Capitolo primo 1. Nel 1910, a Camberra, dopo 10 anni, il 10 agosto

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Capitolo primo 1. Nel 1910, a Camberra, dopo 10 anni, il 10 agosto
Capitolo primo
1.
Nel 1910, a Camberra, dopo 10 anni, il 10 agosto cadde
nuovamente di domenica.
Camberra, la città più australiana d’Australia.
Piazza Wellington, il sagrato più sacro di Camberra:
preti che cavalcavano di lato come amazzoni, nobildonne
in abito da passeggio che trottavano dritte in piedi sulle
staffe ospitando uccellini sotto l’ombrello, e giudici in
parrucca che andavano a piedi impettiti come in groppa a
un purosangue, tra cortei di mocciosi sui marciapiedi che
s’allungavano a struzzo per vederli.
Nel 1910, il 10 agosto, sotto il ponte di piazza Wellington,
il fiume scongelato ricominciava la sua vita.
Ecco il giorno e il posto in cui sono nata: su un barcone con l’albero maestro che era un pioppo vero, ancorato sotto il ponte di piazza Wellington, con più fiume sotto la chiglia che cielo sopra la testa.
Hammurabi, era il nome del barcone.
Trisha Esperanto, il mio.
Entrambi, nati senza polena.
2.
La mia polena era il naso. O meglio, non era, perché
nacqui senza. E fu forse per questo, oppure perché avevo un padre che si guadagnava il pane recitando da don9
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na per le truppe e una madre malata come la neve di
marzo, che dallo Hammurabi non scesi fino ai sedici
anni. Cosí, fino a quel compleanno il mio nome non fu
mai pronunciato fuori dal barcone. E mio padre lo scrisse solo una volta, sulla carta da culo, per farmi vedere
quale dei tre era il mio pitale.
3.
L’occhio arancione di un piccione nel semibuio della
sottocoperta. E una famiglia di formiche che facevano
mucchietti sul tavolato. E un criceto che ammassava in
bocca una ricchezza che si contava in chicchi.
Questi i soli compagni dei miei primi cento mesi di
vita.
Poi venne una penna d’oca e il suo calamaio, infiocchettati in una scatola di compleanno, perché imparassi
a scrivere.
4.
Sapevo una sola lettera e la scrivevo dappertutto.
B.
Mentre dall’oblò spiavo il mondo sulla riva: pescivendole che profumavano di sirena, saltimbanchi che
mangiavano lamette e pescavano le carpe senz’amo
prendendole per la coda, maestri che discutevano se
c’era un’altra intelligenza oltre la mente e che un giorno
la terra sarà come la luna, botanici che ascoltavano con
lo stetoscopio se le piante respiravano e volevano scoprire perché le radici avanzano in orizzontale e perché le
querce vivono più di noi, e bracchi pezzati, infallibili
acchiappalucertole, che per indicare i gatti scodinzolavano zampe e coda insieme.
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E intanto io, facendo scodinzolare la mia penna
d’oca, scrivevo sull’impiantito una B per ogni volto che
vedevo. Perché B erano i buchi di ogni naso visti dal
basso del mio oblò.
5.
Mio padre, tutto lo stipendio alle prostitute, perché
mia madre era muta e dalla bocca le uscivano solo sputi,
e ogni notte gli fermava i baci dopo il secondo e le mani
sopra la sottoveste.
Mentre mia madre, la camicia coi bottoni uno diverso dall’altro, e i denti giallo pannocchia, e le lacrime
sulle gote come le perline d’acqua sulle zampe delle
mantidi, teneva il cappotto anche in casa perché sotto
aveva il maglione bucato. E ogni giovedí giocava il suo
peso alla lotteria: 102, senza vestiti.
Mio padre e mia madre, insomma: testa o croce,
Gesù o Ladrone, due facce di una medaglia che non si
guardarono mai negli occhi: lui andava a letto con gli
speroni, e le si addormentava tra le braccia come fosse
un passeggino, mentre lei gli spolverava il bavero della
giacca e gli allacciava i polsini prima di uscire.
Per tutta la vita furono d’accordo solo su due cose:
che le uova da covare devono sempre essere in numero
dispari, e che lo scopo della vita era peggiorare il mondo,
un posto alla volta, cominciando da qui.
6.
