3° Lezione in laboratorio Costruire un dialogo con il
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3° Lezione in laboratorio Costruire un dialogo con il
3° Lezione in laboratorio Costruire un dialogo con il compagno accanto, una battuta per ciascuno, che sia una discussione, massimo 15 battute A casa rivedere singolarmente i dialoghi scritti in Laboratorio: gestire il dialogo attraverso una narrazione, in terza persona, scegliendo anche il punto di vista di uno dei personaggi. 1)DIALOGO DI LUCIA COSCI FRANCESCO BURRONI ELISABETTA CASAGLI Dialogo a tre <<T’ avevo chiesto di comprarlo>> Disse Luca sbattendo la mano sul tavolo. <<Te l’ho già detto, non c’era la tua taglia, ti rendi conto o no che non sei un uomo normale? >> Ribatté Elena. <<L’hai voluto sposare te, lo chiamavano il Boss, all’università!>> Intervenne Nilde <<E a te ti sembra d’esse’ normale, sempre con codesta rompipalle della tua amica appiccicata?>> <<Non ti caco nemmenooo!>> <<Nilde non sta appiccicata, Nilde viene da noi perché insieme stiamo scrivendo un romanzo>> <<Un ro-manzo? Magari! Sono due sere che si va avanti a sofficini>> <<Ah eccolo il marchese senza la pasta al forno della mamma… prova ad aprire quella scatola che si chiama frigorifero e vedi se riesci a non slogarti il polso e scongela’ quello che ti pare… io torno a fa’ le mie>> <<Se devo continuare a sentire il vostro scazzo vo a mangiare una pizza con la mi’ sorella e ci si vede domani>> E Nilde cominciò a raccogliere tutte le sue cose sparse intorno. <<Lascia sta la mi mamma! Scrivete scrivete, scrivete bene e vediamo se ci si fa i soldi col vostro librino.>> Disse Luca avviandosi verso la porta che Elena aprì con ironica eleganza << Prego principino si accomodi, l’aspettano al castello dei Mc Donald>> Richiusa la porta Nilde con gesti amorosi si rivolse a Elena <<Vo via anch’io ormai quello stronzo ci ha sciupato la serata, ciao tesoro>> REVISIONE LUCIA COSCI esercizio terza persona Si era trovata di nuovo in mezzo a quei due che non sapevano più stare insieme, pensava Nilde mentre radunava le sue cose. Meglio così. Se da una parte era divertente scrivere il romanzo con Elena, in mezzo a ricordi e risate della loro gioventù, dall’altra grazie a quel bisticcio, la serata avrebbe potuto svoltare. E quando vide Luca avvicinarsi alla porta per andarsene, una musica le risuonò dentro. Così con uno sbadiglio salutò Elena. Poi, scese in volata le scale e si diresse alla macchina, quasi di corsa. Il cellulare intanto vibrava nella borsa. Una volta in auto strizzò il reggiseno all’ultimo gancio, passò il rossetto che teneva nel vano portaoggetti, accese una sigaretta e la radio, partì cantando. Luca l’avrebbe aspettata nel parcheggio dell’Esselunga. Di nuovo un bip del cellulare. Ma non era lui questa volta. “Pensa al quarto capitolo. Sono certa pubblichiamo. Siamo troppo forti”. Si sentiva una stronza? Forse. Ma chissenefrega. Chi pensava a Nilde quando la sera loro rientravano a casa, accendevano la tv e chiudevano la porta? Quando di domenica in estate decidevano di andare al mare alle undici, coi tramezzini e le birre ghiacciate? E poi Elena appena lo sopportava Luca, lui nemmeno quello, stavano insieme giusto per il mutuo della casa e per il figlio. Luca può sembrare un po’ grossolano, d’altra parte non ha studiato. Il lavoro è quello che è, tutto il giorno a sentire parlare romeno e albanese. Nilde ha imparato che non si fanno certe domande agli uomini, ha letto “gli uomini vengono da Marte e le donne da Venere”. Ma lei lo sa, perché lo sente, che Luca in fondo al cuore ci tiene a lei. Se non fosse per quel figlio. Parcheggiò accanto alla Golf nera, Luca era già là, una nuvola di fumo usciva dal suo finestrino. Tutto era iniziato grazie ad una sigaretta… Si diresse verso la sua macchina, con un sorriso tondo. Faceva finta di nulla, ma lo vedeva ogni volta spruzzarsi il profumo prima che lei salisse. Anche questo era in fondo un gesto d’amore. Lucia Cosci esercizio prima persona Le avevo chiesto di prendermi il maglione, ma non è per quello che mi sono incazzato. E nemmeno per Nilde, povera Nilde, per quella merda di romanzo o per i sofficini. Mi sono incazzato perché lei sa sempre tutto. Perché deve sempre mettere la parola fine. Perché si è laureata. Perché mi deve schiacciare, mi deve far sentire uno stronzo, un ciccione. Mentre lei è snella, fa yoga della risata, meditazione e non si colora i capelli per non inquinare le falde acquifere, scrive e legge, legge e scrive e va al corso di poesia e che altre minchiate manco so io. Nilde con quell’ occhi molli l’ho già capita. Non c’è nemmeno bisogno che gli mando un sms. Esco di qui esce anche lei, ci scommetto. Povera Nilde. L’ho fatta anche ricominciare a fumare, che ridere se ci ripenso. Era il trentesimo compleanno di Elena, c’erano tutte le sue amiche. Avrei messo volentieri le zampe addosso all’insegnante di yoga. Sentivo odore di zolfo quando mi guardava. Le conosco queste santerelle tutte pace e amore. All’epoca c’avevo ancora un bell’assortimento di pettorali e bicipiti. Praticamente era già fatta. Se non mi si fossero appannate le lenti a contatto per il caldo e avessi invitato Nilde fuori a fumare al posto suo. L’insegnate partì per l’India il giorno dopo, mai più rivista. Invece Nilde mi s’attaccò come un polpo allo scoglio. Però che pompino Nilde, in giardino, col buio e la voce delle altre di sopra. Meriterebbe un premio per come lo succhia. Meglio di tutte le puttane della tangenziale est messe insieme. Eccola con la sua minigonna raso culo. Povera Nilde, gli puzza sempre il fiato. Via, prima che salga spruzzo il profumo così si sente meno. Lucia Cosci REVISIONE DI FRANCESCO BURRONI Versione senza dialoghi 5XL Neanche quella volta Luca era voluto andare in giro per saldi. Eppure sapeva bene che per Elena quella era una delle poche occasioni che le rendevano felice lo shopping: la domenica a Porta Portese e a fine stagione i saldi nei negozi di moda del centro. Ma lui niente! Anzi anche quella volta con discreta sfacciataggine non solo le aveva annunciato la sua non partecipazione alla maratona del risparmio, ma le aveva chiesto di fare un salto da Pitran, il negozio di taglie forti, l’unico che avesse i vestiti della sua taglia, l’unico che potesse degnamente vestire quello che lei si ostinava a chiamare “il mio maritino”, un gigante che superava abbondantemente i due metri di altezza e il quintale di peso. E anche quella volta Elena, con rassegnata obbedienza o forse con rassegnato amore, dopo aver svaligiato tutti i negozi intorno a Santa Maria Maggiore, via Cavour e stazione Termini, entrò da Pitran, ma il maglioncino di cachemire taglia 5XL a saldo quella