioni interpersonali ed una incapacità a gestire in modo efficace le situazioni concrete di vita. In questo caso i soggetti vengono avviati a colloqui di counseling volti a rendere consapevoli delle proprie situazioni di vita per poterle meglio affrontare e gestire. Nel caso in cui la depressione si presenti come tratto dominante, si renderà utile proporre al soggetto un certo numero di sedute di psicoterapia volte a ridurre l’intensità degli stati depressivi, migliorare la percezione di Sé e potenziare l’autostima dei soggetti. In questo caso la terapia rogersiana ci pare essere l’orientamento clinico più efficace. Nel caso in cui si riscontri all’MMPI 2 una triade nevrotica con bassi livelli di depressione (cosiddetto “vallo isterico”), in presenza di sintomi cefalalgici diagnostichiamo una “personalità psicosomatica”. In questo caso proponiamo ai soggetti di intraprendere un percorso psicoterapeutico cui affianchiamo tecniche di intervento basate sul training autogeno e sul biofeedback. Nel caso si presenti un vallo isterico con predominanza del tratto isterico su quello ipocondriaco, affianchiamo al trattamento psicoterapeutico il training autogeno o altre forme di rilassamento, destinate a ristabilire uno stato di eutonia a livello fisico e mentale, poiché i soggetti si mostrano recettivi ad apprendere e autogestire le tecniche proposte. La psicoterapia si concentrerà sulla adeguatezza delle risposte emozionali alla situazione ambientale e sullo sviluppo di capacità di coping tali da ridurre il senso di impotenza dei soggetti di fronte agli stressori ambientali. Nel caso in cui invece si presenti un vallo isterico con predominanza del tratto ipocondriaco su quello isterico, affianchiamo alla psicoterapia il trattamento di biofeedback, il quale ha finalità di far apprendere ai soggetti psicosomatici le modalità di autocontrollo di fronte alle situazioni stressanti, poiché questi soggetti sono meno consapevoli dell’entità delle proprie risposte fisiologiche e meno capaci di controllarle. La psicoterapia si concentrerà sul potenziamento delle capacità di riconoscimento e simbolizzazione dei propri stati affettivi in relazione alle condizioni ambientali. In tutti i casi comunque la psicoterapia sarà rivolta alla persona nel suo complesso e non solo centrata su aspetti specifici del suo comportamento o risposta emotiva. La diagnosi della CT e la valutazione delle opportune modalità di trattamento non può infatti prescindere da elementi legati all’organizzazione globale del comportamento inteso come risposta adattiva (talvolta disfunzionale) di un organismo al proprio ambiente di riferimento. In questo senso l’analisi delle circostanze scatenanti e dei fattori emozionali legati al sintomo, così come della loro rappresentazione simbolica assume valore strategico per il trattamento della cefalea. Nel trattamento dei pazienti cefalgici si evidenziano dunque strategie volte alla risoluzione del sintomo, come i training di rilassamento, il biofeedback, il training autogeno e strategie più globali quali il counseling, i trattamenti psicoterapici a orientamento cognitivo e quelli a orientamento olistico come la psicoterapia centrata sulla persona di matrice rogersiana. Per quanto riguarda più in specifico la struttura di personalità dei soggetti cefalalgici, che abbiamo inquadrato come “personalità psicosomatica”, ci preme evidenziare due caratteristiche di questo quadro di personalità che rendono il trattamento psicoterapico centrato sulla persona globale una strategia elettiva per questo tipo di pazienti. La prima caratteristica riguarda 9 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2001 il riscontro in questi soggetti di una marcata difficoltà di gestione (coping) delle situazioni relazionali critiche; la seconda una carenza nella simbolizzazione delle proprie risposte emotive a partire dalle proprie reazioni psicofisiologiche, cui si accompagna una difficoltà a mettere in relazione gli eventi ambientali stressanti con le proprie reazioni di attivazione psicofisiologica e di risposta emotiva. Ai soggetti cefalgici infatti appare difficile trovare strategie adeguate per gestire le situazioni problematiche, soprattutto a livello relazionale, risultando la tensione muscolare come l’espressione di uno stato di allarme o attivazione protratta di fronte ad un evento di cui il soggetto non riesce a trovare una adeguata strategia per la soluzione comportamentale. Lo stato di conflitto o confusione genera una attivazione emozionale che prepara l’azione senza mai risolversi, data la difficoltà a trovare modalità