Nel buio del sottocoperta, coi mesi, imparai le altre
venti lettere dell’abecedario. Da sola. Spiando dall’oblò
le scritte sui pacchi di giornali gettati sui marciapiedi, e
le insegne dondolanti dei binari della stazione, e i cartelli della destinazione degli autobus annunciati dalla
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voce spirituale del controllore, e le iscrizioni sui carri
dei soldati ubriachi che sparavano ai lampioni facendo
la doccia sotto le grondaie.
Poi accadde l’imprevedibile.
7.
E l’imprevedibile, quando accadde, accadde il 4 febbraio 1921: nel mezzo della piazza, un imbonitore col
cappello cinto di banconote e un carretto traboccante di
libri prendeva in giro una lavandaia in latino, finché fissandola con le pupille a forma di cuoricino le propose di
seguirlo nel vicolo per spiegarle i nomi greci dei fiori.
Per chi la prendeva? Mi scusi pensavo che. A quelli come
lei dovrebbero mozzare la lingua e anche tutto il resto.
Un momento, si calmi, signorina. Aiuto, gendarmi!
Allora l’imbonitore prese a due mani le aste del carretto e attraversò la piazza di corsa, perdendo un libro ad
ogni curva, finché un enorme volume cadde proprio
accanto allo scafo dello Hammurabi: il Dizionario antologico di letteratura inglese, accortamente redatto dai
più luminosi anglofili di Britannia, alla onesta cifra di
tre dollari, un affare da non perdere, milords e miladies.
8.
Cosí vennero i mesi della lettura: imparai senza maestri, come fioriscono al buio i tulipani dei pianisti: alla
luce della sola musica.
Io e il dizionario: telescopio e microscopio insieme,
abbracciati e immobili come cerini che hanno paura
d’incendiarsi a vicenda, capre di montagna che non
accettano il tocco degli umani, inconsapevoli del Tempo
che nella clessidra prendeva il corpo di sabbia di vetro.
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9.
Ora, dovete sapere che mio padre aveva nel sangue
un quarto di ogni suo nonno, compresa la porzione di
quel suo avo professore divenuto preside del Liceo
Reale. E fu quella quota di erudizione sepolta nel suo
dodicesimo cromosoma ad accorgersi della mia fame di
lettere, e a ispirarlo, ogni lunedí per sei anni, a regalarmi un libro nuovo da leggere, e un tomo di carta per scrivere, e una fiala d’inchiostro di Londra, diluito con sangue di vacca per togliergli l’odore di seppia morta.
10.
Di come si sbuccia una mela a spirale
Di come alla prima goccia tutti gli avvocati aprivano
gli ombrelli ed era lo sbocciare di un campo di tulipani
neri.
Del ferragosto in cui per un cortocircuito si fulminarono tutte le lampadine della piazza e i netturbini fecero
luce con le luminarie di Natale.
Del fumo della lucertola arrostita che esalava dalla
presa della luce.
Di come si fa a guardare il rumore dell’acqua.
Del pretore Gonzales che non scendeva mai da
cavallo e tutti lo chiamavano il centauro.
Di quando il pascià d’Iran spedí in dono al re di
Inghilterra un elefante da tiro, e il suo passaggio in treno
faceva trattenere i bicchieri nelle osterie e i respiri negli
atelier.
Di tutto ciò che vedevo e sognavo, scrissi per sei
anni.
E mio padre ogni sera raccoglieva i miei fogli, perché nel suo sangue c’era un se stesso ottant’anni più giovane e più erudito che lo pilotava.
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DAL “MANUALE SHELLEY-SHWARZOFF DI STORIA
MILITARE”:
Nel 1926, durante la Guerra delle Alture Purpuree,
lo Stato Maggiore dell’Esercito australiano, dopo mesi
di indagini sul campo, constatò che sei battaglioni di
fanteria risultavano costantemente più combattivi nello
scontro diretto rispetto a tutti gli altri. A favorirli era
un’unica e poco marziale costante: i soldati che li componevano avevano tutti una fidanzata con cui corrispondere. Potenza bellica dell’amore.
Cosí lo Stato Maggiore decise di assoldare segretamente un manipolo di quaranta impiegate che intrattenessero corrispondenza con i soldati che non avevano
nessuna donna cui scrivere. E lo chiamarono la Sesta
Colonna. Ma, in privato, il bordello d’inchiostro.
12.
Tardoinverno, 1927.
12 di Febbraio. Tempo da cappotto. Oggi.
