Testo La Signora delle Lucciole 25 agosto 2003

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Testo La Signora delle Lucciole 25 agosto 2003
CAPITOLO TERZO
“ Lo sponsor si sposa”
Trascinando leggermente una gamba, il magnate Enrico Crivelli avanzava nella
sala delle cerimonie di Villa Reale, tenendo sottobraccio Aladina. Era
emozionato e felice, nonostante si trattasse del suo terzo matrimonio. E
pregustava la prima notte con la splendida sposa.
Vi si era coscienziosamente preparato con l’ausilio di tre luminari della
gerontologia che gli avevano fatto un’infinità di iniezioni riuscendo a
trasformarlo in un vecchio mandrillo.
Non si era mai vista una coppia così dispari. E di questo prevedibile tenore
erano i commenti serpeggianti tra gli invitati, che praticamente esaurivano l’alta
società.
Solo qualche misantropo notoriamente in stato comatoso non era venuto: ma
non mancava alcuna damazza, alcuna vipera, alcuna pettegola cronista
professionale del Who’s who milanese.
Per esempio donna Francesca Guarnieri, testimone dello sposo, nel firmare il
registro aveva fulmineamente memorizzato le date di nascita dei due,
appurando, mercè una rapida sottrazione, che la differenza di età ammontava a
ben quaratun anni ( si pensava qualcosina meno).
Il risultato circolò sommessamente, con brusio da telegrafo senza fili, fino al
contiguo Padiglione d’Arte Contemporanea dove, in quella stessa magnifica
sera di maggio, sponsorizzata proprio dal Crivelli, stava aprendosi la Gran
Mostra della Scultura Italiana.
Il mecenate aveva pensato bene di far coincidere la festa di nozze con
l’inaugurazione per gli addetti ai lavori ( artisti, collezionisti, mercanti e critici)
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della mostruosa manifestazione. Così aveva pensato di definirla il collaboratore
di un supplemento satirico, entrato come critico al PAC e intrufolatosi nella
sala delle cerimonie preparando mentalmente l’articolo.
Francesca Guarnieri, però, non avrebbe mai dimenticato l’apparizione della
sposa quando era scesa dalla limousine decorata di gardenie.
Il lungo abito di seta bianca, stile anni trenta, era di una semplicità monacale e
faceva di Aladina una bellissima vestale dall’espressione un po’ dolorosa. Sulla
spalla sinistra l’enorme broche di rubini e diamanti, dono di nozze di Enrico
Crivelli, sembrava un grande fiore purpureo o anche una ferita aperta.
All’anulare destro risaltava il più grosso rubino cabochon che si possa
immaginare.
Francesca Guarnieri lo valutò non inferiore ai trenta carati come gli orecchini a
grappolo che si notavano molto perché quel giorno Aladina aveva raccolto i
capelli sulla nuca in un piccolo chignon.
Il sindaco di Milano in persona, Ambrogio Cobalchini, in tight e fascia
tricolore, concelebrava l’importantissimo matrimonio civile insieme a tutta la
giunta: davanti a donna Garibalda Bixio, a Gualtiero Dolfin Tron, a Gonzalo
Neuro d’Elir, a Zita Bajon Altinger, a Selvaggia de Morelli di Cosenza, all’on.
Grimaldo Lima, al prefetto de Futilis, al questore Carotene, a Sua Emittenza
Silvius del Milan, al presidente rivale Ernest Winter, al cardinale arcivescovo
Crociato Scudetti, per la prima volta a un matrimonio civile che, manifestando
interessi scultorei, aveva fatto una capatina al PAC perché bisognava dotare il
Duomo di una degna porta bronzea per l’uscita di sicurezza, imposta anche alle
cattedrali dopo i roghi di un cinema e di una discoteca.
Ciò aveva provocato un lungo braccio di ferro tra la Soprintendenza e il
Ministero, conclusosi a favore dei burocrati romani.
