6. giuditta - Diocesi di Tortona

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6. giuditta - Diocesi di Tortona
Diocesi di Tortona
CORSO BIBLICO
— Anno pastorale 2013-2014 —
Figure bibliche di speranza e carità
Uomini e donne
che hanno camminato con il Signore
Temi di Teologia Biblica trattati da don Claudio Doglio
e trascritti dalla registrazione da Riccardo Becchi
6. GIUDITTA (1 Aprile 2014)
La donna che fece perdere la testa a un generale!
Giuditta: figura ideale dei chassidim
Ecco un’altra donna figura di speranza e di carità, una donna coraggiosa, una giovane vedova che ha fatto perdere la testa a
un generale, ma gliel’ha fatta perdere sul serio, nel senso che gliela ha tagliata: è sempre pericoloso, per gli uomini, fidarsi
delle proprie capacità di seduzione.
Introduzione al Libro di Giuditta
Protagonista di questo libro è una donna di coraggio che inerme, cioè senza armi, ha affrontato un nemico ferocissimo.
Stiamo parlando di Giuditta, protagonista di un libro biblico che prende il titolo dal suo nome.
È un testo deuteronomico, cioè considerato canonico solo nella tradizione dei giudei ellenisti di Alessandria d’Egitto,
inserito nel Canone Alessandrino è passato poi anche alla tradizione cristiana. Il testo originale è conservato solo in greco, è un
testo tardivo scritto in un momento di difficoltà del popolo di Israele e scritto proprio per aiutare i giudei osservanti ad
affrontare con coraggio le difficoltà.
Il testo è un romanzo, un romanzo storico nel senso che ha una impostazione di tipo storico; è però decisamente pieno di
elementi di fantasia. Non si tratta infatti del racconto di un fatto accaduto, ma è una immagine, una parabola elaborata in forma
storica. Il testo infatti è pieno, zeppo di affermazioni storicamente inconsistenti a partire dall’inizio dove si presenta il
personaggio cattivo per eccellenza, Oloferne, generale di Nabucodonosor re degli assiri.
Chi non è competente di storia prende questi tre nomi tranquillamente come un dato di fatto, ma basterebbe una piccola
conoscenza scolastica di questi nomi per accorgersi che non funziona per nulla.
Per avvicinarmi alla nostra storia più recente e un po’ meglio conosciuta, pensate se io vi raccontassi la storia del famoso
generale Bismarck che era un generale di Napoleone re degli inglesi. È chiaro di chi sto parlando? Come voi avete sorriso
mettendo insieme Bismarck e Napoleone e facendo Napoleone re degli inglesi, così sorridevano i primi lettori destinatari del
libro perché sapevano benissimo che Oloferne è il nome di un generale persiano, Nabucodonosor è un re babilonese e non
c’entra con gli assiri, è invece un nemico, è il vincitore degli assiri. Le alternative quindi sono sostanzialmente due: o l’autore
era un sciocco che ignorava la storia e faceva degli errori grossolani, oppure è il lettore che non capisce l’umorismo narrativo
di un autore antico che invece la storia la sapeva bene. Egli infatti faceva finta di sbagliarsi perché voleva creare il quadro di un
personaggio fantastico che però andasse bene per tutte le stagioni. In questo modo ha messo dentro assiri, babilonesi e persiani,
un po’ tutti i nemici, perché di fatto gli premevano i greci.