adeguate. Per quanto riguarda la simbolizzazione possiamo osservare una carenza, in questi soggetti, della capacità di riconoscere la qualità dei propri stati emotivi (alexitimia) e di collegarli alle circostanze ambientali. Nei soggetti affetti da CT manca la consapevolezza del legame tra base emozionale e processi somatici: le manifestazioni somatiche che accompagnano la reazione emotiva vengono vissute con un grande senso di preoccupazione perché il soggetto non è in grado di tradurre le manifestazioni somatiche nell’emozione corrispondente. Il soggetto da un lato non è in grado di leggere che la propria attivazione somatica è una reazione a determinate circostanze ambientali, dall’altro non riesce a tradurre l’attivazione somatica in una consapevolezza emotiva. Per quanto riguarda il rapporto tra capacità di gestione dello stress e cefalea, uno studio di Holm et al. (1986) riguardante il possibile ruolo dei fattori stressanti nella genesi della CT, non ha riscontrato una maggior presenza di eventi di vita stressanti in questi pazienti rispetto al gruppo di controllo; questi ultimi, però, risultavano meno afflitti dai piccoli stress quotidiani e soprattutto sembravano viverli meglio dei pazienti cefalgici. I soggetti appartenenti al gruppo di controllo avevano cioè la sensazione soggettiva di gestire con più competenza le strategie di risoluzione e uscita dalle situazioni problematiche, laddove i soggetti cefalalgici si sentivano soverchiati dalla situazione problematica senza possibilità di soluzione. Nella vita dei soggetti cefalalgici non ci sarebbero dunque più eventi stressanti che nella vita dei soggetti normali, ma una ridotta capacità di elaborare e utilizzare strategie efficaci per far fronte allo stress (ridotta capacità di coping). Anche uno studio condotto da De Benedettis (1990) ha evidenziato nei pazienti affetti da CT, rispetto a pazienti affetti da emicrania vascolare, una significativa presenza di recenti eventi particolarmente stressanti legati a episodi critici, che funzionerebbero da fattori innescanti la sintomatologia, mentre gli stress quotidiani contribuirebbero al perdurare del disturbo. Biondi e Portuesi (1992) osservano come sul piano clinico sia utile svolgere una approfondita analisi sia della presenza/assenza di eventi particolarmente stressanti, sia delle situazioni di stress che la persona vive ogni giorno, considerando che molti soggetti cefalalgici non sono consapevoli di essere stressati o che determinate condizioni di vita li stressino, e che questi eventi hanno un rapporto diretto con la cefalea. Per una soggetto cefalalgico può essere “normale” o ineluttabile affrontare quotidianamente situazioni relazionali o lavorative di stress protratto. Gli stessi autori 10 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2001 osservano come sul piano clinico sia frequente rilevare nel soggetto che lamenta CT una personalità rigida e perfezionista, che affronta gli eventi con eccessivo senso di responsabilità, e per cui è “normale” esigere il massimo da sé e dagli altri sempre, in modo rigido, in tutte le circostanze. Una persona di questo tipo affronta probabilmente le cose con un forte senso di tensione interna, che di norma scarica nell’azione e nel controllo. Posta in condizioni in cui non può agire o non può esercitare il controllo che vorrebbe (e prima o poi le capita) è molto probabile che sviluppi una cefalea. Sul piano della osservazione clinica si evidenzia dunque una personalità perfezionista e iperresponsabilizzata, che accudisce e controlla gli altri, che è profondamente contrariata dalle situazioni in cui si trova nell’impossibilità di affrontare le situazioni stressanti. A livello profondo una persona di questo tipo probabilmente si sente accettata e amata a condizione che la propria immagine di sé sia vissuta come efficiente, attiva, dedita alla cura degli altri, mentre esperienze di frustrazione e fallimento o l’emergere del bisogno latente di essere accudita la espone al pericoloso senso di minaccia di non ricevere considerazione. Le nostre osservazioni cliniche mostrano infatti come i soggetti affetti da CT si mostrino sicuri e perfetti nel “dare” agli altri, così come sono profondamente incerti circa la sicurezza del poter “ricevere” aiuto e affetto dagli altri in condizioni di debolezza e bisogno. Queste persone sono così profondamente radicate su un’immagine perfezionista e oblativa di sé che vivono con profondo disagio tutto ciò che in loro contraddice questa immagine o che esprime la loro latente necessità di ricevere dagli altri attenzione e affetto. Come