Le relazioni tra la Svizzera e l`Unione europea nel corso degli ultimi

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Le relazioni tra la Svizzera e l`Unione europea nel corso degli ultimi
Le relazioni tra la Svizzera e l’Unione europea nel corso degli ultimi decenni si
sono via via rafforzate. Ciò ha determinato la necessità di regolare i rapporti
attraverso la stipula di Accordi bilaterali, che sono stati impostati nel corso dei vari
anni.
Tali accordi sono stati sottoposti all’attenzione dei cittadini elvetici che, con
le votazioni popolari, hanno valutato e, nel caso ritenute opportune, approvare le
proposte. Così facendo i due partner hanno negoziato diversi accordi, che hanno
consentito di disciplinare diversi ambiti tra i quali la possibilità per le imprese di
migliorare l’accesso reciproco ai rispettivi mercati, la tutela dei lavoratori, taluni
aspetti relativi alla sicurezza dei prodotti, la lotta contro la criminalità organizzata
ecc..
D’altronde, in un sistema che nel corso degli anni è andato sempre più
glabalizzandosi, tale modus operandi si è reso necessario per trovare soluzioni su
misura valide per numerosi settori.
Le principali tappe hanno riguardato la stipula, nel 1972, dell’Accordo di
libero scambio, a cui ha fatto seguito l’Accordo sulle assicurazioni del 1989 ed, a
seguire, i sette accordi bilaterali I del 1999 ed i nove accordi bilaterali II del 2004.
L’Europa rappresenta per la Svizzera il suo principale partner sia dal punto di
vista economico che politico. Alla fine dello scorso decennio, infatti, quasi l’80 per
cento delle esportazioni svizzere erano dirette verso l’UE mentre, dall’altro lato, la
Svizzera rappresenta anch’essa un mercato di fondamentale importanza per le
esportazioni di prodotti europei.
Analizzando nel dettaglio gli accordi più importanti che sono stati stipulati,
quello del 1972 ha consentito di realizzare una zona di libero scambio tra le due
parti, riducendo o eliminando i dazi doganali o i contingenti, che ostacolavano il
libero commercio, anche se, non essendo state ancora armonizzate le politiche
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doganali tra la Svizzera e l'Unione europea (unione doganale), i controlli delle merci
alle frontiere sono stati mantenuti.
L'Accordo sulle assicurazioni del 1989 ha garantito alle compagnie di
assicurazione svizzere gli stessi diritti di stabilirsi nell'UE delle loro concorrenti
degli Stati membri.
Gli Accordi bilaterali I del 1999 sottoposti, come già evidenziato, alla
consultazione popolare svizzera, sono stati accettati dal 67% della popolazione e
sono in vigore dal 2002. Essi vertono, principalmente, sulla reciproca apertura dei
mercati ed, in particolare, riguardano:
• Libera circolazione delle persone: apertura dei mercati del lavoro.
• Ostacoli tecnici al commercio: snellimento delle procedure di certificazione
della conformità dei prodotti.
• Appalti pubblici: estensione dell’accesso agli appalti pubblici europei.
• Agricoltura: semplificazione del commercio per un ampio ventaglio di
prodotti agricoli.
• Trasporti terrestri: liberalizzazione dei mercati dei trasporti stradali e
ferroviari, approvazione a livello europeo della politica di trasferimento delle merci
dalla strada alla ferrovia.
• Trasporto aereo: accesso reciproco al mercato del trasporto aereo.
• Ricerca: partecipazione della Svizzera ai programmi quadro di ricerca
dell’Unione europea.
Gli Accordi bilaterali II del 2004, sottoposti come i primi alla consultazione
popolare nel 2005 (accettati dal 55% della popolazione elvetica), contemplano nuovi
interessi economici ed ampliano la cooperazione ad altri settori. Essi hanno
riguardato, in particolare, i seguenti ambiti:
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• Schengen/Dublino: agevolazione degli spostamenti all’interno dello spazio
Schengen,
miglioramento
della
cooperazione
in
materia
di
sicurezza,
coordinamento della politica di asilo.
