L`EVOLUZIONE DEL PRINCIPIO UNITARIO DALL`UNIFICAZIONE

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L`EVOLUZIONE DEL PRINCIPIO UNITARIO DALL`UNIFICAZIONE
L’EVOLUZIONE DEL PRINCIPIO UNITARIO DALL’UNIFICAZIONE ALLA
REPUBBLICA
Giancarlo Rolla
Università di Genova
Sommario: 1. La scelta centralistica del Regno d’Italia. 2. Il principio unitario nel disegno
dei costituenti. 3. L’ attuazione del regionalismo e l'affermazione di spinte omogeneizzanti.
4. La revisione costituzionale del Titolo V tra il “fascino” dell'omogeneità e l'emergere di
inaspettate spinte alla centralizzazione.
1. La scelta centralistica del Regno d’Italia
Quando si dovettero definire i lineamenti costituzionali del nascente Regno d’Italia, i
costituenti avevano dinanzi due distinte esperienze di ordinamenti unitari: le Repubbliche
federali e le Monarchie costituzionali.
Gli Stati federali erano storicamente nati per soddisfare un’esigenza di maggiore
unità: diverse comunità territorali avevano rinunciato a parti della propria originaria
sovranità per meglio affrontare insieme problemi comuni, in quanto la forma di Stato
federale appariva l’assetto istituzionale più idoneo ad assicurare l’unificazione giuridica ed
economica, nonchè a favorire un’amalgama di culture e tradizioni.
La propensione unitaria che animava le prime esperienze di federalismo (negli Stati Uniti
d’America, negli Stati Uniti del Messico, nell’Argentina, nel Venezuela) era tanto evidente
che autorevoli autori avevano considerato il federalismo un “passaggio verso l’unità di
governo”.1 A questo proposito si rivela particolarmente acuta l’osservazione di Dicey il
quale ha individuato le precondizioni per la creazione di una federazione, da un lato, nella
presenza di una pluralità di territori collegati dalla storia, dalla razza, da una comune
nazionalità e, dall’altro lato, nella circostanza che gli abitanti di quei territori desideravano
l’unione, ma non l’omogeneità.2
A loro volta, le monarchie costituzionali si erano diffuse in Europa – prima di essere
revocate in seguito alla reazione ai falliti moti rivoluzionari del 1848 – ispirandosi in vario
modo ai principi organizzativi propri dello Stato liberale di diritto: principio di legalità,
separazione dei poteri, superamento dell’unitarietà del potere regio a vantaggio di un
maggior ruolo dei parlamenti, centralità della legge nei confronti delle altre fonti del
diritto.
Si trattava di due esperienze considerate alternative sia sul piano storico che teorico,
essendo prevalente l’idea che sussistesse una sostanziale contrapposizione tra Stati unitari
federali e Stati monarchici, derivante dal fatto che mentre i primi pervengono all’unità
attraverso la libertà dei popoli, i secondi agiscono prevalentemente attraverso la fusione e
l’annessione.3 La storia dell’ 800 – che coincide nel nostro continente con la storia delle
Così: J.BRYCE,The American Commonwealth,New York,1888, 906.
Così:A.DICEY,An introduction to the Study of the Law of the Constitution,Oxford,,1885,141.
3
Si veda: D.VENERUSO, Carlo Cattaneo e la mancata affermazione del mdello federalistico nell’Europa
1
2
monarchie europee- potrebbe indurre ad ipotizzare una incompatibilità tra ordinamento
monarchico e principio di autodeterminazione dei popoli, con la conseguenza di
individuare nel principio repubblicano un humus maggiormente favorevole allo sviluppo di
un’organizzazione federale dello Stato.
In America latina, molti degli Stati che si formarono in seguito al processo di indipendenza
optarono contestualmente per la forma repubblicana e per il federalismo
(Messico,Venezuela, Brasile,Argentina); gli Stati Uniti e la Svizzera sono nati come
ordinamenti repubblicani. D’altra parte, per quanto concerne l’esperienza europea, si può
notare che l’affermazione sostanziale del federalismo in Austria scaturì dalla crisi della
monarchia Austro-ungarica , con l’approvazione della Costituzione federale del 1918;
mentre in Germania – nonostante che la Costituzione del 1871 qualificasse l’Impero come
un patto tra principi – il principio federale è stato delineato sotto la Costituzione di Weimar
e, successivamente, consolidato al termine del secondo conflitto mondiale, allorché la
Repubblica federale tedesca si afferma come associazione volontaria di unità autonome,
animate da una spinta centripeta e da un volontà cooperativa.
Alla luce di queste considerazioni si può ritenere che in Italia l’opzione a favore della
monarchia costituzionale fosse nella logica del processo storico, ma non quella di
configurare tale forma di Stato in modo rigidamente centralistico: introducendo una
frattura con alcun orientamenti istituzionali emersi nel corso del Risorgimento e con le
posizioni di chi sosteneva l’opportunità di un’unificazione pluristituzionale, in grado di
dare espressione alle differenze culturali, alle realtà storiche e di qualificare il processo di
unificazione più come aggregazione di diversi popoli, che come incorporazione all’interno
dello Stato sabaudo.4
La centralizzazione politica ed amministrativa dello Stato fu perseguita con coerente
determinazione e conseguì un risultato fondamentale: la fusione in breve tempo di sette
Stati e il superamento del precedente particolarismo territoriale. Ma la stessa rivelò anche
dei limiti, se si considerano le tre scelte principali assunte agli inizi della formazione dello
Stato unitario.5
Innanzitutto, il rapporto tra lo Stato sabaudo e gli altri ordinamenti preunitari si sviluppò
secondo un processo univoco, che si tradusse nel rifiuto di sperimentare l’innesto nel
tronco sabaudo di istituti provenienti da altri ordinamenti. Esclusa la convocazione di
un’assemblea costituente - che fu considerata rischiosa per gli equilibri conseguiti- si
preferì una evidente continuità tra la fase sardopiemontese della dinastia sabuada e la fase
italiana:simboleggiata dalla decisione di fare dello Statuto albertino la Costituzione dello
Stato nazionale italiano, dal fatto che il Re, assumendo il titolo di re d’Italia, rimase pur
sempre Vittorio Emanuele II° (e non I°), che la legislatura del nuovo regno bensì continuò
ad essere enumerata come la VIII.
