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EDITORIALE
di Lodovico Ellena ......................................3
RIVOLUZIONE E TRADIZIONE
RIPOPOLAMENTO
di Alessandro Murtas ..................................6
STORIA E CONTROSTORIA
NAZIONALSOCIALISMO
di Matteo Pastori ......................................12
CURIOSITÀ GIUDEO MASSONICHE
di Marco Linguardo ..................................14
GLI UFO ESISTONO DAVVERO?
di Massimo Buzzurro ................................18
DIFESA DELLA TRADIZIONE
I MISTERI DI MITHRA
di Alessandro Riccardi ..............................24
LA MODERNA RELIGIONE DELLA SCIENZA
di Michele Russo ......................................34
PLATONE - SECONDA PARTE
di Matteo Pastori ......................................38
THULE SOCI
ISLANDA
di Lodovico Ellena ....................................48
PELLEGRINAGGIO A NEMI
di Antonella Tucci ....................................56
PERCORSI AL FEMMINILE
LE DANZE SACRE FEMMINILI
di Antonella Tucci ....................................60
RECENSIONI
UNO SCRITTORE BENITENZIONATO
di Valerio Raimondi ..................................68
SOCIETÀ
DISOCCUPAZIONE IN PILLOLE
di Enrico Gavassino ..................................74
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Editoriale
di Lodovico Ellena
Di quando in quando si levano voci sempre più numerose relative ai costi della
macchina politica nazionale, costi che al di là delle percentuali e dei confronti con
analoghe strutture di altri Stati hanno un che di mortificante. E tutto nella - quasi
- assoluta indifferenza della popolazione, troppo distratta e preoccupata invece
dell’ultimo flirt di qualche ballerina o degli sviluppi di qualche truculenta inchiesta
di cronaca. E dei privilegi parlamentari - esponenziali ed in buona parte del tutto
ingiustificati, delle legioni di auto blu, delle campagne elettorali milionarie (carine
quelle di sedicenti ambientalisti che sterminano foreste per far circolare le loro facce
su tonnellate di manifesti giganti), del costo di certi detenuti che meriterebbero
invece di spaccare pietre per tre vite e della decadenza culturale chissenefrega. Si dice
che ognuno ha il governo che si merita, vero, ma altrettanto vero il fatto che esistano
minoranze in lentissima crescita a cui tutto ciò comincia a stare sempre più stretto,
al punto di avvertire con sempre maggiore chiarezza un prurito ogni giorno più
insopportabile ed irritante. Mai come nelle ultime tornate elettorali infatti la
convinzione, anche da bar, che alla fine tutta questa classe politica sia roba scaduta
e puzzolente si và facendo strada, ma in conclusione manca alla fine il modo per
manifestare quell’urlo feroce che sempre più “elettori” sentono crescere dal loro
profondo. Un ruggito di rivolta, di protesta, un rigurgito di nausea, di disgusto
contro tutta questa classe politica nella sua interezza senza più l’ombra di una
qualsiasi dignità. E che si tratti di una colossale truffa, rossa, bianca o nera la si
voglia vedere lo dimostra il fatto che la prima delle riforme da farsi non è mai stata
né mai sarà fatta, ossia la riduzione dei costi di questa intera classe politica.
Rileggere Fidel Castro potrebbe diventare a questo punto un interessante stimolo
che al di là della collocazione ideologica del personaggio, sulla quale si potrebbe
comunque a lungo dibattere, sarebbe invece utile ginnastica intellettuale per
trascendere categorie e idee preconfezionate. Perché non è più questione di simboli,
bandiere o gadget, piuttosto è qui in gioco il futuro economico, politico, religioso,
ludico e sociale di tutto: e o si trova la forza di dare un poderoso calcio a questo
complesso sistema di privilegi, sperperi, assurdità, intrallazzi e meschine parrocchie
fagocitanti tonnellate di briciole, o quel calcio continueremo a prenderlo invece tutti
noi giorno dopo giorno: consenzienti e genuflessi. Questa politica, questa destra
questa sinistra questo centro sono un cancro sociale, e o si è parte del problema o si
è parte della soluzione. Si cominci quindi a riflettere e a far riflettere ovunque su di
una elementare evidenza: cosa giustifica che milioni di euro vengano divorati da
questa politica e dai suoi effetti collaterali? Cosa giustifica che deputati, senatori,
ministri o sottosegretari debbano avere stipendi, pensioni e premi per migliaia e
migliaia di euro mensili? Cosa giustifica che parlamenti nazionali e regionali
consumino una quantità tale di ricchezza che potrebbe invece essere distribuita in
ben altro modo al popolo? Da questi elementari ma rivoluzionarie fatti deve muovere
il primo passo per la rinascita di questo malridotto paese e chi non li persegue oggi
più che mai è un truffatore del popolo: rosso, verde o nero si dica. Siamo governati
da truffatori che producono leggi per legittimare la propria truffa: aiuto.
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RIPOPOLAMENTO
L’Uomo di Thule apprende ogni giorno, nello
scontrarsi con la realtà quotidiana, i diversi aspetti del
mondo moderno a cui si è votato combattere, per
Istinto sovrasensibile, che come tutti gli aspetti sottili
è legato al Sangue, anche nel suo aspetto biologico.
Tra questi vi è lo sradicamento dal Suolo che l’uomo
bianco, Europeo nel nostro caso, ha subito e portato
avanti dal tardo IX secolo in poi. Nel frangente di anni
che ci separano da quando il “mito della città” si
affacciò preponderante, inteso come modello di
“modernismo” e “progresso”, inteso come “fumo e
cemento” e non più come Polis, Capitale, centro
propulsore di Politica, Arte e Cultura miranti verso
l’Alto, ci sono state delle rivolte, sul Suolo Patrio, che
traevano origine da quella misteriosa forza insita nel
Sangue e nel Suolo. E’ a questa forza che dobbiamo
richiamarci e riallacciarci, in una graduale
purificazione dalle scorie moderniste che nel migliore
dei casi si sono tenute sotto controllo nell’ambito del
nostro vivere.
Sia chiaro che non si vuole rigettare ciò che costituisce
un arricchimento della vita e nemmeno ciò che i nostri
Avi hanno creato non per porci al servizio di un
sistema tecnocratico ma per avanzare in una maggiore
conoscenza delle leggi naturali, e mai comunque con
la presunzione di “dominio” delle stesse, vero sacrilegio
dell’era moderna.
Come ogni mezzo anche la tecnologia deve essere
messa al servizio di un Ordine superiore che s’incarni
nell’identificare ogni aspetto della Vita con la
comunione del sangue e quindi del suolo.
Oggi che la stessa agricoltura, quella che fu arte
definibile come alchimia della terra, quella Scienza che
aveva nei suoi maestri i Contadini la cui vita era
scandita dalla sua semina e dal suo raccolto, dalla luce
del Sole che riscaldava sé, il suo lavoro e dava vita alla
sua opera, viene sottoposta uno schema meramente
economico e globalista a detrimento degli ultimi resti
di un contadinato europeo che si trova alla triste scelta
del “adattarsi o scomparire”. Questo ha come riflesso
lo spopolamento dei piccoli centri e l’annichilimento
della Fedeltà all’Ethnos abbagliati dalle luci di quel
grande centro commerciale di multirazzialità militante
che sono ormai diventate le capitali e i capoluoghi
europei. Anche in questo triste scenario la Thule non si
deve lasciar travolgere dagli eventi ma pianificare una
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di Alessandro Murtas
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Resistenza Attiva, che alla fine, con gli adeguati mezzi,
non potrà che costituirne un argomento di lotta centrale.
Fin dai primordi della Thule Italia vi è stata
un’aspirazione a lungo termine alla creazione di un
attivo centro agro-urbano, che costituisse la cellula di
un nuovo quanto Ancestrale modello di società.
Un progetto ambizioso, un sogno ancor prima di
un’idea, ma come tutto ciò che nasce dalle menti degli
Uomini Contro il Tempo, che ancora muovono la loro
Guerra Santa, e si riuniscono sotto il Nero Stendardo
della Thule Italia, non irrealizzabile.
Vi è da pianificare un metodo per giungere all’obiettivo
datosi:
- Con le escursioni i Fratelli devono imparare a
conoscere il proprio territorio, la propria storia e a
sentire scorrere in se la voce degli Avi oltre che a
costituire un lavoro di documentazione comune
all’Associazione.
- Individuano punti di forte riferimento Storico,
Mitico e Archetipico del proprio Territorio, a cui ogni
Sezione Regionale deve richiamarsi. E’ importante
trovare in ogni regione un luogo geografico in cui siano
presenti al massimo questi aspetti, che faccia da centro
di riferimento spirituale, in cui ritrovarsi nelle
ricorrenze o nelle festività solstiziali: un Castello, una
Foresta, una Necropoli, un luogo in cui si svolse una
rilevante battaglia significativa nella difesa del Suolo
Europeo contro i suoi nemici ecc..
- Si rendono così conto di come questi stessi luoghi,
siano spesso non abbastanza curati, non abbastanza
ricordati, a volte abbandonati. Di come vicino ad essi
possano esserci centri abitati che vanno vieppiù
spopolandosi; e qui si ritrova una certa logica: dove un
tempo abitavano gli Eroi oggi non c’è commercio, non
c’è traffico, non c’è caos, automaticamente quel luogo
sta fuori dal Grande Circolo mercantile. Ecco che gli
spiriti deboli sono attratti verso il basso e vanno
incontro a questo circolo.
E’ qui che la Thule può pensare di intervenire.
Ripopolare e ampliare con Uomini e Donne Europei
quei centri che hanno “perso” il carattere Tradizionale
(in realtà questo carattere in sé non può mai essere perso
bensì solo momentaneamente scordato), e renderli di
nuovo centri della Tradizione. E’ indubbio che un simile
progetto comporta mezzi e capacità, questi mezzi e
queste capacità sono portati da menti umane, le menti
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umane sono attratte o respinte da ciò che è in sintonia
degni di essere così definiti.
con il loro spirito, con la propria vocazione. Ecco allora
Da un punto di vista economico esso dovrebbe nascere
che il primo passo, nel momento in cui si ritiene di essere
facendo leva su progetti di “moneta locale”, che già sia
pronti, per attrarre a questo progetto chi effettivamente
in Italia che in altre parti d’Europa si sono visti
ha non solo volontà di “popolare” ma ancor prima chi
realizzati e alcuni perdurano tutt’ora. Innestarsi nel
metta a disposizione le proprie capacità in termini
luogo geografico individuato con questo punto di
tecnici, intellettivi, organizzativi e anche finanziari
partenza potrebbe anche servire a creare prima il
(quest’ultimo aspetto da non sottovalutare) starebbe nel
terreno adatto, su cui operare in seguito su più larga
farlo conoscere. La limatura verrà attratta dalla
scala con i futuri Coloni. Inoltre per poter avere
calamita. A quel punto si potrà porre in atto un vero e
elementi su cui basare il progetto è d’obbligo lo studio
proprio progetto realizzativo.
della nascita, dell’organizzazione e delle eventuali
Fin da ora siamo però chiamati ad esporre alcuni punti
cause del fallimento, di progetti simili creati in passato,
fondamentali:
o attuali (es. visitare centri come Monte Verità, anche
Il tipo umano che deve essere parte attiva in questo
se non completamente consoni a ciò che noi abbiamo
progetto deve sentire sinceramente la spinta a riallacciarsi
in vista, è utile per quanto riguarda questi aspetti oltre
alle forze ancestrali rigettando categoricamente
quello importante della strutturazione).
qualunque ambientalismo modaiolo o multietnico.
Non solo quindi instaurare un sistema economico e
Avere chiaro in mente che un simile centro deve essere
sociale in linea con i nostri principi, ma dare anche dei
la trasformazione in
chiari
riferimenti
realtà
dell’Idea
educativi e spirituali,
E’ un progetto Aristocratico, nel senso primordiale del poiché i primi aspetti e i
totalizzante a cui Thule
termine, è la volontà eterna della
si richiama: Essere
secondi
non
sono
l’Ordine che riunisce
assolutamente slegati
nascita-rinascita dei primordiali elementi etnici del
quelli che saranno i
tra loro ma fanno
nostro Popolo
progenitori di una vera e
riferimento a un’unica
propria generazione che sarà chiamata a sbaragliare
visione del mondo, a un’unica visione dell’uomo che a
non solo un vecchio sistema di idee ma lo stesso
cui noi aspiriamo.
vecchio modello di uomo. Ecco la nostra aspirazione:
Sarebbe la formazione di un’Elite nel vero senso del
L’Uomo Nuovo (vedi Essere e Divenire vol. I ).
termine, microsocietà composte di famiglie che si
E’ un progetto Aristocratico, nel senso primordiale del
differenzino in tutto, dagli aspetti esterni a quelli più
termine, è la volontà eterna della
intimi, in un mondo che si fa sempre più subnascita-rinascita dei primordiali elementi etnici del
umanizzato, che darebbero domani il colpo di grazia
nostro Popolo, il Popolo Bianco, identificati
alla vecchia società anti-etnica per la creazione del loro
spiritualmente come uomini totali, in cui ogni aspetto
nuovo Ordine. E’ un progetto che ha la sua logica
della vita sia legato indissolubilmente allo scopo della
eterna, la logica della selezione naturale. Al suo
loro esistenza: restare fedeli al Sangue e al Suolo.
interno sarebbe data la Formazione, in ogni aspetto, a
Appare chiaro che si tratta quindi di un qualcosa che
chi all’esterno troverà un mondo da cui avrà la
non può rivolgersi a qualunque nostro connazionale,
sensazione di essere stato salvato, e per questo non ne
tanto meno a qualunque essere umano. Non è quindi
perderà mai il contatto, proprio per rendersi conto di
un progetto razzista, è qualcosa di più, è un progetto
cosa non dovrà mai diventare, a cosa ci è chiamati ad
ur-neoantropico.
abbattere, per quali motivi egli dovrà essere orgoglioso
Questo è ciò che possiamo definire come “Colonia”, da
e sprezzante di quella massa amorfa che
altri chiamata “isola rifugio”, bastione elitario di una
indirettamente, o direttamente, minaccerà il nuovo
nuova alba, che nasca prima localmente e che poi si
mondo, mondo che già nel suo nascita dichiara guerra
diffonda come massima espressione di lotta al sistema
al vecchio a cui vuol fare da contro altare. Con il
antietnico ovunque esistano ancora Uomini Bianchi
passare dei decenni questi uomini raccoglieranno non
Alessandro Murtas / Ripopolamento
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RIPOPOLAMENTO
solo gli ultimi europei degni di chiamarsi tali, ma
(purtroppo) gli ultimi europei che non discendano da
una “felice unione multirazziale”, ecco perché si tratta
di una missione per salvare tutto ciò che possiamo
chiamare con il termine di “Umano”.
E’ indubbio che se una simile idea vede prendere i
primi passi nella realtà, raccoglierà l’entusiasmo dei
nostri simili, e non solo entro i confini dell’Italia, il
primo carattere che assumerà sarà proprio quello
d’Esempio. Nel mezzo di una società dei consumi,
livellatrice nella stessa biologia del sangue, in cui si
uniformeranno anche i gruppi sanguigni dalla nascita,
staranno immacolate nella loro purezza, nel loro
esempio, nella loro spinta verso l’Alto questi centri
basati su modelli opposti, a partire da quelli legati
all’Agricoltura e sul consumo degli alimenti
localmente prodotti, su un lavoro e artigiano che sarà
inteso come atto sacro e inviolabile, sarà l’Arte, e a
guidare l’apprendimento e il perfezionamento delle
tecniche saranno Maestri. In cui in ogni componente
sarà impartita una formazione Gerarchica,Guerriera,
Etnica nel senso più ampio, conforme all’anima
Indoeuropea e che si richiami ai Valori dello Spirito
propri ai nostri Avi il cui Sangue, le cui ceneri o il cui
corpo è stato riassorbito nel Suolo da cui ci si nutre.
Sarà educazione della propria salute fisica e mentale,
dagli aspetti dell’alimentazione, a quelli sportivi, a
quelli familiari: si dovrà intervenire su tutto quello che
riguarda la nascita, la crescita e la morte degli Uomini
e delle Donne che avranno lasciato alle loro spalle un
mondo a cui non appartengono, delle generazione che
da essi si dovranno susseguire ed aver ragione proprio
su quel mondo che vedranno crollare intorno a loro,
restando sicuri della propria Superiorità che
dimostreranno in una lotta attiva fuori dai confini
Patri, della Patria di Thule.