• Fiscalità del risparmio: tassazione a livello transfrontaliero dei redditi da
risparmio.
• Lotta contro la frode: lotta contro reati quali il contrabbando.
• Prodotti agricoli trasformati: abolizione dei dazi doganali e delle sovvenzioni
all’esportazione per i prodotti dell’industria agroalimentare.
• Ambiente: partecipazione all’Agenzia europea per l’ambiente.
• Statistica: armonizzazione e scambio di dati statistici.
• MEDIA: accesso alle sovvenzioni dell’UE a favore dei cineasti.
• Istruzione: partecipazione ai programmi europei d’istruzione, di formazione
professionale e di sostegno a favore dei giovani.
• Pensioni: abolizione della doppia imposizione.
Da quanto finora illustrato è ben evidente che, nei loro rapporti, la
Confederazione elvetica e la UE hanno ritenuto la via bilaterale come lo strumento
più adatto per garantire un adeguato equilibrio degli interessi di entrambi.
D’altronde, si ritiene che anche per il prossimo futuro verrà perseguita questa
strada per la stipula di nuovi accordi.
Per ciò che concerne, nello specifico, i rapporti della Svizzera con l’Italia,
paesi legati da uno stretto rapporto commerciale, anche in virtù della loro vicinanza,
essendo paesi confinanti, per i quali, tra l’altro, rispetto ad altri paesi della UE, si
registra un elevato numero di cittadini-lavoratori impiegati oltre frontiera, non si può
non menzionare la legge 23 dicembre 1978, n. 943, che ha ratificato la convenzione
del 1976 tra la Repubblica italiana e la Confederazione svizzera.
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Tale Convenzione, da applicare alle persone residenti di uno o di entrambi gli
Stati contraenti, con l’obiettivo di evitare le doppie imposizioni e regolare talune
altre questioni in materia di imposte sul reddito e sul patrimonio, si riteneva potesse
contribuire a “rafforzare l'ordinato sviluppo delle relazioni economiche tra i due
Paesi nel contesto di una maggiore cooperazione”, in considerazione “dell'impegno
di ciascuno degli Stati contraenti alla più rigorosa applicazione di tutte le
disposizioni intese a combattere l'evasione e la frode fiscale previste dalla propria
legislazione fiscale interna”, riconosciuta “la necessità di assicurare che i vantaggi
di una Convenzione per evitare le doppie imposizioni vadano a profitto esclusivo
dei contribuenti che adempiono i loro obblighi fiscali”.
Uno dei 9 accordi bilaterali II stipulati dalla Svizzera con la UE nel 2004 ha
riguardato la cosiddetta “Fiscalità del risparmio”, il cui contenuto:
1. Consente una tassazione transnazionale dei redditi da risparmio delle
persone aventi domicilio fiscale nell’UE;
2. Da luglio 2011 il tasso della trattenuta d’imposta ammonta al 35% (di cui il
75 % è ridistribuito agli Stati UE e il 25 % alla Svizzera). Questa trattenuta può
essere sostituita da una dichiarazione volontaria degli interessi alle autorità fiscali
dello Stato di residenza del beneficiario;
3. Obbliga a offrire assistenza amministrativa in caso di richiesta;
4. Le parti contraenti rinunciano alla tassazione di dividendi, interessi e diritti
di licenza tra imprese collegate.
In realtà, da tempo la Svizzera, con il suo leggendario “segreto bancario”,
orgoglio del sistema finanziario elvetico, si è posta come destinataria di cospicui
movimenti finanziari non solo dagli altri Paesi UE, ma anche da altri Paesi come gli
Stati Uniti.
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Ciò, pertanto, ha reso necessario una regolamentazione via via più stringente
che, con il passare degli anni, anche a seguito delle ristrettezze di bilancio in cui
diversi Paesi si sono trovati, alle prese altresì con elevati livelli di evasione, ha reso
la materia finanziaria oggetto di interventi e di accordi. D’altronde, è di tutta
evidenza che, diversi Paesi, tra i quali l’Italia, sono ormai da qualche anno alle prese
con dibattiti che si interrogano sull’opportunità/necessità di intervenire in materia
ed, eventualmente, quali strade percorrere per il raggiungimento del risultato.