abbiamo detto, una valutazione clinica della personalità di questi pazienti, confrontata con quanto emerge all’indagine psicometrica, è finalizzata ad individuare in che misura il soggetto presenti ansia o depressione come disturbi concomitanti al sintomo psicosomatico. In questi soggetti è facilmente riscontrabile una problematica ansiosa, più spesso non apertamente denunciata ma rintracciabile a un esame più attento. Il disturbo d’ansia è riconducibile ancora alle difficoltà del soggetto nella simbolizzazione del legame tra i propri stati psicofisiologici, affettivi e relazionali, per cui egli percepisce l’attacco cefalgico come qualcosa di inspiegabile che lo colpisce senza avere alcun legame con la propria vita emotiva e di relazione. Inoltre, la difficoltà nel fare fronte agli stress ambientali lascia la persona in un perenne stato di allarme di cui essa non sa trovare né spiegazione né soluzione. La seconda questione inerente agli aspetti di personalità del paziente CT riguarda il problema del controverso rapporto tra depressione e cefalea. A questo proposito, Biondi e Portuesi (1992) riferiscono che una spiegazione classica considera la depressione primitiva e preesistente rispetto alla cefalea, la quale si sovraimporrebbe con varie possibilità di rapporto col disturbo psicopatologico primario. In questo caso la cefalea viene considerata l’espressione sintomatica di una “depressione mascherata” che, anziché esprimersi a livello cosciente, verrebbe tradotta e vissuta nel sintomo cefalalgico. Secondo altri autori, invece, l’eventuale presenza di uno stato depressivo andrebbe interpretata come secondaria alla cefalea, dovuta alle conseguenze che essa ha sul piano della propria funzionalità individuale e psicosociale. Questa questione rimane tutt’oggi controversa e probabilmente, 11 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2001 concludono gli autori, esistono pazienti che presentano la cefalea come sintomo di una depressione mascherata e pazienti in cui la depressione è secondaria allo stabilirsi delle condizioni di vita dettate dal susseguirsi degli attacchi cefalalgici. Un’ultima considerazione sulla psicopatologia e sul trattamento della CT riguarda più in generale il rapporto tra sintomo e personalità globale. La diagnosi di CT e la valutazione delle opportune modalità di trattamento non può infatti prescindere da elementi legati all’organizzazione globale del comportamento inteso come risposta adattiva (talvolta disfunzionale) di un organismo al proprio ambiente di riferimento. In questo senso l’analisi delle circostanze scatenanti e dei fattori emozionali legati al sintomo, così come della loro rappresentazione simbolica assume valore strategico per il trattamento della cefalea. Nel trattamento dei pazienti cefalgici si evidenziano perciò strategie volte alla risoluzione del sintomo, come i training di rilassamento, il biofeedback, il training autogeno, e strategie più globali quali il counseling, i trattamenti psicoterapici a orientamento cognitivo e quelli ad orientamento olistico come la psicoterapia centrata sulla persona di matrice rogersiana. Se infatti riteniamo necessaria un’azione diretta volta a ridurre la sintomatologia, crediamo anche che il trattamento del sintomo debba essere preparato e integrato da un trattamento rivolto alla totalità della persona. Infatti, così come riteniamo che il sintomo sia espressione emergente dell’organismo, riteniamo anche che il trattamento stesso sia efficace quando acquisisce una valenza di accudimento globale della persona. La visione olistica od organismica considera il soggetto portatore del sintomo nella sua totalità bio-psico-sociale. Secondo questa prospettiva qualsiasi comportamento, incluse le reazioni sintomatiche che costituiscono l’attacco cefalalgico, non può che concepirsi come una proprietà emergente dell’organismo volta a garantirne l’adattamento, e cioè l’espressione di una risposta globale dell’organismo che lo interessa nella sua totalità (Lazzeroni, 1971). Inquadrando l’attacco cefalalgico come una risposta emozionale, non possiamo che considerarlo dipendente da processi di elaborazione centrale della situazione stimolante, essendo l’emozione una forma primitiva di valutazione sintetica delle condizioni ambientali che prepara e facilita l’azione. Infatti, se da una parte si deve intendere lo stimolo (condizioni ambientali) non solo come un mero evento acquisito tale e quale è in sé, ma così come viene interpretato dall’organismo (e producente nell’organismo una variazione globale), dall’altra parte si deve intendere