Un mondo in cui il figlio tornerà ad assomigliare al
padre.
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di Alessandro Murtas
(Avatar)
Pubblicita?.qxp:Gabbia_Th
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THULE - ITALIA SUL WEB
h t t p : / / l a z i o . t h u l e - i t a l i a . o r g /
http://piemonte.thule-italia.org/
http://lombardia .thule-italia.org/
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NAZIONALSOCIALISMO
Diverse opinioni
Premessa
Assistiamo ormai da tempo ad un opera di falsificazione
del “fenomeno nazionalsocialista” riconducibile a ciò che
viene comunemente ed ipocritamente riconosciuto come
studio storico oggettivo.
L’utilizzo di libri quali “Behemoth struttura e pratica del
nazionalsocialismo” di F. Neumann e “La politica
sociale del Terzo Reich” di T. Mason” come testi di studio
nelle Università Italiane a discapito di testi con
concezioni di differente taglio sul tipo dell’ottimo
“Comunismo Gerarchico” di S. Michelacci oppure de
“L’ordinamento economico Nazionalsocialista” di R.
Dubail ci fanno intuire cosa la cultura imperante intenda
per “oggettività”.
Viene da pensare che oggi, a oltre sessanta anni dalla
disfatta dei “regimi fascisti”, si moltiplichino le
attenzioni a evidenze storiche non appunto oggettive
ma più che altro riconducibili a feticci o totem che
devono conseguentemente essere la personificazione
del male e dell’oppressione.
Ciò a beneficio non solo della sinistra tradizionale e
radicale ma della stessa socialdemocrazia più o meno
liberale che in tal modo assegna l’opportuna etichetta
esorcizzante di quelle vicende che furono “la negazione
della libertà soggettiva e personale”.
Oggigiorno, inoltre, completano l’operazione di tabula
rasa quella serie di articoli raffazzonati e scandalistici
che riportano il sentito dire, oppure qui programmi
televisivi che ripropongono il sensazionalismo a sfondo
torbido di History Channel, o peggio ancora la storia
parlata in pillole di Radio24.
Tutti echi mediatici che vanno a rivestire il substrato
pseudoculturale dell’odierna concezione modernista ed
egualitarista senza sé e senza ma di fenomeni storici e
spirituali quali il Nazionalsocialismo o il Fascismo.
La tesi che noi riporteremo di seguito sarà invece in
antitesi con le attuali “vere” culture della sinistra o
della destra borghese liberaldemocratica, che
utilizzano da tempo e a spada tratta tutte le
argomentazioni disponibili attingendole a piene mani
dagli svariati testi che in molti casi sembrerebbero
addirittura creati a tavolino!
Affermeremo come il Nazionalsocialismo sia stato
effettivamente “Rivoluzionario”, come lo sia stato
oggettivamente, e come sia stato nel senso radicale
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di Matteo Pastori
(Angriff)
veicolo rivolto al capovolgimento dei valori
egualitaristi e borghesi. Come l'esperienza tedesca, già
a pochissimi mesi dalla presa del potere, fosse riuscita
a dare immediata operatività al proprio disegno
politico e a innestare senza traumi sul tessuto
nazionale la propria visione del mondo.
In particolare cercheremo di analizzare il fenomeno
Nazionalsocialista nelle sue organizzazioni e di come,
strumentalmente, si sia voluto porre gli accenti
sottolineando
esclusivamente
le
forme
“compromesse” al fine di far passare sotto silenzio il
fermento che contraddistingueva tutti i campi, dal
filosofico all’artistico, dal legislativo al sociale.
Allo scopo di capire quale sia la base del nuovo
ordinamento Nazionalsocialista è necessario avere una
chiara comprensione di cosa significhi il termine
“Comunità del Popolo” ovvero la Volksgemeinschaft.
LA VOLKSGEMEINSCHAFT
«C'è un simpatico aneddoto di un uomo che, giunto in
un cantiere, domandò a tre persone dello stesso gruppo
di lavoro che cosa stessero facendo. Il primo rispose:
"trasporto pietre", il secondo: "guadagno i miei soldi",
il terzo: "costruisco una cattedrale" (1). Queste risposte
rispecchiano tre concezioni dell'essenza del lavoro che si
possono trovare in tutte le classi sociali: la proletaria, la
borghese e la nazionalsocialista». Mentre i primi due
lavoratori hanno in mente esclusivamente la propria
condizione personale, il terzo «si considera parte del
tutto»(2), partecipa attraverso il suo lavoro alla
realizzazione di qualcosa di grande, e ne è artefice
quanto i suoi diretti superiori, il capocantiere o
l'architetto; il terzo operaio incarna invece il perfetto
Volksgenosse del nazionalsocialismo, un uomo che ha
abbandonato il particolarismo classista per fondersi
nella comunità nazionale.
Il nazionalsocialismo intese perseguire con tutti gli
strumenti necessari un obiettivo
primario e
fondamentale: cancellare la divisione per classi della
società tedesca e creare in sua vece una compatta
comunità popolare stretta attorno ai valori della stirpe.
Al centro di questo sistema il riferimento non è più
l’individuo borghese o lo Stato contrattualistico,
pertanto non la società comunemente intesa
(Gesellschaft) “… bensì il Volk e lo spirito del Volk, il
quale realizzandosi come continuità dell’idea in atto,
Storia e Controstoria
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può assumere forma giuridica o politica.
Il Nazionalsocialismo afferma che il diritto è
immanente nel principio unitario del Volk come
naturale ordine di vita e secondo sua natura organizza
e regola forme ed ordinamenti di attività sociale.
Anzi, non la forma giuridica è l’elemento costitutivo e
decisivo della realtà sociale, ma questa sta nel
contenuto politico; onde quelle forme possono essere
applicate anche quando il contenuto politico muti.”(3)
tramite quindi la Volksgemeinschaft o comunità di
popolo, cioè, giuridicamente, quella comunità
composta di elementi che abbiano un carattere
nazionale omogeneo, conscia nella totalità della
propria unità storica e del proprio destino comune in
un definito complesso territoriale.
In base a tale concezione la comunità rappresenta
anche un complesso politico unitario non frazionato in
quanto l’agire del singolo è l’agire per il bene comune,
e il Volk diviene in tal modo entità politica, tutti i cui
membri formano una entità che viene definita
appunto Volksgemeinschaft.
“Dunque le leggi che governano la Comunità Popolare
emergono dalle intime necessità spirituali, politiche e
materiali che si sono sviluppate attraverso una comune
esperienza storica. Quindi in senso Nazionalsocialista
la legge non è l’espressione dell’autorità dello Stato, al
quale il Popolo deve sottomettersi come una massa
passiva ed inerte. In armonia col concetto della
Comunità Popolare la legge è parte della vita del
Popolo. Il legislatore delinea (4) e dà una espressione
organica alla percezione (5) di ciò che è giusto o
ingiusto, al sentimento (6) di ciò che è bene e ciò che è
male, che è inerente all’animo (7) del Popolo. Quindi il
punto di partenza della concezione Nazionalsocialista
del diritto è il Popolo, non lo Stato. Compito dello Stato
è assicurarsi che la legge sia messa in atto”.
In merito ai concetti sopra riportati sembra evidente
che per quanto riguarda la sfera privata, ovvero il sacro
ed inviolabile diritto privato, il Volk diventa entità
politica e creatrice del diritto tramite i valori ispirati
dallo spirito immanente del Volk stesso: la forma
giuridica nonché il diritto risultano quindi contigue alla
stessa Volksgemeinschaft, in un ottica di INTERESSE
COMUNE e non più PERSONALE. Il diritto privato
diventa così la norma che interessa la tutela del singolo,
ove non si vadano a ledere gli interessi della comunità
che risultano comunque preponderanti.
“La sfera privata dell’uomo è nella sua essenza apolitica,
egli diventa entità politica in quanto è considerato in
funzione di membro della comunità, quindi l’essenza
della politicità può essere trovata soltanto nella
Volksgemeinschaft!”(7), in quanto nell’ottica
dell’interesse comunitario “Un Volk non è una somma
meccanica od aggregato di singoli in sé autonomi e
finiti, ma è piuttosto una personalità unitaria superiore,
realtà superindividuale realizzata attraverso le
condizioni comuni di vita: la comunità delle origini,
delle vicende, degli ordinamenti, della lingua, del
contenuto spirituale, dei valori, dei fini della coscienza,
della volontà. In altri termini il Volk è il fondamento
della vita e del destino dei suoi membri, ognuno dei
quali perfeziona in esso le proprie determinazioni
personali e la ragione della propria vita.”(8)
Se pertanto nella Volksgemeinschaft si afferma il
sistema giuridico come fusione fra politica e diritto si
deve anche ritenere che in essa sia immanente uno
spirito obbiettivo, il quale si manifesta in termini
giuridici come VOLONTA’ COMUNE, intesa non come
somma o risultante di singoli voleri particolari, ma
come principio di forza propria della comunità
operante in maniera organizzata ed unitaria.
Lo Stato diviene quindi nella sua territorialità il
contenuto e la forma della Gefolschaft (seguito) con a
capo la Führung (Governo o guida) attuata dalle
strutture del Partei (partito) e secondo una logica
gerarchica avente a capo un Führer in una struttura di
comando piramidale (Führerprinzip).
La Volksgeimenschaft diventa quindi espressione del
Volk e dello Stato come forma giuridica e organizzativa.
Note bibliografiche:
(1) Geadelte Arbeit - Gedanken zum 1. Mai,
«Deutsche Adria Zeitung» n°108, 1° maggio 1944.
(2) Ibidem.
(3) Sonia Michelacci, Comunismo Gerarchico,
Edizioni di AR. pp. 138-139.
(4) Tratto da “Diritto e legislazione Tedeschi”
www.thule-Italia.org biblioteca digitale “Liberamente”
(5) Ibidem.
(6) Ibidem.
(7) Ibidem.
(8) Ibidem.
(9) Sonia Michelacci, Comunismo Gerarchico, cit., p. 140.
(10) Ibidem, pag. 141.
Matteo Pastori / Nazionalsocialismo - Diverse opinioni
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CURIOSITA’ GIUDAICO
MASSONICHE
Trovo piacevole sottoporre ai lettori brani estratti da libri
che pur nella loro complessità e sobrietà spesso
nascondono curiosità a pochi note. In questo caso trattasi
di tre brani estratti da “Misteri e Segreti del B’nai
B’rith” di Emmanuel Ratier che ho voluto includere sotto
il titolo di Curiosità giudaico massoniche.
L’Olocausto nella foto sbagliata
L'Anti Defamation League of B'nai B'rith ha
pubblicato diversi opuscoli e svariati voluminosi
rapporti sul tema dell'Olocausto e della sua rimessa in
discussione, in modo da combattere efficacemente i
progressi del revisionismo. Le due principali opere
diffuse sono: Reinventare la grande menzogna e Gli
apologeti di Hitler. La propaganda antisemita e il
"revisionismo" storico. Si noterà che il secondo
rapporto, ritenuto il rappresentante della "verità vera"
sull'Olocausto, presenta in copertina una "foto
ingannevole". Si tratta della famosa foto di un
bambino ebreo con un berretto, le braccia alzate, con
un gruppo di soldati tedeschi dietro di lui. Una foto
universalmente nota, che si crede essere stata scattata
durante l'insurrezione nel ghetto di Varsavia e che
simbolizza ammirabilmente l'Olocausto dei bimbi
ebrei durante la seconda guerra mondiale. Tuttavia è
assai meno noto che questa foto non è stata presa nel
ghetto di Varsavia ma al suo esterno, in prossimità
della stazione e che il ragazzino della foto, che si
chiamava Tsvi Nussbaum, non è stato gasato ma è
vivo dal momento che abita a New York dove esercita
la professione di medico.
Il boicottaggio del regime nazional-socialista
Molto stranamente, i Fratelli del B'nai B'rith, quegli
stessi che avrebbero dovuto essere sciolti dal momento
che erano sistematicamente denunciati, prima
dell'arrivo alla Cancelleria di Adolf Hitler, come "gli
ufficiali dello stato maggiore della dominazione
mondiale giudaica", furono esentati da questa
procedura a differenza di tutte le altre obbedienze
massoniche che furono praticamente sciolte subito o
dovettero autosciogliersi, comprese le Logge
tradizionali, come la Gran Loggia simbolica o le Logge
di perfezionamento del Rito scozzese, molti dirigenti
14
di Marco Linguardo
(MThule)
delle quali erano simpatizzanti del programma
hitleriano. Dimenticanza ancor più sorprendente se si
pensa che, dopo l'avvento del cancelliere Adolf Hitler,
molte organizzazioni ebraiche avevano fatto appello al
boicottaggio economico e militare della Germania.
Il 5 gennaio 1935, appoggiato dal Fratello del B'nai
B'rith Samuel Untermyer (Presidente della Lega antinazista), Alfred M. Cohen, Presidente dell'Ordine
internazionale del B'nai B'rith, aveva decretato "a
nome di tutti gli ebrei, frammassoni e cristiani" il
boicottaggio totale del Reich. Questo appello era stato
preceduto da altri due, proclamati al Madison Square
Garden il 7 marzo 1934 e il 6 settembre 1933 sotto
forma di un Cherem. In tale occasione furono
ritualmente accesi due ceri neri e si soffiò tre volte nello
schofar (il corno di ariete), mentre il rabbino B. A.
Mendelson pronunciava la formula di scomunica: "A
nome dell'assemblea dei rabbini ebrei ortodossi degli
Stati Uniti e del Canada e di altre associazioni di
rabbini che ci sostengono nella nostra azione,
profittiamo della nostra riunione annuale, in quanto
guide d'Israele, per istituire un cherem su tutto quanto
è fabbricato in Germania. A partire da oggi, ci
asterremo da qualunque commercio di materie prime
provenienti dalla Germania. Saremo vigilanti per
quanto riguarda l'uso di merci tedesche, che siano
destinate a uso personale o commerciale [...] La
validità di tale decisione durerà fino alla fine del regime
di Hitler, allora il cherem avrà la nostra benedizione".
Volendo evitare fastidi ai suoi Fratelli d'oltre
Atlantico, il B'nai B'rith rifiutò a lungo di aderire
ufficialmente a questa azione, anche se essa fu
praticata da numerosi suoi membri. Solo all'inizio del
1939, col Consiglio generale ebraico, che guidava la
campagna per il boicottaggio delle merci tedesche, il
Comitato esecutivo del B'nai B'rith adottò una
risoluzione per il "boicottaggio organizzato generale" e
creò anche un Comitato di boicottaggio del B'nai
B'rith nazionale. Bisogna dire che i dirigenti
internazionali del B'nai B'rith non avevano brillato per
la finezza della loro analisi dal momento che, il 29
gennaio 1933, vigilia dell'entrata di Hitler alla
Cancelleria, il presidente americano del B'nai B'rith,
Alfred M. Cohen, dichiarava: "Per fortuna sembra che
l'hitlerismo sia in declino"! Si basava sul rapporto del
Dr. Leo Baeck, presidente del distretto VIII: "La
Storia e Controstoria
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grande ondata d'antisemitismo comincia già a calare;
non si può più parlare di un pericolo nazionalsocialista imminente negli stessi termini con cui se ne
parlava sei mesi fa". Allo stesso modo, il B'nai B'rith
Magazine (marzo 1933) indicava: "[Hitler] è
circondato da uomini imparziali [...] Hindenburg e Von
Papen. Il peso delle responsabilità può fare evolvere il
più irresponsabile dei demagoghi, anche se pazzi e
perversi". Si ignorano ancora oggi le ragioni per le
quali Hitler si oppose direttamente allo scioglimento
del B'nai B'rith, reiterando la sua decisione nel 1935,
quando Heinrich Himmler gli chiese di farlo, non
comprendendo tale clemenza: "Dopo lo scioglimento
volontario di tutte le Logge massoniche in Germania,
sussiste solo più l'U.O.B.B. Contro questa
organizzazione non è stata fatta nessuna reale azione,
secondo le istruzioni date dal Fuhrer nell'estate del
1935 nel quadro dei suoi programmi di politica estera".
Alcune logge del B'nai B'rith decisero poco a poco di
autosciogliersi a partire dalla primavera del 1933, altre
non le seguirono, rispettando le consegne del Gran
Presidente dell'Ordine in Germania, il Dr. Leo Baeck.
