Il re è nudo (A. Tavarnesi) - Gran Loggia Nazionale dei Liberi

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Il re è nudo (A. Tavarnesi) - Gran Loggia Nazionale dei Liberi
IL RE E’ NUDO
Un’introduzione al tema di studi della C.G.L.E.M.
Alessandro Tavarnesi
Seminario “Il Cammino della Luce”
Montebelli, 09 aprile 2016
C’era una volta un re molto vanitoso, che amava i propri abiti sopra ogni cosa. Li adorava
a tal punto da cambiarli in continuazione, e provava il massimo piacere nello sfoggiarli
davanti ai suoi sudditi. Accadde un giorno, che conoscendo questa sua smodata passione,
due truffatori si recarono a corte, e presentandosi come tessitori, proposero al re un nuovo
e rivoluzionario tessuto, non soltanto molto bello, anzi il più bello che occhio umano
avesse mai visto, ma anche dotato di qualità magiche, per cui solo le persone intelligenti e
capaci sarebbero state in grado di vederlo, mentre per tutti gli altri sarebbe risultato
invisibile. Il re accettò di buon grado la proposta, soprattutto perché gli si presentava la
possibilità di mettere alla prova la capacità e l’intelligenza dei sui servitori e dei suoi
sudditi. Chiese quindi ai due forestieri di tessere quella meravigliosa stoffa, e di
confezionargli poi un abito che avrebbe indossato al corteo dell’annuale festa del regno.
Così ha inizio una delle più singolari e allegoriche fiabe di Hans Christian Andersen.
Ricordate come prosegue?
I due truffatori si misero al lavoro al telaio, ma naturalmente non avevano nessuna stoffa
da tessere. Continuarono nella loro finzione per giorni, non cessando mai di lodare la
bellezza e le qualità del… nulla che stavano tessendo ai ministri e ai funzionari che il re
mandava per ispezionare il lavoro. Naturalmente questi si guardavano bene dal riferire al
re che non vedevano nessuna stoffa, per paura di essere considerati degli incapaci. Per lo
stesso motivo, anche il sovrano, quando gli venne presentato il lavoro, dichiarò che la
stoffa e gli abiti con essa confezionati erano senza dubbio i più belli che avesse mai visto.
Così si presentò alla parata vestito di niente, ed anche allora nessuno dei suoi sudditi osò
dire nulla, perché avevano sentito a tal punto decantare la magnificenza e la magia di
quegli abiti, che non volevano passare per stupidi o incompetenti dicendo di non vederli.
Nessuno, tranne un bambino, che con la voce dell’innocenza esclamò candidamente: “Il
re è nudo!”. Un fremito percorse allora la folla, ed anche il re rabbrividì, perché sapevano
che il bambino aveva ragione e che fino a quel momento, avevano tutti tenuto per vero
solo ciò che gli aveva fatto comodo considerare tale.
Il tema di studi proposto alla Confederazione delle Gran Logge d’Europa e del
Mediterraneo investe molteplici aspetti che caratterizzano le dinamiche relazionali tra i
popoli del cosiddetto blocco occidentale da una parte, e quelli dell’area arabo-africana di
matrice islamica dall’altra, che vedono nel Mediterraneo un crocevia ed un fulcro nel quale
quelle dinamiche trovano compimento. Naturalmente le problematiche inerenti a tali
relazioni sono complesse e differenziate, e vanno dal fenomeno dell’emigrazione di massa
a quello delle guerre e della povertà che lo determinano; dal tentativo di una parte delle
popolazioni islamiche di emanciparsi da forme di governo teocratiche, alla resistenza
esercitata dai fondamentalisti religiosi; dalla nascita dello stato islamico dell’Isis e dagli
attacchi terroristici portati nei luoghi simbolo del benessere occidentale, alle risposte
messe in campo dai governi europei, che evidenziano tutte le divisioni interne e le
diversità di vedute di quella che si definisce una Unione di Stati. Ma al di là delle loro
specificità, sarà possibile ravvisare in tutti questi temi un substrato comune che ha molte
attinenze con il racconto di Anderson, perché riguardo ad essi la maggioranza delle
persone preferisce un approccio basato su una realtà di comodo alla quale credere e
soggiacere, piuttosto che ricercare ed affrontare quanto l’uso della ragione e dell’onestà
intellettuale indicherebbe come essere il vero. Vedremo come il nostro principale nemico
sia rappresentato dall’ignoranza e dall’ipocrisia, dal manto di perbenismo con il quale la
cosiddetta opinione pubblica riveste le proprie prese di posizione, che difende ad oltranza
anche di fronte ad opposte evidenze. Ci corre l’obbligo di smascherarle, non solo per
amore di verità, ma soprattutto perché siamo consapevoli che non si potranno mai gettare
le basi di una effettiva soluzione dei problemi se questi non verranno affrontati nella loro
reale natura e sostanza.
Tenteremo oggi di percorre questa via, ben consapevoli in ogni caso che in tale
circostanza non potremo fare a meno di effettuare delle generalizzazioni e di tralasciare
elementi di altrettanta valenza ed importanza rispetto a quanto tratteremo. Il nostro scopo,
tuttavia, non è quello di essere esaustivi e conclusivi, ma al contrario di sollevare dubbi e
fornire elementi di riflessione. In effetti è impossibile pensare di arrivare a possedere il
quadro completo e definitivo di così tante situazioni complesse che interagiscono tra loro.