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C’era poi un insalata mista di architetti repubblicani, pittori socialisti, tenori
sfiatati, stilisti che commemoravano il povero Ermengardo, ecc.ecc..
Attrici divine circondavano bei nomi mentre la grande interprete della canzone
italiana, che aveva appena chiesto la cittadinanza svizzera, la luganese Armanda
Decibel, conversava con l’eterna rivale Vilma Messer e la terza incomoda Nella
Ferrari, entrambe più magre ma anche meno talentose di lei. Si sentivano le
grasse risate del tenore Panzerotti, le battute in levare di Priscilla Schimberna,
Pisto Zolfanelli e Bacco Borgia, polemisti della stampa, con i campioni
televisivi Enzo Piaci e Jazz Vronski.
Verso il Pac, la folla era più animata, eterogenea e meno abbiente degli invitati
alla cerimonia. Non c'erano barriere impenetrabili, tuttavia vari buffet erano
stati predisposti nei punti strategici del giardino e della corte per le diverse
componenti della promiscua calca, che mica tutti avevano diritto a caviale,
ostriche, salmone, patè e champagne, riservati agli invitati al matrimonio, ma
solo a quel salame che, talvolta affettato sugli occhi, non manca mai alle
manifestazioni d’arte visiva, a quelle focaccine e pizzette, a quel Prosecco che il
grande gallerista Arturo Hertz aveva consigliato al re del catering Ernest Winter.
Questi generi di relativo conforto, il mondo artistico milanese ben li conosceva
dalle vernici Hertziane, poiché cercava con successo di accedere ai buffet più
prestigiosi, mentre qualche svampita mondana, inavvertitamente tracannando
prosecchini pittoreschi come fossero Dom Perignon, sperimentava inediti
torcibudella.
In breve tutti quanti si mischiarono: tanto all’ingresso polizia, carabinieri e
vigili urbani ( la guardia di finanza mancava per ragioni di buon gusto) avevano
fatto passare ognuno sotto il metal detector, e gli elicotteri che sorvolavano la
zona spaccando le balle a tutti ( da Roma dovevano arrivare importanti padrini
politici) controllavano ogni cosa dall’alto.
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La scena era fiabesca. Nel meraviglioso tramonto, la Villa Reale con annessi e
connessi ( Pac, giardinetti pubblici e segreti, cortili e musei) sfolgorava di luci.
Era la lampante dimostrazione che il bonum pubblico rifulge, grazie a qualche
ineffabile Sidol, quando volge ad usum privato, perché il connubio CrivelliLuraghi era soltanto l’ultimo di una lunga serie di matrimoni civili celebrati
quello stesso giorno con minore ricevimento e sfarzo.
Crivelli era felice. Il discorso del sindaco era stato come sempre onesto,
intelligente, garbato, spiritoso e simpatico, benché le battute fossero un po’
antiquate. Erano venuti tutti i personaggi più importanti dell’economia,
dell’industria e della finanza che aveva invitato. E il critico Scassi, stasera in
smoking impeccabile, aveva ordinato per lui una mostra veramente fenomenale.
La sua cultura e intelligenza, che si sarebbero potute definire quasi luciferine
per la cattiveria di cui erano intrise se non fossero state accoppiate a una
volgarità più burina che infernale, ancora una volta avevano fatto centro.
“ Bravo, bravo”, gli diceva Crivelli visitando l’esposizione con le autorità. Si
teneva modestamente nel codazzo, ma moralmente era in primo piano perché
l’aura miliardaria dello sponsor rischiarava di splendore aureo il suo capo già
raggiante. Purtroppo però l’acustica del Pac era tale per cui da ogni parte gli
giungevano le battute dei presenti.
“ La sposa? Bella, bellissima. Capirai trentacinque anni e cinquecento carati di
rubini addosso. In questo modo non è tanto difficile splendere di luce propria”,
disse una voce femminile in tono non abbastanza sommesso da non lasciarsi
udire un po’ dovunque.