A far da detonatore ha sicuramente contribuito la notizia rimbalzata dagli Stati
Uniti, che comunicava, in conseguenze delle recenti azioni intraprese per la lotta
all’evasione fiscale, di aver aperto inchieste sui clienti di istituti stranieri, a seguito
delle quali erano state irrogate sanzioni, come quella per 780 milioni di dollari che
nel 2009 il colosso bancario elvetico UBS accettava di pagare allo Stato americano
per evitare una denuncia penale. Era emerso, infatti, che l’istituto di credito, nel
periodo compreso tra il 2000 ed il 2007, aveva aiutato oltre 250 clienti statunitensi
ad evadere il fisco.
La notizia era sicuramente di quelle esplosive.
In conseguenza di quanto ora detto le delegazioni dei 2 Paesi negoziarono, tra
il giugno e l’agosto del 2009, un Accordo, con il quale la Confederazione elvetica
preservava formalmente il segreto bancario, mentre il fisco americano, dal canto
suo, otteneva, di fatto, l’assenso delle autorità svizzere a indagare su più di 4.500
clienti dell’UBS e su quelli di altre banche della Confederazione.
D’altro canto, la Confederazione intravedeva già la possibilità che, altri Paesi,
sulla scia di quanto successo con gli Stati Uniti, potessero procedere anche loro
con azioni nei confronti delle banche elvetiche.
Pertanto, cominciava a farsi strada, tra i banchieri svizzeri, la convinzione che
un meccanismo di “imposta liberatoria” potesse risolvere le eventuali controversie,
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ed a tal fine hanno proposto accordi bilaterali con gli Stati europei secondo uno
schema definito “progetto Rubick”.
Secondo questo schema viene proposto di tassare in Svizzera i capitali dei
cittadini europei, riversando in seguito la somma ai rispettivi erari, ma mantenendo
la privacy del cliente. In realtà, così facendo, si potrebbero soddisfare le richieste
dei vari Paesi attraverso un modello di tassazione alla fonte che, ad esempio, è già
esistente in Italia, in cui, sugli interessi e sulle plusvalenze finanziarie, è in vigore
un’imposta sostitutiva del 20%.
A seguito del progetto ora descritto la Confederazione Elvetica ha sottoscritto
con, Regno Unito e Germania e, più di recente, con l’Austria accordi che prevedono
l’anonimato sui conti in cambio di una tassazione forfettaria sul pregresso e un
prelievo standard sui depositi futuri.
Infatti, sia l'accordo con la Germania che quello con il Regno Unito prevedono
per i rispettivi cittadini (non residenti in Svizzera), che hanno patrimoni non
dichiarati nella Confederazione, il pagamento di un’una tantum per il pregresso,
mentre per il futuro si pagherà, sempre in forma anonima e attraverso le banche,
una percentuale dei redditi finanziari ottenuti con i patrimoni mantenuti in Svizzera.
L’ammontare dell’una tantum riferita al pregresso dovrebbe essere pari a
circa il 25% del patrimonio, sia nel caso dell’accordo con la Germania che con il
Regno Unito, mentre l’importo dei redditi ottenibile dalla tassazione dei patrimoni
che continueranno a rimanere presso gli istituti elvetici potrebbe essere pari a circa
il 26% del patrimonio depositato per i cittadini tedeschi e ad un importo variabile tra
il 27 ed il 48% per i cittadini britannici.
L’accordo con l’Austria è largamente ispirato agli altri due, ma non è previsto
un prelievo una tantum per il pregresso.