In secondo luogo, il disegno unitario, che ebbe il suo coronamento con l’approvazione
della legge n.2245 del 1865 sull’unificazione amministrativa del Regno - un poderoso
processo di codificazione che riguardava la legge comunale e provinciale, di pubblica
sicurezza, sulla sanità pubblica, sul Consiglio di Stato ed il contenzioso amministrativo, sui
lavori pubblici.- proiettò i suoi effetti anche sul sistema delle autonomie territoriali. Infatti,
la richiamata legge comunale e provinciale prevedeva un Sindaco non elettivo, ma
nominato per decreto regio, una rigida distinzione tra spese obbligatorie e facoltative che
dell’ottocento, in( D.PREDA,C.ROGNONI VERCELLI,Storia e percorsi del federalismo,Bologna, cit.,95 ss.
4
Cfr., L.ZANZI,Cattaneo:il federalismo di fronte alla storia, in (D.PREDA,C.ROGNONI VERCELLI
cur.),Storia e percorsi del federalismo, cit.,41 ss.
5
Vedi:G.MELIS, Storia dell’amministrazione italiana,Bologna,1996,75 ss.
2
trasformò i Comuni in terminali periferici delle politiche nazionali, la doppia natura del
Sindaco quale capo dell’amministrazione ed ufficiale di governo e, soprattutto, enfatizzava
il ruolo del Prefetto quale rappresentante del potere esecutivo e capo della deputazione
provinciale.
Rivelatore di tale orientamento generale fu anche il rapido ritiro del disegno di legge in
materia di amministrazione comunale, provinciale e regionale presentato dal ministro
Minghetti durante il primo governo Cavour, il quale intendeva creare un consorzio
interprovinciale denominato Regione retto da un “governatore”alle dirette dipendenze del
Governo e da una Commissione eletta dai Consigli provinciali interessati. La proposta
aveva l’obiettivo di attenuare l’uniformità dell’organizzazione amministrativa dello Stato,
conseguente alla decisione di estendere l’assetto istituzionale del Piemonte a tutto il
territorio italiano; per usare le parole del ministro proponente si proponeva di “conciliare la
varietà regolamentare delle parti dell’Italia all’unità legislativa di tutta la Nazione”: ma tale
progetto venne bloccato dal governo Ricasoli nella convinzione che la struttura unitaria ed
accentrata dello Stato fosse il migliore antidoto al particolarismo.
Va evidenziato che gli artefici del processo costituzionale di unificazione dello Stato non
disconobbero l’utilità del decentramento e l’opportunità di un riequilibrio tra il Piemonte
ed il resto del paese, ma ritenevano che tale risultato potesse essere conseguito senza
riconoscere l’autonomia dei diversi territori. A loro avviso, per superare le disparità
regionali erano sufficienti “buone leggi”, un’amministrazione retta da “validi funzionari” e
l’inserimento nella struttura dello Stato degli esponenti più preparati delle varie aree del
paese .
In altri termini, veniva rifiutato il decentramento politico, non già quello amministrativo.
Basti richiamare, ad esempio, l’esperienza delle Luogotenenze regionali, che operavano
alle dirette dipendenze dello Stato ed erano dotate di poteri straordinari di governo; ovvero
la preferenza attribuita alle amministrazioni comunali e provinciali - che, in virtù della
normativa in tema di ordinamento locale, risultavano ampiamente controllate
dall’amministrazione centrale – rispetto alla possibilità di istituire le Regioni per il timore
che tali enti potessero in alcuni territori evocare la memoria degli antichi Stati preunitari.
Gli statisti cui toccò l’arduo compito di promuovere un accelerato processo di unificazione
sociale e politica del paese manifestarono – come già si è accennato - in tema di
decentramento politico un cambio di orientamento rispetto a precedenti orientamenti: si
pensi, a Crispi che aveva criticato nei suoi scritti giovanili le conseguenze dannose del
“servaggio del potere municipale al centrale”, mentre il Ricasoli era stato in seno ai
moderati tra gli animatori di una corrente autonomistica. A sua volta Cavour, ammiratore
dell'esperienza inglese del self-government e descritto come “ciecamente fiducioso”
nell’importanza del decentramento, ha operato scelte accentratrici a mano a mano che
giungevano i rapporti degli osservatori inviati nell’Italia meridionale.6
L’opzione netta per un’organizzazione amministrativa uniforme sull’intero territorio dello
Stato, fortemente centralizzata e politicamente omogenea ha avuto motivazioni diverse che
- nonostante i pregevoli e numerosi apporti della dottrina- risulta difficile ricondurre a
sintesi.
Sicuramente determinanti furono le motivazioni di ordine politico, alimentate dalla diffusa
convinzione che il riconoscimento di autonomie territoriali sarebbe stato pericoloso per il
consolidamento dell'unificazione politica dell’Italia, avrebbe alimentato la nascita di
tendenze centrifughe, favorite dall'assenza di una coscienza nazionale. Prevalse, quindi, un
atteggiamento di sfiducia verso la maturità della società italiana, confermato
6
KING, Storia dell’unità d’Italia 81814-1870), Roma,1960,240 ss
3
dall’atteggiamento dello stesso Cavour, il quale, divenuto Presidente del Consiglio,
apparve intimorito dal pericolo che “la regione potesse assumere un colore troppo acceso
di federalismo e divenire un pericoloso intralcio al consolidamento del Regno “.
Tali preoccupazioni furono alimentate anche dalla circostanza che spesso dietro la richiesta
di maggiori autonomie si celavano intenzioni di natura corporativa e conservatrice, che
vedevano nella Regione uno strumento utile per frenare il processo di rafforzamento dello
Stato nazionale: non a caso i principali centri di irradiazione dell’ idea regionalista
corrispondevano con i territori maggiormente danneggiati dall'affermazione di un
ordinamento unitario accentrato, mentre piuttosto elitari risultarono i gruppi politici e
sociali che propugnavano la regionalizzazione dello Stato unitario come fattore di
dinamismo economico , nonché strumento di democrazia politica.
Egualmente, a supporto di un’organizzazione amministrativa centralizzata furono addotte
sia ragioni di ordine economico (dal momento che i governi liberali considerarono il
centralismo politico ed amministrativo la via più sicura per assecondare lo sviluppo
dell'economia italiana), sia convinzioni di natura giuridica e istituzionale. Tra le quali si
possono indicare , per un verso, la convinzione che la sovranità dello Stato escludesse il
trasferimento delle funzioni statali a favore di enti politicamente autonomi, per un altro
verso, il prevalere di una concezione del principio di eguaglianza - inteso esclusivamente
come pareggiamento sul piano formale delle condizioni nell’ambito della leggeinconciliabile con il riconoscimento delle diversità esistenti all’interno della società italiana
e tra i suoi territori. Mentre, di recente, Ghisalberti ha individuato le ragioni ideologiche
poste a giustificazione di un un’organizzazione politica omogenea e di un assetto
amministrativo uniforme nel costituzionalismo liberale, in particolare nell’influenza
esercitata dall’esperienza e dal modello istituzionale francese.