Ripiegandosi la comunità ebraica sempre più su se
stessa, essa ricominciò a funzionare in base ai principi
di solidarietà, e di conseguenza il ruolo benefico delle
Logge si accrebbe. A quell'epoca, il 60% del bilancio
delle Logge fu consacrato all'aiuto fraterno, a profitto
delle vedove e degli orfani. Ciò fece sì che le
associazioni filantropiche dipendenti dal B'nai B'rith e
sovvenzionate dall'Ordine poterono continuare la loro
attività.
Si spiega così, senza dubbio, il fatto che le Logge
lottassero per mantenere il loro statuto legale senza
esitare, come è raramente detto, a intentare processi,
con qualche successo, alle istituzioni locali e
governative nazional-socialiste. In Baviera, l'esecutivo
del Comitato dei deputati israeliti domandò
l'annullamento della confisca di documenti fatta
illegalmente dalla polizia di Monaco (sotto la diretta
direzione di Himmler) il 12 maggio 1933 nella sede di
54 organizzazioni ebraiche, tra cui due Logge del B'nai
B'rith (Munchen Loge, Jasaia Loge). Esso doveva
ricevere soddisfazione, dal momento che i locali e la
maggioranza dei documenti sequestrati furono resi il
13 luglio 1933. Tuttavia, il 20 luglio dello stesso anno
la polizia bavarese interveniva allo stesso modo a
Pagina 15
Norimberga, in particolare nelle sedi della
Maimonidas-Loge e della Jakob-Here-Loge. Di nuovo
i responsabili del B'nai B'rith si rivolsero al Ministro
dell'Interno di Monaco e ottennero, dopo molte
difficoltà, che i loro locali e le loro biblioteche fossero
resi nell'aprile del 1934.
Allo stesso modo, la giustizia fece annullare la
decisione della polizia di chiudere la WaltherRathenau-Loge di Mönchen-Gladbach, presa nel
febbraio 1934, dopo che il B'nai B'rith si era appellato
contro questa decisione. Per capire il mantenimento di
questo stato di diritto, bisogna sapere che le decisioni
relative al B'nai B'rith in Prussia e a Berlino erano
soggette all'autorità del capo della Gestapo Rudolf
Diels. Quest'ultimo, un tempo membro di un partito
costituzionale (non nazional-socialista), doveva
adoperarsi, nel limite delle sue competenze, per
proteggere le Logge del B'nai B'rith, come pure quelle
di altra obbedienza, opponendosi così direttamente
alle direttive di Himmler.
Nelle sue memorie, Diels riporta: "Proibii in seguito
nuove 'operazioni' condotte dalle SD, le quali erano in
pratica dirette contro le Logge, in particolare quelle
ebraiche, e contro l'Azione Cattolica". Questa
protezione è stata confermata dall'ex segretario della
Gran Loggia dell'Ordine, Alfred Goldschmidt, che ha
riportato come Diels si fosse recato di persona,
accompagnato dai suoi subordinati, alla sede del B'nai
B'rith a Berlino per proteggerne i locali da un'"azione
violenta" delle S.A.
È solamente il 19 aprile 1937 che l' R.S.H.A. della
Gestapo, in virtù di un'ordinanza del 10 aprile, decretò
lo scioglimento di tutte le logge ed associazioni
femminili, giovanili o di qualunque finalità associate
al B'nai B'rith, come l'Accademia per le scienze del
giudaismo o l'Associazione per le statistiche degli ebrei.
I beni dell'Ordine (logge, alberghi, ristoranti, case di
riposo ecc.) furono requisiti in 79 città; i presidenti,
segretari e tesorieri furono provvisoriamente
interrogati. A quell'epoca funzionavano ancora
settanta logge così come 25 capitoli femminili. Il
rabbino Leo Baeck, Gran Presidente del distretto della
Germania, che avrebbe potuto emigrare in Inghilterra
o negli Stati Uniti, rifiutò coraggiosamente questa
possibilità e rimase a Berlino. Alla fine, nel 1943, fu
deportato nel ghetto di Theresienstadt dove attese,
Marco Linguardo / Curiosità giudaico massoniche
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CURIOSITA’ GIUDAICO
MASSONICHE
senza conoscere i rigori della deportazione, la fine della
guerra.
Nel 1943 i Fratelli tedeschi rifugiati a Londra
ricevettero l'autorizzazione a creare una sezione
indipendente, la sezione 1943 della Prima Loggia (la
più importante di Londra) con una propria
amministrazione, sue elezioni ecc. Il 30 maggio 1943,
i Grandi Ufficiali e il Consigliere furono insediati dal
Gran Presidente Julius Schwab, lui stesso discendente
da una vecchia famiglia di Francoforte, con il consenso
del distretto britannico e della Suprema Loggia di
Washington. Divenne quindi una Loggia indipendente
e da allora ha conservato un proprio statuto, essendo,
al di fuori degli U.S.A., la Loggia più numerosa.
II Fratello Albert Pike
Come rileva Yann Moncomble, seguendo altri storici
specialisti di cose massoniche, esisterebbe almeno una
relazione diretta tra Frammassoneria regolare e B'nai
B'rith. Nel 1874 (pare il 12 settembre) sarebbe stato
firmato a Charleston un accordo di "mutuo
riconoscimento" tra Armand Levy per il B'nai B'rith e
Albert Pike, capo supremo del Direttorio dogmatico
del Rito scozzese antico ed accettato, per la massoneria
universale. Quando Albert G. Mackey, considerato "il
più informato massone d'America", 33° e Gran
maestro dei Royal and Select Masters della Carolina
del Sud, Gran Priore dell'Arca Reale di Chicago e
Segretario generale del Consiglio Supremo della
giurisdizione meridionale degli Stati Uniti, divenne
Segretario generale del Consiglio supremo Materno del
Rito scozzese antico ed accettato "egli persuase Pike
ad affiliarsi all'Ordine; questi divenne ben presto Gran
Ispettore sovrano e decise di consacrarsi al Rito, riuscì
a ricostruire da capo a fondo l'organizzazione, rivide o
riscrisse i suoi gradi, intrattenne una vasta
corrispondenza; inoltre scrisse la Bibbia del Rito
scozzese, Morals and Dogma, vera montagna di
materiale che non portò mai a termine né forse mai
avrebbe potuto terminare".
Secondo la stessa fonte, Pike, che era membro d'onore
della maggior parte dei Consigli del mondo, fu ricevuto
al Supremo Consiglio di Francia nel 1889 e, "sebbene
americano, Pike è universalmente riconosciuto come
una delle più alte, se non la più alta, autorità
16
di Marco Linguardo
(MThule)
massonica". L'accordo firmato tra Pike, che per
l'occasione usò il suo nome massonico - Limoude
Ainchoff - ed Armand Levy indica: «Noi, il Grande
Maestro, il Conservatore del Santo Palladio, il
Patriarca Supremo della massoneria di tutto
l'Universo, con l'approvazione del grande e Serenissimo
Collegio dei massoni Emeriti, come l'esecuzione
dell'atto del Concordato concluso tra Noi ed i tre
Concistori federali supremi del B'nai B'rith d'America,
Inghilterra e Germania, che è da Noi firmato oggi,
abbiamo preso questa risoluzione: una sola clausola:
"La Confederazione Generale delle Logge Israelite
Segrete è fondata a partire da oggi sulle basi che sono
esposte nell'Atto del Concordato" Giurato sotto la
santa Volta nel Grande Oriente di Charleston, nella
valle cara al Maestro Divino, nel primo giorno della
Luna Ticshru il 12 Giugno del 7° mese dell'anno 00874
della Vera luce». Ciò spiega forse perché il Ku Klux
Klan fu a lungo risparmiato dal B'nai B'rith. Fondato
da Albert Pike, generale dell'armata confederata, e dai
dirigenti massoni di alto grado del Sud, il KKK, che
negli anni venti contava tra i tre e i cinque milioni di
affiliati, non era oggetto di critiche virulente da parte
dell'A.D.L. e del B'nai B'rith. In occasione di un
dialogo stabilito tra il presidente dell'Ordine Adolf
Kraus e il Mago imperiale H. W. Evans, quest'ultimo
scrisse una lettera aperta sbalorditiva: "Ogni uomo che sia americano di nascita o per naturalizzazione,
cristiano o giudeo di religione, bianco o nero di razza ogni uomo che contrae un dovere di fedeltà con questo
paese, senza riserve e remore, che è interamente devoto
alla sua bandiera, non è il nemico ma l'amico del
Cavaliere KKK [...]. Se fosse permesso applicare a un
ebreo uno dei titoli qualificanti dell'Ordine dei
Cavalieri del Ku Klux Klan, si potrebbe dire che è egli
stesso un 'Klansman' e che è stato lui a mantenere e a
mostrare il 'Klanismo' pratico". Ciò permette di leggere
a sua volta, nelle pubblicazioni del B'nai B'rith,
dichiarazioni ugualmente sorprendenti: "Il Klu KIux
Klan può diventare uno strumento di progresso e di
beneficenza, utile sia al Paese che ai suoi cittadini, se
comincerà a eliminare dal suo seno qualche migliaia di
fanatici che lo gettano nell'intolleranza, nella viltà e
nel crimine".
Storia e Controstoria
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La Fortezza di Heinrich Himmler
La Fortezza di Heinrich Himmler
prima traduzione italiana di
"Heinrich Himmlers Burg" Das
weltanschauliche Zentrum der SS
Bildchronik der SS-Schule Haus
Wewelsburg 1934-1945 e di
Heinrich Himmler's Camelot
entrambi di Stuart Russell.
La traduzione e l'edizione italiana è
stata da noi curata e ampliata con
due appendici assenti nelle edizioni
originali.
264 pag,
272 immagini,
copertina cartonata.
ISBN 978-88-902781-0-5
Dalla quarta di copertina:
"Su una lingua di roccia calcarea che spicca alta sulla tranquilla valle dell’Almetal, ca. 14 km a Sud di
Paderborn, si erge la mitica Fortezza di Wewelsburg, immersa nella trama delle leggende di cui fu
protagonista. Quando l’allora Comandante delle SS del Reich, il Reichsführer Heinrich Himmler, visitò
per la prima volta la Fortezza - il 3 novembre 1933 - rimase subito affascinato sia dall’imponente
costruzione a tre torri che dalla singolare sezione a pianta triangolare dichiarando già la stessa sera ad
una ristretta cerchia di persone il suo desiderio di voler acquisire la Fortezza per le SS. L’opinione
pubblica seppe ben poco sui progetti e sulle intenzioni di Himmler, e poco seppe anche delle riunioni fra
i più alti Führer delle SS nella Fortezza di Wewelsburg il cui fulcro era la possente torre Nord con la
sottostante sala centrale delle iniziazioni delle SS, che ancor oggi il popolo chiama “Walhalla”. Questo
sepolcro, sul cui significato nei culti e riti delle SS non si è mai smesso di fare congetture, è rimasto illeso
esattamente come si è salvata la sovrastante sala dei “Comandanti Superiori di Divisione delle SS”,
chiamata “Obergruppenführersaal” – costruita per essere la sala di rappresentanza più importante
destinata ai massimi livelli dirigenziali delle SS – nonostante la Fortezza, in quel momento ancora in
fase di ristrutturazione, fosse stata fatta saltare il 31 marzo 1945 per ordine di Himmler stesso. Oggi il
sepolcro e la sala dei Gruppenführer, con tutti i loro ornamenti ben conservati (“il sole nero”) e gli
originali fregi, costituiscono un notevole richiamo per molte migliaia di visitatori. Nella sua prefazione,
il Dr. Bernhard Frank, che dal 1935 al 1939 lavorò nella Wewelsburg in qualità di scienziato (dal 1943
fu Comandante delle SS nell’Obersalzberg), fornisce piena conferma di quanto descritto nel libro: “Il
libro ‘La Fortezza di Heinrich Himmler’ strappa finalmente gli avvenimenti storici della Wewelsburg
dall’oblio ed dalle false interpretazioni"
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GLI UFO ESISTONO
DAVVERO?
Nonostante il relativamente breve periodo di tempo in
cui il nazionalsocialismo è stato al governo in
Germania, è sempre più sorprendente scoprire come
l’evoluzione tecnologica sia riuscita ad avanzare in
modo così clamoroso. Altrettanto clamorosi sono stati
i tentativi di nascondere alcune scoperte, salvo poi
farle proprie , da parte dei vincitori della Seconda
Guerra Mondiale, soprattutto angloamericani. Si vuol
fare riferimento all’apparato tecnologico aerospaziale
sviluppato dal Reich.
A partire dal 1945 un sodalizio scientifico-militare
anglo-americano-canadese chiamato TG (Gruppo
Tripartito) iniziò a progettare velivoli non convenzionali
dalle forme più stravaganti. Gli anni successivi la fine
del conflitto hanno visto una vera e propria gara, nella
più assoluta segretezza, tra potenze nello studio e nella
sperimentazione di ufo per scopi militari.
Ben presto, però, l’arroganza statunitense finì per
indispettire gli altri due partner. Fu così che verso la fine
degli anni ’40 Gran Bretagna e Canada abbandonarono
il progetto con il fine di creare un sodalizio a due, con
base presso il Chalk River nella Columbia Britannica
(Canada) . Il risultato fu clamoroso da un lato,
sfortunato dall’altro: nel 1947 un velivolo anglocanadese
sorvolò indisturbato il territorio degli Stati Uniti, salvo
poi schiantarsi nei pressi di Roswell, nel Nuovo Messico.
Le autorità USA, evidentemente imbarazzate,
insabbiarono la vicenda, inventando la leggenda degli
extraterrestri, sequestrando il velivolo e cominciando a
studiarlo. Tra le altre cose, il velivolo era arrivato
indisturbato nei pressi della base aerea di White Sands,
sede del 509° stormo bombardieri USAF, l’unico allora
abilitato a trasportare ordigni nucleari. Senz’altro un
bello smacco.
Com’è stato possibile un risultato del genere? Alcuni
studiosi sono convinti che tali conoscenze derivino
dalle ricerche dei massimi esperti del settore del Terzo
Reich.
La Germania aveva iniziato a lavorare su tali progetti
dalla fine degli anni ’30, dapprima nella base di
Peenemunde, poi, dopo il bombardamento di questa,
nella base sotterranea di Niedersachswerfen, nei pressi
di Nordhausen. I pionieri di questa ricerca furono
Richard Miethe ed Hans Kammler.
Il dottor Miethe, grande amico di Von Braun, aveva
originariamente fatto parte della squadra che si
18
di Massimo Buzzurro
occupava delle V1 e V2, ma parimenti aveva
cominciato a lavorare su un progetto relativo ai dischi
volanti. Dopo il bombardamento di Peenemunde, il suo
progetto fu trasferito, per motivi di sicurezza, nei pressi
di Breslavia. La storia è piuttosto confusa sul nome che
Miethe scelse per il suo velivolo. Talvolta si è parlato di
Kugelblitz (“fulmine globulare”) insieme a nomi come
Vril e Diskus. In realtà, si suppone che il velivolo si
chiamasse Haunebu, un termine occulto collegato
all’albero del karma germanico ed alla dottrina
ariosofica sulle origini polari della razza ariana.
Miethe, assieme ai suoi assistenti, sviluppò il progetto
di tre dischi Haunebu: Mark I, Mark II e Mark IV. Essi
non dovevano sfruttare solo la potenza dei motori (di
tipo convenzionale a pistoni nel Mark I, di tipo
turboreattore negli altri), ma soprattutto il cosiddetto
effetto Coanda, ovvero un fenomeno che garantiva che
ogni corrente di spinta dei motori, invece di dissiparsi,
desse luogo ad un complesso energetico compatto verso
il bordo di fuga del disco, ove le correnti si sarebbero
combinate aumentando la spinta in avanti. Il disco
caduto a Roswell nel 1947 era un’evoluzione del Mark
IV di Miethe.
Ci sono diverse testimonianze a supporto del fatto che
i Mark II e IV volarono effettivamente in veste di
prototipi. Tuttavia, non ci fu mai per loro un impiego
bellico, a differenza della “cretura” di Hans Kammler:
il Feuerball, ribattezzato dai piloti alleati Foo Fighter.
Simili ad un elicottero senza coda, propulso da reattori
montati sulle estremità delle pale del rotore, i Foo
Fighters erano dotati di paracadute di recupero e
potevano essere lanciati in aria come un razzo, anche
da rampe mobili.