volta non c’era, o meglio era rimasto solo un inguardabile collo alto color fuxia che il commesso, con voce e movenze decisamente femminine le voleva affibbiare a ogni costo vantando una non gradita conoscenza dei gusti del marito. Ovviamente non se ne fece di nulla nonostante le insistenze del commesso che aveva fatto scendere lo sconto dal 30 al 50 e poi al 70 %. Immancabile come un temporale di fine Agosto la scenata che ne seguì al suo rientro, con lui ad accusare lei di non aver cercato bene tra i 4 negozi di Pitran disseminati fino agli estremi del raccordo anulare e lei a spiegare ogni volta la specificità di lui che, conosciuto in terza liceo con una tripla XXX, un po’ robusto ma apprezzabile, aveva poi aggiunto una X ogni 5 anni di matrimonio divenendo ormai più che robusto decisamente ingombrante. Anche Nilde, storica amica del cuore che era stata compagna di viaggio tra i saldi di fine stagione, si era inserita nella discussione sbandierando ancora una volta le non esaltanti virtù del maritino, intuite a suo dire già quando tutti e tre frequentavano la terza B del liceo Mamiani. Elena e Nilde lavoravano da mesi alla stesura di un romanzo che forse non sarebbe mai stato pubblicato ma che per loro era la cosa più importante dell’universo. La loro collaborazione era iniziata già da allora in quella terza B, compagne di banco si passavano con solidarietà i compiti: Nilde quelli di matematica e Elena quelli di greco e latino, ma tutte e due andavano benissimo in italiano e l’idea di scrivere insieme un romanzo era nata lì, una storia d’amore che sbocciava quasi per caso tra due adolescenti in una pizzeria a taglio dei Parioli con un titolo volutamente a doppio senso “Margherita”. Poi Elena si era innamorata dello spilungone e andava a seguirlo in tutti campetti di basket del Lazio così che il tempo per buttare giù la loro storia non arrivava mai. E dire che prima di Elena era stata la Nilde a essere corteggiata dal colosso e a nutrire per lui più di una speranza. Elena e Nilde non si parlarono per tutta la quarta B e buona parte della quinta riprendendo i rapporti solo all’esame di maturità quando Elena passò a Nilde l’impossibile traduzione di greco. Ora però, dopo dieci anni e un matrimonio, messi da parte i bollori e i rancori giovanili, non le avrebbe fermate nessuno, il loro romanzo avrebbe visto la fine anche a costo di far saltare un matrimonio, cosa che a Nilde, forse per un ancora non rimarginata ferita, non sarebbe dispiaciuto affatto. Stanco della discussione Luca aprì con uno scatto il frigo deciso a calmare la propria rabbia con un cibo qualsiasi, fosse anche una scatoletta di tonno avviata o i resti di quello fu un etto di prosciutto cotto. Ma il frigo, come a voler sottolineare la sua gelida indifferenza di fronte alle questioni di cuore degli umani, mostrò il nulla che aveva dentro di sé, quello stesso nulla che veniva fuori nella mente di Luca quando cominciava a riflettere sul perché aveva sposato, e da dieci anni conviveva, con una donna che non capiva, non apprezzava ma soprattutto non amava più o forse non aveva mai amato. Quanto sarebbe stato meglio se avesse continuato a fare la corte a Nilde, ma ormai la frittata era fatta. Così anche quella volta la commedia si ripeteva uguale: lui che sbatte la porta in cerca di cibo nella pizzeria a taglio sotto casa e lei che fa il solito ritratto del principe sul pisello orfano della Regina Madre che le preparava i piatti vegani. Quella volta però anche Nilde, che in genere dopo le abituali sfuriate casalinghe si rimetteva al computer con Elena, decise di andarsene, disgustata da quel tran tran che si ripeteva uguale da anni. Il romanzo poteva aspettare come stava aspettando ormai da dieci anni, quella sera le era proprio passata la voglia. Sconsolata scese le scale e si avviò alla fermata della metro. Anche lei non aveva mangiato e quando passò davanti alla pizzeria a taglio pensò che forse un quadratino di margherita con la mozzarella di bufala non ci sarebbe stato male. Luca era ancora lì, con davanti i resti della pizza e una birra gigante a meditare guardandosi allo specchio per cercare di capire chi fosse e cosa volesse fare della sua vita. Era la stessa scena di molti anni fa, quando erano in seconda B al Liceo Mamiani, anche quella volta i due, che già si piacevano, si erano incontrati per caso in una pizzeria a taglio, anche quella volta lei aveva ordinato una margherita con la bufala, anche quella volta i due si erano guardati a lungo negli occhi, poi, mentre la margherita con la mozzarella di bufala si raffreddava inesorabilmente, era partito un lungo e tenero bacio. Come un film messo in PAUSE per 15 anni ora la scena ripartiva da lì… la margherita con la bufala si stava raffreddando… i due si guardavano intensamente negli occhi… PLAY! Francesco Burroni REVISIONE DI ELISABETTA CASAGLI 3° persona al passato punto di vista di lui Rientro a casa Era la solita storia perlomeno tre volte alla settimana: Elena era in casa a scrivere con Nilde il romanzo che portavano avanti da anni e a Luca questa situazione di indifferenza nei suoi confronti con la manifesta complicità delle due cominciava a pesare, per cui ogni minima disattenzione degenerava in motivo di litigio: questa volta era il maglione che Elena si era dimenticata di comprare da tre giorni. Era ovvio che Nilde diventata appendice della famiglia intervenisse nei loro scambi amorevoli di coppia e sempre contro di lui, per cui era scontato che l’incontro finisse con l’espulsione dell’unico giocatore in minoranza, con tanto di accompagnamento ironico da parte della moglie incitata dal tifo dell’amica. In compenso la sua uscita dal campo coincise con la fine della partita, era riuscito almeno a disturbare il gioco: zero a zero. Elisabetta Casagli 3° persona al passato punto di vista di Nilde. Riprendiamoci la vita Appena una donna trova la sua strada di realizzazione c’è sempre la gelosia del suo compagno o meglio, l’invidia e la paura di perdere il ruolo di maschio superiore, a contrastarla. Nilde non riusciva a passare una serata con Elena a scrivere , come definirlo, romanzo sarebbe troppo limitato:” Il manifesto della realizzata autonomia delle donne”, senza che quel cazzo moscio di Luca non piagnucolasse per la cena! Ogni scusa era buona per rinfacciare ancora nel terzo millennio le mancate incombenze casalinghe alla compagna! Anche lei aveva avuto una relazione del genere che era finita per una sua presa di coscienza che l’aveva incamminata in questo percorso di autoaffermazione in un mondo al maschile combattendo per la coraggiosa rivendicazione del femminile; mettere che la visione maschile tramanda… in realtà, lui l’aveva