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La situazione, comunque, è continuamente in evoluzione, in quanto gli
accordi tra la Svizzera ed i paesi ora indicati sono stati siglati, sono in vigore dal 1
Gennaio 2013 ma non sono stati ancora ratificati. A tal proposito occorre precisare
che, ad oggi, la Germania ha sospeso l’accordo a seguito del voto contrario del
Bundesrat e della Commissione di conciliazione. I tedeschi, infatti, ritengono che
l’ipotesi di un prelievo forzoso del 25%, costituisca, comunque, un premio
eccessivo per gli evasori – esportatori di capitali – che, a seguito dell’accordo tra i
paesi, continuerebbero ad essere assolutamente coperti dall’anonimato e non
potrebbero essere incriminati penalmente, per il reato di evasione, dalla giustizia
tedesca, che si vedrebbe preclusa qualsiasi possibilità di continuare la caccia nei
loro confronti.
Per ciò che concerne, invece, l’accordo siglato con il Regno Unito, agli inizi
del 2013 si stima che siano già stati anticipati dalla Confederazione elvetica alla
Gran
Bretagna
circa
500
milioni
di
franchi
svizzeri,
che
costituirebbero
un’anticipazione della somma dovuta, che sarà definitivamente determinata non
appena vi sarà la ratifica del menzionato accordo e saranno messi a punto i dettagli
attuativi del piano. In realtà si ritiene che, alla fine, potrebbero essere incassati dal
governo britannico circa 800 milioni di franchi svizzeri.
Anche l’Italia avrebbe voluto aderire ad un accordo simile a quello stipulato
con i Paesi sopra descritti, ma le trattative che erano state avviate dal Governo
Monti si sono bloccate e, ad oggi, l’evoluzione della trattativa risulta incerta, né si
ritiene che possa ragionevolmente avere sviluppi entro breve termine.
In ogni caso, il PDCM Monti ha sempre ritenuto di preferire una soluzione
Europea rispetto ad un accordo bilaterale.
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Bisogna dire che l’Unione Europea ha fatto forti pressioni sulla Svizzera per
risolvere il problema della tassazione dei capitali esportati in maniera occulta
all’estero, ma purtroppo senza risultati.
Sia la UE che gli Stati Uniti d’America vorrebbero un sistema improntato ad
un meccanismo automatico di trasmissione dei dati relativi all’esportazione di
capitali in Svizzera, ma lo Stato Elvetico è fortemente orientato a garantire il segreto
bancario, grazie ala quale, da tempo, ormai, la Confederazione elvetica si è resa
protagonista di un grande interesse da parte degli investitori ed intermediari
finanziari di tutto il mondo.
Tuttavia, sebbene questo rappresenti l’elemento di gran lunga più rilevante,
non è l’unico aspetto che fa privilegiare lo spostamento verso la piazza elvetica.
Altri fattori, infatti, come la bassa pressione fiscale ed, in generale, l’efficienza
del sistema paese, hanno reso la Svizzera uno dei punti nevralgici dell'emigrazione
finanziaria. Limitandoci solo ai rapporti con l'Italia, all'inizio del 2012 più di 6 mila
italiani hanno ottenuto la residenza in Svizzera (in particolare nel Ticino, per una
questione di affinità linguistica e vicinanza geografica) trasferendo lì anche il
proprio conto bancario.
Abbiamo detto, tuttavia, che l’elemento distintivo è il segreto bancario, che
deriva da una lunga tradizione di discrezione che ha caratterizzato i banchieri
svizzeri.
Si tratta di un “istituto” espressamente previsto nel diritto elvetico già dal
1934, che ben si concilia con un Paese dotato di un sistema bancario evoluto, così
come d’altronde avviene anche negli altri Paesi che fanno ricorso al segreto
bancario, seppure ciascuno ha modalità di applicazione diverse.
Il segreto bancario svizzero conosce una serie di limiti essenziali.
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Esso, infatti, non protegge alcun autore di crimini o delitti o riciclatore di
denaro. Stesso dicasi anche per terroristi o altre persone sospettate di corruzione o
di altri gravi delitti.
