LA MUSICA POPOLARE ISTRO-VENETA NEL
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LA MUSICA POPOLARE ISTRO-VENETA NEL
LA MUSICA POPOLARE ISTRO-VENETA NEL CONTESTO ETNOMUSICALE NORD-ADRIATICO sig. Roberto Starec studioso di folklore musicale È certamente prematuro, allo stadio attuale della ricerca (da me avviata sistematicamente dal 1983, e tuttora in corso), voler trarre delle conclusioni o anche soltanto tracciare delle ipotesi conclusive. Restano ancora scoperte molte aree e località, e in altre sarà necessario ritornare e approfondire, ma già si sta delineando un quadro complesso e articolato (e ancora relativamente vitale) del folklore musicale veneto in Istria. Una prima ma già definita immagine emerge soprattutto per l’area meridionale istriota, dalla quale l’indagine ha preso avvio, ma altri aspetti in notevole misura diversi stanno rivelando anche l’Istria centrosettentrionale e le isole del Quarnero. È comunque già possibile in questo quadro complessivo riconoscere una serie di differenti fenomeni musicali tradizionali, localizzare la loro presenza e diffusione, ipotizzare rapporti e scambi culturali. Vorrei perciò tentare già fin d’ora alcune riflessioni, ponendo in relazione con certi aspetti delle aree limitrofe alcuni elementi ricavati dalla documentazione da me fino a questo momento raccolta. Nel corso del 1983 e del 1984 sono stati raccolti quasi 500 documenti sonori, equivalenti a circa 14 ore effettive di ascolto(1). Dapprima la ricerca si è indirizzata verso alcune località dell’Istria meridionale, a sud del Canal di Lemme, come Rovigno, Dignano e Gallesano già parzialmente oggetto d’indagini precedenti (Ivančan, Leydi, Sanga) (2), sia totalmente scoperte in precedenza come Valle e Sissano. Si poteva presumere, e ne ho trovato conferma, che queste località fossero tra le più conservative e più ricche d’interesse, in quanto «isole» etniche italiane (di dialetto istrioto o istro-romanzo) in un’area dove la ricerca etnomusicale nei villaggi croati aveva rivelato fenomeni tradizionali importanti (3). Un’altra area con caratteristiche nettamente diverse si presentava quella del Buiese e della valle del fiume Quieto, area mistilingue in cui le divisioni etnico-linguistiche appaiono molto meno nette e la stessa coscienza di una identità nazionale spesso è più sfumata. La tradizione veneta è qui però molto più viva anche nei villaggi minori, secondo quanto è risultato dalla mia ricerca proprio in alcuni piccoli centri (Oscurus presso Momiano, Martincici presso Grisignana, Tribano presso Buie, Ipsi presso Portole, Fiorini presso Verteneglio). Ma ancora molto rimane da raccogliere e da verificare. Sarebbe anche interessante confrontare percentualmente la presenza di canti sia italiani che croati nella composizione del repertorio dei singoli informatori o gruppi d’informatori. Resta ancora totalmente scoperta l’Istria settentrionale facente parte della Slovenia (Capodistria, Isola, soprattutto Pirano). Una prima raccolta è stata effettuata a Torre, con risultati interessanti, il che mi spinge ad includere nel mio programma anche Parenzo. È chiaro (e l’esempio del Buiese e del Parentino appunto la confermano) che nuovi indirizzi ed obiettivi si definiscono via via nello svolgersi della ricerca, in base ai nuovi dati che emergono e alle nuove ipotesi di lavoro che ne derivano. A questo stesso proposito l’incoraggiante esito di una prima ricerca a Cherso m’induce all’intento di verificare la presenza e vitalità attuale della tradizione veneta anche nelle altre isole del Quarnero. Rientrano nel progetto Neresine sull’isola di Lussino e Veglia sull’isola omonima e credo che un tentativo vada fatto anche a Sansego (isolotto ormai quasi disabitato, ma fino a non molti anni fa ben più popoloso e caratterizzato da forti tratti conservativi, fra cui l’endogamia)(4), dove non è escluso siano ancora riscontrabili anche tracce significative di cultura veneta, pur in un ambito