lasciata perché era una rompicoglioni, bruttina, vestita male, senza un euro e più piagnucolosa e sdolcinata di una damina dell’ottocento; e lei c’era stata così male che aveva pensato anche al suicidio. <<Se devo continuare a sentire il vostro scazzo vo a mangia’ una pizza con la mi’ sorella e ci si vede domani>> Come tipico dei maschi che sanno argomentare le loro posizioni come un pesce rosso dentro la palla di vetro, Luca aveva già preso il giacchetto per abbandonare la discussione; Elena affermando la sua supremazia di donna non ricattabile dalla paura di rimanere sola gli spalancò la porta facilitando la sua fuoriuscita. Nilde la guardò, ogni parte del suo corpo era una tensione di muscoli: le gambe ben piazzate, il busto leggermente piegato in un inchino, il braccio che afferrava la maniglia in maniera decisa e l’altro aperto e steso a mimare l’invito, mostravano tutti i muscoli disegnati come solo nei corpi e nelle braccia femminili giovanili si può ammirare, e la sua faccia con quei capelli biondi riccioluti e spettinati per l’agitazione e la ribellione innata e manifesta nella natura di ogni sua cellula, la rendevano bella, forte, decisa e ammirevole. <<Vo via anch’io ormai quello stronzo ci ha sciupato la serata, ciao tesoro>>. Deve rimanere Elisabetta Casagli 1° persona da parte di lui, al presente La partita del mercoledì Il mio nome è Luca e mi sono rotto i coglioni di mia moglie. Anche stasera dalle voci che ridacchiano e filtrano dalla porta mentre infilo la chiave è chiaro che c’è Nilde con Elena e che si divertono come sempre a scrivere quel romanzo di merda che è cinque anni che portano avanti. Per cui ora fo scoppiare un casino almeno mi sfogo, è sottointeso che per cena sarà grassa se trovo la scatola dei sofficini sopra il tavolo. La scusa ce l’ho è il maglione che da una settimana Elena mi deve cambiare, ovvio non l’ ha fatto e io ora mi incazzo e glielo rinfaccio. Debole difesa con insulto da parte di lei e per farsi vedere dall’amica, ironia sui ruoli di maschio e femmina in cucina, con rincalzo dispregiativo nei miei confronti da parte della triste e vestita male; brave! Sono in due e da buone femmine non possono che insultare la mi’ mamma che a donna lo sapeva lei come si deve esse’. Alzo il tono così la cretina ci casca e mi butta fuori e io vo a mangiare la pizza coi mie amici e sto fuori tutta la notte senza dover subire l’indagine del rientro. Son sicuro che esce anche la brutta nel muso e fatta male addosso, ma non ci vo con lei. Elisabetta Casagli Prima persona al passato dal punto di vista di Elena Essenza del qui e ora E’ sempre stato difficile l’incontro dei miei affetti: fra il mio compagno e la mia migliore amica c’è una tensione continua che anche con l’abbraccio del cosmo, con lo sforzo del qui e ora, non riesco mai a interrompere per far riconciliare le parti d’amore del loro io. Non avevo comprato il maglione che era tre giorni che Luca mi chiedeva, non era vera la scusa della taglia, era una piccola bugia non per incrinare l’armonia del cosmo in cui tutto deve fluire nella pura verità, ma per smorzare la sua rabbia e intervenire nella sua energia egoistica, per placarla e non permettere che saturasse l’ambiente intorno a noi. Nilde non mi ha aiutato, il suo campo delle ferite è ancora troppo saturo e la sua solitudine la tiene chiusa in una posizione di difesa nei confronti del mondo, facendo trionfare la paura, l’arroganza al posto della riconoscenza e del perdono. Ho dovuto, per liberare definitivamente l’ambiente dalle energie negative, aprire l’uscita al mondo a Luca, affinché si riconciliasse qui e ora con il suo io affrontando gli altri con spirito di comprensione. Anche Nilde ha abbandonato il campo delle ferite, avrei voluto che rimanesse per farle capire quali sono le azioni da compiere, che in lei quella bambina ferita deve accettarsi, perdonarsi e decidere di realizzare la pace in azione, e diffondere insieme questo insegnamento a tutta l’umanità. Ho acceso una candela per respirare l’ om. Elisabetta Casagli 2)DIALOGO DI LUCIA BURZI E MARIAPAOLA RUFFOLI − So' arrabbiata, questa volta, no stato come sempre! − Perché 'sto cliente nun t'ha pagato come l'artri? − No, e tu dove cazzo eri, tu no protetto me, tu no vale niente! − Senti bellezza, io il mi' lavoro lo so fa'! Tu nun te poi permette di nun te fa' paga'. Lui avanzò verso di lei fino a costringerla in un angolo. − Io fare telefonata, sai a chi... tu sparire da quartiere! Lei cercava di sfuggirgli, buttava fra di loro le sedie, scavalcava il letto; lui le stava appresso. − − − − − − − Ah zozza, e a chi vorresti telefona'? Tu no capace! A li sbirri? Telefona telefona... Lascia me! Ma dove te credi de fini', ti fanno torna' ar tu' paese a mori' de fame. Telefona telefona... E tu devi protegge' a me? Tu no sai chi ce sta, sopra de te! Tu no capace! Sopra de me ce sta Dio e nessun altro! Lei si liberò con uno strattone, era vicino alla porta. Qualcuno bussò. Guardarono dallo spioncino della porta, improvvisamente ammutoliti. Era un poliziotto. − Brutta schifosa, l'hai chiamato? Com' hai fatto? Tu te n'hai da penti' …- Sibilò lui. − Tu cretino, tu esce dalla finestra, che con questo me la vedo io! REVISIONE DI LUCIA BURZI Dialogo in prima persona Entrai nella stanza dell' arbergo, come tutti i giorni facevo a quell'ora. Doveva esse' tutto regolare, come anda' 'n ufficio, no? Che dopo tant' anni er mestiere mio lo so' fa' e so' passati i tempi che ho dovuto sgomita' pe' fammi vale'. O questa zoccola mi dice subito che è andata male 'sta vorta, 'un è riuscita a fassi paga', e giù a di' ch'era corpa mia, che nun l'avevo protetta come se deve, 'sta grande mignotta! E me minacciava, 'sta 'mpunita, a me, che l'avevo aiutata cor foglio di via, che se 'un era pe' me l'aveveno rimandata ar paese suo, ner buco di culo di un paesello co' le capanne, de legno, a porta' la legna pe' l'inverno, che là c'è forte e nun c'è nient'artro. Sta cornuta! Dice- Chiamo quarcuno artro! - A chi chiami te? - Ma se te chiappo … Ma è che io so' troppo bono, e è bene che 'un si sappia, che so troppo bono, perché se volevo la maltivo, la finivo, caput! E invece bussarono alla porta. Un poliziotto! Ma come avrà fatto, quella gran fija de na …. a avvertì... Bè, devo da dì, che però, ar momento giusto, lei sa trova' la scappatoia, così ho seguito il su' consiglio e so' uscito dalla finestra. In fondo, che sarà mai perde' la percentuale pe' 'na vorta, perché, fra me e me, la devo dì la verità, è una che 'n certe cose ci sa proprio fa'. Lucia Burzi Dialogo in terza persona Un uomo entrò in una stanza di un albergo a ore. Tarchiato, bruno, la camicia aperta faceva intravedere una pesante catena