Alla luce di queste considerazioni non stupisce se, in concreto, le proposte di istituire
all’interno dell’organizzazione amministrativa dello Stato unitario degli ordinamenti
regionali risultarono circoscritte ed assai distanziate nel tempo. Se si esclude la già
richiamata deludente esperienza del disegno di legge presentato dal ministro Minghetti,
occorre andare al Regio decreto n. 1319 del 1921, il quale istituì una commissione
consultiva per il riassetto amministrativo delle Regioni Trentino Alto Adige e Venezia
Giulia, con il fine di valutare la possibilità di concedere a quei territori una autonomia
regionale. Tale decreto si proponeva di dare attuazione al Trattato di Saint Germain,
relativo all’annessione all’Italia di territori facenti parte del Regno austro-ungarico in
seguito alla fine della prima guerra mondiale; ma non conseguì alcuno sviluppo concreto.
2. Il principio unitario nel disegno dei costituenti.
L’approvazione del titolo V della Costituzione non rappresenta la conclusione di un
processo storico lineare. L’istituzione dell’ordinamento regionale non solo ha
rappresentato - al pari della giustizia costituzionale e dell’indipendenza dell’ordine
giudiziario dal potere esecutivo - una delle profonde novità introdotte dall'Assemblea
costituente, ma ha anche un tratto di discontinuità nell’evoluzione della forma di Stato.
Le scelte compiute dai costituenti in merito all’ordinamento regionale non rappresentano
tanto lo sbocco naturale di un’aspirazione secolare all’istituzione delle regioni, quanto una
comune presa di coscienza circa l’inadeguatezza di una tradizione autonomistica e il
tentativo di ripensarla alla luce dei problemi posti dall’edificazione di uno Stato rinnovato
e moderno.7 Si è trattato, tra l’altro, di una scelta non improvvisata: sia perché anticipata
7
(Rolla, la commissione bicamerale….p.12).
4
dalla decisione di istituire alcune Regioni ad autonomia speciale, 8 sia in quanto le scelte
compiute in assemblea costituente furono orientate da una pregevole attività preparatoria –
tra cui gli studi condotti dalla Commissione per la riforma dell’amministrazione e dalla
Commissione per gli Studi attinenti alla riorganizzazione dello Stato – nonché dalla
documentazione fornita dal Ministero per la Costituente.9
Sulla scia di questo retroterra i costituenti configurarono un’organizzazione dello Stato in
cui la tutela dell’unità politica e il rispetto delle autonomie regionali e locali si doveva
realizzare contestualmente. Ribaltando molte delle impostazioni culturali e politiche che
avevano alimentato la formazione dello Stato nazionale, 10 la Costituzione repubblicana
afferma per la prima volta nella nostra storia costituzionale la compatibilità tra natura
unitaria dello Stato e decentramento politico.
Nonostante il timore per alcune tendenze separatiste e la preoccupazione per i difficili
problemi sociali ed economici della ricostruzione, nei costituenti maturò la convinzione
che diverse zone del paese avrebbero costituito un potenziale focolaio di movimenti
antiunitari se non si fossero attribuiti alle comunità regionali poteri e strumenti idonei a
facilitare la partecipazione dei cittadini alla vita pubblica ed alle decisioni politiche.11
I costituenti hanno optato, quindi, per uno Stato unitario a base regionale, dando vita ad un
nuovo prototipo di Stato unitario: un assetto istituzionale “intermedio” tra lo Stato federale
e l’ordinamento unitario accentrato.12 La stessa formulazione dell’art.5 Cost., il suo
inserimento tra i principi fondamentali della Repubblica rivelano l’intenzione di elevare
l'autonomia delle comunità territoriali tra i principi dell'ordinamento che configurano la
nostra forma di Stato repubblicana:13 così come, ad esempio, la Costituzione della
Repubblica federale di Germania inserisce la struttura federale dello Stato tra gli elementi
non rivedibili della Costituzione.
Anche lo Stato regionale – in quanto variante del tipo dello Stato unitariopresuppone la convivenza dell’autonomia delle comunità territoriali con il principio ad
essa speculare di unità dell’ordinamento costituzionale. Natura unitaria dello Stato e
distribuzione territoriale del potere politico sono valori complementari, costituiscono due
poli contrapposti, ma inscindibili, dal momento che lo Stato, le Regioni e gli enti locali
8
Vedi, supra, in questo capitolo,…
Vedi i riferimenti in G.MIELE, La Regione,in Commentario sistematico alla Costituzione italiana, II,
Firenze, 1950, 229 .
In merito all’attività del Ministero per la Costituente si rinvia ai lavori di: C.GIANNUZZI,
L’istituzione e l’attività del Ministero per la Costituente, in Il Ministero per la Costituente:l’elaborazione dei
principi della carta costituzionale, Firenze,1995, 3ss; S.BENVENUTO, Elementi di raffronto fra i più
significativi istituti della costituzione e i suggerimenti del ministero per la Costituente, in Il Ministero per la
Costituente: l’elaborazione dei principi della carta costituzionale, cit., 2055ss.
Sui lavori e le proposte del Ministero si veda anche Bollettino d’informazione e documentazione del
Ministero per la Costituente, Roma, 1945-1946.
10
Si veda, supra, in questo capitolo,…
11
Cfr., G.ROLLA, La Commissione per le questioni regionali nei rapporti tra Stato e Regioni, Milano,
1979,17 ss.
Vedi
anche:G.AMBROSINI,
L’ordinamento
regionale,Bologna,1957;
AA.VV.,
Le
Regioni,Torino,1961; E.ROTELLI, L’avvento della Regione in Italia, Bologna,1 975; IDEM, Dallo Stato
accentratore allo Stato delle autonomie, Italia 1945-1975, Milano, 1975; AA.VV., Regioni e Stato dalla
Resistenza alla Costituzione,Bologna,1975.
12
Vedi: M.VOLPI, Le forme di Stato, in (G.MORBIDELLI, L.PEGORARO, A.REPOSO,M.VOLPI cur.)
Diritto costituzionale italiaano e comparato, Bologna,1995, 387 ss.
13
I caratteri innovativi di tale scelta furono colti, ad esempio, da :M.MIELE , LaRegione,
cit.,233;C.ESPOSITO, Autonomie locali e decentramento amministrativo nell’art.5 della Costituzione, cit.,
66 ss.