prevalentemente slavo. A margine si può ancora osservare che più in generale mai, a quanto mi risulta, si è tentato di verificare il livello di penetrazione della cultura popolare veneta (o comunque italiana) nei villaggi slavi dell’Istria interna. Ritengo che ne emergerebbero in molti casi dati interessanti, forse anche con persistenze di tipo arcaico e comunque certamente non riconducibili soltanto a conseguenza più diretta dell’amministrazione italiana fra le due guerre, ma risalenti ad influenze ben più antiche. Da notare a questo proposito che a Zagabria nel «Zavod za Istraživanje Folklora», a parte il non molto materiale relativo ai centri veneti e istrioti come Gallesano e Dignano, sono registrati pochissimi documenti cantati in italiano: due di Barban (Barbana), due di Rovinjsko Selo (Villa di Rovigno), uno di Medulin (Medolino) (6). Segnalo invece di aver anche raccolto, pur senza averne cercati con attenzione specifica, alcuni canti bilingui, di non grande interesse etnomusicale intrinseco, ma certamente significativi sul piano dell’interazione fra le due culture. A questo stesso discorso va collegato inoltre un canto narrativo raccolto a Sissano, su testo interamente italiano, ma cantato su un modulo musicale tipicamente istro-croato, con la caratteristica inserzione del ritornello onomatopeico detto «ojaninanena»(6). Il fenomeno più significativo dal punto di vista etnomusicologico che si possa ancor oggi riscontrare fra la minoranza italiana in Istria è indubbiamente rappresentato da uno stile di canto contadino diafonico, certamente di antica ascendenza, oggi presente soltanto (a meno che ulteriori ricerche non riservino sorprese impreviste) in poche località dell’Istria meridionale. Questo discanto arcaico a due voci assume nome e caratteristiche suoi propri in ciascun luogo. È detto basso a Dignano e Valle, canto a pera (cioè a paio, a coppia) e canto a la longa a Gallesano, mantignada (cioè mattinata) a Sissano, butunada (si potrebbe tradurre satira o invettiva) a Rovigno. Strutture e stili esecutivi presentano tratti comuni e ben individuabili, pur nelle ben distinte varietà locali. Va detto che prima della mia ricerca queste forme di canto tradizionale veneto-istriane, purtroppo secondo ogni apparenza in rapida via di estinzione, erano ben poco conosciute»(7). I bassi di Valle, i canti a pera di Gallesano, le mantignade sissanesi, le butunade rovignesi non erano mai state pubblicate, né a stampa né tanto meno in disco. Relativamente più noti sono invece i canti u dva (a due) e na tanko i debelo (sottile e grosso) dell’Istria croata, delle isole del Quarnero (soprattutto Krk = Veglia) e del Litorale settentrionale(8). Sull’altro versante dell’Adriatico (Marche, Abruzzo, Umbria orientale) sono documentati tipi di bivocalità simili conosciuti generalmente come canti a batoccu o vatoccu (=batacchio della campana) (9). L’area di maggior presenza attuale sembra essere la provincia di Macerata. Tratti comuni riconoscibili in tutti questi tipi di canti sono l’ambitus melodico ridotto, il frequente uso della vocalizzazione, l’andamento non parallelo delle due voci, la conclusione spesso all’unisono o all’ottava; sotto l’aspetto ritmico si nota l’assenza di pulsazioni regolari e di gruppi metrici ricorrenti, la presenza di numerosi suoni lunghi, l’indipendenza ritmica delle due parti. Questi fenomeni musicali caratteristici, ed anzi almeno oggi esclusivi delle due sponde adriatiche, rappresentano indubbiamente uno dei più antichi stili polivocali europei, e non è improprio ritenere che stili analoghi siano stati all’origine del discanto medievale, per influsso della pratica popolare sulla musica chiesastica. Ritengo di poter affermare che i discanti istro-veneti non presentino coincidenze immediate con i canti croati compresenti nella medesima area. Soprattutto le scale musicali in essi impiegate non sembrano aver rapporto con la cosiddetta «scala istriana» caratteristica