Dato che l’autore ce l’aveva con i greci, parla male di tutti gli altri, ma lasciando capire che dietro Oloferne, generale di
Nabucodonosor re degli assiri, si nasconde la prepotenza del colonialismo greco che occupa Gerusalemme, che contesta le
tradizioni religiose, che fa guerra a quei giudei fedeli che vogliono conservare le loro pratiche religiose. Viene messo in scena,
nella prima parte del libro, l’orgoglio prepotente dei grandi capi, i grandi condottieri, re, sovrani, che si credono padroni del
mondo e vogliono che tutti siano loro dipendenti. Il libro inizia infatti raccontando un furore di Nabucodonosor perché i popoli
della terra non hanno risposto a un suo appello, quindi decide di distruggerli tutti e organizza una campagna militare contro
tutto il mondo, da nord a sud, da est a ovest e tutti devono sottomettersi all’unico grande potente che viene riconosciuto come
l’unico Dio. L’obiettivo è che tutti i popoli adorino solo Nabucodonosor, tutte le lingue e le tribù lo acclamino come Dio. È la
pretesa del potere di farsi adorare. Il potere spesso e volentieri rischia di mettersi al posto di Dio, i potenti, prepotenti, si
credono Padreterno. In tutte le epoche della storia conosciamo personaggi più o meno grandi, più o meno famosi, che hanno
avuto queste pretese. Fanno però dei danni e molte persone cadono vittime di questi potenti prepotenti. Il Libro di Giuditta
racconta una storia di speranza, una storia in cui si narra come una persona debole e indifesa, una donna sola e inerme,
distrugge, blocca definitivamente la prepotenza di questi palloni gonfiati.
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Il nome Giuditta
Il nome Giuditta è un nome già significativo, perché è il femminile di Giuda. Ora, noi abbiamo in mente il nome di Giuda
Iscariota, l’apostolo che tradì Gesù e quindi nel nostro immaginario il nome Giuda è un nome negativo; nella tradizione biblica
è invece un nome altamente positivo. Fra i dodici figli di Giacobbe Giuda infatti è l’eletto, è l’erede della benedizione; dalla
tribù di Giuda nasce Davide che diventa re e il figlio di Davide, il Messia, appartiene alla tribù di Giuda. Gesù, Messia, è il
leone di Giuda, quindi un nome positivo di onore ed è legato al verbo che vuol dire lodare: Giuda pertanto è colui che è stato
lodato in mezzo ai suoi fratelli, è colui che merita l’elogio, il prescelto, il migliore. Il nome di Giuda passa a quelli della sua
tribù, i giudei. Anche in questo caso noi abbiamo una sfumatura negativa per questo termine; lo abbiamo ereditato
dall’evangelista Giovanni che effettivamente lo usa come una nota di demerito. Nel nostro linguaggio popolare i giudei sono i
colpevoli della passione, sono quelli che hanno sputato in faccia al Signore. Dimentichiamo queste sfumature negative e
cerchiamo di ricuperare il senso originale che invece è positivo. La regione intorno a Gerusalemme è la terra di Giuda, la
possiamo chiamare Giudea e il femminile di Giuda è Giuditta, quindi è il nome della nazione, è il nome del popolo. Una donna
che si chiama Giuditta è, in una storia, come la corrispondente di una donna che si chiamasse Italia o Itala in un racconto
risorgimentale. Una eroina della resistenza contro gli stranieri che si chiama Italia capite al volo che è una figura simbolica. La
signora Italia si è ribellata all’oppressione tedesca e ha avuto il coraggio di sconfiggere il generale nemico. Questa Italia di cui
si parla, lo capiamo al volo, è la nazione e il racconto è fatto da chi ritiene che la resistenza o il risorgimento sia stata una cosa
bella.
Analogamente, il personaggio di Giuditta è collettivo, è una figura femminile corporativa, cioè riassume in sé la nazione: è
la Giudea, è il popolo fedele della tribù di Giuda. Il popolo è pensato come una figura femminile perché nella tradizione biblica
il popolo di Israele è la sposa del Signore; è quindi logico pensare a una donna che impersonifichi la nazione stessa.
L’ambientazione “storica” del racconto
Prima di arrivare a questo personaggio femminile, che compare solo al capitolo 8 del Libro, dobbiamo inquadrare la vicenda
che è ambientata in una città di nome
Betulia. Anche la città è di fantasia, non esiste nessuna città di Betulia nella terra di Israele. Il nome è di nuovo scelto per un
significato teologico: betulāh è la “vergine”, “ya” è la forma sintetica per il nome proprio del Signore, abbreviazione di
Yahweh, quindi betul-ya è la vergine del Signore, è la figura della città santa, di una comunità devota, legata fedelmente al
Signore.