d'oro. Sul comodino si stava consumando una sigaretta; una donna uscì dal bagno, finendo di struccarsi. Si mise la camicetta poggiata sul letto. Nessun saluto. Subito la comunicazione rabbiosa della donna raggiunse l'uomo come una coltellata. E fu un crescendo: lei gli rimproverava di non saperla proteggere, lo minacciava di far ricorso a qualcuno più potente di lui; lui cercava di imporsi con i gesti e con la voce che portava i suoni gutturali del linguaggio di borgata, ribadiva la prevaricazione che gli sembrava naturale. Ma la donna gli sputava il suo disprezzo, ripetendogli più volte la sua inettitudine. Con il suo italiano da straniera riusciva ancor di più ad offenderlo, con le parole più semplici che possono venire alle labbra: tu no capace, tu no capace. E la rabbia di lui montava all'idea che lei lo potesse tradire. Lei stava per uscire, e sfuggirgli, quando qualcuno bussò alla porta. Si zittirono. Lei guardò dallo spioncino. Era un poliziotto. I dubbi dell'uomo si erano materializzati: allora lei, non si sa come, aveva chiamato la polizia. Lei gli intimò di fuggire dalla finestra, che avrebbe risolto il problema da sé, come aveva imparato a fare da tempo. Lucia Burzi REVISIONE MARIAPAOLA RUFFOLI Storia n.1 Zaklina Era arrivata a Roma sei mesi prima. Zaklina, giovane prostituta ucraina. Voleva scappare dalla miseria e dalla disperazione. Aveva sentito storia bellissime sul nostro paese e aveva deciso che "bastava": sarebbe venuta in Italia, mondo magico e ricco, e avrebbe avuto vestiti firmati e macchine....e magari avrebbe partecipato anche ad un programma televisivo... Invece si trovava lì, in quel sudicio garage, il bandone al posto della porta, un letto disfatto e un armadio scassato. A fare la prostituta. E l'ultimo cliente non l'aveva neppure pagata... In più doveva sopportare anche Michè, il suo magnaccia romano. Non era un gran che come magnaccia Michè. Non era molto sveglio, ma soprattutto aveva il più grave dei difetti che un magnaccia potesse avere: non era cattivo e ultimamente non faceva che pensare a Zaklina. La chiamava "bellezza" e non la offendeva mai. Tutt'al più le diceva "zozzona" ma mai "puttana". Zaklina si arrabbiava perché non la difendeva, ma sotto sotto era lusingata da quel comportamento. Quella volta avevano litigato tanto forte che un poliziotto di passaggio li aveva sentiti e aveva bussato alla porta del garagino. Quando videro il poliziotto il più spaventato era Michè. E allora successe il paradosso. La prostituta protesse il suo protettore. Lo fece scappare dalla finestra e pensò lei al poliziotto. Che in un modo o nell'altro si fece convincere e se andò. Lei sì che sapeva che tasti toccare con un uomo... Michè, nascosto in un androne, sentì per la prima volta i morsi della gelosia e , mentre aspettava che il poliziotto se ne andasse, pensava a come sarebbe stato bello se un giorno avesse potuto togliere Zaklina da quel garage...e magari sposarla... MariaPaola Ruffoli Storia n.2 Una strana storia - Tutte a me capitano...-pensò fra sè Tommaso, poliziotto in servizio nel quartiere di Tor Vaianica. - Anche la prostituta innamorata e il magnaccia scemo...- e tirò un calcio a una lattina che aveva avuto la sfortuna di trovarsi in mezzo alla sua strada. - Come diceva? " Tu no fare lui male...Lui no cattivo...Lui me vuole bene..." - Ma che vuol dire? Una prostituta è una prostituta e basta. Un magnaccia è un magnaccia e basta. Sono due scarti della società e così vanno trattati!Ma la lattina si ripresentò ai suoi piedi. Lo stava forse provocando? Come quella prostituta... - " Me te prego - diceva - No questura...no...io no te posso dire suo nome...io lui vuole bene e lui vuole bene me..." - Ma se ti voleva bene non ti faceva stare qui bellezza! I magnaccia non vogliono bene a nessuno! - " Lui diverso. Anche lui dice me BELLEZZA, ma lui pensa davvero io essere bella...Tu me lascia questa ultima speranza:::" Gliela aveva lasciata questa ultima speranza, ma che ne facesse buon uso... Se l'avessero saputo che gli avrebbero detto al commissariato? Era andato via, gli aveva fatto tanta compassione... Stava per tirare un altro calcio alla solita lattina che, per non provocarlo, si era messa buona buona in un angolo del marciapiede, quando un tizio gli si parò davanti. Lo riconobbe, era quello che era saltato dalla finestra: il magnaccia. Ora sì che si poteva sfogare, altro che lattina.... - Te volevo ringrazia' de non c'ave' portato dentro - disse il tizio - me la voglio sposa' sai? Semo du' bastoncini storti...ce reggeremo l'un con l'artra...E ora? Tommaso non c'aveva più voglia di prendere a calci la lattina, la lasciò perdere e lasciò perdere il tizio che continuava a guardarlo mentre lui si allontanava. Era ora di andare a casa. Ma domani non avrebbe raccontato a nessuno quella strana storia. L'avrebbe tenuta dentro di se come un regalo della vita. Maria Paola Ruffoli 3)DIALOGO DI STEFANO VALLINI ALESSANDRA PIANIGIANI ONE TO ONE – Stasera sei distratto. – Trovi? – la guardò di sottecchi e continuò a guidare, le mani sulle dieci e dieci. – Sì, è la terza volta che sbagli strada. Ma che ti passa per la testa. – Eppure ho seguito le indicazioni del navigatore. Forse è stato proprio lì che ho sbagliato. – Ti sorprendi? Sei in crisi anche nelle strade che fai da una vita. – Ma non è solo quello. È che ad ogni bivio sono indeciso. – Scusa, e dov’è la novità? – ribatté lei girandosi a guardare il suo profilo, quasi a volerlo fulminare con gli occhi, e alzando di tono la voce – Cosa sei riuscito a fare senza pensarci mille volte? – E con un sospiro annoiato e stanco finì dicendo – Sei fa-ti-co-so! – Però quando ti ho chiesto di sposarmi era passato solo un mese da quando ci eravamo conosciuti. – Anche questa non è una novità, ho sempre amato il rischio. – E poi, abbassando la voce, aggiunse sfinita: – Tanto a rimetterci sono sempre io. – Ma cara, – fermò la macchina sul ciglio della strada e la guardò negli occhi – Ci sono delle sere in cui ci divertiamo davvero. – e con un sorriso aggiunse – Riconoscilo. – Ah, adoro le tue cazzate! – Poi dura – Ma ora è il momento di decidere cosa fare da grandi. Lui guardò fuori, con voce complice e gentile disse – Per esempio, te a questo incrocio dove andresti? – Di sicuro dove non ci sono indicazioni. Non c’è mai stato un brivido, un imprevisto tra noi. Lui mise in moto e con calma – Allora io vado dall’altra parte. Non si sa mai. Lei sbottò con veemenza – Visto che è una strada chiusa, mi sembra perfetta. – Mi sono sempre piaciuti i cul de sac, rifare una strada già percorsa. – O come lo scorpione, ammazzarsi, perché la via di fuga è bloccata. – Guarda amore, un tabaccaio. Un attimo che vado a comprare