dei canti istro-croati. È piuttosto riscontrabile in senso più generale una serie di caratteristiche strutturali ed esecutive comuni, rintracciabili pienamente anche sull’altro versante adriatico. La testimonianza di questo tipo di persistenze musicali arcaiche nell’Istria veneta porta nuovi contributi alla stimolante ipotesi di una sub-area nord adriatica che includerebbe la fascia costiera dell’Adriatico settentrionale dall’Abruzzo al Litorale jugoslavo settentrionale, comprendendo popolazioni abruzzesi, marchigiane, umbre, romagnole, venete, veneto-istriote, croate (čakavski, cioè di dialetto ciacavo) (10). Si può supporre cioè che questo modello polivocale diafonico avesse un tempo diffusione lungo l’intero arco costiero nord adriatico. In effetti alcuni tipi di canti (rumanele, canti a la boara, zaparesse) raccolti in Romagna, nel Polesine e nella Laguna veneta)(11) non più eseguiti diafonicamente ma solisticamente, presentano strutture melodiche simili o coincidenti con quelle dei canti umbro-marchigiani e istriani (veneti e croati) ancora oggi eseguiti a discanto. Tutta l’area dell’alto Adriatico appare connotata, dal punto di vista etnomusicale, da caratteri strutturali ed esecutivi accostabili piuttosto a quelli orientali-meridionali che a quelli settentrionali, in particolare l’accentuata decorazione melismatica e il modalismo con soluzione nel minore. Nell’Istria veneta ancor oggi e nel Veneto tutto nel passato (si vedano le raccolte ottocentesche di «poesia popolare») (12) si riscontra poi una presenza delle forme cosiddette «lirico-monostrofiche» su base endecasillaba non usuale per l’Italia settentrionale in genere (dove predomina, come è noto, il repertorio narrativo su metri cosiddetti epicolirici, come settenari, ottonari, novenari). La stessa infiltrazione dello stornello, sia pure anche e soprattutto su moduli musicali di evidente diretta importazione dall’Italia centrale, testimonia la rispondenza ai caratteri dei generi «lirici». I discanti veneto-istriani, insieme con le villotte endecasillabe e gli stornelli, ancora oggi ci possono fornire una immagine di quale doveva essere in passato il repertorio di elezione di tutta l’area veneta, soprattutto costiera. Non è raro constatare che un’area periferica come l’Istria mantenga, per la sua collocazione geografica e in ordine ad un certo quale isolamento storico, materiali più arcaici rispetto ad un’area principale (veneta) più aperta alle diverse influenze, anche disgreganti. Sempre a proposito di questo repertorio «lirico», vorrei accennare ad alcune riflessioni, forse marginali, ma che tuttavia mi appaiono stimolanti per ulteriori approfondimenti. Si osserva nei bassi dignanesi e nei canti a la longa di Gallesano un modo caratteristico non solo di ripetere ma anche di spezzare quelli che si possono riconoscere come i versi-base, secondo un modulo esecutivo interamente piegato alle necessità musicali ed anzi indifferente al senso logico: una parola può anche essere troncata a metà e poi il verso, o metà verso, ripreso da capo. È questo un aspetto certamente trascurato o ignorato del tutto dai raccoglitori del passato, portati anzi a voler riconoscere il (supposto) verso-tipo originale e non a riportare le iterazioni e frammentazioni che si realizzano nella realtà viva dell’esecuzione(13). Ho anche notato nei discanti, nelle villotte, negli stornelli che mi sono stati cantati, una presenza percentualmente non trascurabile di testi che si sarebbero un tempo definiti «licenziosi» od «osceni», dei quali non si trova praticamente traccia nelle raccolte pubblicate, presumibilmente per censura dei raccoglitori o per autocensura degli informatori. Va precisato che nella mia ricerca, peraltro diretta prevalentemente a documentare gli aspetti musicali, relativamente al repertorio «lirico» non è stata rivolta alcuna sollecitazione particolare rispetto ad un determinato genere di testi o ad un altro. Chiarisco