Si dice che la città di Betulia si trova all’imbocco di una stretta valle che porta a Gerusalemme ed è l’ultimo baluardo di
difesa della città capitale. Se si sconfigge Betulia cade anche Gerusalemme. Non esiste nella geografia reale nessuna valle così
stretta che porti a Gerusalemme; anche la geografia in questo libro è fantasiosa. La storia, la geografia, i nomi delle persone,
sono creati ad arte per creare un discorso didattico: è un racconto che vuole insegnare un messaggio; la verità del Libro non sta
nelle notizie storiche o geografiche, ma nella idea teologica di fondo. Nabucodonosor, dunque, decide una grande campagna
militare contro tutti i popoli, arriva nella regione del Canaan e tutti i piccoli regni intorno a Gerusalemme si spaventano,
cedono, vanno a leccare i piedi del grande imperatore e si prostrano umilmente adorandolo come Dio. La comunità di Giudea
non ci pensa affatto, non si vende al prepotente che vuole essere riconosciuto Dio, resiste. Il popolo di Betulia sceglie una linea
di resistenza, di opposizione. Avuta questa notizia il sovrano è furibondo e manda il più grande, il peggiore – nel senso di più
cattivo dei suoi generali – a fare la guerra contro la Giudea, per distruggere la regione e ammazzare tutti quei disgraziati. Dato
che la città che controlla l’insieme è proprio Betulia, Oloferne la cinge di assedio. L’assedio dura parecchio tempo, tolgono
tutte le riserve d’acqua e senza combattere la città è stremata dalla fame e dalla sete; chiusa in questo assedio sta per cedere.
All’interno dell’esercito di Oloferne, fra i vari capi dei popoli che si erano sottomessi al grande Nabucodonosor, viene
presentato un personaggio minore, ma molto importante: si chiama Achior, è il capo dell’esercito di Ammon, sono gli
ammoniti che abitavano nella Transgiordania.
Achior una figura positiva di “lontano”
Achior è un’altra figura simbolica, il suo nome significa fratello della luce. Achior è uno straniero rispetto agli ebrei, un
lontano, però timorato di Dio, sensibile alla tradizione del popolo e tiene un discorso teologico nel consiglio dei generali. Dice
ad Oloferne: “Questo popolo, il popolo di Israele, è una realtà strana, vengono dalla Mesopotamia, ma il loro Dio li ha fatti
venire fin nella terra di Canaan; sono stati in Egitto, sono stati trattati male, ma il loro Dio li ha salvati. Poi ha dato loro questa
terra, si sono comportati male e sono stati puniti: hanno perso la terra e sono andati prigionieri in esilio a Babilonia, ma poi
sono tornati. Adesso è un momento buono, si sono impegnati, sono molto religiosi e quindi sono protetti dal loro Dio”. Achior
sostiene che Israele, se è fedele, è invincibile e dice a Oloferne: “Guarda che non riuscirai a sconfiggere questo popolo; anche
se è piccolo, poco difeso e non ha esercito eppure è protetto da Dio. Non riuscirai a vincerli se loro sono fedeli. Solo se fossero
peccatori, abbandonati dalla protezione di Dio, potrebbero essere tue vittime”. Oloferne la prende male, ritiene questo discorso
un insulto perché lui, per definizione, si ritiene capace di fare tutto e – se ha deciso di distruggere quel popolo – sicuramente ci
riuscirà, niente lo potrà fermare; insulta quindi Achior e lo punisce. Gli dice: “Non ti ammazzo adesso, ti mando a Betulia, vai
a stare con loro e quando conquisterò la città e ammazzerò tutti gli altri, ammazzerò te anche con più soddisfazione, perché ti
dimostrerò che il tuo discorso è stupido e infondato. Capite che tutta questa trama è ideologica, serve per mettere in mostra
delle idee, dei modi di pensare, alcuni corretti, altri sbagliati. Achior è un personaggio positivo, è un estraneo rispetto a Israele,
però è sensibile alla sua storia e dimostra di credere che ci sia un fondamento alla loro vicenda. Di fatto Achior viene mandato
via e lasciato a Betulia. Viene trovato dalle guardie, gli chiedono come mai sia stato buttato fuori dall’esercito, racconta il
motivo e viene accolto nella città.