9
5
territoriali danno vita ad ordinamenti distinti (costituzionalmente autonomi), ma integrati
all’interno di un medesimo sistema di valori e di principi individuato dalla Costituzione.14
Di conseguenza, al riconoscimento di condizioni costituzionali di autonomia si
accompagna normalmente la previsione di efficaci poteri che consentano allo Stato di
intervenire a salvaguardia della unitarietà del sistema, nonché al fine di evitare che le
differenze tra le comunità regionali incrinino i principi di eguaglianza (nel godimento dei
diritti sociali ed economici) e di solidarietà (tra i territori). 15D’altra parte, non è priva di
significato la circostanza che la formulazione iniziale dell’art.5 Cost. riproduca – nella
sostanza e nella lettera – la formula “una e indivisibile” – cara ai Montagnardi – presente
nella Costituzione francese del 1971 e nella Costituzione del 1793.
La chiave per la comprensione delle scelte compiute nel titolo V sta nell’art.5 Cost.: che,
nelle chiare parole dell’Esposito, simboleggiava il coagulo delle diverse posizioni attorno a
un punto comune, costituito dalla preoccupazione di garantirsi che nella distribuzione delle
competenze non vada perduta l’unità del paese, che il pluralismo non generi una
separazione o una contrapposizione istituzionale.16
Nel dibattito in Assemblea costituente e nel primi commenti della dottrina l’inserimento
del principio unitario tra i caratteri fondamentali della Costituzione fu considerato,
innanzitutto, nella sua portata storica e politica: come garanzia affinché sia salvaguardata
l’unità politica del paese dando vita a scelte che possano determinare – secondo le parole
di Esposito - “la morte dell’Italia”. Nel medesimo tempo, fu interpretato come
riaffermazione dell’esigenza che tutti i livelli istituzionali concorrano al perseguimento di
valori ed interessi comuni.
Sono numerose le disposizioni che si premurano di sviluppare il sistema delle autonomie
territoriali all’interno di un contesto istituzionale attento alla cura degli interessi nazionali e
dei principi unitari dell’ordinamento. Si considerino, ad esempio, la competenza attribuita
al legislatore statale di determinare i principi fondamentali all’interno dei quali la Regione
svolge la propria potestà legislativa (art.117 Cost.); la competenza della legge statale di
regolare l’autonomia finanziaria delle Regioni, coordinandola con la finanza dello Stato
(art.119 Cost); la previsione di un articolato sistema di controlli preventivi sugli organi –
attraverso il potere statale di scioglimento dei Consigli regionali (art.126 Cost.)- e sugli atti
normativi delle Regioni (artt.125 e 127 Cost.); il divieto di adottare provvedimenti che
ostacolino in qualsiasi modo la libera circolazione delle persone e delle cose tra le Regioni
o che limitino l’esercizio del diritto al lavoro in qualunque parte del territorio nazionale.
Così come i molteplici limiti (materiali e procedurali ) imposti dall’art.123 Cost alla
potestà statutaria delle Regioni erano riconducibili alla volontà dei costituenti di evitare
che l’autonomia organizzativa delle Regioni possa incrinare l’unità dell' ordinamento
repubblicano.
Emblematica appare anche l’attenzione con la quale, già in sede di stesura dello Statuto
speciale della Regione Sicilia (maggio 1946) si volle temperare il riconoscimento della
potestà legislativa esclusiva della Regione in materia di agricoltura e di industria con il
limite generale delle “riforme agrarie e industriali deliberate dalla Costituente del popolo
italiano”: ciò nel timore che l'autonomia del legislatore regionale potesse vanificare le
Vedi:G.ROLLA, Las relaciones entre niveles institucionales en los Estados Federales y Regionales:
autonomía,unidad e integración, in (J.L.GARCIA RUIZ, E.GIRON REGUERA coord.) Estudios sobre
descentalización territorial,Cadiz, 2006, 9 ss.
Per ulteriori riferimenti si rinvia a infra, capitolo II,…
15
Per maggiori approfondimenti sul punto si rinvia a infra, capitolo II,…
16
ESPOSITO, Autonomie locali e decentramento nell’art.5 della Costituzione italiana, in La Costituzione
italiana,Padova,1954,69.
14
6
riforme che il Governo intendeva realizzare in materia di rapporti agrari e di industria.
Un secondo elemento caratterizzante l’architettura del titolo V consiste in una evidente
accentuazione del ruolo del legislatore nazionale nel delineare i caratteri dell’autonomia.
Strettamente collegato alla natura unitaria dell’ordinamento costituzionale appare il
riconoscimento che l’autonomia non tanto scaturisce dal principio dispositivo, quanto si
sviluppa su impulso dell’attività legislativa dello Stato: come bene evidenzia la
formulazione dell’art.5 Cost., ove si utilizza l’espressione “promuove” per evidenziare che
il processo di decentramento deriva dall’azione unilaterale del soggetto titolare della
sovranità, cioè dallo Stato.
Dall’intero disegno costituzionale emerge l’intenzione di individuare nello Stato il soggetto
che conforma l’autonomia delle comunità territoriali: per cui gli ordinamenti dei livelli
infrastatali sono considerati derivati, nel senso che, per un verso, le Regioni traggono
origine dalla volontà dello Stato - che le ha individuate e che possiede la competenza in
ordine alle variazioni territoriali -; per un altro verso, il loro ordinamento è reso uniforme
dal potere del Parlamento di non approvare gli Statuti delle Regioni ordinarie e di elaborare
ed approvare gli Statuti delle Regioni ad autonomia speciale.
Inoltre, la possibilità da parte delle Regioni di esercitare le proprie competenze
amministrative e legislative era condizionata, nel primo caso, dalla necessaria
approvazione da parte dello Stato di apposite leggi di trasferimento delle funzioni
amministrative ai sensi della VIII disposizione transitoria della Costituzione; nel secondo
caso, dal vincolo posto dall’art.9 della legge n.62 del 1953, il quale (nella sua formulazione
originaria) condizionava l’esercizio della potestà legislativa regionale alla previa
approvazione da parte del Parlamento dei principi della materia.
Infine, la capacità dello Stato di conformare l’autonomia normativa delle Regioni era
esaltata dalla previsione dell’art.117.2 Cost. che rendeva il Parlamento arbitro di decidere
se attribuire o meno alle Regioni in determinate materie anche una competenza legislativa
di tipo integrativo. Da ultimo, non va trascurato il tentativo operato dai primi commentatori
dell’art.117 Cost. di ancorare la competenza legislativa regionale al significato che le
materie avevano al momento dei lavori dell’Assemblea costituente.17
3. L’attuazione del regionalismo e l'affermazione di spinte omogeneizzanti.
Nel rendimento delle istituzioni un ruolo importante è svolto dal “fattore tempo”: il ritardo
nell’attuazione della Costituzione non determina soltanto un’ omissione da parte del
Governo e del Parlamento, ma anche una deviazione dalle scelte originarie:una
Costituzione non interamente attuata è una Costituzione differente. 18Di ciò pareva
consapevole la stessa Assemblea costituente, la quale si era premurata di prevedere tempi
rapidi per l’istituzione delle Regioni, dal momento che secondo VIII disposizione
transitoria i nuovi Consigli regionali dovevano essere eletti entro un anno dall’entrata in
vigore della Costituzione, mentre la IX disposizione transitoria assegnava al Parlamento
tre anni di tempo per adeguare la legislazione statale alle nuove competenze regionali entro
tre anni.