E’ impossibile pensare di poter formulare al riguardo giudizi univoci e inappellabili, di non
farsi prendere dalle emozioni indotte dagli eventi più drammatici, siano essi sentimenti di
umana pietà verso il dramma dei migranti, o di rabbia giustizialista nei confronti degli
attentati terroristici. E’ altresì impossibile non dare adito a critiche anche feroci, qualunque
sia l’argomentazione sostenuta. Del resto, ciò che ciascuno può percepire della realtà è
una sua prospettiva, un punto di vista, che partendo da determinate premesse, analizza
coerentemente ad esse i fenomeni e formula un giudizio conseguente. Ma appunto di
prospettive si tratta, o, per continuare con la nostra metafora, di abiti con i quali abbiamo
scelto di rivestire la realtà, cercando di convincere (e di convincerci) che sono i più belli
possibili, non rendendoci conto di quanto possano apparire invisibili agli altri. Ecco allora
chi ostenta il vestito della bontà, della comprensione, della solidarietà e dell’accoglienza
sempre e comunque, e chi invece si ricopre col manto dell’intolleranza, del razzismo, del
nazionalismo e della xenofobia. Al di là di queste prospettive, di questi atteggiamenti, di
questi rivestimenti, in quanto iniziati massoni, dovremmo invece avere la forza e la
capacità di denunciare la nudità del re, di presentare e approcciare le problematiche del
nostro tempo per quello che realmente sono, proponendo possibili soluzioni e possibili
iniziative che non perseguano altro interesse se non quello del bene dell’umanità. Non il
bene delle singole Nazioni, dei singoli Stati, del proprio gruppo sociale, del proprio ceto,
del proprio personale tornaconto; occorre agire non assecondando le proprie paure o i
propri desideri, ma perseguendo il bene dell’umanità. La prima cosa da fare è spogliarci di
ogni forma di pregiudizio e di preconcetto, convincersi che un assassino è tale
indipendentemente dalla sua nazionalità o dal suo credo religioso, che un ladro è tale
ovunque rubi, che un affamato o un bisognoso merita la stessa solidarietà
indipendentemente dal colore della sua pelle, perché siamo tutti figli dell’umana progenie.
In quanto massoni, non possiamo e non dobbiamo abdicare alle nostre responsabilità di
fronte alla ricerca del vero, consapevoli che è nostro dovere indagare la realtà oltre le
apparenze, oltre i luoghi comuni, oltre il “ben pensare” ed i moralismi di ogni genere.
Cominceremo a realizzare il nostro affresco dando conto del tema che maggiormente ne
caratterizza il substrato, che rappresenta il perno sul quale anche tutti gli altri argomenti
sembrano ruotare, ossia quello religioso, perché non possiamo negare l’importanza che
la religione riveste nel caratterizzare soprattutto l’identità dei popoli musulmani, nonché le
loro relazioni con i Paesi occidentali. L’Islam infatti non è vissuto semplicemente come
espressione della sfera religiosa propria dell’individuo, alla stessa stregua dell’odierno
cristianesimo per gli Occidentali, ma esso permea integralmente e totalmente ogni aspetto
della vita personale, sociale, giuridica ed economica dei Musulmani. Non vi è situazione
che non sia regolata dal Corano o dalla Sunna, ossia dalla raccolta degli aneddoti di
quanto il Profeta avesse detto o fatto. Prima ancora che teologia, l’Islam è diritto e
ordinamento giuridico al quale l’individuo deve sottomettersi, e shari’a, ossia “legge”, è il
termine che più di ogni altro ne caratterizza l’essenza.
Per quanto molto diverse fra loro, ma in quanto tutti consapevoli del fatto che quello
religioso ha rappresentato e tuttora rappresenta il primo fattore che ostacola un dialogo fra
i popoli, si è molto tentato di trovare elementi che possano accomunare la religione di
Maometto con le altre due grandi religioni dell’area mediterranea, l’Ebraica e la Cristiana,
nella speranza che facendo leva su di essi possa venir meno il continuo collegarsi alle
diversità religiose per giustificare ogni forma di contrasto. E’ su queste premesse che ha
preso l’avvio un processo di dialogo interreligioso alla ricerca di basi teologiche a sostegno
dei possibili punti di contatto. In particolare si è posto l’accento sul fatto che siano tutte
religioni monoteiste, che fanno discendere le proprie origini da un comune patriarca,
Abramo, e che tutte e tre si basino sulla rivelazione di Dio raccolta in un libro sacro, per la
qual cosa sono anche definite religioni del libro. Ma a ben guardare nessuno di questi
elementi può dirsi realmente comune alle tre religioni, o meglio, nessuno di questi elementi
è interpretato allo stesso modo o con la stessa valenza.
L’affinità ascrivibile alla comune discendenza abramitica in realtà non va oltre la figura di
Abramo stesso, e le differenze emergono nette sin dalla sua immediata discendenza.