la risposta (espressione sintomatica) come qualcosa di diverso da una mera reazione fisiologica, cioè come qualcosa che è espressione di una elaborazione cognitivo-affettiva che investe l’organismo nella sua globalità. La risposta cefalalgica non può dunque essere trattata nei suoi aspetti puramente fisiologici, perché è una risposta prodotta a livello dei meccanismi centrali di sintesi emozionale in risposta all’interpretazione soggettiva delle condizioni ambientali. Se postuliamo che la risposta sintomatica dipenda da meccanismi centrali di interpretazione delle condizioni emotive e di elaborazione delle risposte psicofisiologiche, dobbiamo mettere in relazione l’espressione sintomatica con le rappresentazioni globali di sé e della realtà possedute dal soggetto. In 12 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2001 questo senso la manifestazione cefalalgica potrebbe avere a che fare con percezioni della realtà che vengono male integrate negli schemi cognitivi del soggetto, per cui il soggetto stesso fatica ad elaborare risposte emotive consapevoli manifestando risposte fisiologiche che non vengono simbolizzate. In questo senso, il sintomo cefalalgico può essere considerato l’espressione di una sofferenza che non trova parole per esprimersi di fronte a condizioni ambientali percepite come spiacevoli, irrisolvibili o minacciose per l’immagine di sé che il paziente si è costruito. La terapia rogersiana ci appare molto efficace nel trattamento della CT per una serie di caratteristiche proprie a questo approccio, fra le quali ci appare centrale il ripristino delle condizioni per una corretta simbolizzazione dell’esperienza. Secondo l’ottica rogersiana, il sintomo psicosomatico è l’espressione di un campo esperienziale non simbolizzato. La cefalea costituirebbe una risposta confusa dell’organismo alla percezione di condizioni esterne spiacevoli, ma la cui consapevolezza comporterebbe forti contraddizioni con l’immagine di sé che il paziente si è costruito. Se le condizioni stimolo potessero essere rappresentate senza pericolo nel sistema di significati del paziente, allora l’attivazione psicofisiologica di risposta potrebbe assumere i connotati di una emozione o di una serie di emozioni (rabbia, senso di inutilità, tristezza ecc.) anziché restare limitata all’espressione cefalalgica. Attraverso il rapporto empatico e l’accettazione positiva incondizionata offerte dal terapeuta il paziente può invece ripristinare quelle condizioni di autostima e sicurezza necessarie per tradurre la propria espressione psicofisiologica in stati emotivi accettabili entro il proprio sistema di rappresentazione di sé e della realtà. La terapia rogersiana non è interpretativa, cioè non applica spiegazioni del sintomo, che siano estranee al linguaggio con cui il soggetto spiega la propria esperienza di vita a se stesso. Per sua stessa connotazione la terapia rogersiana favorisce un inserimento di ciò che la cefalea vorrebbe esprimere nella rete di significati costruiti dal soggetto stesso, vengono cioè trovate le “parole” per far parlare il sintomo, e queste parole vengono dalla “voce” stessa del soggetto. Per capire meglio come agisca il terapeuta rogersiano, e perché la sua azione sia efficace sul paziente cefalalgico, dobbiamo brevemente illustrare la teoria della personalità e della psicopatologia propria di questo approccio. Secondo l’approccio rogersiano, l’essere umano ha la capacità, latente se non manifesta, di comprendersi da solo e risolvere i suoi problemi in modo sufficiente per raggiungere quella soddisfazione e quell’efficacia necessarie ad un adeguato funzionamento. Tuttavia, l’attualizzazione efficace di questa potenzialità non è automatica ma richiede un contesto di relazioni umane positive, favorevoli alla conservazione e rivalutazione dell’Io, cioè richiede condizioni sprovviste di minaccia o sfida alla concezione che il soggetto si fa di se stesso (Rogers e Kinget, 1970). L’essere umano è dunque secondo la teoria rogersiana, dotato di quella tendenza attualizzante che spinge verso lo sviluppo di tutte le potenzialità organismiche, sia fisiche che psichiche. Così come un organismo cresce sano e forte in condizioni ambientali favorevoli, anche la psiche umana cresce sana e forte in condizioni che la sostengano. A livello psicologico queste consistono in un clima di accettazione 13 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2001 incondizionata della persona, che si manifesta nella piena accettazione da parte delle figure significative dei sentimenti che la persona prova in relazione agli eventi che