Come è noto, l’ordinamento regionale fu attuato non solo con ritardo, ma anche in un
contesto sociale, economico e politico profondamente mutato.19 In altri termini, si può
17
Mazziotti
Sulle resistenze all’attuazione della costituzione, specie per quanto riguarda l’attivazione degli istituti più
innovativi, si rinvia per ulteriori riferimenti dotrinali a: G.ROLLA, riforma delle istituzioni e costituzione
materiale, cit.,, 21 ss.
19
Si veda: F.BASSANINI, L’attuazione delle Regioni, Firenze, 1970; E.ROTELLI(cur.), Dal regionalismo
18
7
affermare che le Regioni nascono su motivazioni differenti da quelle che avevano ispirato
i lavori dell’assemblea costituente, per cui - limitatamente a questo profilo- non pare
arbitrario qualificare l’avvio del regionalismo alla stregua di una nuova “fase costituente ”,
nella misura in cui l’attenzione si incentrò sul ruolo che questi nuovi enti avrebbero potuto
assumere nel processo di rinnovamento delle istituzioni e sulla loro capacità di immettere
principi nuovi nell’organizzazione dello Stato.20
A questo proposito, non è casuale che le Regioni prendono corpo in una fase nella quale,
per un verso, il Parlamento approva alcune significative leggi che intendevano promuovere
la partecipazione ed il pluralismo e, per un altro verso, si rafforza nella società l’esigenza
di migliorare la rappresentatività dei processi decisionali, conferendo maggior visibilità ad
istanze pluralistiche che non potevano essere interamente canalizzate nell’alveo
tradizionale rappresentato dagli organi rappresentativi. 21 Si auspicava, in altri termini, che
una maggiore autonomia delle comunità territoriali favorisse la democratizzazione dello
Stato e potesse correggere una visione della sovranità interamente fondata sulla
rappresentanza politica nazionale. 22
L'avvio e il consolidamento dello Stato regionale ha introdotto - sia pure a Costituzione
invariata - delle significative novità nel regionalismo italiano rispetto agli originari intenti
dei costituenti.
Innanzitutto, si è modificato il sistema delle relazioni interistituzionali, determinando il
graduale passaggio da un regionalismo di tipo garantistico ad uno di natura collaborativa.
Da un lato, l’esistenza di numerosi intrecci e sovrapposizioni tra le materie rendeva
necessario un coordinamento; dall’altro, si rese necessaria l’istituzione di organi e
procedure che rendessero operante la collaborazione tra i livelli istituzionali.
alle regioni, Bologna, 1973.
20
Cfr., in particolare: F.BASSANINI, L’attuazione delle Regioni, Firenze,1970; G.GUARINO, Le regioni
nell’evoluzione politica e costituzionale,in Studi parlamentari e di politica costituzionale,1970, 5 ss;
D.SERRANI,Momento costituente e Statuti, in Rivista trimestrale di diritto pubblico,1972, 600 ss.; AA.VV.,
Le Regioni politica o amministrazione?, Milano, 1973; E.ROTELLI, L’alternativa delle autonomie.
Istituzioni locali e tendenze politiche dell’Italia moderna,Milano, 1978;
21
Anche la dottrina pubblicistica manifestò interesse nei confronti della tematica della partecipazione
popolare alle funzioni dello Stato. Per riferimenti generali si veda: G.BERTI, La partecipazione
Amministrativa, Milano, 1973; M.CHITI, Partecipazione popolare e pubblica amministrazione, Pisa, 1977;
A.SAVIGNANO, La partecipazione politica nell’ordinamento costituzionale italiano, Napoli, 1979;
M.SCAPARONE, La partecipazione popolare all’amministrazione della giustizia, Milano, 1980.
In tempi più recenti si veda: S.COGNETTI, Quantità e qualità della partecipazione, Milano, 2000;
T.FROSINI, Forme di governo e partecipazione popolare, Torino, 2002.
22
Non si deve, infatti, dimenticare che l’impianto istituzionale delineato originariamente dalla Costituzione
italiana si fondava quasi interamente sul principio della democrazia rappresentativa e presupponeva
l’esistenza di un rapporto fiduciario – mediato prevalentemente dal sistema dei partiti – tra il popolo ed i
componenti le assemblee elettive.
Molto ampia è la dottrina in tema di posizione costituzionale dei partiti politici. A titolo
esemplificativo si veda: P.VIRGA, Il partito politico nell’ordinamento giuridico, Milano, 1948;
C.ESPOSITO, I partiti nella Costituzione italiana, in Studi di diritto costituzionale in memoria di Luigi
Rossi, Milano,1952, 131 ss; T.MARTINES, contributo ad una teoria giuridica delle forze politiche, Milano,
1957; C.ROSSANO, Partiti e Parlamento, Napoli, 1972; S.GAMBINO, Partiti politici e forma di governo,
Napoli, 1977; G.SARTORI, Teoria dei partiti e caso italiano,Milano, 1982; A.PIZZORNO, soggetti del
pluralismo. Classi, partiti, sindacati, Bologna, 1980; C.PINELLI, Disciplina e controllo sulla “democrazia
interna” dei partiti, Padova, 1984; P.AVRIL,Saggio sui partiti, Torino,1990; G.PASQUINO, Crisi dei
partiti e governabilità, Bologna, 1980; IDEM, Art.49. Rapporti politici, in Commentario della Costituzione,
Roma, 1992, 2 ss; A.PANEBIANCO, Modelli di partito,Bologna, 1982; L.VIOLANTE (cur.), il
Parlamento,Torino, 2001; V.LIPPOLIS, Partiti, maggioranza, opposizione, Napoli, 2007
Sotto il profilo politologico vedi: G.SARTORI, Teoria dei partiti e caso italiano,Milano, 1982;
8
Pur nell’invarianza del dettato costituzionale, il sistema si è, a poco a poco, trasformato
seguendo un percorso originale, all’interno del quale si è determinato un graduale sviluppo
dei strumenti di collaborazione. Le soluzioni prescelte dal legislatore appaiono abbastanza
coerenti con il tipo di regionalismo italiano: si è innanzitutto valorizzata la collaborazione
organica, quindi si sono progressivamente superati gli organi settoriali, concentrando le
competenze in organi a competenza generale - la Conferenza dei Presidenti di Regione sul
piano della collaborazione orizzontale, la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato
e le Regioni con riferimento a quella verticale.