soprattutto che non si tratta di strofette a doppio senso del tipo «da osteria», ma di versioni «liriche» pienamente inserite anche dal punto di vista formale nel filone del canto popolare di più antica e «nobile» tradizione. Ancora una notazione: in calce ad una descrizione straordinariamente precisa per l’epoca di un discanto di Dignano, che ho rinvenuta in un giornale stampato a Parenzo alla fine dell’Ottocento, ci viene riferito della proibizione di tali canti (peraltro con scarso effetto), senza che vi si accenni al motivo del divieto(14). Si affacciano qui degli interrogativi sul rapporto fra canto popolare e autorità costituita. Mi chiedo: si vedeva forse nei discanti di Dignano una valenza «eversiva» nel loro stesso carattere musicale come afferma l’articolista ben inarmonico, anche in assenza di qualsiasi contenuto contestativo nei testi? Certamente oggi appare chiaro che il valore di diversità e in qualche misura di contrapposizione del canto popolare si esprime non solo e non tanto nei peraltro non frequenti testi espliciti in senso protestatario, ma soprattutto nelle peculiarità espressive e di linguaggio (anche e soprattutto musicali)(15). Naturalmente anche nell’Istria veneta sono compresenti materiali di tipo narrativo e canti anche stilisticamente più recenti, direttamente assimilabili al repertorio e ai caratteri esecutivi dell’area settentrionale italiana, con predominio del modo maggiore, forte presenza di esecuzione corale (polivocalità per terze), strutture ritmiche piuttosto rigide. Pure nell’ambito di questo quadro, tuttavia, le cosiddette arie da nuoto (= di notte) rovignesi si evidenziano soprattutto per l’accentuata tendenza alla decorazione melismatica e per una maggiore libertà ritmica, nonché per l’emissione d’intensità contenuta, anche con uso del falsetto. In questo gruppo di canti, di caratteristiche non uniformi, databili stilisticamente ad epoche diverse, è notevole osservare la forza omologatrice di uno stile esecutivo che ingloba e assimila canti di diversa provenienza, uniformandoli ad un modello comune. I cantori naturalmente non pongono distinzioni e categorie nell’ambito del repertorio delle arie di notte (composto attualmente da una trentina di arie), ma lo studioso coglie in esso una complessa stratificazione, avvenuta presumibilmente nel corso degli ultimi due-tre secoli, di canti originariamente anche diversissimi tra loro. Sia nei testi che nelle musiche, al di là degli adattamenti e delle trasformazioni subite nel corso della tradizione orale, si colgono nettamente gli echi di laude e canti sacri «travestiti» in canti profani, di componimenti di probabile origine colta o semi-colta di carattere arcadico, di canzoni più recenti dal linguaggio stilistico ottocentesco, anche di alcuni canti narrativi. È un repertorio che costituisce un esempio lampante di come il canto popolare non vada collocato in un passato non ben definito e sostanzialmente immobile, ma vada letto in termini di evoluzione e di sovrapposizioni. I testi, a parte poche forme dialettali, sono in italiano (ma sappiamo che già un secolo fa, e anche prima, cantare in italiano veniva considerato più «nobile» nelle stesse classi popolari) (16), spesso con evidenti storpiature e con frasi prive di senso compiuto. Qui l’interesse è chiaramente rivolto quasi esclusivamente alla musica: il testo è un pretesto, un veicolo per il canto. Presumibilmente proprio per questo motivo le arie di notte sono state ignorate dai raccoglitori di poesia popolare. Va posta in risalto invece in questi ultimi anziani cantori rovignesi (ma forse alcuni giovani stanno dando luogo ad un fenomeno di consapevole ripresa) l’esistenza di una di quelle vere e proprie scholae cantorum popolari, che in certe località da generazioni e magari da secoli esprimono un cosciente magistero del canto. Siamo ben lontani in questi casi dall’equazione (del resto comunque inesatta) popolare = semplice e spontaneo. Ci