Il primo avvistamento sarebbe avvenuto il 22
novembre 1944. Il tenente della RAF, Edward
Schluter, stava pilotando un caccia Bristol Fighter sul
Reno, nella zona di Strasburgo, quando notò dieci sfere
di colore rosso fiamma che sembravano tenersi al passo
con l’aereo; a questo punto il radar di bordo smise di
funzionare e Schluter fece ritorno alla propria base,
frastornato da quanto aveva visto.
Quattro giorni dopo il ten. Giblin stava volando sulla
zona di Mannheim quando una solitaria ma enorme
palla di luce arancione si avvicinò all’aereo. Gli
avvistamenti continuarono per i due mesi a seguire,
tanto che la notizia di misteriose nuove armi tedesche
Storia e Controstoria
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fu riportata dal “New York Herald & Tribune” il 2
gennaio 1945.
Stranamente i Foo Fighters non vennero dotati di un
armamento di bordo e si limitarono ad essere solo
un’arma psicologica; ben presto le aviazioni alleate
compresero che non rappresentavano una seria
minaccia. Si suppone, però, che i ricercatori tedeschi
avessero voluto far dotare, come arma di bordo, il
cosiddetto Paplitz.
Il Paplitz fu prodotto dall’Elektro Akoustic Institute
di Namslau, installato su un aereo convenzionale nel
marzo del ’45 e collaudato. Il Paplitz era il prototipo di
un disturbatore elettromagnetico localizzato che
serviva ad interrompere il sistema d’iniezione dei
motori convenzionali; un apparecchio per disturbare
le comunicazioni radio ed un congegno d’inseguimento
a raggi infrarossi che poteva agganciarsi agli scarichi
dei motori.
Visti i tempi, ormai vicini alla fine del conflitto, e dal
momento che non si sarebbero mai registrate perdite di
aerei imputabili ai Foo Fighters, tale avanzato sistema
d’arma non venne mai montato ed il progetto di
Kammler non venne prodotto in serie. Una domanda,
però, nasce spontanea: che cosa aveva mandato in tilt
il radar dell’aereo di Schluter?.
(per maggiori informazioni, Gary Hiland,“I segreti
perduti della tecnologia nazista”, Newton Compton).
Massimo Buzzurro / Gli UFO esistono davvero?
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GLI UFO ESISTONO
DAVVERO?
Storia e Controstoria
di Massimo Buzzurro
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Massimo Buzzurro / Gli UFO esistono davvero?
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I MISTERI DI MITHRA
Il territorio italico è stato oggetto nel corso dei
millenni a stratificazioni di ogni tipo: non solo la storia
ha lasciato pagine di testimonianze che dall’ottocento
in poi l’archeologia sta sfogliando, ma anche la
spiritualità ha lasciato evidenti tracce di una continua
presenza e di una continua ricerca, attraverso forme
diverse, spesso solo nel nome, del Principio.
Sicuramente la civiltà che più di tutte ha lasciato la
propria traccia è quella romana, con documenti, edifici
e monumenti. L’approccio verso il sacro ha subito
diversi mutamenti nella storia romana, per via
soprattutto delle influenze di numerose popolazioni
con le quali è venuta in contatto.
Dalle divinità Italiche al Cristianesimo si è passati
anche attraverso un pantheon ereditato dai greci e da
una religione misterica che perdurò dal I secolo a.C.
fono al V secolo d.C.: il Mitraismo.
Il mitraismo romano è un prodotto sincretico di
provenienza indo-iranica; il nome del dio Mitra appare
per la prima volta in un documento, datato intorno al
1400 a.C. , stipulato tra il Regno di Mitanni hurrita e
gli Ittiti. Questo trattato è stato garantito e validato
dalla presenza di cinque divinità indo-iraniche: Indra,
Mitra, Varuna e i due cavalieri Ashvin.
Mitra dunque fa parte delle divinità induiste, ed appare
nei Veda come una delle divinità solari, gli Aditya1, dio
dei contratti, dell’onestà e dell’amicizia, nonchè
governatore delle ore diurne. Negli inni vedici Mitra è
sempre nominato assieme al fratello (gemello) Varuna
tanto che spesso si ricorre all’appellativo “Mitravaruna”:
Mitra genera la luce dell’alba mentre Varuna è il signore
delle sfere celesti e del ritmo cosmico e nei rituali tardovedici si prescrive una vittima sacrificale bianca per
Mitra, nera per Varuna. Rappresentano anche
rispettivamente il sacerdozio e il potere regale e nel
Shatapatha Brahmana2 vengono descritti, come due-inuno, come “il Consiglio ed il Potere”.
di Alessandro Riccardi
(Gargoyle)
Dall’India alla Persia: Zurvanismo e Mazdeismo.
Nel periodo predinastico persiano era sviluppata la
religione Zurvanista, che ruotava attorno a Zurvan,
“il tempo assoluto”. Questi aveva offerto per mille anni
un sacrificio con lo scopo di avere un figlio, ma non
appena gli pervenne il dubbio dell’utilità del sacrificio,
concepì3 due figli: grazie al sacrificio offerto concepì
Ohrmazd (Ahura Mazda), mentre a causa del dubbio
sul sacrificio concepì Ahriman. Zurvan decise di
nominare re il primogenito: Ohrmazd conobbe il
pensiero del padre e lo condivise col fratello Ahriman
il quale ruppe la matrice e ne uscì. Quando dichiarò a
Zurvan di essere suo figlio, questi dubitò in quanto era
tenebroso e puzzolente, mentre avrebbe dovuto essere
profumato e lucente. Nacque dunque Ohrmazd con tali
caratteristiche, e Zurvan volle consacrarlo re: ma
Ahriman ricordò al padre il voto di nominare re il
primogenito, e per non violare il voto Zurvan accordò
il regno ad Ahriman per 9000 anni.
Una statua del dio Zurvan
1
Figli di Aditi e Kashyapa, nel Rig-Veda erano sette (Mitra, Varuna, Aryaman, Bhaga, Daksha,
Anśa, Sūrya - il sole - e Ravi): diventano otto negli Yajur Veda (Taittirīya Samhita), e nei
Brahmana furono portati fino a dodici per rappresentare i mesi dell’anno. Gli Aditya, suddivisi
a loro volta in Marut, Rbhus e Viśve-devā, fanno parte della categoria dei Deva (le 33 divinità
ordinate che si contrappongono agli Asura, i 33 demoni caotici) e proteggono dalle sciagure.
2
Uno dei commentari in prosa che spiegano le formule e i riti. Vi è uno o più Brahmana per ogni Veda.
3
Eznik, Contro le Sette. Questi era consapevole dell’ermafroditismo di Zurvan anche se altri
autori più tardi parlano di una “madre” o di una “sposa” di Zurvan.
24
Difesa della Tradizione
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Secondo alcune fonti siriache Zurvan (zaman i
akanarak “tempo illimitato” quindi rappresentazione
del tempo stesso) è circondato da tre dèi, sue ipostasi:
Ašōqar, Frašōqar e Zārōqar che sono richiami agli
avestici aršōkara (che rende virili), frašōkara (che
rende splendidi) e maršōkara (che rende vecchi): un
richiamo alle tre età dell’uomo ma anche alla
suddivisione del tempo zurvanico di 9000 anni in cicli
di 3000. Questa tripartizione temporale si ritrova nelle
Upanishad e in Omero, oltre che essere presente come
formula appellativa nei testi phelevi in cui Zurvan è
colui che “era, è e sempre sarà”.
Dopo la nascita do Ohrmazd ed Ahriman, Zurvan
tramite le ipostasi Ašōqar, Frašōqar e Zārōqar offre ai
gemelli i simboli della sovranità: al primo il barsom,
strumento ricavato da un ramo sacro, al secondo
zatspram, un arnese fatto della stessa sostanza
dell’ombra.
I gemelli iniziano dunque la creazione: tutto ciò che
Ohrmazd creava era buono e retto, mentre ciò che
veniva creato da Ahriman era cattivo e tortuoso.
Entrambe le divinità sono creatrici, elemento
essenziale ripreso in futuro da numorosi miti e
leggende in cui è presente Dio e l’Avversario di Dio.
Vengono creati mēnōk (il mondo celeste) e gētik (il
mondo materiale). Viene creata Spandarmat, la Terra,
la quale, dall’accoppiamento con Ohrmazd nasce
Gayomart; durante la sua morte (che dura trent’anni),
dal suo corpo nascono i sette metalli (i pianeti). Il suo
seme è purificato alla luce del sole, e un terzo di esso
cade sulla terra facendo nascere il rabarbaro, da cui
nasce la prima coppia umana: Mǎsye e Mǎsyane.
Ohrmazd chiede alle fravashi, spiriti preesistenti che
risiedono in Cielo, di accettare un’esistenza fisica sulla
Terra per combattere le forze del Male.
Ahriman e le sue schiere demoniache entrano in gētik,
il mondo materiale, contaminandolo con le loro
creazioni nocive e stabilendo la loro dimora nel corpo
dell’uomo. E’ importante una fase dell’aggressione di
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Ahriman verso il mondo materiale: questi uccide,
avvelenandolo, il Toro primordiale Abudad dal cui
midollo nascono le piante alimentari e medicinali, e dal
cui sperma vengono prodotti gli animali utili all’uomo;
anche Gayomart viene ucciso da Ahriman, ma non
prima di aver trasmesso la rivelazione alla prima
coppia Mǎsye e Mǎsyane che l’hanno comunicata ai
loro discendenti.
Dall’impostazione Zurvanista nasce la religione
Mazdeista che pone come centrale il dualismo Ahura
Mazda (Ohrmazd) – Ahriman (Angra Mainyu). La
divinità principale è Ahura Mazda, a cui sono
subordinati gli Amesha Spenta4, gli spiriti immortali.
E’ anche il protettore di tutte le creature e secondo la
tradizione mazdeista costruì il palazzo Vara di Yima
per proteggerle dal diluvio.
Il Mazdeismo è fortemente influenzato dalle tradizioni
indo-iraniche, ma assistiamo ad una modificazione di
“classi” fra la corrente indiana e quella iranica.
Nell’India vedica i deva (vedi dèi) sono contrapposti agli
asura (figure demoniache), mentre in Persia alcuni asura
vengono divinizzati come deva: è così che nasce il termine
Ahura Mazda (ahura è il corrispettivo del sanscrito
asura, mazda deriva dal greco mègistos, “il più grande”).
Un’immagine del dio Ahura Mazda
4
Questi sono Vohu Manah (buon pensiero, preposto agli esseri animati), Asha Vahishta ( l’ottima legge, preposto al fuoco), Khshathra
vairya (il dominio desiderabile, preposto ai metalli) , Armatay (pietà, preposto alla terra), Haurvatat (integrità, preposto alle acque), Ameretat
(immortalità, preposto alle piante).
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I MISTERI DI MITHRA
Il mazdeismo è la religione principale durante l’Impero
persiano della I dinastia Achemenide (648 – 330 a.C.).
L’Avesta è il testo sacro ed è diviso in gāthā; le yasna
sono liturgie sacramentali mente gli yasht sono inni
rivolti alle singole divinità. Ahura Mazda è
accompagnato da altre divinità quali Mitra (sole), Mah
(luna), Zam (terra), Atar (fuoco), Apam Napat
(acqua), Vayu (vento). Sotto Antaserse II troviamo la
presenza di una trinità: Ahura Mazda, Mitra come dio
del Sole, dei contratti e della redenzione, e Anahita,
dea delle acque, della fecondità e della procreazione.
Il mazdeismo subì diverse modificazioni sotto diversi
imperatori: nello Yasna dai sette capitoli inizia un
processo complesso di adattamento ed integrazione di
diversi contenuti del mazdeismo. Nel Mihr Yasht
assistiamo alla biforcazione che porterà allo sviluppo
del Mitraismo: l’esaltazione del dio Mithra. Nel tempo
la sua figura aveva subito un ruolo sempre minore, ma
nell’inno citato Ahura Mazda proclama che «Quando
ho creato Mithra dai larghi pascoli, l’ho reso degno di
venerazione e di rispetto come me stesso». Alla fine
dell’inno, per riunire i due dei, viene citata la formula
“Mithra-Ahura”, replica del binomio vedico
“Mitravaruna”.
Mithra subisce comunque delle modificazioni: non è
solo il dio dei contratti, ma anche il violento e crudele
dio della guerra: con la sua mazza, vazra, massacra
furiosamente i deva e gli empi. E’ un dio solare
associato alla luce, ha mille occhi e mille orecchi,
provvede a tutto il creato e garantisce fertilità ai campi
e al bestiame. Ahura Mazda e gli Amesha Spenta gli
costruiscono un palazzo al di sopra del monte Harā.
Dopo essersi lamentato di non essere adorato dalle
creature, nonostante sia loro protettore, attraverso
delle preghiere, viene accontentato e viene nominato
come sacerdote di Mithra, Haoma; in seguito Ahura
Mazda prescrive il rito proprio del culto di Mithra, e
lo compie in prima persona nella Casa del Canto in
Paradiso. Mithra è adorato come la luce che illumina
il mondo intero. L’inno termina con queste parole:
«nella pianta barsom noi adoriamo Mithra e Ahura, i
di Alessandro Riccardi
(Gargoyle)
gloriosi [Signori] della Verità, liberi per sempre dalla
corruzione: [adoriamo] le stelle, la Luna e il Sole.
Adoriamo Mithra, signore di tutte le genti.»
Il Mitraismo in occidente.
Il culto di Mitra fu introdotto in occidente da pirati
della Cilicia che, vinti e catturati da Pompeo nel 67
a.C., diffusero il culto5. Viene però descritto un culto
misterico, e probabilmente il processo attraverso cui il
dio iranico esaltato nel Mihr Yasht si sia trasformato
nel Mitra dei Misteri è opera di uno sviluppo cultuale
nell’ambiente dei magoi che si stabilirono in
Mesopotamia e in Asia minore. La mitologia e la
teologia dei Misteri mitriaci sono accessibili attraverso
monumenti istoriatim netre i poco numerosi
documenti letterari si riferiscono al culto e alla
gerarchia dei gradi iniziatici.
La religione mitriaca si propaga soprattutto attraverso
i militari, probabilmente a seguito dell’associazione del
Mithra iranico come dio della guerra. Passando
attraverso la Grecia intorno al II secolo a.C. Mithra fu
identificato con il dio solare Apollo – Helios. Qui il
sincretismo tra Helios e Mitra diviene mitraismo a
tutti gli effetti. Tuttavia il culto non si sviluppò se non
quando arrivò, nel I secolo a.C., a Roma.
L’origine del dio differisce dalla versione mazdeica ed
hindu: uno dei miti narra che Mitra nacque da una
roccia6 (de petra natus), con un pugnale in una mano,
una fiaccola nell’altra, indossando un berretto frigio.
Un altro mito narra che il dio decide di venire al
mondo incarnandosi nel ventre della divinità vergine
Anahita7, e nasce in una grotta. Nel culto mitriaco i
festeggiamenti per la nascita del dio erano celebrati il
25 dicembre, durante il solstizio d’inverno (in persiano
chiamato Shab-e Yalda), come si conviene ad dio della
luce. Nella sua vita compie diverse gesta: prima fra
tutte soggioga il sole e lo introduce ai suoi misteri: le
due divinità stipulano un patto nel quale Mitra riceve
in dono una corona luminosa, e banchettano assieme.
In seguito colpisce con una freccia la roccia, facendone
5
Plutarco, Pomp., 24, 5
Così come l’antropomorfo Ullikummi hurrito-hittita e il mostro ermafrodita Agditis ellenico,
che diviene, dopo la castrazione, Cibele.
7
Il più grande tempio mitriaco è quello Seleucide situato a Kangavar del 200 a.C. Questo è
dedicato ad “Anahita, la immacolata vergine madre del signore Mithras”
6
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scaturire acqua. Cattura un toro e, portatolo nella sua
caverna dopo aver superato delle difficoltà causate da
uno scorpione e da un serpente mandati dal dio
malvagio Ahriman per ostacolarlo, e lo sgozza. Dal
corpo del toro, come abbiamo visto precedentemente
nella
mitologia
zurvanica
nell’episodio
dell’avvelenamento del toro primordiale Abudad,
nascono tutte le erbe e le piante salutari, dal midollo il
grano che dà il pane, dal suo sangue la vite, e dallo
sperma gli animali utili all’uomo. Al termine del suo
mandato, dopo 33 anni, il Dio sarebbe salito in cielo
con l’aiuto del sole.