le accadono. Questa “libertà esperienziale” consiste nel fatto che la persona sia lasciata libera di riconoscere e di elaborare le sue esperienze e i suoi sentimenti personali come meglio egli crede.2 In altri termini, presuppone che il soggetto non si senta costretto a negare o deformare le sue opinioni e i suoi atteggiamenti intimi per mantenere l’affetto e la stima delle persone significative. Le condizioni psicologiche favorevoli risiedono nel fatto che le figure significative non solo tollerino le manifestazioni emotive del soggetto, ma che dimostrino nei suoi confronti un atteggiamento empatico tale per cui quando egli prova una emozione, questi capiscano cosa egli stia provando e gli comunichino questa comprensione in modo da rafforzare la consapevolezza che egli stia provando un sentimento adeguato (ai propri bisogni) nei confronti della realtà, cioè che la stia simbolizzando in modo corretto. Quando gli altri significativi rispondono in modo empatico alle espressioni emotive del bambino significa che le riconoscono per ciò che sono, espressioni del suo atteggiamento nei confronti del mondo, reazioni del suo organismo manifestate in relazione alla necessità di esprimere i propri bisogni e attualizzare le proprie potenzialità. L’empatia consiste infatti nella percezione del mondo soggettivo altrui “come se” si fosse questa altra persona, senza tuttavia perdere di vista il fatto che si tratta sempre di esperienze e percezioni altrui e non nostre (altrimenti si parlerebbe di identificazione). La capacità empatica implica quindi che, per esempio, si provi il dolore o il piacere altrui come questi lo prova e che se ne percepisca la causa come egli la percepisce. La comprensione empatica consiste nella percezione corretta dello schema di riferimento interno altrui, cioè dell’insieme di esperienze, sensazioni, percezioni, significati che sono connessi all’evento emotivo; lo schema di riferimento interno rappresenta cioè il mondo soggettivo dell’individuo, la sua rappresentazione cognitivoaffettiva della realtà (Rogers e Kinget, 1970). La risposta empatica consiste nella comunicazione all’altro individuo che si è compresa la sua percezione soggettiva di un evento: tale comunicazione rafforza l’autostima e il senso di integrità dell’individuo e la sua capacità di simbolizzare il proprio “campo esperienziale”. Le reazioni dell’organismo di fronte agli eventi vengono infatti definite campo esperienziale. Rogers distingue in merito alla ricezione degli eventi esistenziali da parte del soggetto tra un primo livello puramente fisiologico, un secondo livello “esperienziale” (che costituisce tutto ciò che di non-simbolico avviene a livello psicologico, cioè qualcosa che avviene nelle psiche della persona ma che può restare muto se non tradotto in percezioni, emozioni, coscienza) e un terzo livello definito campo cognitivo o simbolico. L’esperienza contiene dunque sia avvenimenti di cui l’individuo è cosciente sia fenomeni di cui l’individuo non è cosciente; l’esperienza è tutto ciò che avviene 2 Gli autori (Rogers e Kinget, 1970) distinguono il piano della libertà esperienziale da quello della libertà comportamentale: a loro avviso il bambino deve essere lasciato libero e sostenuto nell’espressione verbale e gestuale delle proprie emozioni ma può essere contenuto a livello comportamentale qualora le sue azioni divengano distruttive o qualora sia opportuno che apprenda a tollerare la frustrazione. 14 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2001 nell’organismo in relazione ai suoi stati interni ed alle sue condizioni esterne, e che è potenzialmente disponibile alla coscienza. L’esperienza può dunque essere simbolizzata oppure rimanere qualcosa che l’organismo vive ma cui non sa dare rappresentazione all’interno del proprio sistema di significati. Per simbolizzazione si intende infatti l’attribuzione di un significato a un’esperienza e il suo inserimento all’interno del sistema organizzato di significati che costituisce il concetto globale di sé e della realtà che la persona possiede. Questa operazione, la simbolizzazione, consente dunque a un’esperienza di divenire cosciente, cioè di essere tradotta nel linguaggio globale dell’organismo. Simbolizzando dunque l’organismo attribuisce un senso alle esperienze vissute, le inserisce nella propria rete di significati, a condizione che siano compatibili con l’immagine di sé e del mondo che si è costruito, oppure rendendole compatibili con essa. L’organismo è infatti in grado di compiere una selezione delle esperienze a livello sottocettivo, cioè di percezione