troviamo invece di fronte ad una raffinata e per così dire «aristocratica» espressione musicale di tradizione orale nella quale eccellono pochi cantori riconosciuti da tutta la comunità come i depositari della tradizione stessa) (17). Pochi sono i casi analoghi documentati nel nord Italia e forse i cantori di Rovigno rappresentano oggi un caso unico relativamente all’area nord-orientale adriatica proprio per l’innesto di caratteri esecutivi «mediterranei» in canti peraltro riconducibili a modelli settentrionali. Anche in questo caso si può ritenere questo stile un tempo di maggiore diffusione lungo le sponde settentrionali dell’Adriatico (e penso in particolare alla Romagna) (18) . Accosto alcune altre minuscole tessere del mosaico, queste relative agli strumenti tradizionali. Risulta attualmente esclusivo in Istria degli italiani di Gallesano l’uso popolare del tamburello con sonagli (localmente detto simbolo). Nel corso della mia ricerca alcune testimonianze orali ne hanno però attestato la presenza in un passato relativamente recente anche a Sissano, presso un’altra comunità veneta. Una testimonianza scritta della metà del secolo scorso ne registra l’uso a Pola (18). In tutti e tre casi il tamburello è impiegato in unione con le pive. Un’altra testimonianza scritta relativa a Dignano dichiara alla fine dell’Ottocento essersene perduto l’uso quaranta o cinquant’anni prima(20). Il tamburello a sonagli, attualmente ancora molto diffuso nell’Italia centromeridionale, sembra scomparso da tempo dall’uso popolare nell’Italia del Nord (con l’eccezione di Cogne, in Val d’Aosta, dove è però sfregato più che percosso) (21). La presenza passata del cembalo (zinibalo, zimbaleto) soprattutto nel Veneto è però ampiamente documentata, anche nei testi di molti canti. Anche alcuni documenti iconografici del secolo scorso confermano l’uso estensivo e peculiare del tamburello per l’alta Italia nell’area veneta. lo stesso ho reperito una vecchia stampa, con in calce la dicitura Litografia Veneta, raffigurante una donna che suona il tamburello: lo strumento appare del medesimo tipo di quello che sopravvive ancora in uso a Gallesano, cioè privo dei caratteristici piattini inseriti nella cornice che compaiono nei tamburelli del sud Italia. Si può affermare che a Gallesano si è conservato l’antico tamburello veneto, nel quale i sonagli (anelli, bubboli, campanelli) sono invece appesi all’interno della cornice o sospesi a cordicelle tese diametralmente ad essa. Le pive di Gallesano (e ricordo che tipi diversi di piva e musa in uso in alcune aree delle Alpi e dell’Appennino settentrionale sono da tempo estinte) indubbiamente presentano relazioni evidenti con il mih istro-croato, a due canne parallele con ancie semplici senza bordoni. Tuttavia il tipo di Gallesano (e le rare šurle istro-croate ad esso collegabili), a canne separate e non ricavate nel medesimo blocco, potrebbe rappresentare una variante «italiana» dello strumento, punto d’incontro fra il mih e la zampogna italiana (in particolare il tipo calabrese detto a paro, con le due canne del canto di medesima lunghezza). Forse questo incontro sarebbe da collegare ad una immigrazione di ripopolamento dall’Italia meridionale durante la dominazione veneziana. È curioso che a Gallesano sia diffusa la tradizione storica orale di una origine «calabrese» (che vuol dire naturalmente Italia meridionale in genere), peraltro a quanto mi risulta non provata da documenti. Un caso inverso si può probabilmente riconoscere nel tipo di zampogna usata a Fossalto, nell’area delle colonie etniche croate del Molise, che presenta le corte canne appaiate di tipo balcanico con l’aggiunta dei bordoni caratteristici della zampogna italiana(22). Osservo ancora che la coppia dell’Istria veneta meridionale pive-simbolo trova sull’altra sponda adriatica il suo corrispettivo nella coppia organettotamburello nelle Marche e nell’Abruzzo. L’organetto, cioè la fisarmonica