Il culto assunse sempre più importanza senza tuttavia
divenire mai religione ufficiale: dapprima tramite
militari e schiavi per poi arrivare sino agli imperatori.
Nel II-III secolo d.C. giunse al massimo splendore,
Pagina 27
tuttavia nasceva il forte contrasto con l’altra religione
monoteista del tempo, il Cristianesimo. Nel 313 d.C.
l’editto di Costantino segna una prima vittoria cristiana,
mentre la restaurazione pagana di Giuliano Imperatore
(361 – 363 d.C.) permise una ripresa del culto mitriaco
che fermò almeno la distruzione dei templi. Con la
sconfitta di Eugenio per mano di Teodosio nel 394 d.C.
la religione cristiana prevalse su quella mitriaca. Sui
templi vennero erette chiese e basiliche.
Il tempio e il rito
Il tempio mitriaco riproduce fedelmente gli aspetti
chiave del mitraismo: questo si trova in luoghi
sotterranei che rappresentano una grotta la spelunca,
la cui volta è dipinta con astri e costellazioni per
Un’immagine della tauroctonia completa di tutti gli elementi
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I MISTERI DI MITHRA
rappresentare il macrocosmo nel microcosmo. In fondo
alla spelunca è situata l’immagine del dio dipinta, in
bassorilievo e in forma statuaria. Questi posizionato al
centro, con il sole alla sua sinistra e la luna alla sua
destra, nell’atto di sgozzare il toro8: con una mano
tiene le froge dell’animale, mentre con la destra gli
affonda il pugnale nella gola. Dalla ferita cola del
sangue che viene leccato in prossimità del petto da un
cane, e da un serpente in basso. Uno scorpione attacca
i testicoli del toro con le chele tentando di avvelenarne
il seme. Il serpente e lo scorpione sono mandati da
Ahriman affinché il sacrificio sia vanificato,
impedendo al sangue e allo sperma di fecondare la
terra. La coda del toro, che rappresenta la fine della
colonna vertebrale contenente il midollo, termina con
delle spighe di grano. Il Volto di Mitra è rivolto verso
il sole, come per chiedere il permesso del sacrificio
permesso accordato per mezzo di un messaggio
portato da un corvo in volo, e il suo mantello, come
gonfiato dal vento, racchiude la volta celeste. Ai lati
sono presenti due dadofori gemelli, Cautes e
Cautopates: il primo con una fiaccola alzata, il secondo
con la fiaccola abbassata. Assieme a Mitra
rappresentano i tre momenti del giorno: l’alba, il
mezzogiorno, il tramonto.
Ai lati della spelunca erano presenti delle strutture
murarie rialzare sulle quali i fedeli seguivano il rituale
e assistevano al banchetto e le pareti laterali erano
affrescate con scene inerenti i gradi iniziatici. Oltre la
spelunca erano presenti altre stanze adibite alla
cerimonia del battesimo dell’iniziato, alla preparazione
del cibo per il banchetto, e alla vestizione del Pater.
Mentre grazie ai reperti archeologici ci è possibile
conoscere la struttura del tempio e la scala gerarchica
dei gradi iniziatici, i cui simboli sono presenti in
affreschi e mosaici in mitrei sparsi in tutta Europa,
non ci è possibile conoscere il rituale vero e proprio in
quanto questo non produceva atti scritti ma veniva
tramandato solo oralmente.
di Alessandro Riccardi
(Gargoyle)
L’interno del Mitreo del Circo Massimo a Roma
I gradi iniziatici del mitraismo erano sette, accessibili
solo agli uomini: Corax (corvo), Nymphus (ninfo o
sposo) , Miles (soldato), Leo (leone), Perses (persiano),
Heliodromos (corriere del sole) , Pater Patrum (padre).
Quest’ultimo, massimo grado del mitraicismo, era
abbreviato in Pa.Pa.
Ogni grado iniziatico era associato ad un pianeta e a
particolari simboli identificativi e la struttura
iniziatica è rispondente ad altre strutture tradizionali.
8
La tauroctonia mitriaca rappresenta anche il quadro astrale del passaggio dall’età del Toro a
quella dell’Ariete, fedele dunque a quella dottrina dei cicli temporali cardine della dottrina
zurvanista. Il tempo dunque indicato dall’iconografia, ossia il Sole che muore al tramonto in
Toro e risorge all’alba nell’età dell’Ariete, è databile, secondo la precessione degli equinozi, a
circa 3.742 anni fa, nel 1.796 a.C. Ciò rende ipoteticamente valide le ipotesi secondo cui le origini
mitriache risalirebbero intorno al 1.500 a.C.
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Il grado più basso è quello di Corax e rappresenta la
morte iniziatica del neofita; in Persia si usava esporre
i cadaveri su torri fuunerarie affinché venissero mangiati
dai corvi. Il neofita muore e rinasce in un corso
spirituale: i suoi peccati sono lavati con l’acqua con il
battesimo per immersione9 nell’apposita stanza del
tempio. Il neofita si desta dal buio del sonno e si dona al
nuovo cammino nella luce di Mitra. Il grado di Corax è
sotto la protezione di Mercurio, ed alcuni simboli ad esso
associati sono il corvo, il cadduceo, l’ariete.
Il secondo grado è quello di Nymphus, o crisalide: così
come dalla crisalide nasce la farfalla, dal Nymphus
nasce l’iniziato a Mitra: era il suo sposo, o il suo amante.
L’iniziato offriva alla statua di Mitra una coppa
d’acqua: la coppa era il suo cuore, l’acqua il suo amore.
Il Nymphus è sotto la protezione di Venere, ed alcuni
simboli ad esso associati sono il serpente e la lucerna.
Il terzo grado era occupato dalla figura del Miles;
questo grado rappresenta la duplice battaglia.
Dapprima il nofita doveva combattere con la spada
contro un uomo per conquistare la corona: in seguito
veniva spogliato e veniva fatto inginocchiare nudo, con
le mani legate e bendato, a rappresentare la
sottomissione all’autorità religiosa e l’abbandono della
materialità della vecchia vita. Gli veniva offerta una
corona sulla punta della lancia, e dopo l’incoronazione
veniva tolta la benda e tagliate le corde con un colpo
secco di lancia, per rappresentare la liberazione dalla
materialità del mondo. Il Miles, come segno di rinuncia
all’intelletto ed accettazione di Mitra come unica
guida, toglieva la corona e la poggiava sulla spalla
pronunciando la frase “Mitra è la mia unica corona.”10
Passata tale fase, il Miles iniziava la vera battaglia, quella
contro la parte più bassa di se stesso. Il terzo grado è
sotto la protezione di Marte e alcuni simboli associati
sono lo scorpione, l’elmo, la lancia.
Pagina 29
L’iniziazione del Miles in un affresco di un mitreo
Con questo grado termina il gruppo dei “servitori” del
rito ed inizia il gruppo dei “partecipanti” al rito.
Al quarto grado, l’iniziato accede ad un livello di
comprensione superiore inerente il mondo fenomenico,
passaggio che si può compiere esclusivamente con un
vero atto di forza interiore. E’ il grado di Leo,
rappresentativo dell’elemento del fuoco, gradino per
entrare nella porta del non commensurabile. I Leones
non toccavano acqua durante i rituali ma veniva
offerto loro del miele per lavarsi le mani e con lo stesso
veniva unta loro la lingua11: erano i custodi del fuoco
9
A volte il battesimo avveniva con il sangue della vittima sacrificale la quale, nonostante la tauroctonia risulti iconograficamente logica,
non era realizzabile in virtù della ristretta dimensione del tempio. La vittima sacrificale era spesso un agnello.
10
Tertulliano, De corona
11
Il miele era il cibo dei beati e dei neonati. Cfr. Porfirio, De antro nimph
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sacro e servivano durante il banchetto rituale i cibi
preparati dai gradi inferiori. Il banchetto rituale, a
base di pane e vino simbolo del frutto del sacrificio del
toro (grano dal midollo e vite dal sangue),
rappresentava l’ultima cena di Mitra con i suoi
compagni sulla terra prima di salire in cielo con il Sole.
Il grado di Leo è sotto la protezione di Giove e alcuni
simboli ad esso riferiti sono il cane, la folgore, l’aquila.
Il quinto grado, quello di Perses, è rappresentato dal
dadoforo Cautopates ed è il Custos delle grotte
mitriache. Simbolo tipico dell’iniziato è l’arma con cui
Perseo decapitò la Gorgone, che rappresenta la vittoria
dell’aspetto più basso dell’iniziato. Attraverso questa
vittoria l’iniziato aveva diritto ad essere affiliato alla
razza persiana, l’unica razza degna di ricevere la
Rivelazione della saggezza del Magio (magoi). Essendo
sotto la protezione della Luna, l’iniziato veniva
purificato con il miele in quanto, nell’antico Iran, si
riteneva che la Luna ne fosse la fonte12. Altri simboli
rappresentativi del grado di Perses sono la civetta, la
falce di luna, la brocca.
Heliodromos è il sesto grado, rappresentato da Cautes,
con la torcia alzata a rappresentare il levar del sole.
Heliodromos rappresenta l’alba e il viaggio del sole nel
cielo nelle ore diurne.
In questo grado l’iniziato rappresentava il sole durante
il banchetto rituale, vestito interamente di rosso,
colore della vita, del sole e del fuoco. E’ sotto la
protezione del Sole ed è simbolicamente raffigurato da
una corona a sette raggi, la torcia, il gallo, il globo.
Il settimo e massimo grado della gerarchia iniziatica
mitriaca è il Pater Patrum (Pa.Pa.). Egli rappresenta
l’Età dell’Oro attraverso Saturno13, è il rappresentante
di Alessandro Riccardi
(Gargoyle)
di Mitra sulla terra, la personificazione della luce
paradisiaca. Era la guida dei gradi inferiori, vestiva
pantaloni persiani rossi, cappello frigio rosso e un
bastone, simbolo del carico spirituale. Il suo grado è
sotto la protezione di Saturno.
Tale struttura gerarchica ci è stata tramandata da
documenti e con l’aiuto di iscrizioni, affreschi e
decorazioni presenti nei mitrei: circa il rituale si fa
riferimento a “vociferazioni” presenti in documenti
successivi il bando della religione mitriaca, pertanto
appare difficile separare la realtà dalla fantastica
necessità di demonizzare il mitraicismo da parte della
chiesa romana. Gli apologeti cristiani polemizzano
spesso contro i sacramenti mitriaci definendolo
“ispirati da Satana”. Tertulliano e Luciano parlano
della conclusione dell’iniziazione al grado di Miles con
la marchiatura a fuoco sulla fronte dell’iniziato14, o
purificato con una torcia ardente15. Il combattimento
con la spada iniziale del Miles probabilmente avveniva
contro un fantoccio (a rappresentare la facilità della
battaglia materiale, della piccola guerra santa, a
confronto con la battaglia spirituale, la Grande Guerra
Santa), il che potrebbe confermare lo sdegno in un
testo dello storico Lamprida quando parla
dell’Imperatore Commodo che macchia di sangue i
Misteri di Mitra16 (che avrebbe ucciso, nel ruolo di
Pater, un Miles invece di simularne l’esecuzione).
Anche se in Grecia il mitraicismo non ha
lasciato tracce archeologiche rilevanti, una traccia
documentaristica riguardo il rituale proviene proprio
dal territorio ellenico; il rituale17 è inserito in una
raccolta di manoscritti ermetici su trentasei fogli di
papiro, acquistati in Egitto dal console generale di
.12 L’espressione “Luna di miele” denota la continuità della fertilità e dell’amore nella vita
matrimoniale, che oggi giorno è associato al mese dopo il matrimonio.
13
Virgilio, BUCOLICHE, ECLOGA IV: “Ultima Cumaei venit iam carminis aetas; magnus ab
integro saeclorum nascitur ordo. Iam redit et virgo, redeunt Saturnia regna, iam nova progenies
caelo dimittitur alto. Tu modo nascenti puero, quo ferrea primum desinet fave Lucina: tuus iam
regnat Apollo.” (Già arrivò l’ultima età della predizione dei cumani, nasce per intero una grande
serie di secoli; e già ritorna anche la Vergine, tornano i regni di Saturno, già una nuova progenie
è mandata giù dall’alto cielo. Tu, casta Lucina, proteggi il bambino che nasce ora dove per la
prima volta cesserà l’era delle armi: già regna il tuo Apollo.)
14
Tertulliano, De praescr. haret.
15
Luciano, Mennipus
16
Lamprida, Commodus
17
Armando Cepollaro (a cura di), Il rituale di Mithra, grande papiro magico di Parigi, Atanòr
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un’azione mistico-magica. Il mistero mitriaco ha una
posizione trascendente nei confronti dell’uomo il quale
non giunge mai, anche se scala gerarchicamente i gradi
da corax a pater, ad assimilarsi al dio21, ma va solo alla
ricerca della sua protezione chiedendo ed invocando la
sua amicizia al fine della propria salute spirituale. Il
testo del rituale è pervaso di riferimenti simbolici
planetari ed astrali attraverso i quali il teurga compie
l’ascensione all’empireo attraverso le sette sfere di
fuoco. Tali porte si schiudono solo in virtù di formule
sacramentali, lasciando proseguire l’iniziato attraverso
il suo viaggio alla fine del quale è dvo-ja, due volte
nato. Il frasario magico non può essere interpretato
letteralmente: è composto da frasi e sillabe evocatorie
ed invocatorie dotate di potenza e forza visualizzante
nel regno vedico e in quello delle forme: simili ad un
mantra, a parole di potere. Il rituale è composto da
un’iniziale formula propiziatoria, da una preghiera
invocatoria cui seguono nove Logos. Il rituale termina
con l’istruzione per l’impiego del rituale magico e
l’istruzione per l’azione rituale.
Mitraicismo e Cristianesimo.
Il Pater Patrum
Svezia M. d’Anastasi e dallo stesso ceduti alla
Biblioteca Nazionale di Parigi nel 185718: scritto in
forma greca, è databile tra il la fine del III e l’inizio
del IV secolo d.C19.
L’elemento cardine del rituale è la volontà dell’iniziato
ad imitare il dio che muore e risorge per divenire
partecipe della sua energia ultraterrena20, attraverso
Leggendo quanto esposto finora sono evidenti diversi
elementi comuni fra la religione Cristiana e lo
Zurvanesimo/Mazdeismo/Mitraicismo: il cristianesimo è
l’ultima grande religione in ordine temporale ed ha risentito
delle influenze della spiritualità preesistente. Anche il
giudaismo e l’islamismo contengono elementi comuni22.
L’aspetto trinitario divino (nell’aspetto, non nella
definizione), elementi della genesi del mondo e
dell’uomo (la coppia primordiale Mǎsye-Mǎsyane), il
libero arbitrio tra bene e male (Ohrmazd-Ahriman), il
diluvio (da cui per salvare le creature viene costruito il
palazzo Vara di Yima). Nello Zoroastrismo (riforma
del Mazdeismo da parte di Zarathustra) c’è la figura
18
Papyrus Anastasii, n° 574 del Supplement grec du Recueil magique, Departement des manuscrits, Biblioteca Nazionale di Parigi. Il
rituale mitriaco si estende dalla riga 42 del fogl. 7 recto alla riga 16 del fogl. 10 verso.
19
APATHANATISMOS: Rituale mithriaco del Gran Papiro di Parigi – prima traduzione dal greco con una introduzione, un commento ed
un’appendice; in “UR”, Roma, anno I, Aprile 1927, n. IV.
20
Bousset, Kyrios Kristos; Göttingen, 1921
21
Accade il contrario in altri misteri come quello di Attis, di Sabi, di Osiris.
22
Elementi comuni si riscontrano non solo per quanto concerne la cultualità solare/patristica: vi sono profondissime comunanze anche
con la cultualità lunare/matristica di cui non ci occuperemo in questo articolo.
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I MISTERI DI MITHRA
di Saoshyant, futuro Salvatore degli uomini, nato da
una vergine: questi assieme ad Ohrmazd, sacrificando
il toro Hatayos dà via al Rinnovamento finale
(frašo-kereti) durante il quale verranno resuscitati tutti
gli uomini per prendere parte alla battaglia finale tra
bene e male.