Nella Bibbia troviamo che l’alleanza stretta tra YHWH e il patriarca, basata sulla promessa
divina di garantirgli una discendenza numerosa attraverso la quale tutti i popoli della terra
sarebbero stati benedetti, si realizza con la nascita di Isacco, e attraverso lui, giunge sino
a Gesù Cristo, per mezzo del quale si compie l’alleanza tra l’uomo e Dio Padre. Nel
Corano, Abramo è il primo dei profeti, l’“amico di Dio” la cui discendenza si sviluppa
attraverso il figlio primogenito Ismaele, generato con la schiava egiziana Agar, e si compie
con Maometto, sigillo dei profeti e ultimo messaggero della volontà divina. Sono Abramo
ed Ismaele, ispirati da Dio, a fondare la città santa de La Mecca ed a costruire la Ka’ba, il
luogo più sacro dell’Islam. Nel Corano trovano posto alcune delle figure bibliche,
compresa quella di Gesù, ma tutte con una connotazione profondamente diversa rispetto
a quella ebraico-cristiana. L’Islam ne rivendica la corretta interpretazione, in quanto ultimo
in ordine di tempo ad aver ricevuto, attraverso Maometto, la rivelazione divina. Le
divergenze, sarebbero quindi da imputare a fraintendimenti ed errori compiuti da Ebrei e
Cristiani nell’interpretare la volontà divina.
Anche il presunto legame basato sul monoteismo è da vagliare alla luce di queste ultime
considerazioni: non basta sostenere l’esistenza di un unico Dio per dirsi convergenti,
occorre vagliare la natura di questo Dio, e nel caso di Ebraismo, Cristianesimo ed
Islamismo, questa natura divina è notevolmente differente. Da un lato abbiamo il Dio
liberatore degli Ebrei, il Dio giudice e legislatore che ha scelto di legarsi al proprio popolo,
fino a giungere all’offerta di sé attraverso l’incarnazione e la crocifissione del Figlio ed il
dono dello Spirito, capisaldi della teologia cristiana. Dall’altro il Dio assolutamente
trascendente, arbitrario, imprevedibile e inconoscibile dell’Islam, per il quale non potrà mai
esserci possibilità alcuna di “incontro” fra Egli e l’uomo, nemmeno per i giusti dopo la
morte. Oltre a ciò, l’Islam non considera realmente monoteistico il Cristianesimo, ma
“triteista”, a causa della difficoltà a comprendere la natura del dogma trinitario.
Veniamo infine all’argomento del “libro”, ovvero alla possibile vicinanza delle tre religioni
dovuta al fatto di fondarsi sulla rivelazione contenuta nel libro sacro. Siamo invece forse di
fronte alla più inconciliabile delle divergenze. Non è sufficiente che ciascun credo si basi
su quanto rivelato dalla divinità, e che tale rivelazione sia stata registrata in un testo, se
quanto è stato rivelato e le modalità con le quali tali rivelazioni sono state divulgate
divergono profondamente tra loro. La Bibbia è un testo ispirato da Dio, non dettato, e si è
formata nel corso di oltre 10 secoli con varie stratificazioni e successive rielaborazione,
con le quali i numerosi redattori hanno interpretato e reso il pensiero divino in modo
molteplice e non senza alcune contraddizioni. Il Corano è stato invece redatto in un lasso
di tempo relativamente breve, negli anni immediatamente successivi alla morte di
Maometto, e riporta esclusivamente quanto Allah ha rivelato al Profeta, senza commenti o
interpretazioni attribuibili a quest’ultimo. Ma è soprattutto nell’idea stessa di Dio e del suo
rapporto con l’umanità che emergono le maggiori differenze. La Bibbia è
fondamentalmente un insieme di storie, il dipanarsi e l’evoluzione del rapporto di Dio con
l’uomo, degli interventi di Dio nella storia dell’uomo, tali da determinarne lo sviluppo, fino a
giungere alla stessa incarnazione della Parola divina in un uomo. Dio si rivela e si fa uomo
tra gli uomini, ne assume su di sé il destino per redimerne l’esistenza. Vi è uno scambio
continuo tra Dio e le sue creature, fino al culmine dell’avvento Cristico che è il compimento
della Rivelazione e l’inizio di una nuova epoca per l’umanità. Nell’Islam non c’è nessuna
forma di partecipazione di Allah nella vita degli uomini, Egli resta un’entità assolutamente
trascendente e arbitraria, inconoscibile e incomprensibile, al quale gli uomini possono solo
obbedire sperando nella sua misericordia. E’ il Corano in sé la Rivelazione di Dio, per
questo i Sunniti lo dicono increato e custodito presso Allah stesso, considerandolo
pertanto immutabile e non soggetto a evoluzioni e/o interpretazioni variabili nel corso dei
tempi. Il Dio cristiano immerso nella storia dell’umanità si fa partecipe delle sofferenze
umane per redimerle, ed il suo intervenire nella storia serve ad emancipare l’uomo dalle
sofferenze. Il Dio dell’Islam, assente e trascendente, è insensibile al dolore dell’uomo, sì
che anche l’uomo sembra a sua volta diventare insensibile alle sofferenze proprie ed
altrui. Un Dio che non agisce nella storia, fa sì che non vi sia una storia, intesa come
tensione verso il progresso e l’emancipazione. Il mondo islamico sembra sospeso tra un
passato che non è più e un futuro che non potrà mai essere, con ciò togliendo ogni senso
al presente, se non quello di perpetrare se stesso in un fatalistico abbandono alla volontà
di Dio.