Due bambini in piazza si scambiano figurine accumulate in pacchetti con l’elastico, mentre due rondini si
affaccendano intorno alle travi della cattedrale.
Stamattina mio padre è stato licenziato dall’attaccabotonificio in cui cuciva asole: una sbagliata ogni dieci,
lo hanno incolpato.
“Tra subacquei ci si scambia il boccaglio del respiratore”, mi ha detto: “adesso raschia un po’ tu il fondale”.
E strappando con gli incisivi il filtro alla sigaretta mi ha
dato sette nomi di soldati cui scrivere, per incarico dello
Stato Maggiore.
E poiché Giovanni otto ventinove dice “il Padre mi
ama perché io faccio sempre le cose che gli sono gradite”,
gli obbedirò.
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Caro Samuel,
il mio nome è Trisha, tu non mi conosci, sono una
ragazza di Camberra, e per caso, la scorsa settimana, ho
sentito parlare di te, tanto bene che mi è venuta la curiosità di conoscerti, cosí ho deciso di scriverti...
Caro Peter (si legge Piter?),
mi chiamo Trisha, noi non ci conosciamo. Ieri mi è
capitato di vedere una tua foto sul Bollettino delle
Reclute, e cosí ho deciso di prendere carta e penna e...
Caro Pan,
il mio nome è Trisha. Un tempo frequentavamo la
stessa scuola, sicuramente non mi ricordi, ma io ho sempre avuto un debole per te...
...ti andrebbe di scriverci?...
Sessantaquattro buste ogni settimana, in partenza
dallo Hammurabi, con sessantaquattro destinazioni
diverse: buche di trincea invece che buchette della
posta, in riga come le collane di zzzz che sgorgano dalle
labbra di chi dorme russando.
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Cara Trisha,...
...non mi aspettavo davvero che una sconosciuta mi
chiedesse di scriverle...
...dalle mie parti, sai, fa fiori anche l’erba, mentre
qui, in questo accampamento di copertoni che bruciano
tra le tende, e di gatti stesi all’ombra delle jeep e cani
che aspettano sotto la pioggia, i cecchini premono il
grilletto dicendo “è soltanto lavoro”, mentre i torturato15
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ri si giustificano “credevo che gli piacesse”, e i bambini
chiamano “giardini” i cimiteri militari...
...solo due generi di persone conoscono la verità: i
vecchi, perché finalmente sanno che la morte esiste. E
noi innamorati, perché finalmente sappiamo che la
morte non esiste...
...tuo per sempre, Michael.
Cara Trisha,...
...ogni mattina il colonnello accende una sigaretta e
la lascia consumare nel portacenere senza fumarla come
quegli incensi da appartamento,...
...in questo accampamento di tubature rivestite d’isolante e di gabinetti senza finestra e con l’acqua mai
tirata, non abbiamo tempo per contare le munizioni e
perciò le pesiamo: un chilo sono mille proiettili...
...il mio teschio diventerà un giorno gioco per cani,
ma ho un filo di perle sotto la pelle della schiena, una
spina dorsale che nessuno riuscirà a spezzare,...
...con amore, il tuo fidanzato, Pan.
Cara Trisha,...
...nessuno mi ha mai insegnato a maneggiare le
bombe o a tenere la pistola con due mani, e cosí adesso
mi ritrovo con un braccio solo, io che facevo il batterista, e adesso ogni giorno scendo alla stazione del villaggio a guardare il tabellone dei treni per sapere quando non partirò, io che ho fatto tre testamenti diversi,
perché non si perisce veramente finché non si è dimenticati...
...le tue lettere sono per me la risalita dei salmoni, la
parola segreta per far muovere i muli, il filo tirato con
cui si traccia il confine delle fondamenta di una casa...
...con immortale amore, Arthur.
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DAL “MANUALE SHELLEY-SHWARZOFF DI STORIA
MILITARE”:
Ciò che lo Stato Maggiore dell’Esercito australiano
non considerò fu che, come tutte le guerre, un giorno
anche la Guerra delle Alture Purpuree sarebbe terminata, e allora tutti i soldati sarebbero tornati a casa: e
molti di loro sarebbero andati alla ricerca delle loro
adorate amanti di inchiostro.
– Ci sono almeno cinquanta soldati per ogni impiegata della Sesta Colonna, generale.
– Cinquanta contro uno: scontro impari – sentenziò
il generale Montgomery – riduceteli a uno per ciascuna.