La nascita di Mitra da una vergine in una grotta il 25
dicembre (la Chiesa stabilirà la nascita di Cristo lo
stesso giorno nel IV secolo d.C.) con la visita del
nascituro da parte dei Re Magi, magoi persiani,
l’episodio della roccia colpita da cui scaturisce acqua
(ritrovato in Mosè e Pietro), il periodo di permanenza
sulla terra di 33 anni, l’ultima cena con il pane e il vino
(frutti del sacrificio del corpo e del sangue del toro) e
successiva ascesa in cielo, corrispondenza del nome del
massimo grado (Papa, dall’abbreviazione di Pater
Patrum, Pa.Pa.). Mitra è anche ritenuto essere il
Salvatore degli uomini e nel giorno del Giudizio
giudicherà le anime che verranno destinate nel
paradiso23 o nell’inferno. Nel rituale si nota l’analogia
nei tre momenti iniziatici dei gradi inferiori del
mitraicismo e i sacramenti: battesimo (corax),
comunione (nymphus), Cresima (Miles). Anche in altri
elementi del Cristianesimo si nota la sovrapposizione
con il culto di Mitra. Oltre alla figura del Cristo anche
quella dell’Arcangelo Michele offre immediate analogie
con Mitra: l’Arcangelo Michele è un angelo guerriero,
protettore degli spadaccini, il cui colto si trova in
presenza di grotte e cavità naturali. Tale culto nasce
dalla leggenda del cacciatore che, ferito un toro bianco,
lo insegue dentro una grotta dove appare l’Arcangelo.
Michele, nell’iconografia in cui uccide il drago (o il
demonio), rappresenta la vittoria sugli stati più bassi
dell’essere nella costante Grande Guerra Santa, mentre
nell’iconografia in cui appare con la bilancia
rappresenta la psicostasia, la pesatura delle anime
durante il Giudizio Universale; tutti elementi ben
presenti nella storia di Mitra e del suo rituale.
Il culto iranico di Mithra era stato in grado di unire
di Alessandro Riccardi
(Gargoyle)
l’eredità iranica al sincretismo greco-romano: i misteri
di Mitra avevano integrato ed assimilato correnti
specifiche dell’età imperiale romana, come l’astrologia,
speculazioni escatologiche, culto solare. Ma nonostante
leredità orientale la lingua liturgica era il latino e i capi
dei Misteri provenivano dalle popolazioni italiche e da
quelle delle province romane: erano inoltre assenti
pratiche mostruose ed orgiastiche. Queste qualità
stabilirono il successo del mitraicismo tanto da spingere
Ernest Renan a citare la frase “se il cristianesimo fosse
stato fermato nella sua espansione per via di qualche
malattia mortale, il mondo sarebbe stato mitriaco”24.
Ma la Grande ruota gira, i cicli si compiono: a nulla
potè la spiritualità mitriaca contro il naturale
decadimento che avanza con le età cosmiche. Nel III
secolo d.C. i culti solari popolari di Mitra ed Apollo
iniziarono a fondersi nel sincretismo del Sol Invictus:
Aureliano, figlio di una sacerdotessa del Sole, rende
ufficiale il culto nel 274 d.C. Costituisce un nuovo
corpo di sacerdoti (pontifex solis invicti) ed attribuisce
al Sol invictus le vittorie in Oriente. La perdita della
Dacia e le invasioni dei popoli del Nord, che distrussero
molti templi, contribuirono al declino del culto. La
crescita del cristianesimo favoreggiata da Costantino e
la vittoria di questo a Ponte Milvio (l’onirico episodio
del “in hoc signo vinces”) segna la fine del mitraicismo.
In seguito l’Imperatore Giuliano cercò di restaurare il
culto e di limitare l’avanzata della religione cristiana,
ma il decreto di Teodosio del 391, nel quale venivano
vietati culti non cristiani, ne sancì definitivamente la
fine. I templi vennero distrutti, o nel migliore dei casi
sopra di essi vennero erette chiese e basiliche.
Tuttavia, grazie alla sopravvivenza archeologica dei
templi e al sincretismo religioso del culto mitriacocristiano, abbiamo la possibilità di percorrere a ritroso
le origini della spiritualità25, in un cammino che ci
riporti all’unione con l’unico Principio generatore
rappresentato nei millenni con tanti volti, tante forme,
tanti nomi.
23
Dal sanscrito paradesha, “paese supremo”, altopiano del primo popolo di lingua sanscrita,
culla dei primi uomini pensanti divini. Successivamente pairidaeza in iranico da pairi“attorno” diz- “creare”.
24
Ernest Renan, Marc Aurèle, p. 579
25
Vedi escursioni dell’Associazione Culturale Thule Italia - Gruppo Escursionismo
Archeologico - Sezione regionale LATIVM, presso il monte Soratte, (Rivista Thule Italia n° 19
e 20 del 2007) e presso il Mitreo di S.Prisca.
32
Difesa della Tradizione
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Alessandro Riccardi / I Misteri di Mithra
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LA MODERNA
“RELIGIONE DELLA SCIENZA”
Alcuni retroscena di un
equivoco plurisecolare
La scienza è
antioligarchica
F. W. Nietzsche
fondamentalmente
democratica
e
Non è certo impresa facile affrontare una questione
come quella dello sviluppo scientifico e delle sue
conseguenze tecnologiche nella modernità, ma
l’importanza del fenomeno motiva il nostro tentativo
di inquadrarlo e di delinearne anche solo brevemente
tratti distintivi e ombre.
È cosa piuttosto nota che a partire dal XVI secolo,
soprattutto in Europa, una serie di eventi, di scoperte, di
riflessioni abbiano dato una forte spinta accelerativa alla
conoscenza dei meccanismi e delle leggi naturali,
conoscenza alla quale hanno fatto seguito applicazioni
pratiche sotto forma di apparecchiature, di macchine e
in generale di applicazioni finalizzate ai più disparati
scopi, diffuse in una quantità mai vista sino ad allora.
La cosiddetta scienza e soprattutto la sua versione
applicativa che è la tecnologia sono in effetti i caratteri
distintivi della civiltà moderna in rapporto alle civiltà
precedenti: uno sguardo critico sulla modernità deve
pertanto passare attraverso un’analisi attenta del
fenomeno scienza-tecnologia. Noi, però, se da un lato
siamo sospettosi verso l’autocelebrazione della
modernità e dei suoi fasti, non intendiamo per contro
assumere quelle posizioni bigotte e retrive diffuse in certi
ambienti sedicenti tradizionalisti o conservatori di rifiuto
della novità per partito preso, che vedono nel personal
computer un instrumentum diaboli o contrappongono
al darwinismo i miti dell’Antico Testamento.
Ora, nessuno potrebbe seriamente pretendere di
negare gli innumerevoli vantaggi che sono derivati da
questo immenso fenomeno: la scienza moderna è
finalizzata soprattutto ad applicare in forme pratiche
le leggi e i principi enucleati in sede teorica, a rendere
cioè semplicemente più comoda e più agiata la vita
dell’uomo, e in ciò sembra decisamente essere riuscita
nel suo intento. Un confronto tra la medicina antica o
medioevale e quella moderna è sufficiente ad avere la
34
di Michele Russo
(Aries)
misura del cambiamento. Lo scopo del nostro discorso
non sarà quindi un’impossibile requisitoria contro
evidenti successi, quanto piuttosto indagare se dietro
tutto questa gloria e questo fasto vi siano dei lati
oscuri o delle mancanze. E a nostro parere, a ben
guardare, ve ne sono abbastanza per poter affermare
che i costi superano i guadagni.
A cominciare dai termini vi è oggi molta confusione:
quando si parla di scienza viene spesso implicitamente
sottointeso l’aggettivo “moderna”, quasi che prima del
1500 l’umanità vivesse nell’ignoranza. Questa prima
distorsione si basa sull’idea, arbitraria e infondata, che
sia scientifica soltanto quella conoscenza di natura
sperimentale, mentre il sapere non misurabile in
termini matematici sia soltanto favola e opinione. A
partire da questo equivoco, i cui principali responsabili
furono Francis Bacon e René Descartes, gli uomini
hanno iniziato a prestare un’attenzione smisurata allo
studio della natura nei suoi aspetti esclusivamente
materiali - peraltro per la brama di un suo
sfruttamento economico, non certo di una sua pura
conoscenza - tralasciando in misura progressiva quelle
branche del sapere come la metafisica, la psicologia o
l’etica che fino ad allora componevano un tutto
organico. È pur vero che nell’ultimo secolo alcune
discipline come la psicologia sono tornate in voga, ma
appunto scisse e sconnesse da una vera metafisica - che
dopo la fine dell’idealismo tedesco del XIX secolo non
esiste più -, e impostate sul modello epistemologico
proprio delle scienze positive, vale a dire in una
prospettiva strettamente materialista ed empirista.
Peraltro forse è opportuno ricordare che moltissime
teorie e spiegazioni oggi correntemente accettate non
hanno alcunché di sperimentale: basti pensare alla
teoria della gravitazione universale di Isaac Newton, a
quella dell’evoluzione di Charles Darwin o a quella
della relatività generale di Albert Einstein. Con ciò non
intendiamo entrare nel merito sostenendo che simili
teorie non siano valide, ma soltanto che la
sperimentabilità è un criterio per nulla scientifico, e
pertanto che ritenere la scienza - in quanto
sperimentale - più oggettiva e più veritiera del sapere
speculativo è assolutamente infondato.
Di pari passo ai progressi della scienza positiva si è
Difesa della Tradizione
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assistito nell’era moderna al tramonto del sapere
metafisico e di ogni scienza sacra: tradizioni millenarie
che diedero luogo a miti, religioni, riflessioni filosofiche
sono state espunte dall’orizzonte del sapere occidentale
come inutili e infondate chiacchiere, oppure si sono
trasformate in sterili elucubrazioni, prive di ogni
dignità e autorevolezza e ridotte a un giuoco di finezza
logica. Il riflesso e la conseguenza di questa
desertificazione metafisica e spirituale, di questa
perdita di un significato forte dell’esistenza è il caos
morale che oggi possiamo facilmente osservare.
L’uomo moderno, tutto contento per essersi “liberato
dall’oppressione religiosa”, illusosi con facilità di essere
un homo faber “artefice del proprio destino”, si è
ridotto in realtà nella più infamante condizione di
servilismo: l’agire degli uomini nella attuale
prospettiva materialista si configura infatti come un
agire asservito agli aspetti più bestiali e vili
dell’esistere, alle sue brame più cieche e insaziabili, ai
suoi orizzonti più meschini e spregevoli.
Eliminare ogni riferimento a piani della realtà diversi
da quello materiale come hanno fatto le scienze e le
filosofie della modernità ha reso l’uomo un essere i cui
soli scopi sono soddisfare bisogni e perseguire piaceri.
Guardando a un siffatto degrado in ogni uomo normale
nascerebbe spontaneo l’interrogativo “ma è questa una
esistenza degna di essere vissuta?”, domanda che
probabilmente sfiora molti, ma che dimentichiamo con
facilità grazie a tutte quelle distrazioni che proprio la
tecnologia si premura di darci.
Occorre poi notare come l’uomo moderno, ben lungi
da quella serietà e da quel sobrio razionalismo con cui
si raffigura, è in realtà in ogni ambito vittima
inconsapevole di superstizioni e credenze irrazionali,
sul piano morale come su quello politico e culturale, e
non per ultimo su quello scientifico. Il materialismo e
il progressismo sono due buoni esempi di queste
credenze assurde.
Il concetto di materia, elemento centrale in quasi tutte
le filosofie moderne comprese quelle di tendenza più
idealistica, è uno dei concetti più sfuggenti e oscuri di
tutta la storia del pensiero umano. Secondo Aristotele
- che a questo proposito si rifaceva a Platone, il quale
a sua volta interpretava un assioma autoevidente che
il pensiero tradizionale greco aveva fatto suo sin dalle
Pagina 35
origini - della materia in senso stretto non può esservi
scienza, ma solo opinione: la materia infatti è “essere
in divenire”, vale a dire in costante mutamento, e
perciò inafferrabile dal pensiero, che invece può
studiare solamente l’essere immobile. Di fronte a una
tesi scientificamente rigorosa come questa ogni
materialismo trova delle serie difficoltà a
controbattere, e così la taccia di arretratezza ed evita
di confrontarvisi seriamente: peraltro, anche
studiando le varie filosofie materialiste che pure si
legittimano appellandosi alla scienza, difficilmente si
troverà una definizione “scientifica” della materia,
entità che sembra piuttosto svolgere il ruolo di mito
fondativo, se non addirittura di rozza superstizione. In
questo senso il noto principio di indeterminazione di
Heisenberg non fa che confermare l’aspetto sfuggente
e scientificamente poco conoscibile della “materia”,
confermando tra le altre cose il concetto Aristotelico.
Un altro dei più profondi equivoci della modernità è il
progressismo, quella confusa convinzione per cui il
presente è meglio del passato e il futuro sarà meglio
del presente. Progresso, evoluzione, positivismo,
ottimismo - teorizzati in sede filosofica, tra gli altri, da
Herbert Spencer nel secolo XIX - sono stati il motore
degli immensi cambiamenti occorsi nei tempi ultimi e
stanno alla base della rivoluzione industriale nonché
del sorgere di quelle prospettive politiche quali il
socialismo o il liberalismo.
Che il progressismo o l’evoluzionismo non siano dati
di fatto, ma miti insensati e vaghe aspirazioni,
sintomatici più di stolto ottimismo che non di
scientificità, sarebbe evidente anche a un bambino: la
loro diffusione nell’età moderna rende però l’idea di
come gli uomini oggi non si siano affatto “liberati dalla
superstizione religiosa” come vanno vantandosi, e
abbiano semplicemente sostituito un ordine di illusioni
provvidenziali con un altro equivalente, incentrato su
simili promesse escatologiche riguardanti il destino
terreno.
D’altro canto da quando ha cominciato a prendere
piede una visione progressista sono anche state
avanzate in risposta delle prospettive decadentiste.
Bisogna però notare che il progresso come la
decadenza non sono fatti ma punti di vista: la storia
mostra come le civiltà e gli uomini cambiano
Michele Russo / La moderna “religione della scienza”
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LA MODERNA
“RELIGIONE DELLA SCIENZA”
semplicemente, migliorando sotto certi aspetti e
peggiorando sotto altri. Su di un piano metastorico è
sì lecito speculare se le sorti dell’universo consistano
nel suo ripetersi ciclico, nel suo riassorbimento nel
creatore, nella sua redenzione o che altro, ma quando
tali discorsi vengono affrontati da chi non ne ha le
competenze finiscono per essere banalizzati e condurre
a esiti fuorvianti. Ciò basti a dire che progressismo o
decadentismo sono legittime opinioni ma non certo
verità scientifiche, e come sia quindi opportuno
prendere le distanze non solo dal progressismo ottuso
di matrice illuminista, ma pure da quel pessimismo
tanto in voga tra molti tradizionalisti, sempre pronti a
lamentare le nequizie del kaliyuga e attendere la
redenzione da una nuova età dell’oro.
Tornando al progressismo vale la pena ricordare come
esso serva tutt’oggi a giustificare e coprire il fallimento
evidente delle ideologie della modernità e delle
istituzioni che di esse sono manifestazione: infatti,
illusi che il futuro riservi ancora innumerevoli
maraviglie per le quali vale la pena di sacrificare il
presente, gli uomini d’oggi non si accorgono della
situazione disastrosa i cui li ha condotti quella stessa
civiltà che promette loro un roseo futuro. Questo vale,
per esempio, in riferimento alla devastazione
dell’ambiente naturale provocata dalla odierna
diffusione anomala della tecnologia: gli uomini hanno
sempre consumato risorse e inquinato il proprio
habitat, ma quando il fenomeno raggiunge proporzioni
tali da mettere a repentaglio la sopravvivenza degli
uomini stessi, allora è opportuno interrogarsi se questo
progresso sia davvero un miglioramento.
Un ultimo aspetto oscuro della moderna tecnologia è
la profondissima distanza che si è venuta a creare tra
i costruttori e i fruitori della stessa: in epoche passate
gli strumenti erano più rozzi, ma chi li utilizzava ne
conosceva, in linea di massima, anche il processo
produttivo: ciò permetteva di padroneggiarli e non
subirli passivamente, di ripararli o ricostruirli nel caso
si guastassero. Io che scrivo queste righe sul mio
portatile non ho la minima idea di come avvenga
l’elaborazioni dei dati che darà luogo alle parole sullo
schermo o sul foglio stampato: inoltre, nel caso il
computer si guastasse, non sarei in grado di fare molto
più di una scimmia, e il mio lavoro dipenderebbe
36
di Michele Russo
(Aries)
dall’intervento di un tecnico riparatore.