Tutte le argomentazioni portate a favore di possibili convergenze si rivelano fallaci e
illusorie. Non sono che abiti tessuti con stoffa inconsistente e che solo la nostra pervicacia
di ricercare a tutti i costi dei compromessi, delle similitudini, degli apparentamenti là dove
non ve ne sono ci induce a volerli considerare reali. Dobbiamo invece prendere atto che il
re è nudo! Non è necessario forzare un’intesa su elementi inconsistenti. Il dialogo
interreligioso dovrebbe basarsi su elementi estranei alla teologia e all’interpretazione delle
scritture, richiamandosi esplicitamente al diritto naturale di ogni uomo di vedere rispettata
la propria essenza. Solo un contesto laico può garantire questo, dove con laicità non
intendiamo il laicismo, ossia la sua degenerazione nel rifiuto di ogni forma religiosa quale
unica garanzia per una pacifica convivenza, ma anzi la intendiamo come il solo contesto
che possa e debba garantire a ciascuno la libera espressione del proprio credo religioso.
Non una forma di rifiuto, ma piuttosto una accoglienza di tutti, per cui la libertà offerta a
chiunque di esprimere liberamente il proprio credo religioso senza tema di essere
giudicato, o peggio, sconfessato dagli altri, dovrebbe garantire l’eliminazione di ogni
possibile attrito. La pluralità religiosa andrebbe considerata una ricchezza, stanti le
molteplici prospettive che consentono di dare del Divino, e uno stato laico dovrebbe
essere il naturale alveo entro il quale tali prospettive si possono esplorare per libera scelta,
consentendo una effettiva adesione alla dimensione metafisica dettata dall’intima
convinzione e non dalla tradizione o dalla cultura o dalle leggi dello Stato.
Un tale processo è già in larga misura avvenuto nel mondo occidentale, soprattutto a
partire dall’Illuminismo, che ha imposto l’uso della ragione e della volontà positiva come
strumenti per intelligere l’esistenza e l’essere. Da allora si è conosciuta una continua
evoluzione in ogni settore dello scibile umano, e la netta supremazia ottenuta in campo
tecnologico ed economico ha fatto sì che il modello occidentale prendesse il sopravvento
e fosse veicolato ovunque. Vi fu un periodo in cui tale predominio aveva anche la forma di
una vera e propria occupazione territoriale dei Paesi più arretrati.
Oggi, almeno formalmente, la quasi totalità delle nazioni è organizzata in Stati indipendenti
e liberi da ingerenze politico-militari altrui; ma l’economia mondiale, che nel frattempo è
diventata di tipo prettamente finanziario, continua ad essere gestita da un gruppo molto
ristretto di Paesi. Anche l’ultima rivoluzione tecnologica, quella legata alle forme di
comunicazione e di controllo delle informazioni, attraverso la rete di internet e dei social
network, è diventata un mezzo globale attraverso il quale tutti i valori o pseudo tali
dell’Occidente, sono rilanciati in tutto il mondo. In conseguenza di tutto ciò, la fede di noi
Occidentali è profondamente mutata. Forse oggi possiamo dirci più figli dell’Illuminismo
che del Cristianesimo, ma questo non vuol significare che il progresso scientifico abbia
cancellato il sentimento religioso delle persone, piuttosto lo ha poco alla volta depurato
dagli elementi di superstizione, spostando l’attenzione dagli effetti alle cause. L’Occidente
si sta rendendo conto della nudità del re, con ciò risvegliando poco alla volte le coscienze
individuali all’avvento di un nuovo spirito religioso, più a misura d’uomo non perché ci si
stia allontanando da Dio, ma al contrario perché la Sua presenza è oggi sentita e vissuta
fondamentalmente come intima esperienza interiore.
