Roberto Mosena Recensione a “Quadrati di fatica”

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Roberto Mosena Recensione a “Quadrati di fatica”
Roberto Mosena
Recensione a “Quadrati di fatica”
Poesie (1936-1984)
di Davide Lajolo
Associazione culturale Davide Lajolo onlus,
Tavole di Eugenio Guglielminetti,
Diffusione Immagine Editore, s.l., 2005, pp. 175
Quadrati di fatica è il titolo che s’è trovato per la corposa raccolta di poesia inedita di Davide
Lajolo; giornalista (dell’«Unità»), uomo politico (del P.C.I.), scrittore (fra l’altro ricordiamo i
romanzi, Classe 1912, Il voltagabbana, Veder l’erba dalla parte delle radici; i racconti contadini de
I mé e quelli su Vinchio e Milano de Il merlo di campagna e il merlo di città; celebri studi su
Pavese e Fenoglio; sceneggiature; le poesie di Nel cerchio dell’ultimo sole e Ponte alla voce).
Silloge di poesie inedite riordinate dallo stesso Lajolo, nel 1984, poco prima della morte e che
testimonia come il filo conduttore più profondo della sua esistenza sia stata proprio la poesia, un
continuo e sotterraneo dialogo lirico, anche perché queste poesie vanno dal 1936 e arrivano al 1984.
Si parla quindi di un arco di tempo lungo, di un tratto di strada italiana che incide anche sulla penna
del poeta, sullo stile che da estremamente asciutto e scavato, verrebbe a volte da pensare a un
Ungaretti, si fa, soprattutto nell’ultimo ventennio, meno essenziale e più proclive alla prosa, come
al dialogo o alla lettera, al ritratto d’un compagno o maestro di strada. I quadrati della fatica sono
certo i diversi reticolati delle trincee affrontate da Lajolo; dalla guerra di Spagna alla guerra
partigiana sulle colline col nome di Ulisse, dall’impegno politico del secondo dopoguerra alla
malattia d’un cuore. Sebbene ci sia sempre in questi testi una forma di urgenza che ne giustifica la
scrittura, sebbene non vi sia l’emergere d’un che di occasionale, si può dire che le prime sei parti
del libro (otto in tutto), che coprono gli anni 1936-1950 circa, hanno una maggiore incisività lirica.
Ripensando a Il voltagabbana (di recente ripubblicato da Rizzoli) si trova forse anche la spinta
decisiva verso la poesia, alludiamo a quella pagina del romanzo in cui si parla della morte di
Federico Garcia Lorca, narrata da una ragazza che conserva una copia stampata a metà delle poesie.
Lajolo legge tutta la notte prima di conoscere il destino di Lorca per bocca della spagnola.
S’apprende che il mondo uccide i poeti e la poesia, la poesia vera che conosce gli alberi, la terra, la
gente. È forse con questo episodio che il germe del “voltagabbana” comincia a rodere Lajolo, allora
fascista. E forse è qui che Davide comincia a fissare gli alberi che allora saranno quelli stracciati
della guerra, «Gli ulivi gemono / stracciati / dalle pallottole esplosive. // Contro un tronco /
scortecciato / un soldato morto / tiene appoggiata / con la mano fredda / la baionetta» (Battaglia). E
il ricordo va ancora a quell’«albero mutilato» che apriva una delle più celebrate poesie di Ungaretti,
I fiumi. È allora che Lajolo sviluppa una forma diremmo non di pietas, ma di umana compassione
verso uomini e animali, come il mulo grigio che da due giorni se ne sta in agonia sotto l’ulivo, il
mulo che portava l’acqua ai feriti e che «stamani ha gli occhi sbarrati» (Il mulo, v. 5). In quel tempo
di poesia civile, dove i morti sono tutti uguali: «Un morto nemico / è rimasto otto giorni / sulla
roccia / pugnalato. / La faccia nera / sopra il corpo gonfiato / dà volto / a quel puzzo di carne / che
ieri ti era nemico / ed oggi sotterri / con accanto la croce» (Il nemico). Nel tempo in cui la bellezza
di una margherita solitaria sul polveroso ciglio di strada è la speranza contro il silenzio della morte:
«Nel silenzio / ho perduto / il suono delle parole» (Il ritorno, vv. 6-8). Poesia di guerra, ma capace
di improvvise accensioni e ascensioni liriche, come nel caso di Nel tramonto: «Anche il sole porta
nel tramonto / il tuo sangue – compagno caduto –. // Nella notte la luna ha il tuo volto / illuminato
di pallore».
In questa breve ricognizione ci siamo attenuti al 1937, anno della guerra di Spagna, anno in cui
forse Lajolo diventa, o meglio scopre di essere poeta. Verranno altre guerre, altri quadrati di fatica,
altri paesaggi, una figlia, la famiglia, un secco pianto in cui la solitudine accomuna tutti i volti
nell’attesa di una felicità (siamo nel 1943) che tarda a mostrarsi, che sembra «un’ora impossibile».
È questa la parte del libro più riuscita, costituita da poesie brevi, dirette, di intenso sapore lirico, con
un lessico cristallino e preciso. Anche questo libro di Davide Lajolo, dove troviamo insomma tra le
più alte poesie di guerra e della Resistenza, è un libro autobiografico in cui hanno un peso oltre agli
eventi storici, le radici dello scrittore nel Monferrato e gli affetti e gli incontri (Pavese, Fenoglio,
Pasolini, Mao). Poesia come testimonianza, sì, ma anche puro abbandono lirico in cui è la straziante
bellezza del creato a dare speranza all’uomo. Poesia che ha al suo fondo una continua nota
nostalgica per cui anche le onde del mare disegnano i profili delle colline natali. Poesia che conosce
la paura di essere cercati da una pallottola; in cui nel volto di tutti si ritrova la propria solitudine;
poesia che canta un’armonia sconvolta e un cielo senza stelle.
Con Quadrati di fatica pare si possa capire che lo scrittore sia riuscito a raggiungere quella
conoscenza profonda della terra, degli alberi, dell’uomo, di sé, che aveva assaporato nelle pagine di
Lorca, una notte di Spagna del ’37.
Roberto Mosena