Questo che apparentemente sembra un dettaglio
insulso ha in realtà conseguenze enormi sulla
psicologia dell’uomo moderno: è uno degli elementi che
contribuiscono a fare di esso un essere passivo, un
servo, che però, inconsapevole del suo stato, si bea
della comodità e dei lussi che gli vengono forniti.
È impossibile in questa sede trattare analiticamente
tutti gli aspetti del problema in questione, ma i pochi
cenni fati possono bastare per rendere l’idea
dell’importanza dell’argomento e delle sue
implicazioni etiche ed esistenziali.
Occorre precisare, peraltro, che le nostre critiche non
sono rivolte più di tanto agli scienziati e alla scienza,
quanto piuttosto ai divulgatori che banalizzano e
strumentalizzano il sapere e la ricerca per scopi politici
e sociali quando non commerciali, che fanno di Galilei
ed Einstein i profeti della loro religione, che
festeggiano il compleanno di Darwin come il “Natale
dei laici”(1). Quando si divulga l’ipotesi che l’uomo sia
imparentato con le scimmie non si afferma una verità
scientifica, ma si propaganda un’etica, una visione del
mondo e un modello comportamentale: basti pensare
che Karl Marx, quando pubblicò il Capitale, intendeva
dedicarlo a Darwin: e Marx non era certo uno
scienziato naturalista.
A questo cicalare disordinato e plebeo noi opponiamo
ferma la certezza antica che il valore di una teoria
scientifica non si misura dal numero di persone che vi
credono. Che la credibilità di una scienza non si misura
dalla sua utilità applicativa. Che la grandezza di una
civiltà non dipenda dalla speranza media di vita.
Noi non siamo antiscientisti od oscurantisti. Noi
crediamo che le scienze e le tecniche non siano qualcosa
da giudicare, frenare o liberalizzare, ma debbano essere
considerate quali saperi strumentali, quindi sempre al
servizio di qualcosa e mai a dominio di alcunché.
Quello che noi critichiamo è il ruolo di dominio che la
scienza moderna ha invece acquisito nell’orizzonte dei
saperi: infatti se da un lato essa risponde molto bene
alle domande circa il “come” avvengono i fenomeni,
d’altro canto non è minimamente in grado – né
potrebbe esserlo – di spiegare il “perché” di quei
fenomeni, di motivarne l’esistenza. Il problema è che la
Difesa della Tradizione
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scienza attuale - o per meglio dire la sua vulgata elude quella domanda, quel “perché”, pretendendo di
rispondere con la più dogmatica delle asserzioni:
l’essere è un “dato di fatto”.
Quando un simile atteggiamento intellettuale diventa
– come è diventato – modello generale di
comportamento, il risultato non può che essere il
riduzionismo etico, la banalizzazione dell’esistenza,
l’annichilimento del senso dell’esistere a mero dato di
fatto, l’autolimitazione della ricerca umana.
Noi – lo ripetiamo – non siamo antiscientisti.
Crediamo che la ricerca scientifica debba sempre essere
promossa, ma non nei termini specialistici, tecnicistici
e settorializzati nei quali opera oggi, ma integrata con
gli altri ambiti del sapere, e la nostra ambizione è verso
quella “chimica delle idee e dei sentimenti morali,
religiosi ed estetici” auspicata da Friedrich
Nietzsche(2).
Noi ci opponiamo alla divulgazione della scienza, alla
sua banalizzazione, al suo diventare una fede laica e
una superstizione. Noi ci opponiamo alla diffusione
abnorme della tecnologia che trasforma gli uomini in
servi inetti e che mette a rischio il nostro ecosistema.
(1) E’ tutto vero: il 12 febbraio, col patrocinio di diversi enti culturali
tra cui le Università, si è celebrato il “Darwin Day” (sic!), giornata
di rievocazione della “nascita del messia” (1809), dedicata a convegni
ed eventi su evoluzionismo e scienza. Anche così nascono le nuove
religioni!
(2) Cfr. Friedrich Nietzsche, Umano, troppo umano, I 1.
Michele Russo / La moderna “religione della scienza”
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“PLATONE”
Parte Seconda
di Matteo Mazzoni
(Chrysokarenos)
Dobbiamo innanzitutto dichiarare, per onestà
intellettuale, che la nostra “esegesi tecnica” del pensiero
platonico attinge completamente dallo studio dell’ottimo
ricercatore Franco Trabattoni, sebbene la sua
interpretazione verrà da noi reinserita in una visione del
mondo originale che egli riterrebbe da sé lontana. In
particolar modo, i testi del Trabattoni cui abbiamo attinto
sono: “Platone” e “La filosofia antica”, editi da Carocci.
Nella prima parte del presente articolo abbiamo
esaminato la dottrina platonica delle idee,
sottolineandone l’aspetto di necessità etica, funzionale
alla condizione politica ed alla debolezza del sentire
comune nell’antica Atene.
Dunque, il carattere ontologico delle idee platoniche, in
tale ottica viene ad essere sminuito.
Tempo fa, discutendo con alcuni Associati, concordammo
nell’individuare il carattere funzionale della metafisica:
fui piacevolmente sorpreso da tale accordo d’opinioni.
Difatti, negando la possibilità della conoscenza perfetta
del cosmo da parte dell’uomo, la metafisica può però
continuare a sussistere come veicolo funzionale
all’affermazione di principi adatti ad agire sulla
condizione umana del proprio tempo. Tutte le metafisiche
in sé possono reggersi in piedi. Condizione perché una
metafisica non si riduca ad elucubrazione mentale, sta
nella sua applicabilità nei diversi rami del reale.
Non oseremo mai affermare con una certezza
infondata che Platone davvero fosse convinto, come
noi, della relatività e della funzionalità della
metafisica, perché sarebbe un puro fantasticare, un
insulto alla storiografia filosofica. Eppure la nostra
sensazione rimane questa: Platone pose il suo sistema
filosofico intero, pose la sua metafisica, concentrandosi
sull’unico e vero obiettivo importante: la rifondazione
etica e soprattutto politica della sua Atene, tentando
però contemporaneamente, come è ovvio che fosse, di
presentare un pensiero il meno confutabile possibile.
Se la dottrina delle idee, con la sua affermazione
dell’esistenza di principi etici stabili che esistono
realmente, non avrebbe convinto Platone sulla sua
utilità ad incidere sul pensiero e sulla tenuta
esistenziale di chi ne venisse a contatto e soprattutto di
chi ne venisse convinto, molto semplicemente
crediamo intimamente che Platone l’avrebbe
abbandonata per proporre qualcos’altro, senza troppe
38
preoccupazioni relative a ciò che è vero e ciò che non lo
è, perché Platone, come vedremo, nel fatto che l’uomo,
in questo mondo, possa raggiungere la verità assoluta,
non credette affatto.
La reminiscenza.
La dottrina delle idee viene posta da Platone
conciliando due visioni contrapposte: quella di
Eraclito e quella di Parmenide.
Eraclito è il filosofo del “tutto scorre”, della realtà in
continuo mutamento. Parmenide è colui che pose
l’”essere” come stabile, immutabile, incorruttibile.
Non è utile qui approfondire ulteriormente questi due
autori. Basta notare che Platone credette nella natura
mobile e transuente del mondo materiale. Ma la sua
necessità di affermare l’esistenza e la stabilità di
principi etico – estetici (le idee) lo ha indotto a
ricondurre tali principi ad un mondo celeste, dove le
regole che dominano il mondo materiale vengono a
decadere, e dove alla dimensione del divenire vengono
sostituiti gli attributi dell’essere di Parmenide.
Parallelamente a tale suddivisione dei “mondi”
Platone divise anche la conoscenza umana in due
generi: al mondo sensibile corrisponde l’opinione
(doxa), una conoscenza che s’appoggia sui sensi e che
risulta incerta ed instabile come il mondo materiale
che conosce; al mondo “celeste” corrisponde invece la
scienza (episteme), conoscenza di carattere intellettivo,
stabile e certa.
Ma come l’uomo conosce le idee? La sua è una
conoscenza che può essere davvero intellettiva, stabile
e certa? Si tratta di una visione intuitiva delle idee,
oppure si tratta di una conoscenza dialettica?
Qui entra in gioco la dottrina della reminiscenza.
In cosa consiste?
In breve, presupponendo una esistenza umana
prenatale, una sorta di soggiorno nel mondo celeste
ove sono le idee, ove dimorano gli dei, Platone,
attraverso il personaggio di Socrate (nel “Menone”, nel
“Fedone”, nel “Fedro” e nel “Timeo”), mette in luce
una fase dell’esistenza dell’anima umana ove questa si
trova in un diretto contatto con le idee (idea,
ricordiamolo, significa “visione”), potendone avere
dunque conoscenza piena, diretta.
Solo con il trauma della nascita, tale conoscenza viene
Difesa della Tradizione
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persa. Con la venuta dell’uomo nel mondo sensibile,
l’anima “dimentica” ciò che aveva conosciuto nel
mondo delle idee.
In questa esistenza materiale, dunque, la sfida che
l’uomo deve affrontare sta nel “ricordare” quanto
dimenticato con la nascita in un corpo fisico.
Nella prima parte del presente scritto, avevamo fatto
notare come l’aspetto “maieutico” del personaggio
platonico di Socrate, sembrerebbe non trovare
riscontro nel Socrate storico. In effetti, il “far nascere
le idee” è un elemento inserito da Platone come
funzionale alla dottrina della reminiscenza. Socrate,
convinto il proprio interlocutore della sua ignoranza,
tenta, in senso vero e proprio, di far “nascere” in chi gli
sta di fronte il “ricordo” di quella conoscenza che
l’uomo ha posseduto nello stato prenatale, e che
tornerà a possedere pienamente dopo la morte.
Questo aspetto del pensiero Platonico per noi è molto
importante perché, lo si ricordi, sottolinea una teoria della
conoscenza che si caratterizza in maniera non razionale:
l’uomo non impara nulla, ma semplicemente ricorda.
Inoltre Platone, introducendo tale forma di
conoscenza, che si configura come un portare alla luce
un sapere innato e preesistente, apre le porte alla
coscienza del fatto che è solo in una dimensione
spirituale che l’uomo può fondare la propria
conoscenza, poiché nel mondo degli dei e delle idee
sono le sue radici.
Alla dottrina della reminiscenza Platone accompagna
la credenza nella metempsicosi, che da più parti, forse
non a torto, è stata vista come la prova maggiore
dell’influenza dell’orfismo e dei suoi culti nel pensiero
platonico. L’anima, secondo il nostro ateniese,
attraversa in alternanza fasi di esistenza celeste a fasi
di incarnazione terrena. In verità, non sapremo mai se
Platone introdusse tale aspetto perché realmente
influenzato dall’orfismo o se per ragioni filosofiche di
offrire una dottrina il meno confutabile possibile e di
rafforzare l’idea dell’immortalità dell’anima. In fondo,
poco ci interessa in questo scritto: se davvero il nostro
scopo è quello di interpretare Platone come esempio di
reazione di fronte alla “zivilizazion” ateniese, non
saremo costretti, dunque, a svolgere un lavoro più
propriamente dossografico o di storiografia filosofica.
La seconda navigazione.
Pagina 39
L’aspetto scettico del pensiero platonico è messo ben in
evidenza dalla cosiddetta “seconda navigazione”,
sebbene molto spesso questo aspetto venga
volutamente ignorato o snaturato.
Partiamo da lontano.
Nel “Fedone” si narra di come Socrate, non trovando
nulla di soddisfacente nelle opere dei naturalisti,
decida di modificare il suo metodo d’indagine
rifugiandosi nei logoi (cioè i discorsi), che egli descrive
come “seconda navigazione”. Questo celebre concetto
è stato interpretato a piacimento dagli studiosi per
rafforzare la loro visione del pensiero platonico. Ed in
effetti si tratta di un concetto che si presta a numerose
interpretazioni.
Ad esempio scrive Giovanni Reale:
“Seconda navigazione” è una metafora desunta dal
linguaggio marinaresco, ed il suo significato più ovvio
sembra essere quello fornitoci da Eustazio, il quale,
riferendosi a Pausania, ci spiega: “si chiama seconda
navigazione quella che uno intraprende quando, rimasto
senza venti, naviga con i remi”. La “prima navigazione”
fatta con le vele al vento corrisponderebbe, quindi, a quella
compiuta seguendo i Naturalisti ed il loro metodo; la
“seconda navigazione” fatta con i remi, e quindi assai
più faticosa, corrisponde al nuovo tipo di metodo, il quale
porta alla conquista della sfera del soprasensibile. Le vele
al vento dei fisici erano i sensi e le sensazioni, i remi della
“seconda navigazione” sono i ragionamenti e i postulati:
e appunto su questi si fonda il nuovo metodo.
(G. Reale “Platone e l’Accademia antica” da “Storia
delle filosofia greca e romana”)
Come sempre, noi preferiamo seguire Franco Trabattoni
(“La filosofia antica”), che ci apre la via alla riscoperta
di un Platone differente. La “seconda navigazione” deve
dunque essere interpretata in maniera radicalmente
differente rispetto a quanto fatto da Giovanni Reale: se
la “seconda navigazione” è più faticosa della prima, ciò
significa che la prima è preferibile, ma non disponibile,
poiché il vento manca. “La prima navigazione” sarà da
considerarsi quindi il procedimento che pretende di
giungere al proprio obbiettivo mediante una conoscenza
Matteo Mazzoni / Platone - seconda parte
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Pagina 40
“PLATONE”
Parte Seconda
di Matteo Mazzoni
(Chrysokarenos)
diretta, simile a quella attuata dai sensi. Mentre la
“seconda navigazione” (i logoi) viene introdotta da
Platone poiché, impossibile la conoscenza diretta delle
idee (che l’uomo potrà avere solo nel mondo postmortem), è necessario un metodo di ripiego: quel logos,
appunto, che stimola il ricordo delle idee dimenticate
con la nascita. Un metodo conoscitivo più debole
dunque, una sorta di ripiego obbligato.
Un’altra metafora nel “Fedone”, confermerebbe tale
interpretazione: quella degli specchi bruniti, di cui ci si
serve per vedere il sole durante l’eclissi senza rimanere
accecati.
“Perciò i logoi fanno da schermo e da filtro: permettono
sì di conoscere, ma solo attraverso un diaframma che
istituisce una distanza e una differenza. Si tratta
appunto della differenza che separa la conoscenza
intuitiva dell’idea, accessibile solo nell’oltremondo, dalla
conoscenza mondana, che emerge faticosamente
dall’anamnesi e si deve perciò appoggiare ai discorsi“.
(Franco Trabattoni, “La filosofia antica”)
Attraverso il quadro generale fornitoci dalla “seconda
navigazione” possiamo dunque approcciarci al
concetto dell’amore platonico.
Eros. L’amore platonico.
Il motivo dell’eros è affrontato da Platone in più d’un
dialogo (“Simposio”, “Carmide”, “Liside”, ma anche
“Fedro”), ma la trattazione più significativa, e
certamente più famosa, è quella esposta nel
“Simposio”. Per ovvie ragioni di spazio e di
opportunità, solo di questa ci occuperemo.
Lo scenario che Platone ci presenta è quello di un
banchetto organizzato per festeggiare il poeta
Agatone, fresco vincitore di un agone tragico. I
convitati s’accordano per recitare ciascuno, a turno,
un discorso in onore del dio Eros. Quando è il turno di
Socrate, ecco che egli, come di consueto, stravolge
completamente la logica degli elogi e dei discorsi sino
a quel momento pronunciati. Egli sostiene infatti che
se amore è desiderio di bellezza e di bontà,
necessariamente egli non è né buono né bello, poiché si
desidera solo ciò che non si possiede.
40
Spianando in tal modo il terreno davanti a sé, Socrate
racconta dunque del suo incontro con la sacerdotessa
Diotima e di quanto ella gli disse, ossia che Eros
nacque da Poros (Espediente) e Penìa (Povertà). Dal
padre, Eros ereditò l’amore per ciò che è bello e buono,
dalla madre, quella mancanza tipica di colui che
desidera qualcosa.