primitiva che non coinvolge i centri nervosi superiori e dunque la coscienza: in questo modo l’organismo può operare delle discriminazioni elementari non coscienti, volte a riconoscere se un’esperienza è potenzialmente minacciosa per la propria integrità psichica, o per l’immagine che si è costruito di questa integrità. Secondo la teoria rogersiana, la persona si costruisce un’immagine di sé simbolizzando l’insieme delle percezioni e cognizioni che ha di se stessa. L’immagine di sé costituisce uno schema affettivo-cognitivo che regola il flusso fra campo esperienziale e campo cognitivo. Dal momento che l’individuo si percepisce come una totalità coerente e integrata, tutte le esperienze che si accordano con questa immagine sono rese disponibili alla coscienza mentre le esperienze che non si accordano con questa immagine vengono intercettate. Quando l’organismo si rende conto a livello sottocettivo che certi elementi della sua esperienza non sono conformi all’idea che si è fatto di se stesso, egli percepisce una situazione di angoscia, che corrisponde alla consapevolezza latente della fatto che esiste un conflitto tra immagine di sé ed esperienza. Questa condizione è definita dai rogersiani come condizione soggettiva di minaccia: l’esperienza intercettata viene classificata come potenzialmente minacciosa in quanto non congruente con l’immagine di sé. Quando l’organismo percepisce un’esperienza come minacciosa si difende deformando e falsificando il significato di questa esperienza oppure negandole l’accesso al sistema di significati, quindi non simbolizzandola. Un’esperienza cui viene negata la simbolizzazione resterà dunque qualcosa di vissuto a livello di pura reazione organismica (somatica) cui è legata una certa quota di angoscia, che segnala l’evento come minaccioso. Non essendoci simbolizzazione, gli indici fisiologici che costituiscono i prodromi per la costruzione di un’emozione rimangono allo stato di pure reazioni somatiche sconnesse le une dalle altre, oppure vengono utilizzati per costruire un significato deformato e falsificato dell’esperienza. È in questo senso dunque che interpretiamo il sintomo psicosomatico: come un’esperienza emotiva che non è stata simbolizzata in modo corretto, ma deformata e falsificata. Come abbiamo affermato precedentemente, le emozioni hanno la funzione di costituire un’efficace segnalazione dello stato dell’organismo di fronte a una situazione stimolo favorendo la preparazione di un’azione. Se il soggetto simbolizzasse correttamente le proprie reazioni somatiche a un evento, 15 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2001 potrebbe costruire un’emozione che gli indichi una certa valutazione dell’evento in relazione ai suoi bisogni e che gli indichi il piano di un’azione che possa ristabilire condizioni più favorevoli. In questo caso la reazione organismica darebbe luogo a emozioni che preparano azioni efficaci; nel caso opposto la reazione organismica rimane nello stato di attivazione (perché non vi è nessuna risoluzione comportamentale), permanendo sia lo stato di attivazione dei distretti somatici messi in allerta per preparare l’azione (come un led che continua a segnalare una condizione critica), sia lo stato di angoscia che accompagna la sensazione di minaccia dovuta all’incongruenza con l’immagine di sé; ed è per questo motivo che la reazione psicosomatica si manifesta in forma di attivazione fisiologica protratta, accompagnata da una sensazione di angoscia e preoccupazione, senza alcuna comprensione cosciente del legame tra questo evento, i propri bisogni reali e le circostanze esterne. È sempre per questo motivo che riscontriamo nei soggetti psicosomatici da una parte una condizione di alexitimia e dall’altra la difficoltà di coping: mancando la sintesi emozionale, il soggetto non è in grado di riconoscere cosa stia provando e, mancandogli questo segnale, non è nemmeno in grado di preparare un’azione efficace. Supponiamo ad esempio che nel campo esperienziale di un individuo compaiano le reazioni fisiologiche che potrebbero dar luogo all’emozione della “rabbia”. In condizioni normali (se cioè il sentirsi arrabbiati per una certa situazione non è in conflitto con l’immagine di sé che l’individuo possiede) gli indici fisiologici verranno percepiti e simbolizzati nella cognizione “sono arrabbiato” e quindi immessi nel concetto di sé in relazione alla situazione ambientale “questa situazione mi fa arrabbiare”. Tale percorso si realizza soltanto se non sono già presenti nel concetto di sé delle cognizioni incompatibili con questa nuova simbolizzazione, altrimenti