A tal fine, numerose sono le disposizioni legislative (civili, penali,
amministrative) che prevedono deroghe al segreto bancario. Esso può essere
sospeso su ordine di un’autorità giudiziaria o dell’autorità di sorveglianza, anche
contro la volontà del cliente. Inoltre, dal 2009, il governo svizzero ha deciso di
allinearsi alle norme dell’OCSE previste per l’assistenza amministrativa in campo
fiscale per cui le banche svizzere devono prevedere la possibilità di fornire
informazioni in casi specifici ad un’amministrazione fiscale estera come risposta ad
una domanda concreta e fondata.
Da quando, tuttavia, la lotta all'evasione fiscale è diventata sempre più
pressante da parte dei vari Paesi, alle prese con la crisi e le difficoltà dei bilanci
statali, come già evidenziato, non si sa fino a che punto la Svizzera sarà in grado di
temporeggiare di fronte alla richieste dei vari Stati che richiedono informazioni sui
loro cittadini titolari di depositi nella Confederazione elvetica.
Il mitico segreto bancario, però, è duro a morire: dalla Camera bassa è infatti
arrivato il primo stop alla rimozione del segreto, con la bocciatura ad ampia
maggioranza della procedura di urgenza sulla discussione volta a ratificare
l'accordo fiscale con gli Stati Uniti.
Nonostante questa momentanea bocciatura da parte del Parlamento elvetico,
tuttavia la proposta di legge sul segreto bancario, che dovrebbe garantire al
governo americano il trasferimento delle informazioni dei contribuenti statunitensi
che avrebbero evaso il Fisco, fa si che a molti istituti bancari, in particolare privati,
la faccenda sicuramente non piaccia, con la conseguenza che alcuni di essi stanno
abbandonando il più famoso dei paradisi fiscali.
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Ciò è testimoniato dagli ultimi dati dell'Association of Foreign Banks in
Switzerland, secondo i quali dal 2012 a maggio 2013 il numero di banche private
straniere nella Confederazione è diminuito da 145 a 129. Ed, in particolare, questa
diminuzione ha colpito il Ticino.
Per allentare le pressioni provenienti dai vari paesi, e salvare in qualche modo
il segreto bancario, come già detto il governo svizzero sta tentando di concludere
degli accordi fiscali bilaterali – denominati Rubik – con alcuni paesi europei.
A fronte di ciò, non vengono comunicati i nomi dei detentori dei conti bancari.
In realtà adesso è direttamente l'Europa a cercare una nuova via per dialogare
con la Svizzera, seguendo quanto già avvenuto con gli Stati Uniti.
E’ evidente che il problema non è la libera circolazione di capitali, fermo
restando il rispetto della normativa vigente in materia e la corretta tassazione delle
somme esportate, ma la conoscenza dei capitali che sono stati depositati in maniera
occulta presso istituti bancari stranieri, conoscenza che consentirebbe un regolare
tassazione dei capitali.
Anche in Italia in molti sono convinti, che il problema potrà essere risolto solo
con un accordo globale dell’Unione Europea.
Il problema è enorme e le mancate entrate sono molto elevate, per cui una
soluzione dovrebbe essere trovata, anche se non è facile.
Per rendere un’idea della dimensione del problema, la società elvetica di
brokeraggio Helvea, rimanendo al caso italiano, stimava nel 2007 che, a fronte di
depositi dichiarati di clienti italiani nelle banche svizzere per 1,7 mld di €, vi erano
162,5 mld di € di depositi non dichiarati. Si tratta, quindi, di un’enorme massa di
denaro sfuggita al fisco italiano.
Trattasi, ovviamente, di stime. Tuttavia, seppure l’importo non è determinabile
con esattezza, per dimostrare la grandezza del fenomeno si possono prendere in
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considerazione i dati dello scudo fiscale effettuato in Italia a seguito delle
precedenti sanatorie. Da essi, infatti, si ricava che una forte incidenza di capitali
proveniva dalla Svizzera, a conferma del ruolo svolto da questo paese nella
gestione delle attività non dichiarate (per dovere di cronaca si aggiunga che,
successivamente al rientro dei “capitali scudati”, molti di questi capitali sono
rimasti all’estero e altri sono rientrati nelle banche svizzere, come dimostrato da
diverse analisi anche della Banca d’Italia).