Va, tuttavia, precisato che la collaborazione non è stata elevata a “principio” come nel caso
degli ordinamenti federali,23 ma è stata considerata un “criterio” cui rifarsi per attuare di
volta in volta il principio unitario, di sussidiarietà o di buon andamento della pubblica
amministrazione.
In secondo luogo, non va trascurata l’incidenza che dell’integrazione comunitaria ha
esercitata sulle relazioni interistituzionali: sia perché si dovettero affrontare problematiche
inizialmente non previste quali, ad esempio, la disciplina del procedimento di attuazione
della normativa comunitaria, la definizione dei rapporti tra le Regioni e gli organi
comunitari, la previsione di poteri statali di intervento in caso di inadempimento degli
obblighi comunitari da parte delle Regioni;24 sia perché le relazioni tra l’Unione europea e
gli Stati sono scandite di regole differenti da quelle delineate dal Titolo V della
Costituzione - come, ad esempio, l’ armonizzazione delle normative piuttosto che la rigida
distinzione delle competenze, la leale collaborazione nei processi decisionali al posto della
separazione tra gli ordinamenti, il coordinamento per assicurare la soddisfazione di
esigenze unitarie invece di una riserva di poteri a favore del livello istituzionale
sovraordinato, la sussidiarietà al posto di un sistema statico di attribuzione delle
competenze-. 25
Un contributo importante all'"attualizzazione" dell’ordinamento regionale fu offerto dalla
giurisprudenza costituzionale - e, in una certa misura, dal legislatore - la quale ha favorito
una sua graduale modificazione “tacita”: si può parlare di una erosione “carsico” di un
paesaggio reso poroso dai “silenzi” del testo costituzionale. La Corte costituzionale ha
favorito l’evoluzione del sistema, sia delineando le caratteristiche del sistema, sia
risolvendo alcune questioni connesse alle necessarie procedure di raccordo e di
coordinamento tra i diversi livelli istituzionali.26
23
si veda la Repubblica federale tedesca e la Germania
In materia di relazioni tra le Regioni e l’Unione europea la dottrina è assai vasta; a titolo esemplificativo si
richiamano i lavori di : AA.VV., Le Regioni e l’Europa, Milano, 1976; P.CARETTI, Ordinamento
comunitario e autonomia regionale,Milano, 1979; A.D’ATENA, Le Region italiane e la Comunità
economica europea, Milano, 1981; AA.VV., Istituzioni comunitarie e Regioni, Napoli, 1988; AA.VV., Le
Regioni e l’Europa, MILANO, 1992; L.CHIEFFI (cur.), Regioni e dinamiche di integrazione europea,
Torino, 2003; P.COSTANZO, A.RUGGERI, Unione europea ed autonomie territoriali, in (P.COSTANZO,
L.MEZZETTI, A.RUGGERI cur.) Lineamenti di diritto costituzionale dell’Unione europea, Torino, 2006,
425 ss,
25
Sulle caratteristiche dei sistemi costituzionali a più livelli, si rinvia a supra, capitolo I,…,…
26
In effetti, la giurisprudenza della Corte costituzionale in materia di Regioni è stata ampiamente studiata e
dibattuta dalla dottrina, sino al punto che anche in Italia – come è stato detto in Spagna – si può parlare di
diritto regionale giurisprudenziale. L’espressione è mutata da: M.ARAGON, ¿Estado jurisdiccional
autonómico?, in Revista vasca de aministración pública, 1986,7 ss.
Sugli apporti della giurisprudenza costituzionale nella fase di costruzione e sviluppo del
regionalismo si veda: G.BERTI, F.BASSANINI, Corte costituzionale e autonomie locali,in La corte
costituzionale tra norma giuridica e realtà sociale,Bologna,1978,176 ss;AA.VV.,Le regioni nella
giurisprudenza,Bologna,
1981;
AA.VV.,Corte
costituzionale
e
regioni,
Napoli,
1988;
S.BARTOLE,M.SCUDIERO, A.LOIODICE (cur.),Regioni e corte costituzionale : l'esperienza degli ultimi
24
9
Basti considerare che alcuni istituti o principi, prima di essere regolati dal legislatore, sono
stati elaborati dal giudice costituzionale; 27 mentre altri sono eminentemente il frutto della
sua attività interpretativa - dalla determinazione del concetto legale di materia regionale
alla definizione dei rapporti tra la legislazione statale di principio e le leggi regionali nelle
materie di cui all’art.117 Cost.- . 28
E' indubbio che l'ordinamento regionale, nella sua evoluzione, si sia innovato, abbia
modificato il suo "dover essere" e abbia acquisito nel tempo una diversa qualità; tuttavia,
non si può negare che tali modificazioni non siano riuscite a intaccare la secolare
aspirazione dello Stato italiano all’uniformità istituzionale ed all’omogeneità politica.
Numerosi esempi confortano siffatta affermazione qualora si consideri che l’autonomia
statutaria trovava- prima della revisione costituzionale del 1999- un limite nella
legislazione statale in materia di organizzazione; che il significato giuridico delle materie
regionali è definito dall’evoluzione della legislazione vigente; che il trasferimento delle
competenze amministrative deve svolgersi nell'ambito dell'oggetto e dei criteri direttivi
fissati da apposite leggi di delegazione; che l'azione regionale è limitata dall'attività di
indirizzo e coordinamento dello Stato, titolare anche di un potere sostitutivo; che, infine,
era riservata allo Stato la determinazione dei criteri e delle modalità di attuazione delle
direttive comunitarie, anche se incidenti su materie di competenza concorrente delle
Regioni.
D’altra parte, la valorizzazione del ruolo della legge – id est del Parlamento – appariva in
piena sintonia con un diffuso orientamento favorevole ad enfatizzare la “centralità”
costituzionale delle assemblee parlamentari, giustificata dalla loro funzione di garanti
dell’interesse nazionale, in quanto primaria espressione della sovranità popolare. 29
Inoltre, non va sottovalutata la funzione omogeneizzante svolta dal sistema dei partiti
politici, che ha limitato le spinte alla differenziazione a vantaggio di soluzioni uniformi
sull’intero territorio regionale: conformemente all’idea , peraltro non nuova nella
formazione dello Stato italiano, che è preferibile decentrare in amministrazione ed
accentrare in politica. Le Regioni hanno operato, sin dalla loro istituzione, in un contesto
caratterizzato dalla presenza di forti partiti di massa, nazionali, centralizzati e finirono per
accettarne la logica, divenendo vittime acquiescenti di tale realtà.30
15 anni, Milano, 1988;
27
Come nel caso, ad esempio, dell’attività di indirizzo e di coordinamento , dei limiti alle attività di rilievo
internazionale da parte delle Regioni , del principio di leale collaborazione quale criterio base per impostare
le relazioni tra Stato e Regioni.
