I La ragazza dai lunghi capelli arrivò al binario trasci

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I La ragazza dai lunghi capelli arrivò al binario trasci
I
La ragazza dai lunghi capelli arrivò al binario trascinando una grossa valigia.
Con il fare noncurante di chi parte senza certezze, si
guardò intorno. Il binario era quasi deserto. Diede
un’occhiata all’orologio: mancava almeno mezz’ora all’arrivo del treno. L’espressione accigliata le disegnava
sulla fronte un’increspatura. Negli occhi, quello sguardo
intenso che si può avere soltanto a diciotto anni.
Andò a sedersi su una panchina, accese una sigaretta. Quel gesto di tenere una sigaretta fra le dita le dava
sicurezza, la faceva sentire più disinvolta. Era una piccola trasgressione che la contrapponeva a sua sorella,
sempre così impeccabile e controllata.
Tamburellava nervosamente il suolo con i piedi,
guardava lontano, assorta nei suoi pensieri.
Aveva scelto di andarsene, aveva scelto il ruolo di ribelle. Era accaduto dopo la morte di suo padre. Un padre
che aveva vissuto per dipingere, che aveva scelto di
ascoltare i suoi sogni e li aveva trasferiti sulle tele, dimentico di tutto il resto. Se ancora ci fosse stato, forse,
almeno lui, avrebbe compreso la sua decisione di cimentarsi in esperienze nuove, la sua voglia di cercare
qualcosa che desse un senso alla vita, che la rendesse
memorabile.
Quel pensiero le diede un brivido. Se era emozione o
paura, non lo sapeva più.
Inspirò un’altra boccata di fumo, tornò a guardarsi
intorno. Oltre la stazione s’intravedevano le automobili
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Laura Corso
colorate che sfrecciavano sul cavalcavia. Tutto il resto
era grigio, anche il cielo. Il cielo sbiadito di un mattino
di città. Un mattino uguale a tanti altri. Ma non per lei,
pensava: per questo continuava a guardarsi intorno. Era
come se volesse fotografare quei momenti. Istantanee
per la memoria, istantanee per un giorno speciale. Un
giorno che non avrebbe dimenticato più.
“Porta Susa. Stazione di Torino Porta Susa,” informò
a sorpresa l’altoparlante.
La ragazza sussultò. Gettò il mozzicone di sigaretta
fra le rotaie e rimase per un attimo a fissare la cenere
rossa che non voleva spegnersi. Neanche lei voleva spegnersi. Per questo si trovava lì, con la sua grossa valigia
sulla panchina del binario tre.
L’attendevano sei ore di viaggio. In treno, da sola.
Ma a diciotto anni nulla può fare paura. E comunque,
lei, non poteva permettersi di avere paura. Aveva fatto la
sua scelta. E niente, niente, sarebbe stato più come
prima.
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II
Non aveva nessuno che gli raccontasse una storia. Se
voleva una storia, doveva raccontarsela da solo, oppure
leggerla.
I suoi genitori tornavano a casa la sera. Avevano
poco tempo da dedicargli. Alla catenina che portava al
collo avevano appeso le chiavi di casa perché non le perdesse e avevano disseminato in ogni stanza bigliettini di
istruzioni, raccomandazioni, permessi e divieti: era
come avere dei genitori per corrispondenza.
Comunque, pensava, quella situazione poteva avere
anche i suoi vantaggi: nessuno lo controllava, era libero.
E poi ormai era grande: aveva undici anni, poteva stare
benissimo da solo, non aveva bisogno di nessuno, lui.
Da qualche tempo abitava in un quartiere al limitare
di un viale di platani. La sua casa non aveva un giardino vero e proprio: soltanto un’aiuola di rose e un ciliegio imponente, su cui aveva imparato ad arrampicarsi.
Starsene sul ciliegio era diventata la sua occupazione
preferita: si divertiva a osservare le persone che passavano. Volendo, poteva immaginare una storia per ognuno di loro. Qualche volta lo faceva.
Spostò leggermente un ramo. Scostò un ciuffo di foglie che impedivano lo sguardo. Eccola. La bambina dai
riccioli neri avanzava con passo spedito. In una mano teneva un libro, nell’altra la mano di una bimba con i capelli raccolti in due minuscole trecce bionde.