2
Giuditta rimprovera i capi religiosi
A questo punto la città, esasperata, sta morendo di fame, il popolo si riunisce presso i capi e supplica: arrendiamoci, non ce
la facciamo più, ormai non riusciremo a sopravvivere, non c’è più niente da fare, arrendiamoci. Ci faranno schiavi, ma per lo
meno potremmo sopravvivere.
I capi della città chiedono ancora un po’ di tempo e fanno al popolo questa promessa: “Se entro cinque giorni il Signore
non ci salva noi ci arrenderemo. Resistiamo ancora almeno cinque giorni”. Pregano e l’assemblea si scioglie con questo
impegno. A questo punto subentra il personaggio di Giuditta, entra in scena proprio in questo momento di massima crisi,
quando è imminente la resa.
Giuditta compare presentata come una giovane vedova a cui è morto il marito Manasse, è senza figli, è benestante e tuttavia
è rimasta nella casa del marito, senza più sposarsi e in atteggiamento penitenziale. È una donna che prega, digiuna e vive come
un sacrificio vivente, una offerta totale di sé: una donna spirituale. Ha sentito il discorso che hanno fatto i capi e li manda a
chiamare.
Li riceve in casa sua e li rimprovera. È una figura interessante: una donna, noi oggi diremmo una laica, che manda a
chiamare i capi politici e religiosi di Betulia e li rimprovera per il discorso che hanno fatto.
Sostanzialmente dice: “Come vi siete permessi di dare un ultimatum a Dio? Gli avete dato cinque giorni di tempo e se il
Signore ne volesse di più?
Gdt 8,12Chi siete voi dunque che avete tentato Dio in questo giorno e vi siete posti al di sopra di
lui in mezzo ai figli degli uomini? 13Certo, voi volete mettere alla prova il Signore onnipotente, ma
non comprenderete niente, né ora né mai. 14Se non siete capaci di scrutare il profondo del cuore
dell’uomo né di afferrare i pensieri della sua mente, come potrete scrutare il Signore, che ha fatto
tutte queste cose, e conoscere i suoi pensieri e comprendere i suoi disegni?
No, fratelli, non provocate l’ira del Signore, nostro Dio. 15non vorrà aiutarci in questi cinque giorni,
egli ha pieno potere di difenderci nei giorni che vuole o anche di farci distruggere dai nostri nemici.
16
E voi non pretendete di ipotecare i piani del Signore, nostro Dio, perché Dio non è come un uomo
a cui si possano fare minacce, né un figlio d’uomo su cui si possano esercitare pressioni. 17Perciò
attendiamo fiduciosi la salvezza che viene da lui, supplichiamolo che venga in nostro aiuto e
ascolterà il nostro grido, se a lui piacerà.
Sempre però senza dargli delle scadenze, senza dargli degli ordini.
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Per tutti questi motivi ringraziamo il Signore, nostro Dio, che ci mette alla prova, come ha già
fatto con i nostri padri.
Il crogiuolo della purificazione
In questo discorso Giuditta offre una interpretazione sulla sofferenza, sulla situazione difficile attraversata dal popolo e
spiega che è una prova che serve per far crescere, per purificare e migliorare.
26
Ricordatevi quanto il Signore ha fatto con Abramo, quali prove ha fatto passare a Isacco e quanto
è avvenuto a Giacobbe in Mesopotamia di Siria, quando pascolava le greggi di Làbano, suo zio
materno. 27Certo, come ha passato al crogiuolo costoro con il solo scopo di saggiare il loro cuore,
così ora non vuol fare vendetta di noi, ma è a scopo di correzione che il Signore castiga quelli che
gli stanno vicino».
Questa è una predica teologica: Giuditta sta facendo la predica ai capi, spiegando che hanno sbagliato la loro impostazione.
Il riferimento al crogiuolo richiama il procedimento della purificazione dei metalli, dei metalli preziosi: l’oro e l’argento
non vengono estratti puri, ma mescolati con altri metalli meno nobili, bisogna quindi separare e purificare.