28
La giurisprudenza costituzionale in materia regionale ha contribuito, inoltre, a rendere meno
rigida la ripartizione delle competenze, introducendo nel sistema alcuni fattori di elasticità, specie per quanto
concerne i rapporti tra le fonti: non solo ha affidato all’evoluzione della legislazione il compito di
determinare il significato normativo delle materie regionali, ma ha anche consentito di ricavare i principi
delle materie che fungono da limite alla potestà legislativa regionale concorrente in via interpretativa sulla
base della legislazione statale vigente.
Inoltre, la Corte costituzionale ha ripetutamente affermato che la competenza delle Regioni in una
determinata materia non è astratta, ma diviene effettivamente rivendicabile soltanto nel momento in cui la
esercita concretamente: di conseguenza, per un verso, lo Stato ha potuto legiferare in materie di spettanza
regionale a fronte di un’inerzia da parte della Regione; per un altro verso, si è innovato profondamente il
sistema delle fonti affiancando – come si è visto in precedenza - ai tradizionali principi di gerarchia e di
competenza anche quello di suppletorietà e di cedevolezza.
29
Cfr., A.BARBERA, Regioni e interesse nazionale,Milano, 1973. ed altri.
Così: G.PASQUINO, Organizzazione dei partiti, in La regionalizzazione, Milano, 1983, 785 ss. Si veda
anche: AA.VV., Autonomia regionale e sistema dei partiti, Milano,1988;A.FEDELE, Autonomia regionale e
sistema dei partiti. Le forme politiche del regionalismo, Milano,1988.
30
10
Inoltre, la mancanza di effettivi partiti regionali – la stessa Lega nord, specie negli ultimi
anni, ha operato più come partito nazionale che regionale- ha reso meno incisiva l’attività
rivendicativa e di contrattazione delle Regioni; mentre le strategie dei partiti politici
nazionali hanno finito per riprodurre nelle comunità locali le problematiche nazionali
ovvero per utilizzarle quale terreno di sperimentazione o di anticipazione di soluzioni
istituzionali da adottare a livello statale. 31
4. La revisione costituzionale del Titolo V della Costituzione tra il “fascino”
dell'omogeneità e l'emergere di inaspettate spinte alla centralizzazione.
Non si possono trascurare le profonde novità intodotte dalle riforme costituzionale
del 1999 e del 2001, che hanno interessato tutti i profili dell’ordinamento regionale: dal
potenziamento dell’autonomia statutaria, alla modificazione dei criteri di ripartizione delle
competenze legislative; dalla forma di governo al sistema dei controlli; dai principi che
debbono presidere all’autonomia finanziara delle Regioni all’introduzione dei criteri di
sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza per conferire la titolarità delle competenze
amministrative.
Tuttavia, anche dopo la revisione costituzionale del titolo V non sono mancate,
nuove spinte a favore della omogeneizzazione, dell'unitarietà del sistema regionale italiano.
Con riferimento al primo elemento (omogeneizzazione) colpisce, in primo luogo,
l’utilizzo limitato ed uniforme dell’autonomia statutaria ai fini della determinazione della
propria forma di governo: la soluzione “transitoria” prevista dalla legge costituzionale n.1
del 1999 ha finito per divenire non soltanto permanente, ma anche generale: per un verso,
nessuna Regione ha deviato dai caratteri della forma di governo indicata nelle disposizioni
costituzionali, ritenendo politicamente improponibile la soluzione dell’elezione indiretta
del Presidente della Giunta. Per un altro verso, le integrazioni statutarie introdotte per
valorizzare il ruolo politico del Consiglio regionale, accrescendo le sue funzioni di
controllo e partecipazione alla determinazione dell’indirizzo politico, sono state
chiaramente mutuate dalle disposizioni del decreto legislativo n.267 del 2000 in materia di
forma di governo dei Comuni e delle Province. 32
In tal modo le Regioni hanno "autonomamente" optato per una forma di governo uniforme
e unitaria, in quanto accomuna tutti i livelli decentrati.
In secondo luogo, va segnalato l’appeal limitato (praticamente nullo) che ha esercitato la
previsione dell’art.116,3 della Costituzione,33 in base alla quale le singole Regioni
31
Come conferma – ad esempio- il dibattito politico sulla riforma delle forme di governo, ove la
modificazione della forma di governo locale introdotta dalla legge n. 81 del 93 servì da sperimentazione per
le teorie sulla “democrazia immediata” e per una razionalizzazione delle crisi di governo: così come
l’esperienza complessivamente positiva della forma di governo comunale e provinciale indusse a riprodurre i
medesimi meccanismi a livello regionale ed orientò il dibattito sulla modificazione della forma di governo
statale.
32
Si veda, a titolo di esempio: R.BIFULCO (cur.), Gli statuti di seconda generazione, Torino, 2006;
AA.VV., I nuovi statuti delle regioni ordinarie: problemi e prospettive, Bologna,2006; G.DI COSIMO (cur.),
Statuti atto II, Macerata, 2007.
Tale procedura — nonostante alcune dichiarazioni di intenti — non è ancora stataconcretamente
attivata, anche perché, subito dopo l'entrata in vigore della riforma costituzionale del Titolo V, la previsione
dell'art. 116, 3 c. Cost. è rimasta “congelata” dalla proposta di abrogazione di tale comma presente nel
progetto di riforma costituzionale approvato alla fine del 2005 (e mai entrata in vigore a causa della volontà
contraria manifestata dal corpo elettorale in sede di referendum confermativo ai sensi dell'art. 138 Cost.).
33
Così come non hanno trovato pratica soluzione alcuni dubbi procedurali che sorgono dalla generica
11
ordinarie, seguendo una specifica procedura, potrebbero acquisire maggiori competenze.
Tale possibilità — se percorsa con determinazione — avrebbe introdotto una significativa
innovazione nel modo di essere del regionalismo italiano: sia perché prefigura una
relazione interistituzionale di tipo pattizio e di natura settoriale - che si contrappone
all'attuale tradizionalmente improntata a relazioni multilaterali e paritarie -; sia perché
incrina una consolidata tendenza all'uniformità delle competenze, dando vita a sostanziali
processi di differenziazione in ordine alle competenze esercitabili.
Si sarebbe potuto inserire all'interno della tradizionale distinzione tra autonomia ordinaria e
speciale una realtà "intermedia", caratterizzata da forme di regionalismo asimmetrico.