le sigarette. – Nemmeno in questo sei originale! – Gli gridò dietro. E spostandosi sul sedile del guidatore, ripartì facendo gridare anche le gomme. Alessandra Pianigiani & Stefano Vallini REVISIONE DI STEFANO VALLINI terza persona I continui ricalcoli del navigatore gli fecero nascere il sospetto che si fossero persi, le urla di lei gli tolsero qualsiasi dubbio. Ma quel flusso di parole gridate gli arrivava smorzato, come se si fossero trovati ai due capi di una vecchi linea telefonica ormai in disuso e non comodamente seduti sui sedili riscaldati della loro bella auto, resa ancora più accogliente dalla pioggia che ticchettava sul parabrezza. E come pioggia scrosciavano le accuse, sempre le stesse da una vita: le sue colpe e i suoi vizi che non avevano scusanti e che non meritavano perdono. Ormai quei difetti lui li sentiva incatenati al suo stesso modo di essere, e questo lo confortava. Lei lo amava ancora. E questo proprio non riusciva a spiegarselo. Non c’erano motivi razionali per amare quell’uomo di così scarse qualità. Eppure lo amava. Amava le sue distrazioni, i suoi errori, irrilevanti per tutti gli altri e da lui, invece, pagati ogni volta a caro prezzo. Amava le sue sconfitte e le sue indecisioni, e lui lo sapeva e gliele regalava ogni volta a mazzi, a fasci, e lei, quotidianamente, non poteva fare a meno di contraccambiare quei doni con tutto il disprezzo possibile. Tutti i ripetuti dubbi di quell’uomo, che nulla avevano di amletico, le accendevano un sarcasmo di cui essa stessa si stupiva, ma che non attenuava, per paura che il suo amore potesse scolorire nell’indifferenza. Lui per qualche chilometro provò a seguire l’indice che lei gli muoveva davanti agli occhi e che indicava strade buie e deserte, vie che da solo non avrebbe mai preso. Perché lui amava quelle consuete, percorse almeno una volta, lei invece, lo indirizzava sempre su un’alternativa sconosciuta ad entrambi. All’inizio era stato quasi un gioco, ma man mano che il tempo passava, il percorso si faceva ad ogni svolta più tortuoso. Ormai avevano imboccato una strada tormentata, fatta da curve paurose, battuta da raffiche di un vento impetuoso che facevano scartare l’auto di lato. A sinistra scorrevano le rocce chiare della montagna, alla sua destra la luce dei fari si perdeva nel vuoto. Anche lei a tratti si perdeva dietro quel nulla e soltanto in quei momenti trovava un po’ di requie. Lui aveva sempre cercato di smorzare il carattere della sua donna, di ammortizzare gli scontri più violenti, ma quando per un attimo spostò lo sguardo dai coni di luce bianca davanti a lui per guardarla negli occhi, quello che vi lesse lo terrorizzò. Li vide arresi, capitolati, con le lacrime aggrappate ai bordi delle ciglia. Solo la bocca manteneva la caparbia cattiveria che ormai lo rassicurava. Capì che sotto quell’odio pateticamente ostentato c’era un dolore, forse ancora dell’affetto. Sentì il morso della nostalgia, la colpa di aver lasciato che l’apatia vincesse sull’amore. Provò a dire qualcosa, a spostare il discorso sui tanti loro interessi in comune, sulla galleria da mandare avanti, sugli artisti emergenti che, con poco successo, tentavano di promuovere. Disse che quella pioggia non sarebbe durata in eterno. Ma lei lo zittì, lei voleva parlare di loro due, solo di loro due, e continuò imperterrita a sgranare il suo rosario di rimpianti e ostilità. Poi quasi calma, con un’inattesa dolcezza nella voce, disse: “… come una famiglia vera.” Si sporse verso di lui e girò il volante dalla sua parte, dalla parte del vuoto, dalla parte del loro nulla. Lui abbandonò la guida, le accarezzò la mano, la strinse piano e condivise la direzione del loro nuovo viaggio. Stefano Vallini BY HER EYES Lui era lì che guidava placido, come tutti i poliziotti di questo mondo scrivono al computer: con due dita. La sigaretta in bilico sul posacenere alzava il suo filo azzurrognolo. Perché cazzo le accende se poi non le fuma? Mi chiesi, mentre tiravo con gusto la mia. Mi venne allora voglia di provocarlo, di fare qualcosa per farlo uscire da quell’apatia prossima al rigor mortis. Gli dissi: – Stasera sei distratto. Riuscì a rispondermi: – Trovi? Inutile che gli facessi notare che aveva sbagliato strada talmente tante volte che ormai ci eravamo persi. E infatti non lo feci. Gli furono necessari altri quattro o cinque chilometri, ma poi ci arrivò da solo: – Eppure ho seguito le indicazioni del navigatore. Mi chiedo dove ho sbagliato. Non ce la feci a trattenermi: – Io invece mi chiedo dove non hai sbagliato? – Hai ragione. È che ad ogni bivio sono indeciso. Mi stava prendendo in giro? Alzando la voce gli dissi: – Grandissimo testa di cazzo, tu sei sempre indeciso. Non hai mai preso una decisione in vita tua. – Però quando ti ho chiesto di sposarmi era solo un mese che ci eravamo conosciuti. – provò a dire. Falso come Giuda: – Io decisi di sposarti, minchione, non tu. Quindi ora che sono persa in mezzo a non so dove, insieme all’uomo più noioso e inutile del pianeta non posso nemmeno prendermela con altri. La colpa è solo mia. Come se avessi parlato al personaggio di un film disse ammiccante: – Però cara, ci sono delle sere in cui ci divertiamo davvero. Riconoscilo. Ecco, c’eravamo arrivati, lui chiamava divertimento quella serie di flessioni ansimanti della durata di circa trenta secondi. Non è da me, ma mi mantenni sulle generali e gli risparmiai i dettagli più raccapriccianti, intanto gli facevo ripetutamente cenno di imboccare una strada sulla destra. – Per esempio, te a questo incrocio dove andresti? – Merda, sono due ore che ti faccio segno. Di là, cazzo, di là a destra. – Non mi sembra una buona idea, io vado dall’altra parte. Cosa gli succede stasera al mollusco, pensai, prova a ribellarsi? La cosa non mi dispiacque e per incoraggiarlo gli dissi: – Visto che è una strada chiusa e non si va da nessuna parte, mi sembra perfetta. Forse aveva bevuto e non me ne ero accorta, perché mi disse: – Mi sono sempre piaciuti i cul de sac, rifare una strada già percorsa mi dà sicurezza. Continuai nel gioco: – Sì, la sicurezza che dovremo tornare indietro. Mise il segnalino, si fermò senza il minimo sobbalzo e con la massima attenzione posteggiò esattamente al centro delle righe bianche: – Amore mio guarda, un tabaccaio. Scusami un attimo che vado a comprare le sigarette. Torno subito. Mi cascarono le braccia, per un momento mi ero illusa, invece era senza speranza: – Non puoi trattarmi così! – gli gridai dietro. “Amore mio”, mi aveva ancora chiamato, “amore mio”. Mi spostai sul sedile del guidatore e ripartì lasciando che l’ultimo insulto lo gridassero le gomme. Stefano Vallini REVISIONE ALESSANDRA PIANIGIANI Lei Angela guidò fino