per dissonanza cognitiva (dal momento che la rappresentazione di sé tende verso la coesione e l’unitarietà e la nuova acquisizione comporta un profondo senso di minaccia a questa coerenza) la costruzione della nuova rappresentazione non può avvenire e l’emozione “rabbia” non viene né percepita né simbolizzata, né connessa ad alcuna situazione ambientale, dando origine alla crisi psicosomatica (per esempio un attacco ipertensivo). Ma perché queste esperienze dovrebbero essere incompatibili con l’idea di sé che il soggetto si è costruito? Il modello psicopatologico rogersiano spiega ciò sostenendo che in parte il concetto di sé non corrisponde alle reali aspettative ed esperienze del soggetto, ma viene costruito in modo distorto per accondiscendere alle aspettative degli altri significativi. Un’interruzione della salutare relazione empatica con le figure significative darebbe luogo a delle zone, nel Sé, in cui il soggetto si autopercepisce e autorappresenta in modo distorto, costruendo delle idee di sé non conformi ai propri reali bisogni. In via generale la naturale tendenza a esprimere le proprie potenzialità dovrebbe spingere l’organismo a costruirsi un’idea di sé conforme ai propri bisogni, ma questo può avvenire nella misura in cui gli altri significativi riconoscono empaticamente gli stati d’animo e le espressioni di bisogno della persona e gliene restituiscono un’immagine compiuta (accettazione). Quando invece gli altri significativi, le “persone criterio” non accettano l’esperienza del soggetto e non reagiscono empaticamente ad essa (perché antepongono 16 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2001 ad essa i propri punti di vista, valutazioni, emozioni ecc.), rimandano all’organismo un’immagine distorta (corrispondente cioè non ai suoi bisogni, emozioni, valutazioni, ma a quelle degli altri) che viene però da questo assimilata come propria. Tale falso costrutto di sé intercetterà ulteriori esperienze non compatibili con esso, impedendone la simbolizzazione. Per fare un esempio semplificato, se un bambino prova rabbia per la nascita del fratellino e questa rabbia è vissuta come sconveniente dai genitori i quali premono sull’aspettativa che invece “lui è un bambino buono”, il soggetto si costruisce l’idea di sé come di uno che non si arrabbia di fronte a certe situazioni e ogni volta che si troverà di fronte a situazioni analoghe farà fatica a sintetizzare questa emozione. Sostengono Kinget e Rogers (1970) che “il disturbo del sistema di comunicazione interna” del soggetto si costruisce piu o meno in questo modo: all’origine la libertà esperienziale del soggetto viene compressa: non gli è più permesso di provare i sentimenti in relazione a date situazioni se non a rischio di perdere le condizioni da cui dipende più in generale la sua attualizzazione, cioè l’affetto e la stima di coloro che hanno una parte importante nella sua vita. L’angoscia di questa minaccia porta il soggetto a reprimere prima l’esteriorizzazione e poi l’esistenza stessa di questi sentimenti. Dal momento che questa cancellazione dei sentimenti reali e costruzione di un’immagine falsata di sé gli restituisce l’approvazione degli altri, egli tende ad adottare questa modalità in modo costante rispetto a certe situazioni. Tuttavia, sfuggendo alla sua conoscenza una parte della sua esperienza che non può più essere simbolizzata, il controllo del suo comportamento e dei suoi stati interni gli sfugge in certe aree della sua vita, che gli diventano oscure e incomprensibili. Ecco, possiamo dire che i sintomi psicosomatici costituiscono uno dei punti in cui questo processo viene spinto al massimo livello, nel quale la persona disconosce i propri stati di attivazione fisiologica. Il percorso terapeutico rogersiano propone una sorta di via di ritorno per questo processo di disconoscimento di alcune zone del campo esperienziale: attraverso la strutturazione di un setting nel quale tutte le espressioni del paziente sono accettate (accettazione positiva incondizionata), gli stati emotivi compresi e restituiti al paziente così come il terapeuta empaticamente li coglie. In questo clima di fiducia il terapeuta dispone un clima facilitante avendo la genuina convinzione che il paziente stesso possa pervenire a una comprensione globale e approfondita di sé, anche nelle parti che egli più ostinatamente disconosce. In questo contesto si ricreano quelle condizioni che portano da un lato alla correzione delle idee falsate di sé, permettendo che il soggetto ne costruisca di più congrue all’espressione dei propri bisogni, dall’altro