Un terzo sintomo del perdurare di una spinta all’omogeneizzazione si rinviene in alcune
scelte compiute dal legislatore costituzionale nel corso del 2001: da un lato, la legge
costituzionale n. 2 del 2001, ha esteso alle Regioni speciali i medesimi caratteri della forma
di governo propria delle Regioni ordinarie (in particolare, l'elezione diretta del Presidente
della Giunta regionale); dall'altro lato, l'art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001 ha
previsto che le norme costituzionali relative alle Regioni ordinarie valgano anche per e
Regioni speciali, qualora prevedano forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già
attribuite. 34
In questo modo, facendo filtrare alcune caratteristiche proprie delle Regioni ordinarie
nell’ordinamento delle Regioni ad autonomia speciale, si è accentuato il processo di
osmosi tra i due tipi di autonomia.
Non va, infine, trascurato che l’attuale fase del regionalismo evidenzia un rafforzamento
del ruolo del legislatore statale, della sua capacità di coordinamento e di direzione, a causa
di due fattori concomitanti: da un lato, la crescente necessità di controllo della spesa
pubblica per fronteggiare la crisi economica e i vincoli derivanti dall’adesione all’Unione
europea; dall’altro lato, la particolare struttura linguistica di alcune materie riservate alla
legislazione dello Stato. Si tratta, in particolare, delle c.d. “materie trasversali” grazie alle
quali lo Stato può intervenire su oggetti rientranti nella gran parte delle materie riservate
alla competenza legislativa concorrente o residuale delle Regioni: tra queste acquisisce,
nell’attuale fase economica, una importanza preponderante la competenza dello Stato a
assicurarare la tutela della concorrenza, la perequazione delle risorse finanziarie (art.117
Cost.) e i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario (art.119
Cost.).
Siffatta espansione della legislazione statale è stata ripetutamente giustificata dalla
giurisprudenza della Corte costituzionale, che è apparsa particolarmente attenta a evitare
sia che nella fase di transizione dal vecchio al nuovo regime delle competenze si
determinasse una cesura nella continuità del sistema finanziario, sia che la capacità
formulazione del dettato costituzionale: non è precisato quale fonte sia competente ad individuare le modalità
da seguire per acquisire la volontà degli enti locali — se un parere del Consiglio ovvero un referendum
popolare locale —; così come ci si domanda se l'eventuale attribuzione di maggiori competenze sia
permanente ovvero possa essere revocata e, in caso affermativo, sulla base di quale procedura. Inoltre, sorge
l'interrogativo se la legge dello Stato possa prevedere una fase transitoria di tipo sperimentale, al termine
della quale decidere se attribuire a tempo indeterminato ulteriori competenze.
Nel primo caso ha suscitato perplessità la soluzione di approvare un'unica legge costituzionale per
tutte le Regioni speciali, che pare contraddire la ratio dell'art. 116 Cost. che ipotizzava l'esistenza di singole
leggi (non di singole disposizioni all'interno della medesima legge) per gli Statuti speciali; nel secondo caso,
la disposizione dell'art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001 è stata — invece — oggetto di critiche, in
quanto si intravedeva in essa il rischio per le Regioni speciali di omologarsi a quelle ordinarie.
34
12
autonoma di spesa delle Regioni e degli enti locali possa incrinare il “patto di stabilità
interno ” , finalizzato alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica che il paese ha
adottato con l’adesione al patto di stabilità e di crescita definito in sede di Unione europea.
Con riferimento al primo aspetto è stato affermato che il passaggio dal vecchio al nuovo
sistema delle competenze in materia di finanza pubblica codificato nell’art.119 Cost.
avvenisse in modo graduale e, comunque, successivamente alla definizione da parte dello
Stato dei principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario – il che
non è ancora avvenuto-. Secondo la Corte costituzionale l’attuazione del disegno
costituzionale delineato dall’art.119 Cost. richiede “come necessaria premessa l’intervento
del legislatore statale,il quale,al fine di coordinare l’insieme della finanza pubblica, dovrà
non solo fissare i principi cui i legislatori regionali dovranno attenersi,ma anche delineare
le grandi linee dell’intero sistema tributario e definire gli spazi e i limiti entro i quali potrà
esplicarsi la potestà impositiva ,rispettivamente, di Stato, Regioni ed enti locali ”. Nel
frattempo – sempre secondo la Corte - trova razionale giustificazione “la definizione di una
disciplina transitoria che consenta l’ordinato passaggio dall’attuale sistema,caratterizzato
dalla permanenza di una finanza regionale e locale ancora in non piccola parte
“derivata”,cioè dipendente dal bilancio statale, ad un nuovo sistema ”(sentenza 37/04).
Con riferimento, poi, al “patto di stabilità” è forte la preoccupazione di contemperare il
riconoscimento dell’autonomia fiscale e di spesa delle Regioni con la salvaguardia della
natura unitaria dello Stato. La necessità di rispettare i vincoli in ordine al disavanzo
pubblico derivanti dalla adesione dell’Italia all’ ordinamento comunitario abilita il
legislatore statale ad intervenire per assicurare l’unitarietà economica e finanziaria della
Repubblica: a tal fine, lo stesso è abilitato – secondo il giudice costituzionale - ad imporre
vincoli alle politiche di bilancio delle Regioni e degli enti locali (anche se questi ultimi,
indirettamente, incidono sull’autonomia regionale di spesa), a limitare l’autonomia di spesa
degli enti decentrati, a porre, in via transitoria, limiti complessivi alla crescita della spese
corrente (sentenze 36/04 e 353/04). il giudice costituzionale ritiene che lo Stato possa
legittimamente imporre alle Regioni vincoli alle politiche di bilancio –– per ragioni di
coordinamento finanziario volte a salvaguardare, proprio attraverso il contenimento della
spesa corrente, l’equilibrio della finanza pubblica complessiva.
Tuttavia, tale “incursione” del legislatore statale in un campo di competenza regionale
deve avvenire con modalità e secondo criteri che siano rispettosi dell’autonomia delle
Regione: cioè attraverso procedimenti di leale collaborazione. In particolare, i vincoli,le
limitazioni o i divieti debbono essere stabiliti attraverso la ricerca di un accordo con i
diversi livelli istituzionali interessati dalle limitazioni; debbono essere posti in via
legislativa e non attraverso misure di natura amministrativa; infine, debbono essere
introdotti secondo norme di principio piuttosto che di dettaglio.
Tuttavia, in attesa che si addivenga ad una intesa con il sistema delle autonomie
territoriali,lo Stato può introdurre unilateralmente dei limiti alle spese in funzione di
garanzia e di salvaguardia: essendo evidente che, in assenza di divieti temporanei nelle
more dell’accordo, le finalità perseguite (assicurare un controllo della spesa pubblica)
sarebbero frustrate (sentenza 390/04).
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