a casa con gli occhi pieni di lacrime, non voleva piangere, Marco non si meritava le sue lacrime, tirò stizzita il freno a mano e appoggiando le mani al volante si chiese perché era finita così, dove aveva sbagliato, perché lei così sicura nel suo lavoro si era ritrovata a vivere una vita di coppia così insipida e faticosa. Salì le scale quasi di corsa, aprì la porta e il silenzio dell’appartamento l’accolse come sempre, niente era diverso era solo sola, non doveva affacciarsi nello studio per vedere se Marco era rientrato, non c’era, non ci sarebbe più stato, si tolse le scarpe cercò nella borsa le sigarette e l’accese una, pensando che nessuno l’avrebbe ripresa per questo, si sdraiò sul divano, guardando le volute di fumo salire nella penombra del soggiorno. Ripensò a quel pomeriggio, a come era iniziata quella discussione, a come si era alterata per niente, a come di solito affrontava con il sorriso le insicurezze di Marco, a come c’era andata pesante per scuoterlo. Perché aveva sbottato senza dirgli chiaro e tondo che lei voleva un figlio e capire se era pronto? Alla rabbia del senso di colpa di non essere riuscita a prevedere quella fine, lei in fondo a quell’amore ci teneva, subentrò la consapevolezza del suo ego e si disse a voce alta - se non mi capisce, non mi merita! – poi iniziò a ridere istericamente e le lacrime cominciarono a scivolarle sul viso mentre pensava che per essere un indeciso cronico aveva fatto una grande uscita di scena e se non aveva già organizzato tutto fra poco il telefono avrebbe iniziato a squillare, ma lei l’aveva staccato. Alex8 UNA GITA IN MACCHINA Dopo sette anni di matrimonio la loro storia era ormai giunta all’epilogo. Si erano sposati dopo un mese che si conoscevano, in comune avevano avuto una grande intesa, che con il tempo si era esaurita ed ora si trovavano a fare i conti con i loro caratteri: impetuoso e prosaico lei, calmo e indeciso lui. Quel pomeriggio avevano pensato di andare a vedere il mare d’inverno, piaceva ad entrambi, ma non raggiunsero mai la loro meta perché in macchina ebbero l’ennesimo banale litigio. La strada da percorrere divenne il loro diverso modo di affrontare la vita, erano lontani anni luce, nonostante le promesse, non erano riusciti a crescere insieme. Lui, per non soccombere, decise che il male minore era uscire di scena senza rumore, come aveva sempre vissuto quel rapporto. Alex8 4)DIALOGO DI FABRIZIO BURRI E UGO MICHELI Una luce soffusa li illuminava entrambi. A- Non troviamo mai il tempo di parlare... B- Io non trovo neppure il tempo per pensare, tanto le cose vanno avanti, ugualmente, da sole. A- Che tu non trovi il tempo di pensare me ne sono accorta da tempo, non so più nemmeno se hai un cervello... l'inerzia è il tuo motore... Ridendo disse. B- E cosa serve pensare, tanto anche quando hai pensato bene, le cose vanno comunque avanti per il loro verso A- Quel tuo sorriso stampato è insopportabile, ma non hai un'altra espressione ? B- E tu non hai qualche proposta, un'idea che mi faccia venire la voglia di cambiare, di mettermi in moto ? A- Se è per questo, in moto ci sei... e anche troppo spesso ! Vorrei sapere, piuttosto, dove vai, visto che l'hai presa tre volte in una settimana e sei tornato dopo due ore B- E cosa devo fare ? Devo restare qui a sentirmi dire che non ho iniziative, che sono sempre uguale? Un uomo in perizoma, comparve all'improvviso da dietro una tenda con un dito davanti al naso e l'aria infastidita. A- Sei proprio un'ameba. Nemmeno la mia idea di portarti in questo privè per scambisti ti ha scosso. Neanche qui hai rimosso il tuo scafandro. Ma guardati... nudo con i calzini ! B- Ma cosa vuoi scambiare, tanto è sempre tutto uguale, anche i miei calzini... E ricominciò a ridere REVISIONE FABRIZIO BURRI Privè Eravamo lì da un po’, seduti sopra ad un divano scomodissimo, immersi nel brusio di sottofondo che proveniva dall’oscurità esistente al di fuori del cerchio di luce soffusa che ci avvolgeva. Io, meccanicamente, guardavo verso quell’oscurità per cercare di capire cosa stavano combinando gli altri ospiti del locale. In realtà, più che per guardare, giravo intorno il mio sguardo per distrarmi da quel borbottio monocorde ed ininterrotto che lei aveva avviato sin da quando eravamo usciti di casa e saliti in macchina. Non ne potevo più, perché ritenevo tutto quel blaterare, oltreché fastidioso, inconsistente ed inutile. La giaculatoria che mi ronzava nelle orecchie era tutta incentrata sulla mia presunta assoluta apatia riguardo alle nostre problematiche esistenziali di coppia. Secondo lei non avevo alcun interesse al confronto e questo mio distacco si esternava nei miei silenzi infiniti e nelle mie frequenti uscite, chissà quanto solitarie, in moto. Mi rimproverava perfino la fissità dell’espressione e la vacuità perenne del mio sguardo. Io blandamente cercai di replicare che ormai il nostro rapporto si era avvitato in un andamento impossibile da modificare. Ogni tentativo sarebbe stato inutile. Ostentando un’espressione a metà tra il sogghigno ed il sorriso amaro, gli dissi che il mio atteggiamento distaccato, le mie fughe in moto altro non erano che scappatoie per evitare di pensare che la situazione ormai era irrimediabile, che lei stessa si lamentava ma non aveva una vera proposta da fare per il cambiamento. Allora, improvvisamente, lei alzò la voce di molti decibel costringendomi a guardarla in volto e ad ascoltarla più attentamente. Mi disse che lei stava facendo qualche cosa, ma io non rispondevo a nessun tentativo, neppure il fatto di essere stato condotto in quel ritrovo di scambisti mi aveva scosso, mi ero tenuto perfino i calzini, senza che questo mi facesse sentire ridicolo ed inappropriato. A questo punto un uomo stranamente acconciato si materializzò davanti a noi nella fioca luce circostante ed ammiccando con fare scocciato ci invitò a tenere un comportamento più pacato. Io però lo intravidi appena, perché ormai la mia attenzione era stata catturata dal cambiamento di tonalità della voce di lei, dal colore delle sue guance e dalla fermezza del suo sguardo. Ci fissammo in silenzio, poi io abbassai gli occhi ed indicando i miei calzini, spremendo tutta l’ironia di cui ero a disposizione le feci notare che mi sembrava assai velleitario che noi cercassimo di cambiare le cose combinati in maniera così ridicola in un luogo come quello dove ci trovavamo. Ed invece avevo torto marcio, perché tutto sarebbe cambiato da quella sera. Infatti lei, senza rispondermi si alzò, facendo schioccare la pelle del divano che si staccava dal suo corpo seminudo, e scomparve nel brulichio dell’oscurità circostante. Alla fine della serata non la ritrovai, qualcuno mi disse che era