Per avere questo procedimento bisogna portare il metallo impuro ad altissima temperatura, nel crogiuolo avvengono delle
scissioni. Ad esempio l’argento si stacca dal piombo, il piombo si fonde con lo zolfo, dà origine alla galena e l’argento esce
fuori puro. È un procedimento di purificazione: portato ad alta temperatura l’argento si separa dalle scorie e diventa puro. Lo
stesso avviene per l’oro. Quando l’oro è puro? Quando è solo oro, perché il rischio è che ci sia insieme all’oro qualche altro
metallo non prezioso. Come si separa allora lo scarto dall’oro? Sempre attraverso un procedimento ad altissima temperatura,
nel crogiuolo appunto, che è il contenitore del metallo fuso.
Gli autori biblici adoperano spesso questa metafora per parlare della sofferenza come una prova: è il crogiuolo che purifica,
elimina le scorie e rende la persona pura, in un certo senso pulita, in un altro senso totalmente dedicata al Signore, non mezzo e
mezzo, ma tutta del Signore. Le prove, le sofferenze, le difficoltà della vita possono contribuire a distaccarci dalle passioni
umane e attaccarci totalmente al Signore.
È una idea che sostiene anche l’autore del Libro della Sapienza in un testo che conosciamo bene perché è spesso adoperato
nella liturgia dei funerali: “Le anime dei giusti sono nelle mani di Dio, il Signore li ha provati e li ha trovati degni di sé, li ha
saggiati come oro nel crogiuolo, li ha graditi come un olocausto, un sacrificio totalmente bruciato. Per una breve pena
riceveranno grandi benefici”. Quella pena era infatti una strada di purificazione. Questa è l’idea teologica di fondo che il
personaggio di Giuditta e il suo Libro sostengono e lei si fa portavoce di una linea teologica valida, ma non passiva; non è una
teologia rassegnata.
Betulia, figura del piccolo resto fedele di Israele
Lei sostiene: “Dobbiamo aspettare con fiducia la salvezza di Dio”; nella sua testa però intende: “Dobbiamo darci da fare
perché Dio possa compiere la sua salvezza; non arrenderci, ma resistere e combattere”. Questo è il punto importante.
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La tentazione è la resa, l’adattamento al mondo; molto più coraggio richiede la scelta della opposizione, della contestazione
del mondo. L’impegno di andare contro corrente, di non pensare come pensa la massa, chiede coraggio. Il mondo ormai si è
allontanato, fanno tutti così e il piccolo gruppo che abita a Betulia decide di arrendersi: facciamo anche noi come fanno tutti gli
altri, adattiamoci, diventiamo servi, però per lo meno ci fanno vivere.
La teologia sostenuta da Giuditta – e attraverso di lei dall’autore che ha scritto il Libro – sostiene che invece è necessaria la
resistenza e il combattimento: la salvezza di Dio passa attraverso persone combattive, che non cedono, non si adeguano, ma
lottano per la fede.
Il Libro di Giuditta è stato scritto a metà del II secolo a.C. proprio quando a Gerusalemme c’era il problema della
persecuzione dei greci. Noi abbiamo studiato a scuola che i greci erano una grande civiltà e consideravano tutti quelli che non
erano greci dei barbari. Adesso vediamo questa storia dall’altra parte, perché il gruppo dei giudei che non accetta la mentalità
ellenista viene considerato barbaro, incivile.
I greci erano colonizzatori prepotenti, si consideravano civili, gli unici al mondo ad essere civili e portavano la civiltà agli
altri. Quelli che non accettavano la civiltà greca erano degli imbecilli, dovevano essere eliminati e così dal punto di vista delle
autorità greche quei giudei di Gerusalemme che non accettano la nuova mentalità greca sono dei barbari, degli incivili, degli
stupidi. Sono però un piccolo gruppo, perché la maggioranza di Israele si prostrò adorando la nuova mentalità. Se i tempi sono
cambiati e adesso tutti fanno così… noi andiamo dietro ai tempi e alla maggioranza.
Solo un piccolo gruppo resiste ancora, ecco la figura di Betulia, la città che sta al controllo di Gerusalemme: se cade Betulia
cade Gerusalemme. È quella piccola comunità delle persone convinte, contente di essere credenti e coraggiosamente
impegnate, l’ultimo baluardo per la salvezza della città santa; molte volte capita però che anche questi piccoli gruppi siano
tentati di cedere. Di fronte all’assedio, alla paura della fine, della distruzione, della insignificanza, la volontà di arrendersi e di
fare come tutti gli altri emerge.