“ I salatini erano migliori alla mostra del mese scorso, però il caviale non
c’era.”
“ Per forza, non era il matrimonio del Crivelli.”
“ Se sapevo che voleva sposarsi, mi facevo avanti anch’io.”
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“ Ma tu pensi che sia ancora in grado di consumare il matrimonio?”
“ Forse si, l’ho incontrato in via Meravigli…”
“ Però, un bel record sposare una dopo l’altra due sorelle: si vede che è un tipo
che ama restare in famiglia.”
“ Questa però ha già un figlio: anormale, no?”
“ Solo malato.”
“ Adesso, con i soldi del Crivelli potrà guarire.”
“ Precedenti della sposa?”
“ Boh! Un ex marito insignificante e un passato di fotomodella.”
“ Arriverà il Presidente del Consiglio?”
“ Gli elicotteri si sentono, ma probabilmente verrà solo il Vice Presidente.”
“ Questo qua, se non lo fanno interdire, è capace di sposarsi altre sei volte.”
Come in un sogno, Aladina registrava le battute velenose e sciocche, i
commenti di ammirazione o di invidia, i motti salaci e i giudizi della folla non
sempre elegante, ma eterogenea che popolava il PAC. Stanchissima, si staccò
dal marito e, per qualche momento, si appartò in un angolo dietro una scultura
di terracotta a forma di gigantesca campana.
“ Pare che stiano per cambiare molte cose nel Gruppo. Ho sentito con le mie
orecchie Crivelli dire che, a volte, conviene lasciare al suo posto un ladro
piuttosto che mandarlo via e sostituirlo magari con uno più dannoso.”
“ C’è il problema che il vecchio si è accorto degli ammanchi e sta cercando di
capire chi è il responsabile. Non salterà mica la torta delle marmitte?”
Aladina ascoltava allibita. Queste non erano le solite battute: si trattava di un
discorso serio, a mezza voce, fra due uomini impegnati in una strana
macchinazione.
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Vi fu un momento di silenzio. La giovane donna si mosse subito, girando
attorno alla scultura, per tentare di riconoscere i due: ma fu bloccata da Anna
Crivelli che le porse una coppa di champagne con un sorriso ipocrita.
“ Lunga vita alla mia nuova mammina!”, disse con voce stridula la figlia di
primo letto di Enrico Crivelli.
Era una donna sulla cinquantina, di bassa statura, grassa e piuttosto brutta: i
gioielli e i vestiti firmati non riuscivano a migliorare il suo aspetto. Certo Anna
Crivelli non poteva essere molto soddisfatta di quelle nozze che le toglievano il
cinquanta per cento dell’immenso patrimonio paterno. La sua acredine dunque
appariva giustificata. Sposata a Piero Massei, braccio destro di suo padre, uomo
di punta della Finanziaria Sharkfin e amministratore delegato di numerose
controllate, Anna era una donna molto infelice.
Il destino le aveva elargito la ricchezza, ma nient’altro. Lei sapeva benissimo
per quale motivo Massei l’aveva sposata: e attribuiva moventi del genere a tutti
quanti, in questo caso azzeccandoci abbastanza.
“ E’ stato proprio un matrimonio d’amore, molto disinteressato. Vero, mia
cara?”, disse ancora velenosamente Anna alla matrigna, più giovane di lei di
una quindicina d’anni.
“ Devo molta gratitudine a tuo padre. Quando mi ha chiesto di sposarlo, gli ho
detto di sì”, rispose con sincerità Aladina, senza raccogliere la provocazione.
Anche lei si rendeva conto che la figlia di Enrico non aveva poi tutti i torti di
risentirsi del loro matrimonio.
“ Quell’interdetto poteva avere il buon senso di continuare a frequentare le
solite puttane: sarebbero costate molto meno”, le ringhiò in faccia Anna.
A quel punto Aladina ritenne saggio andarsene. Senza una parola le girò le
spalle e con indifferenza si diresse verso il folto degli invitati.