uscita almeno un’ora prima insieme ad un frequentatore abituale del locale. La mattina successiva mi telefonò dicendomi che sarebbe venuta un giorno a prendere le sue cose, in mia assenza ovviamente perché non voleva incontrarmi. Quella notte stessa si era stabilita in casa del tizio incontrato nel club. Dopo qualche tempo venni a sapere che il suo nuovo compagno non era per niente uno sconosciuto, bensì un suo compagno di lavoro che conosceva sin dai tempi della scuola. Praticamente quella fatidica sera non si erano incontrati per caso, ma era un appuntamento, altro che calzini. Non l’ho più rivista, neppure quando passo dalle sue parti con la mia nuova super moto. Fabrizio Burri REVISIONE DI UGO MICHELI DARK ROOM Una luce soffusa li illuminava. In sottofondo, un brano jazz accennato a un pianoforte si fondeva con effluvi aromatici nell'ambiente riscaldato dai respiri. Lei lo aveva condotto fino a là per fargli una sorpresa e lui ne era sembrato entusiasta ed intrigato. Poi, come al solito, erano finiti al punto di deriva dove le parole e gli sguardi si incagliavano nelle secche di un rapporto logorato da troppe tempeste. Le domande restavano sospese senza risposte. Le risposte vagavano, impalpabili, perché afferrarle ed ascoltarle sarebbe stato troppo doloroso. Simona avrebbe voluto strappargli un gesto di gioia condivisa, anche un solo accenno di quella vecchia scintilla d'intesa, capace di scoccare anche nei momenti più improbabili, accendendo i sensi. Paolo avrebbe voluto precipitare nel vuoto per poi perdersi nel nulla. Un mare fatto di niente, un oceano bianco di pensieri appiattiti di sentimenti inariditi. Un magma incrostato, sotto il quale vibrava un suono ritmato che lo riportava alla gioventù, alla spensieratezza. Lui era rimasto là, inconsapevole del tempo che passava ed era invecchiato precocemente cadendo nell'inganno del moto perpetuo, della monotonia. Ogni tanto si concedeva una personalissima botta di vita. Saliva in groppa al suo destriero di metallo. Una moto, pazientemente assemblata con pezzi scovati su Internet. Parti di motore e carenatura di motocicli risalenti alla sua gioventù che stavano insieme quasi per scommessa e che erano costati cifre importanti, tanto lavoro e diverse litigate con Simona, che odiava il mezzo a due ruote e non capiva la dedizione di Paolo a quel “totem profano”, come lo chiamava lei. Solo in sella alla “Bestia”, come la chiamava lui, con il vento in faccia e il rombo nel ventre, faceva pace con la parte più vera di sé stesso. Ma come spiegarlo a Simona ? Per lei, Paolo era ormai un uomo in fuga. Per Paolo, la fuga era un modo per non diventare uomo. Si ritrovarono, così a urlarsi ancora una volta in faccia quella che ormai era diventata la loro incapacità di comunicare. Più le voci crescevano meno erano capaci di ascoltarsi e riconoscersi. Il tendaggio violaceo che li circondava ebbe un sussulto e, da uno svolazzo laterale, sbucò una sagoma scura. Istintivamente si zittirono, trattenendo il respiro. Un uomo con indosso soltanto una maschera da Carnevale e un perizoma leopardato, comparve nella semioscurità, parzialmente illuminato da una specie di lanterna e con un cenno inequivocabile impose il silenzio, sparendo all'istante così come si era materializzato. Simona e Paolo, storditi da quella apparizione, si guardarono, come due pistoleri, fronteggiandosi con i loro corpi da cinquantenni. Lei, strizzata in una guépiere con i seni burrosi che le fuoriuscivano. Lui, completamente nudo, impreziosito da calzini in filo scozia blu, di cui uno sceso alla caviglia. Entrambi scarmigliati e sudaticci per la temperatura e la tensione. Risero fragorosamente prima gli occhi delle bocche, poi le bocche, poi le pance e, finalmente, i loro corpi furono uno solo. Dopo tanto tempo, in quel labirinto di tende e specchi si ritrovarono. Ugo Michelifebbraio 2015 5)DIALOGO DI BEATRICE PUTTI VALERIA RONCHI -Non sono cieca, il cartello l'ho visto, ma il cane lo porto lo stesso -Non si preoccupi, non si preoccupi lei -”Arrivo subito” ma per la fretta cade per terra “accidenti a lei e alle sue prediche” -”Smetta di parlare e mi aiuti ad alzarmi”, intanto il cane scappa “invece di stare li impalata, lo vada a prendere” -”Lo sapevo che lei è una stronza, me ne sono accorta subito” REVISIONE DI BEATRICE PUTTI DIALOGO “Ai Giardini” (3° persona) Era seduta su una panchina nei giardinetti sotto casa sua, proprio davanti al cartello “VIETATO L'INGRESSO AI CANI”. Avevano fatto bene a mettere quel cartello: il giardinetto era diventato un vero porcaio. Tutti ci portavano il cane a fare i bisogni e poi non raccattavano mai niente. Arrivo' una signora con un barboncino al guinzaglio. Lei le chiese se aveva visto il cartello, ma quella le rispose male. Poi il cane la fece. La padrona si piegò per raccattarla e finì per terra. Impreco'.Il cane scappò La donna le chiese di inseguirlo ma lei rispose: ”Non ci penso nemmeno !” Allora quella gli dette della stronza e lei se ne andò senza aiutarla ad alzarsi. (1° persona) Ero seduta su una panchina nei giardinetti sotto casa mia, proprio davanti al cartello “VIETATO L'INGRESSO AI CANI” “Hanno fatto bene a mettere questo cartello” pensai ”questo giardinetto sta diventando un vero porcaio: tutti ci portano il cane a fare i su' bisogni e poi no9n raccattano mai niente” Arrivò una signora col barboncino al guinzaglio. Le dissi “ Oh, che non l'ha visto il cartello? O che è cieca?” Lei mi rispose male. Poi il cane la fece, lei si piegò per raccattarla e cascò: Imprecò: Il cane scappò. Mi chiese d'inseguirlo. Risposi “Non ci penso nemmeno!” Lei mi dette della stronza. Allora me ne andai e la lasciai lì per terra. REVISIONE DI VALERIA Racconto sul dialogo Come ogni mattina , portavo il mio cane nel parco, nonostante fosse proibito, Ero provvista dell'apposito sacchetto da usare in caso di bisogno. Un incontro inaspettato, una esile figura femminile, mi faceva notare, in modo stizzito, che un cartello vietava l'ingresso dei cani nel parco, perché doveva rimanere pulito. Rimanevo sorpresa per questo rimprovero e l'ho rassicurata perché sapevo come comportarmi. Intanto il cane faceva i suoi bisogni e mentre correvo per pulire, gli imprechi contro di me stavano aumentando. Cadevo per terra e il cane correva via. Rimanevo mortificata , distesa per terra, priva di aiuto, nonostante l'avessi chiesto. 