alla ricostituzione delle emozioni (che verrebbero espresse dai prodromi del sintomo se il processo di simbolizzazione non fosse stato interrotto) e alla loro integrazione in un’idea unitaria e coerente di sé. Nel contesto del setting psicoterapico rogersiano le simbolizzazioni sono favorite a partire da un linguaggio che è quello stesso usato dal paziente, così che nessuna rete di significati esterni o interpretativi si impone: il terapeuta non pensa al posto del paziente, non interpreta gli atti del paziente secondo il proprio punto di vista o secondo un modello teorico precostituito 17 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2001 ma si limita a cercare di capire come il paziente stesso si rappresenta il mondo che gli sta intorno, e se questa rappresentazione è conforme all’espressione dei suoi bisogni e al pervenimento dei suoi scopi. Costituite le emozioni come espressione dei bisogni e simbolizzate in modo conforme all’immagine ristrutturata e coerente di sé, queste dovrebbero favorire l’individuazione di strategie di azione che aumentino la capacità di coping del soggetto, restituendogli quel senso perduto di efficacia nella soluzione dei problemi. Riassumendo, nella diagnosi e nel trattamento dei pazienti affetti da CT abbiamo evidenziato le seguenti aree problematiche: • Il problema del rapporto tra percezione del dolore e tensione muscolare: questo legame non è perfettamente lineare e, se da un lato possiamo considerare il modello “tensivo” come un buon criterio valutativo a livello clinico, dall’altro non possiamo considerarlo esaustivo per spiegare in toto le manifestazioni sintomatiche. È possibile ipotizzare che la sensazione di dolore dipenda in parte da meccanismi centrali che riproducono il mal di testa come esperienza psicologica appresa in risposta a determinate situazioni di stress. Questa considerazione ci giustifica nel pensare che un approccio terapeutico non centrato esclusivamente sul sintomo ma rivolto alla persona come totalità organismica sia più efficace (poiché il sintomo stesso è un’espressione globale della persona). • La questione delle caratteristiche di personalità del paziente cefalalgico: la carenza di strategie adeguate nella gestione delle situazioni problematiche (difficoltà di coping) e la difficoltà nella simbolizzazione delle proprie risposte fisiologiche in espressioni emotive (alexitimia). Infine, la problematica della depressione quale primitiva o preesistente ai sintomi cefalalgici oppure come conseguente alla malattia. A nostro avviso, queste tre caratteristiche di personalità sono rilevabili al reattivo psicodiagnostico MMPI 2 in un’elevazione delle tre scale nevrotiche Hs D Hy. Alla prevalenza di una di queste tre caratteristiche sulle altre associamo un differente trattamento terapeutico, che combina un approccio globale a un approccio più centrato sul sintomo. • La psicoterapia rogersiana quale approccio globale ci appare efficace perché attraverso il rapporto empatico, l’accettazione positiva incondizionata e il ripristino dei processi di simbolizzazione contribuisce a una migliore percezione di sé dei soggetti, innalzando l’autostima dei soggetti e favorendo una consapevolezza di sé globale, integrata e unitaria. Riducendo le condizioni di minaccia psicologica e riattivando i processi di simbolizzazione, il soggetto incomincia ad autopercepirsi come sorgente centrale della propria esperienza; le rappresentazioni di Sé e le azioni vengono connesse ai propri bisogni esistenziali e non più a un modello rigido, perfezionista, iperresponsabilizzato, dolorosamente accondiscendente alle aspettative degli altri. Al riparo del setting psicoterapico la persona sviluppa un’idea integrata di Sé e una percezione adeguata dei propri bisogni, innescando un processo di autocomprensione globale nel quale i propri stati fisiologici vengono adeguatamente tradotti in emozioni che corrispondono alla propria reazione affettiva di fronte all’ambiente. Conoscendo i propri bisogni e le proprie reazioni emotive, la persona diventa capace di progettare azioni efficaci per risolvere le 18 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2001 situazioni di stress, evitando che l’attivazione emotiva rimanga irrisolta nella sensazione di impotenza che preparava l’attacco cefalalgico. Bibliografia BIANCOTTI R., BELARDINELLI N., BUCCA C.F., CARNEMOLLA A., CELESTI A., GOTI F., RAFFAGNINO R., SIGNORINI L., Psychologichal Therapy of Tensive Cephalea, International Congress of Neurosciences and Pain, Siena, Dicembre 1998. 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