L’esportazione di capitali va esaminata anche dal punto di vista della
responsabilità amministrativa per danno erariale.
La giurisprudenza della Corte dei conti ha elaborato questo tipo di danno
erariale.
Si deve evidenziare che già nel lontano 1989 la Corte dei conti ha affermato
alcuni principi, ribaditi, poi, con successive sentenze (Sez. II 13.5.1990, n. 13.3.1989,
n. 54 e n. 1 del 3.1.1990).
In particolare, la Corte dei conti ha statuito in quell’occasione che l’illegittima
esportazione di capitali all'estero resa possibile dal comportamento commissivo o
omissivo di un pubblico funzionario integra una fattispecie di danni erariale che
deve ravvisarsi non soltanto nella lesione di beni del patrimonio in senso proprio
dello Stato o degli altri enti pubblici, ma anche nella mancata realizzazione della
finalità di tutela di un interesse di carattere generale attinente alla materia degli
equilibri economici e finanziari della Nazione, mancata realizzazione che coincide
necessariamente con la violazione stessa della norma di tutela, assunta nel valore
di risultato contrario a quello prefigurato dal legislatore.
Le SS.RR. con decisione n. 735 del 1991, hanno statuito che il danno erariale
per esportazione di capitali concretizza un pregiudizio all’economia nazionale.
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Che tale attività illecita costituisce una ipotesi di vero e proprio danno a
carico dell'erario dello Stato non sembra potersi seriamente porre in dubbio, se
appena si considera l'aggravio finanziario derivante anche al bilancio dello Stato per
il mancato introito di imposte, a parte le ripercussioni sul valore della moneta e
sulle quotazioni dei titoli di Stato che costituiscono importanti componenti della
gestione delle risorse patrimoniali pubbliche, ed anche infine, ai non lievi oneri
gravanti sugli organi di vigilanza e repressione degli illeciti per l'organizzazione dei
più intensi e costosi servizi indispensabili.
In sostanza, minori capitali determinano meno investimenti e, questi, causano
una diminuzione dell’occupazione e una conseguente contrazione dei consumi per
una insufficienza delle risorse finanziarie a disposizione della collettività.
Bisogna dire che il minor valore della moneta non attiene più ad una valuta
nazionale ma ad una valuta europea, quindi il danno è riferibile anche all’Unione
Europea.
Quindi, con l’introduzione dell’Euro tra i soggetti danneggiati deve essere
inserita anche la Comunità Europea, ma questo non inficia la legittima azione della
Procura contabile, atteso che ormai si è affermato il principio che la Corte dei conti
può agire in via diretta anche per la tutela degli interessi finanziari della comunità.
Infatti, sulla questione vi é stata una evoluzione molto significativa, atteso che
ormai la giurisprudenza della Corte dei conti, sulla scia anche di quella della Corte
di Cassazione, ritiene che il danno patito dalla Comunità possa essere risarcito alla
stessa direttamente dal dipendente o incaricato di pubblico servizio responsabile
del pregiudizio economico, senza alcun passaggio tramite lo Stato italiano (tra le
decisioni iniziali, Sez.. Lombardia sent. N. 528 del 2004).
In sostanza, nel giudizio contabile il danneggiato è chiamato a risarcire il
danno direttamente alla U:E. in qualità di Amministrazione danneggiata, senza che
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sia necessaria l’interposizione dello Stato italiano nella sua veste di componente
della Comunità Europea stessa.