6)DIALOGO DI ALESSANDRO BURACCHI E STEFANO VALACCHI -Raccogli la spada che il nemico è alle porte. E siamo rimasti solo in quaranta. -Il cavallo che ho appena sellato è veloce, ma non voglio fuggire. Dovremo essere coordinati; il tuo cavallo sarà davvero utile. Io riuscirò a coprirti col mio arco appostato sulla torre. -Il castello presenta ai lati dei punti deboli. Dobbiamo presidiarli . I miei venti arcieri sono pronti con faretre incendiarie. Ho visto i fanti di Sir Gilbert: sono piuttosto impauriti. Prima di muoversi sarebbe meglio rassicurarli. -Siamo in quaranta ma loro non lo sanno, con le frecce incendiarie sembreremo molti di più. Se gli uomini con le balestre staranno sdraiati sotto i loro scudi cavi potremmo abbattere almeno dieci cavalieri al primo colpo. -Scudi cavi e frecce incendiarie; ecco come riusciremo a sconfiggerli. Ascolta…si sentono già i primi passi che percuotono il suolo: siamo pronti. -Pronti: scateniamo l’inferno. Ricordati che alcuni dei nostri fanti sono impauriti ma i miei arcieri stanno imbracciando gli archi. È ora. -Si pentiranno amaramente di averci sottovalutati. Le frecce hanno incendiato due carri da guerra. Vedo i cavalli in fuga senza cavalieri. -L’esercito nemico è in fuga. Avanti, a cavallo con gli armati. REVISIONE DI STEFANO VALACCHI Due comandanti si parlano all’interno di un castello, in prossimità della battaglia. Decidono come affrontare il nemico, quale strategie adottare essendo inferiori numericamente. Decidono di utilizzare frecce incendiarie e balestre da sotto scudi cavi, per sfruttare l’effetto sorpresa. Alla fine un comandante guiderà i fanti nella battaglia alla vittoria. 7)DIALOGO DI MARIA TERESA MALATESTA E CANDIDA SACCHINI L'INIZIO -Certo che la mattina sei sempre in ritardo!- disse Ada guardando vistosamente l'orologio. -Eh si, è colpa della sveglia, non suona abbastanza, la dovrò cambiare. Ma lo sai che certe mattine l'ho anche spenta e poi mi sono riaddormentata. Devo comprarne una più decisa- rispose Giulia, simulando un sorriso mentre appoggiava la borsa sul tavolo. - Belle scuse! La sveglia o Gianni?- Ada la guardò di sottocchio -Ecco, sei sempre la solira curiosa- Giulia abbassò gli occhi e si mise a spostare in modo convulso gli oggetti che aveva sula scrivania -E dai, racconta, su, non ti vergognare- Ada le si avvicinò con la sedia. -Si, in effetti ci siamo visti ieri sera. -E poi? - Poi il vino bianco. - Ahahahah, Ce l'hai fatta almeno a arrivare al divano? - O ma certamente. Che credi, lo reggo io l'alcool. Però, sai com'è: vino bianco, divano, mi sono subito addormentata. - Noooo, e allora? Gianni? Come l'ha presa? - Ecco! Appunto,Gianni?- Giulia si alzò in piedi e sbattè la mano sul tavolo- Ti rendi conto? Invece di venire da me e stuzzicarmi ha spento la candela e si è addormentato davanti al camino con il gatto in braccio. E' meglio se vado a fare queste fotocopie, se ci ripenso mi entra un'agitazione... - Prese dei fogli e uscì dalla stanza. Ada la seguì con lo sguardo e lentamente riportò la propria sedia davanti alla propria scrivania -Dà retta a me- le urlò dietro sogghignando- invece del vino bianco la prossima volta usa il vino rosso! DONNE 1 Giulia entrò trafelata in ufficio: aveva fatto tardi anche quella mattina. Però la sua preoccupazione più grande non era l'essere ripresa dalla capa, in fin dei conti una zittella amichevole, anche simpatica, quando stava zitta. No, non la temeva affatto. Non come la principale di Tonia, che se arrivava 5 minuti in ritardo scriveva una lettera all'ufficio del personale togliendole 5 minuti dalla busta paga. Ada, la sua capa, era solamente una grande ciacciona- una non trombante curiosa della vita altrui. Quando Giulia faceva tardi doveva subire l'inevitabile interrogatorio dell'altra, e siccome era la sua principale, doveva pure simulare un po' di complicità femminile. Anche quella mattina naturalmente Ada fece notare il ritardo, ammiccando e chiedendo i particolari della sera precedente. Da 2 anni Giulia era l'amante dell'amministratore delegato e da tempo si era inventata un fidazato di nome Gianni. Aveva preso spunto da un amico gay: gran bevitore, totalmente disinteressato ad ogni attributo femminile. Il racconto fu casto e puro: un po' di vino bianco, troppo, veramente troppo. -Poi, lo sai, il vino bianco fa dormire. Mi sono addormentata sul divano e il mio fidanzato davanti al caminetto. Insomma, accidenti, una serata finita in bianco. Giulia picchiò una mano sulla scrivania, al colmo del disappunto. -Che interpretazione superba- le venne da pensare- quasi quasi ci credo pure io. Per mascherare un sorrisino compiaciuto che sentiva venirle fuori, la ragazza se ne andò dalla stanza, impettita e indispettita. Con la coda dell'occhio vide la delusione negli occhi dell'altra,che strizzando l'occhio come una donna di mondo- che mondo, forse quello dei conventi- le consigliò il vino rosso. Con un sorriso Giulia si mise a fare quelle inutili fotocopie, cercando di coprire con il foulard un succhione violaceo che le bollava il collo. DONNE 2 8.30. Chissà quando arriverà, oggi 8.35. Ovvio, fa tardi anche questa mattina 8.40 Ancora niente. Quale scusa racconterà 8.45 15 minuti di ritardo, mi sembrano più che sufficienti. Sento l'ascensore che si ferma al piano, dovrebbe essere lei, gli altri sono già tutti alla scrivania, che lavorano, loro. Guarda che faccia compiaciuta, la puttana. Arriva tardi e fa finta di niente. Ha passato la notte da Emilio, il Mio Emilio, almeno fino a quando non è arrivata lei. -Che vuoi, carne giovane- mi ha detto quando gli ho chiesto spiegazioni- come amministratore delegato qualche svago me lo devo pur concedere. Io sono 30 anni che faccio la sua amante, unica e sola fra le tante, discreta. Sono 30 anni che fingo una vita di clausura per non buttare all'aria il nostro amore. E questa maiala, che più di me ha solo la pelle giovane (peraltro rifatta, è evidente) crede di prendermi in giro con la storia del fidanzato. Mi tocca pure ingraziarmela perché con la sua stupidità può mettermi male con Emilio. "Mi raccomando, trattamela bene" mi ha detto quando l'ha assunta e me la sono trovata fra i piedi. Io la tratterei bene, si, con dei bei calci in quel suo culo bello tondo come un pallone. Poi lo vedi come arriverebbe puntuale: una pedata per ogni minuto di ritardo. -Cara, che faccia sbattuta, serata con Gianni? Adesso sentiamo che inventa; ieri sera l'ho seguita con la macchina fino a casa di lui: se n'è andata all'alba. - Dai, racconta Mi sembra che abbia un succhione sul collo, avvicino la sedia per vedere meglio se è vero. Ma sì, è proprio un succhione! Non si cura nemmeno di nasconderlo con un po' di fondotinta. Che esibizionista di merda. Crede di imbambolarmi con la storia del vino bianco. -La prossima volta usa quello rosso! Ieri sera deve essere scorso a fiumi, a giudicare dal fiato che ha stamani. Occhio, sgualdrina, che sei solo provvisoria con un contratto a termine. Fra 6 mesi porti via il tuo collaccio maculato dal mio ufficio.