Giuditta compare in questo momento critico e tragico, proprio nel punto di svolta. Chi ha scritto questo libro lo ha fatto per
proporre un manifesto della resistenza, una resistenza coraggiosa contro la mentalità del mondo e ha raccontato questa storia a
coloro che erano tentati di arrendersi e di adattarsi, invitandoli a un combattimento come aveva fatto l’antico Davide. Egli
infatti, prima di diventare re, da giovane pastorello mentre era andato semplicemente al campo a portare vettovaglie ai suoi
fratelli più grandi che facevano il servizio militare, sconfisse il gigante Golia. Un piccolo ragazzo, disarmato, abbatte quel
combattente greco; i filistei erano indo-europei, parenti degli achei o dei pelasgi che combattevano a Troia, che tentavano di
invadere l’oriente. La storia del piccolo Davide che sconfigge il grande soldato armato di tutto punto è servita da modello alla
storia di Giuditta. Qui abbiamo un’altra figura debole che sconfigge il forte; anziché un ragazzo contro un soldato enorme
abbiamo una donna contro un generale, enorme anche lui nella corporatura, ma soprattutto nella cattiveria. Oloferne è infatti
presentato come l’uomo più cattivo e perverso che ci sia.
Una coraggiosa strategia… tipicamente femminile
Giuditta, dopo aver fatto il discorso, passa all’azione. È una donna di speranza, è una teologa che spera nella salvezza di
Dio, ma non sta ferma in casa ad aspettare che la salvezza piova dal cielo, si dà da fare lei in prima persona, a proprio rischio,
mettendosi personalmente in gioco, in un gioco molto pericoloso. Non rivela il suo progetto, chiede preghiera, digiuno,
partecipazione di tutto il popolo.
Si toglie gli abiti vedovili, si lava i capelli, si pettina bene, mette i vestiti più belli, il trucco, tutti i gioielli che aveva in casa
e che da anni non indossava più: il suo aspetto è nuovamente quello di una persona bellissima. A Betulia quasi non la
riconoscono, erano abituati a vederla vestita umilmente di scuro come vedova, adesso appare come una signora trionfante.
Esce di casa e poi dalla porta della città con una domestica, portandosi una sporta con le vettovaglie, cibi puri da consumare
durante i giorni della sua missione. Entra nell’accampamento, soldati restano meravigliati incontrando questa donna, sono
subito affascinati dalla sua bellezza e le chiedono che cosa ci faccia una donna così bella, così ben vestita in mezzo a un campo
militare. Lei racconta di essere fuggita dalla città e di chiedere ospitalità al generale Oloferne perché sa che ormai la sorte di
Betulia è segnata e non c’è più niente da fare. In forza della bellezza viene apprezzata, presa sul serio e condotta alla tenda del
generale. Nell’esercito si sparge subito la voce, tutti quei soldati curiosi fanno ala per vedere questa donna che è venuta a
trovare il grande generale. Anche lui, affascinato dalla bellezza femminile, la ascolta e ne rimane sedotto. Lei racconta di
nuovo di essere uscita dalla città ormai condannata e si propone di aiutare il generale a prendere la città in un momento in cui
sicuramente gli assediati sono deboli. Lei sa che stanno peccando e quindi se peccano sono deboli e vulnerabili. Giuditta
chiede semplicemente di essere ospitata, si è portata anche da mangiare e vuole solo uscire di notte per un momento di
preghiera come è abituata a fare. Il fascino femminile le ottiene credito, il generale la accoglie e si fida di lei. La alloggia nella
tenda dove tiene gli argenti, si preoccupa solo del fatto che, quando non avrà più cibo, dove si potrà procurarle il cibo puro?