Al riguardo, testualmente la Sezione Lombardia, con sentenza n. 528 dell’8
aprile 2004, ha affermato che “invero, nel silenzio di previsioni specifiche di legge
sul punto, pur potendosi in base ad una interpretazione lata ipotizzare un danno
diretto allo Stato italiano ritenendo, sulla scorta di autorevole dottrina, che, in
un’ottica monista, la Comunità europea sia non tanto una organizzazione
internazionale, ma un embrione di Stato federale caratterizzato dalla erosione delle
sovranità nazionali, con conseguente danno erariale subito da tutti gli Stati membri
(che, tra l’altro, contribuiscono ancora in piccola parte, anche dopo la
riformulazione dell’art. 269 del Trattato CE che ha introdotto il principio tendenziale,
ma non assoluto, di finanziamento tramite risorse proprie della CE, al finanziamento
del bilancio comunitario e ne patiscono pertanto le indebite locupletazioni) ogni
qual volta subisca un danno la C.E., appare più corretto, in una prospettiva dualista
(avallata dalla testuale attribuzione di autonoma personalità giuridica alla C.E. da
parte del relativo Trattato), ritenere applicabile il generale disposto dell’art. 1,
comma 4, della legge. 14.1.1994 n. 20, secondo il quale “La Corte dei conti giudica
sulla responsabilità amministrativa degli amministratori e dipendenti pubblici anche
quanto il danno sia stato cagionato ad Amministrazioni o Enti pubblici diversi da
quelli d’appartenenza”: orbene, tale norma consente testualmente di annoverare
nella nozione di “Amministrazioni o Enti pubblici diversi da quelli d’appartenenza”
anche l’Unione Europea.
Tale interpretazione è stata confermata recentemente dalla Corte di
Cassazione a Sezioni Unite con Ordinanza n. 20701 dell'11 giugno 2013.
Afferma la Suprema Corte con la cennata Ordinanza che "l'autonomia del
giudizio di responsabilità amministrativa non trova ostacolo nella disciplina
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comunitaria, che anzi la salvaguardia, stabilendo l'art. 274 del Trattato che "Fatte
salve le competenze attribuite alla Corte di Giustizia dell'Unione europea dai Trattati,
le controversie nelle quali l'Unione sia parte non sono, per tale motivo, sottratte alla
competenza delle giurisdizioni nazionali". Sicché nell'ambito di applicazione della
norma comunitaria deve essere compresa anche la specifica giurisdizione della
Corte dei conti, la quale non può essere preclusa da eventuali rimedi attribuiti alla
Comunità europea per il recupero dei finanziamenti o per l'esercizio di proprie
sanzioni e/o azioni di inadempimento contrattuale posto che le relative azioni
restano, pur esse, reciprocamente indipendenti nei loro profili istituzionali, così
come lo sarebbe stato l'azione risarcitoria intrapresa dalla Commissione europea
nei confronti del ricorrente per avere riportato condanna definitiva per i delitti di cui
agli art. 416 e 640 bis cod pen. costituendosi parte civile nel relativo procedimento o
esercitando l'ordinaria azione risarcitoria davanti al giudice civile (Cfr. Corte Giust. 5
marzo 1991, Grifoni C330/88)”.
Precisano le Sezioni Unite che è assolutamente inconsistente il rilievo
secondo cui sussisterebbe il difetto di giurisdizione della Corte dei conti perché il
danno che ne giustifica l'intervento sarebbe limitato dall'art. 52 r.d. 1214/1934 a
quello arrecato allo Stato o ad altro ente pubblico nazionale; e che per i pregiudizi
causati direttamente al bilancio dell'Unione europea mancherebbe comunque
l'interpositio
legislatoris
richiesta
dalla
Costituzione
per
giustificare
detta
giurisdizione speciale, in quanto nessun elemento testuale può infatti giustificare
siffatta limitazione, non ricavabile dall'ampia formula adottata dalla norma che,
facendo riferimento ad ogni amministrazione ed ente pubblico cui la condotta
dell'agente abbia cagionato un danno vi comprende indistintamente qualsiasi
categoria di persona giuridica pubblica: fra le quali gli art. 47 Tue e 335 TFUE
includono la Comunità europea disponendo: a) che l'Unione europea ha personalità
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giuridica (di diritto pubblico); b) che in ciascuno degli Stati membri ha la più ampia
capacità giuridica riconosciuta alle persone giuridiche dalla legislazione nazionale;
c) che è ivi rappresentata dalla Commissione europea.