diatonica, ad ancie libere, rappresenta la naturale sostituzione della zampogna, avvenuta a partire dalla fine del secolo scorso. Proprio le Marche (Castelfidardo e altri centri) rappresentano in Italia la principale e quasi esclusiva area di produzione odierna, accanto alle moderne fisarmoniche cromatiche, dell’organetto. Anche nell’Istria centro-settentrionale ho rilevato una notevole presenza dell’organetto diatonico, che viene detto armonica, come un tempo in tutta l’Italia settentrionale (dove oggi è pressoché scomparso, sostituito dalla più moderna fisarmonica). L’Istria ne ha invece conservato l’uso, probabilmente anche in rapporto alla sua collocazione geografica rispetto a due importanti poli di fabbricazione e d’uso contemporaneo dello strumento: le Marche appunto e la Slovenia (23). Sempre in relazione alla musica strumentale si può osservare che la coppia violino-basso ad arco (liron o bassetto), ancora presente fra gli italiani a Dignano (e nell’Ottocento anche a Pola) e nell’area mistilingue della valle del Quieto, documenta certamente un influsso italiano, che trova ormai pochi casi equivalenti in uso oggigiorno nella montagna bresciana, sull’Appennino bolognese, e in Friuli tra gli sloveni della Val Resia (cioè in aree montane marginali dell’Italia del nord)(24). Un tempo la coppia violino-basso, in cui il secondo strumento ha funzione prevalentemente ritmica e non melodica (come il tamburello rispetto alle pive e all’organetto), era indubbiamente molto più diffusa soprattutto lungo l’intero arco alpino. In uno scritto della metà del secolo scorso sugli slavi istriani apparso nell’Istria del Kandler, è detto che nelle feste slave in Istria, se le possibilità economiche lo consentivano, venivano chiamati dalla Carnia suonatori di violino e basso (in caso contrario ci si accontentava dei locali suonatori di mih o roženice) (25). Spunti e riflessioni analoghi si potrebbero trarre da altri usi musicali tradizionali. Anche i canti narrativi (ballate), sia nella loro forma monodica solistica che in quella corale relativamente più recente, e i canti per l’infanzia (ninne-nanne, filastrocche, formule di conta) raccolti in Istria andranno posti a confronto con quanto nei medesimi generi è documentato soprattutto per l’area veneta. Riguardo ai canti di questua per Natale, Capodanno ed Epifania, si può accennare almeno che l’uso epifanico della questua con la stella ancora vivo in Istria in quest’ultimo dopoguerra, trova corrispettivi nel passato e anche in funzione nell’area veneta e fino al Bresciano da un lato, nei riti e nei canti della Pasquetta nelle aree marchigiano-abruzzese e romagnola dall’altro (26). Alcuni altri casi specifici: ho raccolto a Cherso, in versione integra, un canto sui dodici mesi dell’anno che ha precisa coincidenza con un canto raccolto trent’anni fa nel Polesine (27); ho raccolto a Torre un canto di lavoro per la peschiera che autorizza un qualche affronto con gli antichi canti ritmici dei battipali della Laguna veneta e con gli stessi canti di tonnara mediterranei; nel ballo della furlana raccolto a Dignano gli intermezzi soltanto strumentali che separano le parti anche cantate corrispondono alla cosiddetta liolela (= ritornello nonsense) che altrove nel Veneto e in Lombardia compare in certe villotte nelle quali l’accompagnamento strumentale si è perduto (27). Una questione ancora insoluta riguarda le bitinade rovignesi, nelle quali le voci realizzano un caratteristico accompagnamento ritmico ad imitazione strumentale. La presenza totalmente isolata nell’area adriatica delle bitinade soltanto a Rovigno, mentre forme analoghe e apparentemente più integre appaiono nell’area tirrenica (Liguria, Toscana, Sardegna settentrionale), appare evidentemente in contraddizione rispetto ad altri elementi e non facilmente spiegabile (29). Su molti aspetti del folklore musicale veneto-istriano sono ancora necessarie altre indagini e prima di tutto è necessario