Ogni pomeriggio il bambino sul ciliegio seguiva tra
le foglie il percorso delle due bambine lungo il viale dei
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platani. Non conosceva i loro nomi, così le aveva soprannominate Ricciolineri e Trecciolina.
Trecciolina, che portava con sé un cestino color arancione, non doveva avere più di quattro anni. La sorella
maggiore, invece, aveva di sicuro la sua stessa età, perché l’aveva notata a scuola con le bambine della quinta
A. Lui era nella quinta B.
Ricciolineri aveva occhi scuri come l’ebano e capelli neri come l’inchiostro. Colpiva la serietà del suo
sguardo, la concentrazione con cui dipanava fili invisibili di pensieri. E aveva un modo curioso di camminare:
piccoli passi rapidi, simili a buffi, sommessi saltelli.
Trecciolina procedeva incespicando: non doveva essere un’impresa da poco tenere il passo della sorella
maggiore.
Con quelle andature da cartone animato, raggiungevano in fondo al viale le case delle loro nonne, che erano
una di fianco all’altra. Trascorrevano lì tutti i pomeriggi.
Le due nonne si chiamavano, questo il bambino lo
sapeva, Argentina e Adele. Lo aveva letto sui loro campanelli, mentre tornava da scuola.
Argentina era un nome davvero singolare. Un nome
da fata. Si addiceva a quella nonna un po’ bizzarra che
sorrideva guardando il cielo e parlava con le piante.
Nonna Adele gli ricordava invece la Regina delle
Nevi. Era così bella che sembrava dipinta, solo che non
sorrideva mai.
Anche a lui sarebbe piaciuto avere due nonne, invece non ne aveva neanche una.
Fece scorrere lo sguardo lungo il viale. Tornò alle
due bambine.
Davanti al cancello di nonna Adele si separavano:
Trecciolina scompariva fra i cespugli fitti delle ortensie,
accolta dal vociare allegro delle bambine degli altri giardini.
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Come in un mosaico
In quel quartiere non abitava nemmeno un bambino:
un altro buon motivo per rimanere sul ciliegio, pensava
a cavalcioni sul ramo.
Intanto Ricciolineri con i suoi passi-saltello aveva
già raggiunto la casa di nonna Argentina. Accanto al
cancello, seduta sul muretto, c’era Sibilla ad aspettarla.
Era lì ogni volta: l’orecchio teso al rumore inconfondibile dei suoi passi, l’occhio vigile in attesa di vederla
comparire fra i tronchi dei platani, la coda avvolta come
una sciarpa soffice intorno alle zampe.
Con la sua solennità tutta felina, Sibilla scortava Ricciolineri fino alla porta di casa, si lasciava coccolare un
po’, poi tornava nel giardino per un’ennesima battuta di
caccia.
Al bambino sul ciliegio piacevano i riti: sono rassicuranti le cose che si ripetono. Forse anche per questo se ne
stava tutti i giorni appollaiato fra i rami del ciliegio. Quell’albero lo proteggeva dalla solitudine che aveva provato
da quando abitava in quel quartiere di sole bambine.
Per fortuna c’era Ricciolineri che lo incuriosiva: lei
era diversa dalle altre bambine che ridevano per nulla.
A pensarci bene, non l’aveva mai vista ridere. Ma
sorridere, sì: quand’era nel giardino e leggeva. O quando inseguiva i suoi pensieri. D’un tratto sorrideva e s’illuminava tutta, perché sapeva sorridere con gli occhi: lei
soltanto era capace di un sorriso così.
Queste cose pensava il bambino sul ciliegio, mentre
dal giardino di nonna Adele si levavano risa spensierate:
Trecciolina e le sue amiche stavano giocando a mosca
cieca.
Ricciolineri partecipava di rado ai loro giochi e quelle poche volte non sembrava divertirsi molto. Come se
lo facesse per dovere.
Forse più tardi sarebbe ricomparsa sotto il faggio, intenta a scrivere con un quaderno sulle ginocchia.
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Chissà che cosa scriveva. Non sembrava un compito
di scuola.