Sotto questo aspetto è indubbio che l’Islam abbia ancora un lungo cammino da compiere
e molti nodi da sciogliere. La conquista della laicità rappresenterà dunque una grande
sfida per i popoli musulmani, combattuti tra la convinzione di seguire l’unica e perfetta
religione, di voler mantenere intatti gli usi e la legge islamica da una parte, e il desiderio di
rendere fruibili i benefici materiali connessi al modello di vita occidentale dall’altra, con ciò
dando origine a profonde contraddizioni ed a forti tensioni che provocano conflittualità al
loro interno ma anche verso l’esterno. Mi chiedo fino a quando le classi benestanti arabe,
coloro che detengono le leve economiche e politiche dei rispettivi Paesi, potranno
continuare a far credere di indossare l’abito del perfetto conformismo alle tradizioni
dell’Islam, e nel contempo godere di tutti i benefici materiali che il modello di sviluppo
occidentale ha prodotto. Dal mio punto di vista, si sono già levate molte voci per gridare
che il re è nudo, perché è proprio in tale chiave che ritengo si debba interpretare il
movimento noto come Primavera Araba: il tentativo di sottrarre la politica, l’economia e le
relazioni sociali dall’ingerenza della sfera religiosa, che vede come un pericolo ed un
nemico ogni deviazione dalla shari’a. Sappiamo come il tentativo non abbia avuto
successo, ma intanto delle voci si sono levate, ed erano quelle delle generazioni più
giovani, più sensibili a pronte a recepire nuove istanze. Gli Stati islamici reprimono ogni
forma di dissenso, ma la storia ci insegna che impedire la dialettica interna,
considerandola una minaccia anziché una ricchezza, è un indice di decadenza,
un’implicita ammissione di debolezza che alla lunga non può che condurre ad un
rinnovamento delle istituzioni. Ritengo che da parte occidentale si possa contribuire al
processo evitando di condannare e stigmatizzare sistematicamente intere popolazioni per
il loro modello di vita perché diverso dal nostro, ma piuttosto stimolando proprio nei giovani
la riflessione sulla opportunità di mantenere modelli socio-politici ormai superati dai tempi,
senza che con ciò si debba necessariamente compromettere la propria fede religiosa. Non
mancheranno le difficoltà, né le resistenze da parte dei più reazionari ed integralisti custodi
dell’ortodossia, ma per quanto l’Islam si sforzi di tenere l’evoluzione storica al di fuori del
proprio ambito, questa non potrà fare a meno prima o poi di prodursi.
Di fronte ad un tale pressing, i fautori della resistenza non esitano ad agitare lo spettro
della jiha’d, la guerra santa, quale minaccia suprema verso quel mondo occidentale
sempre più invadente e irrispettoso delle tradizioni del mondo arabo. Anzi, è dovere di
ogni buon Musulmano combattere gli infedeli affinché si convertano alla vera religione o
periscano nel loro errore. Ma la minaccia della guerra santa è lo spauracchio più evocato
anche dagli attivisti occidentali, quale principale argomento per giustificare la necessità di
una strategia difensiva e di rifiuto di ogni forma di collaborazione con quel mondo islamico
il cui unico scopo sembra essere quello di distruggere chiunque non sia Musulmano. Ora,
al di là del fatto che anche fra gli Ebrei ed i Cristiani non mancano gli integralisti
maldisposti ad accettare ogni manifestazione di credi differenti dal proprio, è però fuori
discussione che sia in atto una recrudescenza del terrorismo a matrice islamica. Ferma
restando la più ferma condanna verso tutte le forme di violenza, qualunque ne siano le
matrici e le motivazioni, faccio fatica a imputare ad un miliardo di Musulmani la concorde
ed univoca volontà di uccidere persone inermi solo perché professano una fede diversa.
Sono molto più propenso a ritenere che la jiha’d sia l’ennesimo abito con il quale tanto da
una parte quanto dall’altra fa comodo rivestire le azioni terroristiche che insanguinano
ormai non solo l’Occidente. Ancora una volta dovremmo avere la forza di gridare che il re
è nudo, e che il terrorismo non può essere liquidato semplicemente come l’azione degli
integralisti islamici che intendono punire l’Occidente blasfemo e infedele. Esso ha radici
più complesse, che affondano nelle paludi dell’affarismo economico-finanziario, negli
interessi legati al controllo delle regioni strategicamente più importanti per lo sfruttamento
delle risorse naturali. Da Al Qaeda allo Stato islamico dell’Isis, ritengo più probabile
considerare il forte integralismo religioso che li caratterizza, come l’elemento di coesione, il
sentimento comune su cui si è fatto leva per riunire sotto un’unica bandiera il consenso di
persone spinte da eterogenee motivazioni di rivalsa verso l’ingerenza occidentale nel
mondo musulmano. L’Isis in particolare si è proclamato stato sovrano, con l’intento
dichiarato di riunire il mondo musulmano sotto il proprio governo per ripristinare quella
supremazia e quel potere di cui l’Islam godeva nella lontana epoca degli sceicchi, offrendo
a suo dire a tutti i musulmani desiderosi di riaffermare la propria identità, una opportunità
di riscatto colpendo gli interessi dell’imperialismo occidentale; con quali metodi e quali
conseguenze è evidente a tutti.