raccogliere altri documenti «sul campo» e coprire le aree ancora scoperte. Analisi comparative più complete potranno aversi soltanto disponendo di maggior materiale di tutte le aree. Se certo è indispensabile cercare di evitare d’indirizzarsi verso conclusioni precostituite, è importante però essere guidati nella raccolta da ragionevoli ipotesi di lavoro, anche e proprio nella ricerca dei possibili «anelli mancanti». NOTE (1) Vedi l’album discografico Canti e musiche popolari dell’Istria veneta, a cura di R. Starec, Albatros ALB/20, e R. Starec, Una ricerca etnomusicologica nelle comunità italiane in Istria, in Zgodovinske vzporednice slovenske in hrvaške etnologiie III Portoroz 1984, in c.d.s. (2) Registrazioni effettuate da Ivančan nel 1960, da Leydi (Gallesano) nel 1969, da Sanga (Gallesano) nel 1973. Vedi: I. Ivančan, Istarski narodni plesovi, Zagreb, 1963, pp. 73-86, 283-304; R. Leydi, I canti popolari italiani, Verona, 1973, pp. 85 e 201; R. Leydi, La canzone popolare, in Storia d’Italia, vol. V, I documenti 2, Torino, 1973, p. 1215; G. Sanga, Il linguaggio del canto popolare (con 2 audiocassette), Milano, 1979, p. 50; e i dischi Italia, vol. 3, a cura di R. Leydi, Albatros 8126, e La zampogna in Italia, a cura di R. Leydi e B. Pianta, Albatros 8149. (3)Vedi soprattutto: N. Karabaić, Muzički folklor Hrvatskog primorja i Istre, Rijeka, 1956; I. Ivančan, 1963, cit.; S. Zlatić, Istarsko-primorsko muzičko podrucie, Zagreb, 1968. Documenti sonori originali sono nei dischi: Istra-Muzika i tradicija, RT13 Lpv-191; Narodne piesme i plesovi iz Istre i Krka, Jugoton 61034; e in una serie di cinque dischi dedicati a diverse aree istriane (Barbanstina, Buzestina, Pazinstina, Porestina, Roverija), realizzati con materiali raccolti da R. Pernić. (4)Cfr. AA.VV., Otok Susak, Zagreb, 1947. (5) J. Bezić, Zapisi i snimci istarskog muzičkog folklora u Institutu za Narodnu Umjetnost u Zagrebu, in «Rad XVII Kongresa Saveza Udruženja Folklorista Jugoslavije - Poreć 1970», Zagreb, 1972. (6) Cfr. G. Radole Canti popolari istriani, Firenze, 1965, p. 48; G. Radole, Rapporti tra canti popolari italiani e croati in Istria, in «Lares», XXXI, Firenze, 1965, pp.185-209. (7) Sui bassi dignanesi e sui canti a la longa di Gallesano vedi, oltre alle opere citate di Radole, Leydi e Sanga: L. Donorà, Così si cantava a Dignano, in AA.VV., Dignano e la sua gente, Trieste, 1975, pp. 301-305; M. Agamennone, S. Facci, La trascrizione delle durate nella polivocalità popolare a due parti in Italia, in «Culture musicali», I, 1, Roma, 1982, p. 100 e 102. (8) Vedi nota 3. Inoltre i dischi Dobrinj le bili grad (Narodne pjesme i plesovi iz Dobrinja i Krka), a cura di I. Jelenović, Jugoton 61252; Yugoslav folk music, a cura di K. Takasago, Lyrichord 189. (9) Cfr. G. Ginobili, Canti popolareschi piceni, Macerata, 1940-44, Firenze, 1967; M. Agamennone, S. Facci, cit., p. 101. Documenti sonori originali sono nei dischi: Canti e musiche popolari delle Marche, vol. I, a cura di R. Meazza e P. Navoni, Albatros 8382; Musica tradizionale del Maceratese (Marche 1), a cura di P. Arcangeli, Cetra SUONI 5006; Il vatoccu ed altri canti tradizionali, a cura di A. Dell’Utri, Albatros 8145. (10) Vedi: R. Leydi, I canti... cit., pp. 21-22; Id., La canzone... cit., pp. 1214-1215. (11) Cfr. soprattutto: A. Cornoldi, Ande, bali e cante del Veneto, Padova, 1968; T. Magrini, G. Bellosi, Vi do la buonasera. Studi sul canto popolare in Romagna: il repertorio lirico, Bologna, 1982. (12) Cfr. tra le altre: A. Dalmedico, Canti del popolo veneziano, Venezia, 1848; G. Widter, A. Wolf, Volkslieder aus Venetien, Vienna, 1864; G. Bernoni, Canti popolari veneziani, Venezia, 1872. (13) Anche nelle raccolte di G. Radole: Canti... cit., pp. 139-151; Id., Canti popolari istriani - Seconda raccolta con bibliografia critica, Firenze, 1968, pp. 64-65. (14) P. A. Vittori, Briciole di cose patrie, in «L’Istria», V, n. 256, Parenzo, 1886, p. 2. Un altro cenno di