Poi,
come
già
evidenziato,
l'azione
di
responsabilità
amministrativa
appartenente alla giurisdizione della Corte dei conti, è stata estesa dall'art. 1, 4°
comma della legge n. 20 del 1994 anche all'ipotesi in cui il danno sia cagionato ad
amministrazione diversa dall'ente di appartenenza del suo autore, e che
quest'ultima norma costituisce una valida interpositio legislatoris in tutte le
fattispecie di finanziamenti erogati indirettamente dalla Comunità europea, per cui
non è consentito introdurre una discriminazione applicativa in funzione del
carattere
sovranazionale
dell'amministrazione
tutelata
o
della
natura
del
contributo/finanziamento dalla stessa erogato; che risulta ancor più arbitraria in
considerazione, da un lato, dell'utilizzazione anche da parte della norma del 1994
dell'identica formula omnicomprensiva ed ormai non più casuale “amministrazioni
ed enti pubblici diversi” e, dall'altro, che le ricordate disposizioni comunitarie ne
impongono,
al
contrario,
una
opzione
ermeneutica
logico-sistematica
che
attribuisca alla Commissione europea "la più ampia" capacità giuridica e tutela fra
quelle riconosciute alle persone giuridiche pubbliche nazionali; che dunque
divengono un parametro di comparazione minimo e non riducibile neppure dal
legislatore nazionale.
Da ultimo, precisano le Sezioni Unite, che l'art. 325 del T.F.U.E. dispone, che
"l'Unione e gli Stati membri combattono contro la frode e le altre attività illegali che
ledono gli interessi finanziari dell'Unione stessa mediante misure adottate a norma
del presente articolo, che siano dissuasive e tali da permettere una protezione
efficace negli Stati membri e nelle istituzioni, organi e organismi dell'Unione
(comma 1). Gli Stati membri adottano, per combattere contro la frode che lede gli
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interessi finanziari dell'Unione, le stesse misure che adottano per combattere contro
la frode che lede i loro interessi finanziari (comma 2)".
L'art. 4, comma 3° del TUE ribadisce che "In virtù del principio di leale
cooperazione l'Unione e gli stati membri si rispettano e si assistono reciprocamente
nell'adempimento dei compiti derivanti dai Trattati. Gli stati membri adottato ogni
misura di carattere generale o particolare atta ad assicurare l'esecuzione degli
obblighi derivanti dai trattati o conseguenti agli atti delle istituzioni dell'Unione". E
l'art. 10 del Trattato CE completa detto quadro imponendo agli stati membri di
adottare tutte le misure atte ad assicurare la portata e l'efficacia del diritto
comunitario.
Precisa la Corte di Cassazione che i precetti su menzionati esprimono il c.d.
principio di assimilazione, già recepito dalle Sezioni Unite penali della medesima
Corte di Cassazione (cent. 1235/2010), in forza del quale gli interessi finanziari
europei sono assimilati a quelli nazionali, con la conseguenza che gli Stati sono
tenuti ad agire con gli stessi mezzi e adottando le stesse misure che sono previste
dal diritto interno per la protezione dei medesimi beni giuridici; per cui il Collegio
delle Sezioni Unite ha ritenuto di farne applicazione anche in materia di
giurisdizione della Corte dei conti in tutte le fattispecie di protezione del bilancio
della comunità europea dalle frodi, avendo la Corte di Giustizia specificato che detto
obbligo
degli
Stati
necessariamente
ricomprende
"ogni
azione
di
diritto
amministrativo, tributario o civile, diretta a riscuotere o a recuperare risorse ovvero
obbligazioni comunitarie conseguite o per converso eluse in modo fraudolento,
nonché ad ottenere il risarcimento del danno".
Quindi, alla luce di questa nuova interpretazione la tutela del danno al
bilancio comunitario sarà più incisiva e puntuale, considerato che il rapporto tra il
soggetto beneficiario del contributo e la Comunità (anche il semplice privato
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secondo il nuovo orientamento della Corte di Cassazione a Sezioni Unite, ordinanza
n. 4511/21006) è diretto, senza la necessità di passare attraverso lo Stato membro.
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