Il filosofo e medico musulmano Ib-Sina, uno dei più noti dell’antichità, da noi conosciuto
con il nome latino di Avicenna, soleva affermare che nella cura delle malattie perniciose,
era sì d’uopo affrontare prima i sintomi che manifestavano, a causa dei loro effetti
debilitanti sull’organismo, ma occorreva poi passare all’individuazione ed eliminazione
delle cause della malattia, per evitare che potesse nuovamente procurare i medesimi
sintomi negativi. L’Occidente è oggi impegnato in una dura battaglia per eliminare la
minaccia Isis, ma ciò non sarà sufficiente nella misura in cui riteniamo che esso sia solo
un sintomo del più generale malessere che investe quella parte del mondo. Una volta
debellata la minaccia contingente, sarà necessario affrontarne le cause, se non vogliamo
correre il rischio che essa si ripresenti sotto altre sembianze ma con i medesimi devastanti
effetti. Al male si può reagire isolandolo, rendendolo sterile, privo di ulteriori conseguenze
che ne possano amplificare il già dannoso effetto iniziale. Occorre isolare l’Isis
sottraendogli la fonte di sostentamento, l’appoggio di cui gode fra le popolazioni indigenti e
facilmente influenzabili dalla propaganda anti-occidentale, facendo venire meno le ragioni
di questo appoggio; in altre parole, occorre intervenire per modificare le condizioni di vita
delle popolazioni lasciate ancora oggi ai margini dello sviluppo. Nel corso della storia ha
sempre prevalso il dominio di pochi su molti, guerre e conquiste avevano lo scopo di
assoggettare le popolazioni più deboli al fine di sfruttarne le ricchezze territoriali. Anche
dopo la seconda guerra mondiale e la fine dei regimi coloniali le cose non hanno subito
cambiamenti sostanziali: all’occupazione militare si è sostituita, come già sottolineato, una
supremazia di tipo economico-finanziario, che vede ben il 50% della ricchezza mondiale
controllata da meno di 100 imprese multinazionali. Le redini del potere politico dipendono
da quelle finanziarie, che insieme mirano a mantenere le strutture sociali ed economiche
invariate, presentandole come le più idonee a garantire il nostro benessere, anche se ciò è
causa degli squilibri che lasciano nella povertà buona parte del mondo. Stando così le
cose, ed alla luce delle reazioni che sta determinando, possiamo continuare a sostenere
che il modello economico oggi predominante sarà in grado di garantire il nostro benessere
anche per il futuro?
Ancora una volta, dovremmo avere la forza di dire che il re è nudo!
Ritengo che chiedersi quale politica e quale modello di sviluppo potranno meglio garantire
non soltanto il nostro ma anche l’altrui benessere per il futuro, al di là dell’attuale interesse
dei singoli soggetti in gioco, sia il solo atteggiamento costruttivo da adottare.
Sostenere tale tesi non significa cedere all’idealismo, non rappresenta facile dietrologia,
ma è puro pragmatismo, che sopravanza il mero problema legato alla sconfitta dell’Isis e
del terrorismo internazionale. La popolazione mondiale si avvia a raggiungere quota 9
miliardi di persone, la maggior parte delle quali saranno concentrate nei Paesi asiatici ed
africani, di fede prevalentemente islamica. Riusciremo a reggere la pressione delle loro
legittime aspettative, pagando il prezzo delle inevitabile tensioni che l’accrescersi delle
disuguaglianze necessariamente recheranno seco?
Io credo che il nostro benessere futuro non possa pensarsi contro il resto del mondo, ma
insieme ad esso. Condivisione dovrà essere la parola d’ordine, e non più appropriazione!
Occorre basarsi su un principio di giustizia che tenga in considerazione le esigenze di un
intero pianeta, e far sì che questo principio possa essere condiviso da tutte le genti che lo
abitano. Ciò richiede di valutare il problema nel suo complesso, richiede il ripensamento
dell’accesso alle risorse produttive ed alla ricchezza mondiale. In tempi di globalizzazione
dell’economia e delle informazioni non è pensabile mantenere la stragrande maggioranza
delle popolazioni ai margini del benessere, non è più sostenibile che pochi Paesi possano
consumare il 90% delle risorse e sperare che gli altri se ne restino buoni a guardare,
senza conseguenze di alcun tipo. Saremo capaci di sviluppare un nuovo paradigma socioeconomico che veda il controllo e lo sfruttamento delle ricchezze da parte di pochi
sostituito dalla solidarietà e dalla cooperazione, senza che debba consumarsi quello
scontro di civiltà che molti già paventano? Rendere il benessere diffuso, ridare ai popoli il
controllo delle proprie risorse rappresenta il modo migliore per garantire il futuro
dell’umanità, e di conseguenza anche il nostro. E’ una visione che solo dei veri e
lungimiranti statisti potrebbero avere la capacità di portare avanti, magari in seno agli
organismi internazionali già esistenti. Ma in campo politico internazionale si assiste
piuttosto al prevalere di interessi di corto respiro, volti alla massimizzazione dei risultati di
breve periodo dei singoli Stati rappresentati, vuoi per motivi elettorali che di tornaconto
personale.
Intanto, le conseguenze di questa miopia sono sotto gli occhi di tutti e stanno generando
un dramma con pochi precedenti, reso ancora più grave dalle reazioni indotte nei Paesi
europei, assolutamente prive di quella lungimiranza testé auspicata: mi riferisco
ovviamente al dramma dell’esodo verso l’Europa.
Vi è una parte di questo flusso dipendente da situazioni contingenti, come la guerra in atto
in Siria e nei territori occupati dall’Isis, che ci auguriamo possa cessare con il cessare delle
ostilità. Ma gran parte dei migranti abbandona i propri Paesi soprattutto a causa della
povertà e della mancanza di prospettive. Fra le tante problematiche che esso comporta, vi
è anche il diffuso timore che l’immigrazione di massa possa condurre al disfacimento del
tessuto sociale e dei valori etico-morali che fino ad oggi hanno caratterizzato i Paesi
europei, finendo per causare il declino e la possibile scomparsa della loro stessa cultura.