proibizioni poliziesche (fiaccole e balli carnevaleschi) in: D. Rismondo, Dignano nei ricordi, in «Pagine istriane», Capodistria, X, 1912, p. 2. (15) Sul «folklore progressivo» e sullo «specifico stilistico» vedi: P. Clemente, Sul «folklore progressivo», in P. Clemente, M. L. Meoni, M. Squillacciotti, Il dibattito sul folklore in Italia, Milano, 1976, pp. 115-122; C. Bermani, L’altra cultura, Milano, 1970; G. Bosio, L’intellettuale rovesciato, Milano, 1975; Il nuovo canzoniere italiano (reprint della rivista 1962-1968), Milano, 1978. (16) E. Rubieri, Storia della poesia popolare italiana, Milano, 1966, pp. 225-226. Cfr. per l’Istria: A. Ive, Canti popolari istriani raccolti a Rovigno, Torino, 1877, p. IX. (17) Cfr.: D. Carpitella, Le false ideologie sul folklore musicale, in AA.VV., La musica in Italia, Roma, 1978, p. 222 e segg.; C. Gallini, Dinamiche di produzione, trasmissione, fruizione del canto sardo, in L’etnomusicologia in Italia, a cura di D. Carpitella, Palermo, 1975, pp. 189206; P. Sasso, Le strutture musicali, in La musica sarda, a cura di D. Carpitella, P. Sassu, L. Sole, Milano, 1973, pp. 47-51; P. Sassu, Canti della comunità di Premana, in Como e il suo territorio, a cura di R. Leydi e G. Sanga, pp. 277-282. (18) F. B. Pratella, Etnofonia di Romagna, Udine, 1938, p. 83 e segg.; Id., Primo documentario per la storia dell’etriofonia in Italia, Udine, 1941, pp. 230248 e 526-527. (19) H. Stieglitz, Istrien und Dalmatien, Stuttgart-Tübingen, 1845, p. 56. (20) P. A. Vittori, cit., p. 2; vedi anche D. Rismondo, Dignano nei ricordi. Feste, usanze, superstizioni, in «Pagine Istriane», Capodistria, XII, 1914, p. 22. (21) F. Guizzi, Per una prima lettura della mostra, in Gli strumenti della musica popolare in Italia (catalogo), Milano, 1983, pp. 22-23; vedi nel medesimo catalogo anche pp. 39-40. (22) Sui diversi tipi di zampogne italiane e croate vedi: La zampogna in Europa, a cura di R. Leydi, Como, 1979; Zampogne - Italia 1/2, a cura di F. Guizzi e R. Leydi (libretti allegati ai due dischi omonimi Albatros 8472 e 8482); P. Brömse, Flöten, Schalmeien und Sackpfeifen Süd-Slaviens, Brium - Prag Leipzig - Wien, 1937; B. Širola, Sviraljke s udarnim jezičkom, Zagreb, 1937. (23) Cfr.: F. Giannattasio, L’organetto, Roma, 1979; Z. Kimper, Ljudska glasbila in godci na Slovenskem, Ljubljana, 1983, pp. 89-93. (24) Cfr.: R. Leydi, C. Pederiva, I balli del carnevale a Bagolino, in Brescia e il suo territorio, a cura di R. Leydi e B. Pianta, Milano, 1976, pp. 4574; S. Cammelli, Musiche e suonatori della montagna bolognese, in Musiche da ballo, balli da festa, a cura di S. C., Bologna, 1983, pp. 13-66; J. Strajnar, Ein slowenisches Instrumentalensemble in Resia, in «Studia instrumentorum musicae popularis», 2, Stockolm, 1972, pp. 158-162. (25) D. A. Facchinetti, Degli slavi istriani, cap. IV, Formalità usale nella celebrazione delle nozze, in «L’Istria», 11, n. 22-23, Trieste, 1847, p. 89. (26) Cfr. R. Leydi, I canti... cit., pp. 80-86. Per l’arca lombarda: P. Ghidoli, G. Sanga, I. Sordi, L’epifania nel bresciano: i canti della «stella», in Brescia e il suo territorio, a cura di R. Leydi e B. Pianta, Milano, 1976, pp. 149168. (27) A. Cornoldi, cit., pp. 77-81. (28) Per il Veneto: A. Cornoldi, cit., pp. 168-172; per la Lombardia segnalo una villotta con «liolela» melodicamente diversa ma strutturalmente identica alla furlana di Dignano in: V. Brunelli, Canti popolari bresciani, in Brescia e il suo territorio, cit., pp. 421-422. (29) Cfr. le voci bei, tenores, trallallero in R. Leydi, S. Mantovani, Dizionario della musica popolare europea, Milano, 1970, pp. 61, 278-282. Documenti sonori originali sono nei dischi: Italia, vol. 3, cit.; Il trallalaro genovese, Albatros 8164; Canti popolari di Liguria, vol. 2, a cura di E. Neill, Albatros 8313; Pascoli serrati da muri (Coro del Supramonte di Orgosolo), Cetra folk 244; Musica sarda, a cura di D. Carpitella, P. Sasso, L. Sole, Albatros ALB/3.