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Era proprio una rassegna bellissima. Le opere dei maggiori scultori italiani,
disseminate dappertutto e accortamente valorizzate dall’illuminazione, erano
tutte capolavori.
La più poderosa e impressionante era l’opera di uno scultore sconosciuto, anche
se pubblicamente operante da un ventennio, che solo il gran fiuto di Scassi era
riuscito ad annusare in tutta la sua artistica fragranza.
Cerro Vidal aveva realizzato con “ Gravi Incombenze”, un capolavoro assoluto.
Reagendo vigorosamente al diktat michelangiolesco “ non ha l’ottimo artista
alcun concetto” ( con aposiopesi surrettizia ma omologata da Scassi) aveva
dimostrato tutta la potenza della sua arte che era materiale al massimo grado,
ma altresì concettuale.
“ Cos’è la scultura? Il contrario di cultura, dato il valore privativo della esse
nella lingua italiana”, stava dissertando in quel momento, nella speranza di
nascondere l’ignoranza dietro la stupidità: anche se ormai sospettava fossero
ingredienti imprescindibili, senza esagerare, ovviamente, della creatività.
“ Gravi incombenze” ( titolo a cui era giunto scartando le banali alternative
“Levitazione” e “ Carichi Pendenti”) era un’opera davvero agghiacciante.
Consisteva in un blocco di marmo di Carrara di cinquanta tonnellate, che
sembrava librarsi sospeso a mezz’aria nel primo salone del PAC. Lo
sostenevano, partendo da un piedistallo in lamiera grossa, infinite barrette
d’acciaio al titanio, non più spesse dei comuni raggi delle ruote delle biciclette.
Quindi risultavano quasi invisibili viste frontalmente: perché le barrette alte tre
metri si allineavano, con effetto analogo a quello del famoso colonnato
vaticano, dando adito a un passaggio da brivido sotto il gran blocco di marmo
squadrato. Sembrava un’architrave sesquipedale, sostenuta a ben tre metri
d’altezza da non più di una trentina di esilissime colonnine di filo d’acciaio.
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Invece, naturalmente, si trattava di titaniche moltitudini allineate e coperte, e
bastavano ampiamente, secondo i calcoli che il concettuoso artista aveva
affidato a un rigoroso ingegnere, per tener su il macigno per i secoli dei secoli.
Inoltre, e questo era l’aspetto più inquietante dell’opera, quell’incredibile
equilibrio era dinamico e sonoro. La flessibilità delle barrette d’acciaio era tale
che, a ogni refolo primaverile aleggiante dalle porte spalancate, il blocco di
marmo di Carrara oscillava paurosamente: tremolando come mille tonnellate di
durissima gelatina sospesa su alti chiodi da fachiro, che vibravano emettendo un
suono cupo da far pensare al finimondo. Molloni d’acciaio in risonanza; lastre
di lamiera sommessamente sbatacchiata; diecimila maranzani metafisici che
riuscivano a scacciare nell’astante, soprattutto se sottostante, ogni pensiero
salvo quello di levarsi al più presto di lì.
Grazie a questa insigne scultura, Cerro Vidal stava vivendo il suo momento di
gloria dopo vent’anni di oscuro lavoro, e lo trovava deludente, ancorchè
inebriante, come il Prosecco che aveva tracannato per tutta la sera. Ah! Era
questo il successo? Propinare un mare di pirlate a un fiume di incompetenti che
facevano finta di essere commossi dalla sua opera? Compatì gli artisti arrivati,
di cui aveva sempre invidiato la facilità di pagare il conto del marmista.