Si è giunti a dire che un flusso migratorio incontrollato potrebbe determinare un vero e
proprio genocidio nei Paesi di destinazione, come quello che nelle Americhe interessò le
nazioni precolombiane e le nazioni pellerossa, con ciò rendendo giustificabili le varie
barriere, fisiche, giuridiche e psicologiche, issate per bloccare un tale flusso. Ma forse è
proprio la miopia del mondo occidentale la causa dei suoi stessi problemi.
Quello stesso progresso tecnologico alla base del nostro benessere, attraverso la
diffusione in ogni parte del mondo dei mezzi di comunicazione di massa, di Internet e dei
social network, ha messo in evidenza in tutta la sua brutalità l’enorme divario che esiste
fra “nord e sud” del mondo, inducendo nelle società più povere la progressiva presa di
coscienza della propria effettiva situazione e l’insorgere del legittimo desiderio di
migliorarla. E’ condannabile l’aspirazione ad una vita migliore? E dove poterla tentare se
non in quei Paesi che comunicano di sé l’immagine di una società opulenta e felice? Il
nostro benessere e la nostra cultura non sono a rischio perché arrivano i migranti, ma i
migranti arrivano perché noi stessi abbiamo messo a repentaglio la nostra identità
rinunciando alla giustizia, alla capacità di comprendere che è l’umanità intera il patrimonio
da salvaguardare e non solo la nostra personale prosperità.
L’esodo deve essere fermato non per i problemi che potrebbe arrecare alle nostre società,
ma in quanto è il fenomeno in sé ad essere intrinsecamente disumano, perché lo sono i
motivi che lo determinano.
Un cambiamento di prospettiva di tale portata non può esaurirsi nell’ambito di una
generazione: esso passa attraverso l’educazione dell’uomo, affinché si recuperi la
consapevolezza della reale dimensione umana e del significato della presenza su questo
piano. Ciò che auspico è un’umanità in cammino, in evoluzione, che può e deve vivere le
trasformazioni non come segnali di declino o di rinuncia alla propria identità, ma piuttosto
come volontà precisa di adeguarsi a quanto più e meglio risponda alle reali esigenze degli
individui tutti, definite queste sulla base dei diritti naturali che discendono dal fatto stesso
dell’esistenza, dell’essere parte di un ordine cosmico che dobbiamo preservare e tutelare.
La realtà non è un dato oggettivo, immutabile, indipendente dalla nostra volontà.
Operando sulle coscienze individuali e quindi sulla volontà conseguente, possiamo agire
per cambiare la realtà. Ciò richiede una vera e propria rivoluzione del processo mentale.
Infatti le persone sono normalmente portate a giudicare e a rapportarsi agli altri sulla base
dei propri schemi mentali, delle proprie abitudini, tradizioni e leggi, in una parola sulla base
della propria cultura, che è andata formandosi e stratificandosi nel corso di molti anni.
L’incontro con il nuovo, con il non conosciuto, genera tensioni, paure e dubbi, ai quali i più
reagiscono isolandosi e invocando il ritorno al passato, cercando in ogni modo di tenere
lontano il problema, rifiutandosi di affrontarlo, di ricercarne le cause e di esplorarne le
possibili soluzioni; ed in nome della sicurezza e della tranquillità, sono disposti a rinunciare
anche ad alcune delle libertà faticosamente conquistate negli anni.
Questo è esattamente ciò che sta accadendo in Europa in risposta all’esodo che la
investe. L’Unione Europea non ha saputo dare una risposta univoca e coraggiosa al
fenomeno. La proposta di ripartire fra tutti i Paesi l’onere dell’accoglienza è stato
osteggiato da molti, sono stati eretti muri e reintrodotti i controlli alle frontiere. Si finanziano
Stati vicini e non appartenenti all’Unione affinché impediscano ai profughi di proseguire nel
loro viaggio. La Gran Bretagna paventa la possibile uscita dal consesso ed ecco che
ottiene concessioni speciali, in barba alla supposta parità degli Stati membri. La verità è
che il nazionalismo e gli interessi particolari dei singoli Stati sono ancora prevalenti, ed
nelle occasioni di emergenza prendono generalmente il sopravvento rispetto alle intese
comuni.
Gli abiti di cui si riveste l’Unione Europea sono ormai lisi e poco credibili. Anche su questo
fronte occorrerebbe constatare che il re è nudo. Perché tendiamo a non farlo? Non
sappiamo, o non vogliamo farlo, per timore delle conseguenze che dovremmo trarne? In
effetti, prenderne atto potrebbe rappresentare quella singolarità, quella asimmetria che ci
spingerebbe inevitabilmente e necessariamente a compiere un atto evolutivo, che
comporterebbe l’abbandono del “confortevole” mondo che abbiamo occupato fino a questo
momento e ci consegnerebbe alla necessità della scoperta, della costruzione di un mondo
nuovo, all’esercizio della libertà creatrice così temuta dalle masse e dalle loro gerarchie.
Giunti a questo punto, possiamo concludere il racconto di Anderson. Cosa accade dopo
che il fanciullo denuncia la nudità del re? Ebbene, assolutamente nulla:
“Ormai devo condurre questa parata fino alla fine!”, pensò il re, pur sapendosi scoperto. E
così si drizzò ancora più fiero e riprese a sfilare, mentre i ciambellani lo seguivano,
reggendo un mantello che non c’era per niente.