Lei risponde: “Tranquillo, non finirò il cibo che mi sono portata prima di compiere la grande opera che il Signore mi ha
mandato a compiere”. Lei ha ben chiaro che cosa vuole fare, ma lui fraintende, naturalmente capisce in tutt’altro modo. Passato
il terzo giorno Oloferne dice al sovrintendente Bagoa: “Beh!, adesso sono già passati tre giorni, una donna così bella nel mio
accampamento senza che io goda della sua compagnia non sta bene, che figura ci faccio? Se quella torna a casa senza che io
l’abbia conquistata si prenderà gioco di me”. Oloferne dà quindi ordine a Bagoa di organizzare un festino, una cena con un
grande menù, alcuni invitati scelti e soprattutto questa signora. Bagoa va a fare l’invito a Giuditta e lei, molto condiscendente,
accetta, dice di farlo volentieri e si proclama disponibile a fare tutto quello che il signor generale vorrà da lei. È un’offerta che
sembra chiarissima, Oloferne gongola perché si considera un gran seduttore; in fondo la posizione gli dà una autorevolezza, si
è montato la testa, è già un tracotante e prepotente, quindi anche molto superbo e vanitoso, per cui cade nella trappola
facilmente.
L’occasione per Oloferne è ghiotta e in quella cena programmata, pregustando un gran finale – che effettivamente… ci sarà
– lui, euforico, beve, beve molto più del dovuto, beve molto più vino di quello che in un giorno solo non aveva mai bevuto e
alla fine della serata è ubriaco fradicio. Quando Bagoa, secondo gli ordini, manda via tutti e lascia nella tenda solo Oloferne
con la bella signora, il generale è completamente ubriaco, dorme profondamente e lei, senza aver portato alcuna arma, prende
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la spada appesa al letto e con un colpo netto gli stacca la testa dal collo, la avvolge nelle cortine del letto, la mette nella borsa
nella quale aveva portato il suo cibo e consegna la borsa alla domestica.
Naturalmente nessuno osa entrare nella tenda per non disturbare il generale in una situazione del genere, non avrebbero
infatti assolutamente il coraggio di affrontare le sue ire. Quando poi quella signora esce, come faceva tutte le altre sere per
andare a pregare, nessuno le dice niente perché aveva il permesso di Oloferne. La domestica con la borsa che ormai ha
cambiato contenuto le va dietro, i soldati non sospettano nulla, le lasciano passare, le due donne ritornano a Betulia e nella
notte annunciano la bella notizia: il nemico è vinto. A prova del fatto tirano fuori dalla borsa la testa del generale. È una
immagine che a noi crea un po’ di raccapriccio, è una scena cruenta, violenta, ma gli antichi erano molto più propensi a uso di
questo linguaggio di quanto non lo siamo noi. La scena è simile a quella di Davide che ha tagliato la testa a Golia, utilizzando
anche in questo caso la spada stessa di Golia.
La vittoria del debole che si fida del Signore
È una immagine simbolica della vittoria del debole sul forte, della persona credente sulla persona prepotente. Noi usiamo
un proverbio del tipo “Tagliar la testa al toro”, come dire: risolvere il problema. Ecco, la storia ci mostra come Giuditta ha
tagliato la testa al prepotente, cioè ha risolto definitivamente il problema, ci ha dato un taglio con il coraggio della coerenza e
della resistenza.
Il lettore intelligente non si pone le domande di tipo morale: “Ma Giuditta ha raccontato delle bugie e poi ha usato
violenza”. Il racconto ha una dimensione simbolica, quasi da favola; non ti dice come concretamente si vince la guerra, ti dice
che bisogna tagliare la testa al nemico, ma non nel senso che il nemico sia un uomo in carne ossa, è invece una mentalità.
Tagliare la testa vuol dire combattere una mentalità ritenuta distorta e sbagliata, è un togliere un modo di pensare che sembra
tanto forte, ma di fatto è sciocco, inconsistente e nel momento decisivo impotente; è invece la donna, sola, debole, disarmata,
ma confidente nel Signore, che ha la meglio sul grande nemico strutturato e orgoglioso.
Quando Giuditta racconta quel che è successo il popolo la acclama e il capo della città le disse:
13,18«Benedetta sei tu, figlia, davanti al Dio altissimo, benedetta tu più di tutte le donne che
vivono sulla terra, e benedetto il Signore Dio che ha creato il cielo e la terra e ti ha guidato a
troncare la testa del capo dei nostri nemici. 19Davvero il coraggio che ti ha sostenuto non sarà
dimenticato dagli uomini, che ricorderanno per sempre la potenza di Dio. 20Dio conceda esito felice
a questa impresa a tua perenne esaltazione, ricolmandoti di beni, in riconoscimento della prontezza
con cui hai esposto la vita di fronte all’umiliazione della nostra stirpe, hai sollevato il nostro
abbattimento comportandoti rettamente davanti al nostro Dio». E tutto il popolo esclamò: «Amen!