Toccava sciropparselo, poi, il successo. Cominciava a intravedere la verità del
consiglio “ vivi nascosto”. “Le vernici poi sono così ammorbanti…anche
Napoleone non poteva sopportarne la puzza”, pensò improvvisando un
bell’assolo di trombone per il mercante Arturo Hertz, che non sembrava
assolutamente ricordarsi le due o tre volte che l’aveva cacciato via dalla galleria
senza nemmeno dare un’occhiata ai suoi depliant. Adesso vedeva in lui dei
Soldi e gli stava proponendo una personale! Facile: Vidal aveva lo studio pieno
come tutti gli artisti che non vendono un cavolo, ma si sforzò di far cadere il
suo assenso molto dall’alto: degnandosi en artiste. Resistette bravamente tre o
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quattro secondi, e poi non riuscì nemmeno a acconsentire con garbo perché fu
battuto allo sprint dalla catastrofe che lo travolse.
Si sentì un plop, un deredeng e poi un crack bestiale.
“ Gravi Incombenze aveva improvvisamente ceduto. I raggi d’acciaio che
sostenevano il blocco di marmo si spezzarono squillando sotto il peso e
schizzarono frecce mortali in tutte le direzioni. Mentre la massa sesquipedale si
abbatteva sopra un poveretto che aveva voluto provare il brivido artistico di
quel capolavoro nel momento sbagliato.
“ Oh Madonna!”, esclamò Cerro Vidal, intuendo la propria totale rovina
nell’attimo stesso, in cui un dardo d’acciaio al tungsteno gli si piantava nella
natica destra strappandogli un urlo bestiale. Ma gli era andata ancora bene!
Altri, morti sul colpo, con il dardo conficcato in mezzo agli occhi sbarrati, non
avevano fatto in tempo a dire neanche bah. Nel frattempo il pavimento aveva
ceduto, e “ Gravi Incombenze” andava felicemente a raggiungere buona parte
del patrimonio artistico nazionale in cantina.
La scena nel salone del PAC ricordava il campo dei pionieri dopo l’attacco dei
feroci Comanches. Certe vittime sembravano puntaspilli. Carampane, trafitte
alle gambe o alle terga, strillavano saltabeccando in preda al panico verso
l’uscita, mentre ulteriori zone del pavimento sprofondavano con fragore sotto il
peso di monumentali sculture.
Rosario e Pamela, famosi presenzialisti, erano stati salvati dai dardi dal solido
scudo di un’opera di Andrea Cascella, mentre i poveracci che stavano
ammirando un aereo capolavoro di Fausto Melotti non l’avevano scampata.
Gli elicotteri dei carabinieri atterravano in cortile, sbarcando militari con il
mitra in pugno che credevano a un soprassalto terroristico con strage.
Arrestarono subito Cerro Vidal, il quale, sempre con la picca conficcata nella
chiappa, cercava pateticamente di sfuggire alle conseguenze dell’arte sua.
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Dopo Galileo e Newton, nulla è più prevedibile della caduta dei gravi. Si diede
dell’imbecille. Se avesse avuto sotto mano l’ingegnere dei calcoli sbagliati,
l’avrebbe strozzato con gioia.
Il bilancio della tragedia che aveva funestato l’inaugurazione della Gran Mostra
della Scultura italiana al PAC ( acrostico esplosivo che la Notte aveva titolato,
naturalmente in prima pagina, PATATRAC) si rivelò meno grave di quanto a
prima vista era sembrato.
I morti erano “ solo” diciannove, i feriti cinquantuno. Considerando che lo
colonnine
d’acciaio,
schizzate
dappertutto
ammontavano
a
duemila
settecentoquarantatre, era andata di lusso.
Cerro Vidal rifletteva sulla caducità delle cose umane, soprattutto il successo e i
blocchi di marmo di cinquanta tonnellate, in una cella di San Vittore in
isolamento. E non lo lasciavano nemmeno disegnare.
Aladina era rimasta vedova il dì delle nozze.
“ Per sua lercia fortuna”, imprecò digrignando Anna Crivelli dopo il tragico
incidente.
La persona schiacciata sotto il blocco di marmo era il suo novello sposo, vittima
di un mecenatismo veramente malriposto.
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