– Ridurli, generale? E come facciamo? – domandò il
sergente Sylvèstre, suo futuro genero, con un sorriso
ebete da sordo.
Allora, il generale Montgomery, calcandosi il berretto in testa con una manata da imbottigliare lo spumante,
rispose:
– Beh, sergente, se non si possono ridurre i soldati,
dovremo moltiplicare le impiegate.
Gli uomini, si sa, hanno le loro esigenze, e i soldati
hanno delle esigenze al quadrato, e i soldati australiani
hanno delle esigenze al cubo. E fu proprio per provvedere alle cubitali esigenze dei propri militari che lo
Stato Maggiore dell’Esercito australiano decise di fondare la Settima Colonna.
Settima Colonna: era quello il nome di un plotone di
ottocento prostitute radunate su un convoglio di venti
vagoni che visitavano periodicamente gli attendamenti
delle prime linee, camuffandosi e barattandosi tra loro i
vestiti in un perenne scambio di maglie dopopartita,
affinché ogni volta sembrasse la prima, perché la gioia
del sesso sta nella novità, dicevano.
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Ora, Settima Colonna era il suo nome in codice, ma
il nomignolo che circolava tra le reclute era “il Treno
delle Puttane Vergini”.
– Si tratta semplicemente di falsificare i nomi delle
prostitute della Settima Colonna, sergente, dando a ciascuna quello di una delle impiegate della Sesta Colonna,
regalandogli cosí una nuova identità. E poi faremo salire sul loro treno i soldati che scrivevano alle ragazze
della Sesta Colonna, in modo tale che le scambino per le
loro innamorate: e a fare il resto ci penserà la natura.
Al che, il sergente Romeo Sylvèstre, tigre più docile
dei propri ruggiti, obbiettò al futuro suocero:
– Ma in questo modo, generale, su quel treno ci
saranno venti gruppi di quaranta prostitute che avranno
tutte lo stesso nome.
E il generale Montgomery, ruotando le orecchie
all’indietro come i vitelli quando scacciano le mosche,
rispose:
– E da quando i soldati s’ingelosiscono per un nome?
In realtà fu tutto molto più complesso di quanto sperava il generale Montgomery, perché ciascuna prostituta dovette leggersi tutte le lettere scritte e ricevute dall’impiegata di cui doveva assumere l’identità (fatica
colossale per donne che non avevano aperto un libro da
quando erano diventate abbastanza alte da vedere cosa
c’era sul tavolo e abbastanza coraggiose da vedere cosa
c’era sotto il letto, e abbastanza maliziose da scoprire
cosa si faceva sotto le lenzuola), ma infine ogni prostituta riuscí a imparare la propria parte. Si decise poi di
far salire sul treno anche le quaranta impiegate della
Sesta Colonna, con il compito di coordinare gli abboccamenti delle loro ottocento gemelle, e, dopo sedici settimane, infine il convoglio partí, con destinazione, con
destinazione...
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– Con quale destinazione, signor generale?
Il generale divenne cosí alto da fare due passi per
ognuno del sergente, quando rispose al futuro genero:
– Ma è ovvio, sergente: c’è un solo posto al mondo
in cui ottocento puttane sotto falso nome possono fare
innamorare ottocento reduci infatuati di altre donne.
Il sergente Romeo Sylvèstre sapeva per quale antica
colpa gli alberi sono condannati a dormire in piedi:
– D’accordo, generale: vada per Cangaroo Valley.
Il centro. Era questa la grande ossessione degli
australiani, nel 1800. Scoprire dove si trovasse. Ma
soprattutto, scoprire che cosa ci fosse nel cuore di quel
loro Continente Rosso ancora sconosciuto. Qualcuno lo
immaginò semplicemente arido e inospitale; altri invece pensarono che nel centro dell’Australia dovesse trovarsi un immenso lago, o addirittura un mare. E “il centro” divenne anche l’ossessione del generale J. M.
Montgomery, il primo esploratore della steppa australe,
che lo individuò nella cima arrotondata del Central
Mount Montgomery, cui umilmente diede il proprio
nome e che descrisse come “il cumulo di terra da riporto prodotto dalla sepoltura di Dio”. In realtà il centro
esatto dell’Australia era una enorme palude desertica
in cui da millenni le mandrie di canguri nomadi avevano stabilito il posto in cui andare a morire: la Cangaroo
Valley, appunto.
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