Amen!».
È un grande elogio, una benedizione che viene data a questa donna, ma avete colto subito, dall’inizio di questa preghiera, un
riferimento importante nel Nuovo Testamento. “Benedetta tu più di tutte le donne” è una frase che noi usiamo abitualmente,
ma non la diciamo di Giuditta, la diciamo di Maria.
Quando Elisabetta saluta così Maria, adopera una espressione biblica. “Benedetta colei che ha creduto, benedetta tu fra le
donne” è un modo per dire che Maria è come Giuditta. C’è una differenza, Giuditta è una figura letteraria, Maria è una donna
reale, in carne e ossa, è lei la donna debole, sola, inerme, che ha tagliato la testa al nemico. Capite cosa vuol dire? Maria non
ha ammazzato nessun generale, ma ha sconfitto definitivamente il nemico. Perché? Perché ha creduto, perché si è fidata: lei
realizza quell’ideale teorizzato dal Libro di Giuditta. Questo Libro dell’Antico Testamento sostiene l’idea del debole che
sconfigge il forte, nel Nuovo Testamento si realizza di fatto questa realtà. Maria e Gesù sono persone storiche che, da deboli,
vincono, uccidono il grande avversario, sconfiggono il nemico dell’umanità e liberano Betulia, la città di Dio.
Il felice epilogo della storia
Istruiti da Giuditta, gli abitanti fingono una sortita, gli assedianti si spaventano, vanno a cercare il generale, lo trovano che
ha perso la testa per quella donna, si spaventano, si confondono, si danno alla fuga… è un gran parapiglia e tutto finisce nel
disonore collettivo. A Betulia liberata fanno una grande festa di celebrazione.
Achior viene riconosciuto come il saggio e lo accolgono nel popolo di Israele, diventa il modello del proselita, dello
straniero che diventa ebreo accettando di inserirsi nella tradizione del popolo. Nel finale del Libro ancora rivolgono a Giuditta
alcune parole, splendide formule poetiche che la nostra liturgia ha adoperato sempre in lode della Beata Vergine Maria. Dicono
a lei:
15,9«Tu sei la gloria di Gerusalemme, tu magnifico vanto d’Israele, tu splendido onore della nostra
gente. 10Tutto questo hai compiuto con la tua mano, egregie cose hai operato per Israele: di esse
Dio si è compiaciuto. Sii per sempre benedetta dal Signore onnipotente». Tutto il popolo soggiunse:
«Amen!».
Noi cantiamo in lode di Maria: Tota pulchra es – “Sei tutta bella, Maria”: “Tu laetitia Israel, tu gloria Hierusalem, tu
honorificentia populi nostri”. Sono le parole con cui viene lodata Giuditta, figura della nazione santa, figura delle persone che
si fidano di Dio, che – confidando nel Signore – rischiano la propria vita. Giuditta non ama se stessa, è disposta a perdersi, ha
corso un rischio notevole, ma proprio perché fu disposta a perdere la propria vita l’ha salvata e ha salvato tutta la sua nazione.
Chi ha scritto questo libro voleva incoraggiare i fedeli del suo tempo a resistere, a non adattarsi, a non inginocchiarsi davanti
alle mode correnti, a rischiare anche la vita e non lo ha insegnato solo a quelli del suo tempo, ma anche a noi che viviamo
millenni dopo.
La storia infatti è sempre quella, anche a noi viene rivolta una parola di speranza, di incoraggiamento, di resistenza ed è il
mistero pasquale che stiamo celebrando, che ci rinnova ogni anno in questa fede, in questa speranza. Il debole ha vinto,
l’Agnello ha redento il gregge, l’Innocente ha riconciliato noi peccatori con il Padre, il Cristo, morto e risorto, ha tagliato la
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testa del nemico, ha sconfitto l’orgoglioso avversario e noi vogliamo essere discepoli dell’Agnello immolato, unico vero
vincitore.
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