Il bambino sul ciliegio lanciò ancora uno sguardo in
direzione del giardino di nonna Argentina. Poi prese
l’album da disegno che quel pomeriggio aveva portato
con sé.
Disegnò Sibilla, nascosta fra le margherite, che spiava una farfalla.
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III
Seduta sulla panchina del binario tre, la ragazza dai
lunghi capelli guardò di nuovo l’orologio: ancora una
decina di minuti prima che il treno giungesse dalla stazione di Porta Nuova. Il tempo sembrava si fosse fermato. Tolse dalla borsa un taccuino che prese a sfogliare. Ogni tanto si soffermava qua e là. Leggeva qualcosa.
Riprendeva a sfogliare. Infine giunse all’ultima pagina,
scritta la sera precedente.
30 settembre 1971
Che sarà domani?
Un treno preso al volo?
Un’emozione da nascondere?
Un trucco per la sopravvivenza?
Ma che sarà di me, se smetto di sognare?
Che sarà di me, se riprendo a morire?
Devo andar via di qui. Cambiare la mia vita.
Via. Via da questa città ostile.
Niente radici: solo lacci invisibili, ma dolorosi.
Solitudine. Ricordi fasulli. Quasi nulla da salvare.
Basta. Più niente mi trattiene:
da domani, radici portatili.
Sollevò il viso. Riprese a fissare le automobili che
correvano lungo il cavalcavia. Ma le guardava senza più
vederle, rincorreva i suoi pensieri. Le parole appena
lette le risuonavano nella mente.
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Pensava alla terra in cui era nata, che non era quella dei suoi avi, che non le suscitava emozioni. Non si
era mai sentita parte di quei luoghi. Avrebbe tanto voluto amare la sua piccola città, le montagne che la incorniciavano, le campagne tutt’intorno che la ornavano
di boschi, campi, orti, vecchie cascine. Avrebbe voluto
amarla. Se ci fosse riuscita sarebbe stato tutto più facile, non si sarebbe sentita così sola. Forse non se ne sarebbe neanche andata. Del resto, pensava, come ci si
può imporre di amare qualcosa o qualcuno? Quella
città non le apparteneva. Non erano quelle le sue radici. Sentiva di avere il mare, dentro. Il mare della Liguria di sua nonna Margherita, il mare di Nizza di suo
nonno Sebastiano, il mare della Corsica, del nonno di
suo nonno. Erano quelle le sue radici. Radici che si
inabissavano nelle acque profonde del Mediterraneo.
Radici che le facevano cercare il sole e il vento e detestare il freddo dell’inverno. Radici che la sospingevano lontano, alla ricerca delle sue origini, della sua
identità. Radici che la portavano a partire, a viaggiare,
ad andare incontro all’ignoto, come avevano fatto tutti
i suoi antenati inquieti. A lei era capitato di nascere
lontano dal mare, eppure soltanto in riva al mare si
sentiva a casa. Lo avvertiva a volte con una intensità
così chiara e forte che le toglieva quasi il respiro. Sentiva di essere stata strappata al mare. E allora che cosa
ci stava a fare lì, nella sconfinata pianura padana, lei
che sentiva il mare scorrerle nelle vene? Non stava andando incontro al mare, ma intanto si spostava, emigrava, andava verso una nuova città, una nuova vita
che lei sola aveva scelto.
Basta. Più niente mi trattiene: da domani, radici
portatili.
Era davvero questo il suo desiderio, pensò. E si rischiarò in un sorriso.
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Come in un mosaico
Radici portatili avrebbe potuto essere un bel titolo
per un romanzo. Chissà se un giorno sarebbe riuscita a
scriverlo, a dar voce alle storie che sentiva germinare
dentro di sé...
Sì, in quel mattino d’autunno qualsiasi progetto le
sembrava possibile. Lì, sulla panchina di pietra del binario tre, si sentiva forte, finalmente. Piena di entusiasmo. Invincibile. Il primo passo stava per essere compiuto, tutto il resto sarebbe venuto di conseguenza.
Ancora una volta un brivido la percorse. Si strinse
nel suo eskimo blu. Rimise il taccuino nella borsa, poi
prese a camminare su e giù lungo il binario, finché la
voce metallica dell’altoparlante non annunciò l’arrivo
del treno.
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