Difficilmente il potere rinuncia a se stesso, ripensa e modifica se stesso, anche se messo
di fronte a evidenti fallimenti. E troverà sempre uno stuolo di cortigiani pronti a seguirlo,
perché è da esso che traggono la propria ragione di essere ed il proprio sostentamento. A
meno che non intervenga un fatto eversivo, non necessariamente di natura violenta: è
eversiva anche una diversa e condivisa presa di coscienza della realtà, purché se ne
traggano le conclusioni e si agisca di conseguenza.
Che collocazione può trovare in tutto ciò la Massoneria? Quale ruolo può svolgere in un
ambito così complesso e deteriorato? Certamente il primo compito è quello di formare le
coscienze secondo la prospettiva che le è propria, ovvero quella basata su una visione
della realtà fenomenica non condizionata dai pregiudizi, dai preconcetti, dalla cultura
dominante, dagli interessi di questa o quella fazione in gioco, sì che, come abbiamo già
detto, ne risulti un quadro quanto più rispondente all’individuazione dei reali bisogni
dell’umanità nel suo complesso. Ma non basta. Occorre che assuma un ruolo “eversivo”.
Nel corso della sua storia centenaria, ritengo che la Massoneria abbia dato il meglio di sé
non solo quando ha correttamente interpretato la natura dei problemi, ma quando, forte di
questa corretta interpretazione, si è poi prodigata nella diffusione delle idee forti, delle
linee guide capaci di trasformare e definire un’epoca. Al di là di possibili azioni contingenti,
nelle quali ciascun adepto potrebbe comunque impegnarsi a titolo personale collaborando
con una delle tante associazioni esistenti, come per esempio nell’opera di assistenza ai
profughi, trovo che in quanto forma-pensiero la Massoneria possa manifestarsi
compiutamente nell’accettare le sfide epocali che richiedono cambi di paradigma culturale.
Penso al contributo da essa dato, a titolo di esempio, alla formazione e diffusione del
pensiero illuminista, dal quale hanno avuto origine i moderni stati liberali, alla redazione
della carta dei diritti dell’uomo, alla formazione di organismi come la Società delle Nazioni
prima, e dell’Onu successivamente, al processo Risorgimentale italiano, e via di seguito.
Tappe fondamentali nella storia dell’umanità, che hanno richiesto l’impegno di generazioni
di uomini.
Anche adesso ci troviamo di fronte ad una sfida generazionale, e la migliore risorsa che
abbiamo a disposizione per affrontarla, quella che nel lungo termine potrebbe dare le
maggiori garanzie di successo, passa attraverso l’educazione dei giovani, perché sono i
più idonei ad accettare le nuove idee.
Il grande scienziato Niels Bohr, uno dei padri della meccanica quantistica, diceva che le
nuove idee non si impongono perché gli scienziati ne riconoscono unanimemente la
validità, ma perché le nuove generazioni crescono avendole già assimilate.
La Dichiarazione del Millennio, approvata nel 2000 da 186 Capi di Stato e di Governo nel
corso della Sessione Speciale dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, indica otto
finalità principali da perseguire, i Millennium Goals, e al secondo posto, dopo l’obiettivo di
dimezzare la povertà e la fame, vi è quello di fornire una educazione di base universale.
Ecco allora uno scopo degno della Massoneria: sostenere lo sviluppo di programmi di
studio omogenei che privilegino il senso della convivenza, della collaborazione e dello
scambio culturale, della pari dignità delle persone, dell’interazione fra popoli, affinché le
future generazioni possano crescere sentendosi partecipi del più ampio consesso umano
piuttosto che cittadini di un singolo stato, e possano altresì ripensare le modalità di
convivenza socio-economica in modo da eliminare gli squilibri oggi imperanti.
Affinché tutto ciò non rimanga soltanto un proposito, un primo importante passo che
potremmo compiere a livello europeo è quello di utilizzare l’istituto dell’iniziativa
legislativa popolare, ovvero effettuare una raccolta di firme nell’ambito dei Paesi
dell’Unione a sostegno di una proposta di legge che il Parlamento Europeo avrà poi
l’obbligo di analizzare e porre in discussione.
Potremmo definire tale proposta di legge “Carta di Montebelli”, con la quale non solo
promuovere l’omogeneizzazione dei programmi di studio per rendere comuni le basi
culturali delle future generazioni, ma altresì prevedere per gli studenti delle scuole
superiori un periodo obbligatorio di frequenza presso scuole di altri Paesi dell’Unione, per
favorire la crescita di veri cittadini europei.
Un primo passo, certo non definitivo né conclusivo, ma considerevole per le prospettive
che aprirebbe. Mi rendo conto dell’enormità dell’impegno, ma anche la posta in gioco è
estremamente importante, perché da essa potrebbe dipendere in larga misura quel futuro
di pacifica convivenza e di benessere diffuso che abbiamo auspicato. Un impegno e una
sfida che la Massoneria non solo può raccogliere, ma che può anche vincere, purché lo
voglia.