E proprio per questa sua natura di desiderante, Eros
viene paragonato da Diotima al filosofo.
Per quale motivo? La parola “filosofo” è composta dal
prefisso philo- (“amico”) e da –sophos (“sapiente”).
Dunque il filosofo è colui che tende alla sapienza, e vi
tende perché non la possiede, così come Eros tende a
ciò che è bello e buono, senza essere bello e buono.
Difatti, solo gli dèi sono “sophoi” in senso pieno: al
massimo, ci dice Platone, gli uomini possono essere
filosofi, cioè coloro che si pongono in una medietà tra
la sapienza e la semplice opinione, ove sta la cosiddetta
“retta opinione”, in tensione verso l’alto, ma
consapevolmente imperfetta.
Come dice la stessa Diotima, Socrate è l’uomo più
saggio, poiché sa ciò che è fondamentale sapere: cioè
sa di non sapere.
Questo è quanto ci è utile sottolineare di quest’aspetto
del pensiero Platonico, poiché mostra ulteriormente
come il nostro ateniese volle insistere sulla debolezza
della conoscenza mondana in relazione alla conoscenza
piena ultraterrena.
Molti, e molto affascinanti, sono gli altri elementi che
si possono trovare nei dialoghi d’amore platonici.
Lasciamo al lettore la magica esperienza della loro
scoperta. Per quanto ci riguarda, qui ci è stato
possibile trattare solo ciò che è risultato utile al
discorso che intendiamo portare avanti.
Teorie della conoscenza nella Repubblica. La metafora
della linea.
Nella “Repubblica”, nota soprattutto per le
considerazioni politiche in essa contenute, sono
presenti pregevoli passaggi, che mettono più da vicino
in luce le facoltà conoscitive umane e gli oggetti cui si
riferiscono. Questo è il caso della cosiddetta “metafora
della linea”.
Allo scopo di spiegare la differenza tra sensibile ed
intelligibile, il personaggio di Socrate immagina di
Difesa della Tradizione
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disegnare un segmento e di dividerlo in due parti: una
relativa al sensibile, l’altra all’intelligibile, e
successivamente di dividere ciascuna delle due parti in
altre due.
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stesse. Se nell’intera opera platonica, il più elevato
metodo di conoscenza è la dialettica, il ricorso ai logoi,
non si capisce come la noesis dovrebbe esser considerata
come conoscenza intuitiva.
Dunque, come Trabattoni evince dal testo: Dianoia è
una conoscenza che fa uso di immagini, ad esempio
enti geometrici. Non è una conoscenza discorsiva
(perché un geometra dovrebbe far ricorso alla
dialettica? Per fare cosa?). La Noesis è invece
introdotta da Socrate per indicare un “pensiero che
risale verso un principio non ipotetico e che non fa uso
di immagini” (Trabattoni, “La filosofia antica”).
La Noiesis è un pensiero dialettico che ci indica come
l’intelletto debba accostarsi alle idee:
“…non deve assumerle come ipotesi (deve mostrare piuttosto
che esistono necessariamente) e deve servirsi solo del logos,
senza fare uso di immagini, né sensibili né mentali.”
(F.Trabattoni, “La filosofia antica”)
Nella parte inferiore, propria al mondo sensibile, al
quale corrisponde il livello conoscitivo umano
dell’opinione (doxa), si collocano la facoltà inferiore
dell’immaginazione (Eikasia) cui corrispondono le
immagini degli oggetti sensibili, i quali a loro volta
sono oggetto di credenza (Pistis).
La parte superiore della linea, quella propria alla
conoscenza (Episteme), che coglie il mondo
soprasensibile, è suddivisa da Socrate in due facoltà
intellettuali: Dianoia e Noesis (entrambi i termini
significano “pensiero”).
Franco Trabattoni ha già da tempo smentito l’opinione
più diffusa, che vedrebbe la Dianoia come un pensiero
discorsivo avente per oggetto enti matematico –
geometrici, e la Noesis come un pensiero intuitivo che
avrebbe per oggetto le idee vere e proprie. Trabattoni
argomenta le sue opinioni approfonditamente seguendo
il testo della Repubblica. Sarebbe cosa troppo “tecnica”
riportare qui le sue opinioni, che il lettore potrà
approfondire autonomamente.
A noi basti ricordare che l’uomo, nella sua esistenza
terrena, non può avere conoscenza piena delle idee; dato
ciò, non è possibile che la più alta facoltà intellettiva
umana sia considerata la conoscenza intuitiva delle idee
Eppure, per Platone, lo vogliamo ripetere, la dialettica
non ci porta ad una piena conoscenza delle idee. Se è
vero che per Platone il pensare è innanzitutto un
dialogare, con sé stessi e con gli altri, è anche vero che
mai l’ateniese trasformò la dialettica in una scienza.
“Essa lavora, in altre parole, mediante la cura dell’anima
e l’esame delle opinioni. Per venire in qualche modo in
contatto con la verità l’uomo non può rivolgersi
direttamente al mondo fuori di sé, per descriverlo e
comprenderlo. Deve piuttosto ripiegare dentro di sé e
rintracciare nella propria anima le impronte di una realtà
trascendente che solo in quel luogo, sia pure in modo
faticoso ed approssimativo, può manifestarsi”
(F.Trabattoni, “La filosofia antica”).
Le dottrine non scritte.
Giovanni Reale ha avuto l’immenso merito d’aver
sottolineato ciò che molti, troppo spesso, tendono ad
ignorare: le opere di Platone che ci sono pervenute
sono solo parte del suo insegnamento. Vi furono
insegnamenti orali, esoterici, riservati ai soli membri
dell’Accademia fondata dall’ateniese.
Ma non ci si deve fermare qui. Nel “Fedro” e nella
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“PLATONE”
Parte Seconda
di Matteo Mazzoni
(Chrysokarenos)
“VII Lettera” Platone confessa apertamente di non
aver mai voluto mettere per iscritto gli elementi più
alti del suo pensiero, sia, diciamo così, per non gettar
le perle ai porci, sia perché esistono concetti che un
testo scritto non potrebbe mai spiegare. Che significa?
Significa che il dialogo platonico è una forma di
diffusione filosofica che il nostro ateniese ha ritenuto
utile per una diffusione “esterna” e parziale, ma che
quindi non è il miglior metodo di insegnamento
filosofico! Questo molti lo hanno ignorato. Platone
utilizza il dialogo come mezzo di diffusione ed incisione
esterna, ma contemporaneamente anche come mezzo
“propagandistico” in senso ampio per avvicinare a sé
o alla sua Accademia coloro che sarebbero rimasti
colpiti dal suo messaggio. Solo nell’Accademia gli
insegnamenti Platonici più elevati avrebbero potuto
esser studiati, ma solo dopo un lungo periodo di
tirocinio e disciplina, atto a selezionare coloro che
sarebbero stati degni di sapere.
Certamente nei dialoghi platonici il pensiero più
“interno” traspare, ma in modo molto velato, e sono
ancora troppo pochi gli studiosi che hanno voluto
tenere conto di ciò:
“…possiamo comprendere i dialoghi platonici nella loro
totalità solo se ci rendiamo conto che essi rimandano nei
particolari ed in generale a una giustificazione di vasta
portata che non è esplicita nell’opera scritta, ma che è
presupposta in ogni sua parte.”
(Kaiser, “Platone come scrittore filosofico. Saggi
sull’ermeneutica dei dialoghi platonici”)
Ovviamente, non sapremo mai quali furono tali
insegnamenti esoterici. Certamente sarebbe ridicolo
formulare ipotesi complesse, nonostante il fatto che
Reale indichi l’esistenza di testimonianze – chiave,
presso opere di allievi dell’Accademia, che potrebbero
tornare utili nel tentativo di chiarire il mistero.
Eppure noi, nella nostra azzardata operazione di voler
comprendere le ragioni che mossero il pensiero di
Platone, ossia, in senso ampio e un poco moderno, la
sua psicologia, vorremmo quanto meno provare ad
immaginare un qualche cosa di più.
42
Platone cavalca la tigre.
Nella prima parte del presente articolo introducemmo
alcuni cenni sulla situazione storico – politica
dell’Atene in cui visse Platone. Lo abbiamo fatto non
per un semplice gusto storiografico, ma per far
comprendere quale fosse la contingenza storica che il
pensiero platonico dovette affrontare.
Abbiamo evidenziato come gli antichi valori
indoeuropei – “omerici”, nel caso della Grecia classica
– in quel tempo avevano iniziato a perdere vitalità, a
svuotarsi del loro senso più alto trasformandosi in un
qualcosa di puramente normativo e formalistico. Di
contro a coloro che, con atteggiamento moralistico ed
ipocrita, tentarono di assumere un atteggiamento
conservatore, sorsero nuove figure intellettuali,
decadenti e relativiste, sostanzialmente ostili alla
cultura tradizionale (con la “t” minuscola) del tempo,
sino ad arrivare, ad esempio, all’estremo rappresentato
da taluni sofisti che, incuranti non solo della verità,
ma anche soltanto dell’opinione comune (al contrario
di quanto fece, va detto, una prima generazione di
sofisti), si concentrarono tecnicamente e tatticamente
alla sola vittoria nei discorsi, a puro scopo arrivistico
o “professionale”.
A tale degenerazione della classe acculturata ateniese
(ossia la classe dirigenziale, a conti fatti), corrispose
quel disordine politico che sconvolse il giovane
Platone, tanto da convincerlo della necessità d’una
rifondazione etica dell’Atene del tempo, nonché di una
nuova integrazione tra etica e politica.
Insomma Atene, detto con Spengler, stava
attraversando una fase di zivilization.
Gli antichi valori non costituivano più un qualcosa di
unificante perché condiviso, e di vitale perché
spontaneamente seguito.
Platone incentrò la sua ricerca sulla necessità di
dimostrare l’esistenza vera di principi etico – estetici
stabili, ma anche socialmente unificanti, condizione di
possibilità perché la società ateniese potesse tentare
una inversione del proprio decadere e disgregare. Così
Platone giunse alla sua dottrina delle idee.
Il fatto che Platone dovette tentare di affermare
l’esistenza di principi etici mediante dimostrazione
dialettica è riprova del fatto che tali principi non erano
ormai più “sentiti” e vissuti. Non erano più parte di
Difesa della Tradizione
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ciò che è l’evidenza, dunque andavano dimostrati.
Platone non avrebbe potuto sperare di incidere sulla
realtà del suo tempo semplicemente affermando :
“esistono dei principi etici, dunque vanno seguiti”.
Non serve a nulla proporre apertamente a qualcuno
concetti che quel qualcuno non sente come vitali in sé
stesso.
Per questo, comprendendo lo spirito del suo tempo,
Platone optò per la dimostrazione dialogica, tanto più
che oramai da tempo la sofistica, nella sua
metodologia, aveva inciso sul modo di pensare
ateniese, al punto che non v’era più alcun filosofo che
non incentrasse il suo metodo su di una razionalità di
tipo discorsivo, a prescindere poi dal metodo letterario
di esposizione del proprio pensiero.
Con ciò il nostro ateniese operò in maniera realmente
rivoluzionaria: tentare di compiere una rifondazione
etica d’un popolo utilizzando, in modo consono, quei
mezzi (i logoi ed il metodo sofista dei discorsi) che
presso quel popolo avevano preso piede, e che
rappresentavano però, con la loro razionalità
ipercritica e distruttiva, la causa stessa della
scomparsa di un’etica condivisa.
Non è questo un cavalcare la tigre? Uno sfruttare per
scopi ordinatori le stesse forze del disordine?
Il fatto che Platone propose Socrate come principale
personaggio dei suoi dialoghi è significativo.
Come abbiamo visto nella prima parte dell’articolo, il
metodo socratico è, a tutti gli effetti, un metodo di tipo
sofistico, con la sostanziale differenza però che Socrate,
al contrario dei sofisti, aveva come obbiettivo del
discorrere l’accordo delle opinioni circa la verità.
Una verità però che, nei dialoghi platonici, non si
configura più soltanto come concordanza tra i
dialoganti, bensì, attraverso l’arte maieutica, come un
riportare alla luce il “ricordo” di ciò che le anime
hanno visto prima della nascita. Si tratta del condurre
al manifestarsi nel mondo umano di un
qualcosa di celeste.
L’interpretazione dataci dal Trabattoni circa lo
scetticismo di Platone riguardo alla possibilità terrena
di conoscere pienamente le idee, qui ci viene incontro
in maniera entusiasmante.
Se il ricordo delle idee può essere riportato ad emergere
in questa esistenza, significa che, in maniera seppure
imperfetta, le idee possono essere ancora vissute,
Pagina 43
nonostante tutto. Soltanto non possono essere
conosciute razionalmente. I logoi risvegliano in noi il
ricordo delle idee, ma non ci danno la possibilità di
definirle con certezza o di conoscerle attraverso
l’intelletto. L’intelletto, che come sua funzione più alta
ha il logos (vedi metafora della linea), riporta a
manifestazione quel qualcosa che in noi portiamo dalla
nascita, un qualcosa che ha dell’innato.
Tentiamo un parallelismo? La metafora della seconda
navigazione ci mostra come, dato che non conosciamo
pienamente le idee, che possono essere vedute solo
nell’al di là, siamo costretti ad ammainare le vele ed
iniziare la seconda navigazione, che consiste nell’uso
del logos, dell’opinare rettamente. Tale metodo ci
conduce a risvegliare in noi il ricordo delle idee. Ma si
tratta di un metodo, di un mezzo, non del risultato!
Platone, riguardo alla teoria della conoscenza ed alla
conoscenza stessa delle idee, non giunge mai, nelle
opere scritte, a definizioni certe e dogmatiche: vengono
dati certo degli indirizzi riguardo alla soluzione
conoscitiva dell’argomento trattato, ma tutto rimane
comunque magnificamente aperto e plausibile di
sviluppi e correzioni ulteriori. Questo non soltanto nei
dialoghi aporetici.
La nostra sensazione è che Platone, attraverso la
maieutica, abbia voluto agire, per usare un
parallelismo
certamente
improprio
quanto
esemplificativo, come colui che, basandosi sulle teorie
di C.G. Jung, volesse risvegliare un archetipo
dormiente per tornare a farlo agire. Certamente si
tratta di dottrine ben differenti. L’esempio mi pare
però efficace. Si potrebbe dire che mentre nella
dottrina di Jung possono essere utilizzati simboli, per
risvegliare archetipi, Platone, come si evince dalla
metafora della linea, utilizza il logos e la maieutica per
far ricordare le idee (tralasceremo volutamente
considerazioni riguardanti l’utilizzo di metodi diversi
dal logos, perché non siamo del tutto convinti di dire
cosa sensata, anche se ci pare esistano).
In breve, se le idee possono esser riportate alla luce
nell’uomo, seppur “filtrate” dall’esperienza terrena, se
vengono insomma “ricordate”, ci si deve introdurre ad
esaminare un livello superiore, ove esse si manifestano
nell’individuo - e dall’individuo - in maniera istintuale,
secondo quella modalità che in un nostro precedente
articolo abbiamo definito “spontaneità creativa”.
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“PLATONE”
Parte Seconda
di Matteo Mazzoni
(Chrysokarenos)
Ci si deve porre questa domanda: se le idee vengono
ricordate, in Platone, ciò si limita alla configurazione
nella quale da parte del ricordante vi è una semplice
presa di coscienza del ricordo di esse (o semplicemente
della seppur parziale conoscenza di esse data
dall’accordo di opinioni), oppure può darsi una
situazione nella quale, tali principi celesti, quando
“ricordati” (ma non conosciuti pienamente nella loro
verità), possono iniziare ad agire nell’uomo come un
istinto liberato, come una priorità prorompente?
Noi crediamo in questa seconda ipotesi. Anzi,
“sentiamo” questa seconda ipotesi, che qualunque
buon professore potrebbe facilmente abbattere. Non
ce ne importa.
Giustizia, bellezza, bontà. Le idee. Non crediamo noi,
che Platone, se ebbe veramente di mira il risollevarsi
dell’uomo, di una civiltà, avrebbe potuto contentarsi
di dimostrare che, preso atto della propria ignoranza,
sarebbe stato possibile render sé stessi consci
dell’esistenza delle idee. L’uomo è un essere troppo
debole. O meglio, troppo poco amante della propria
forza. Platone lo sapeva benissimo. Rendersi consci
della realtà dell’esistenza di un’unica giustizia non
significa divenire giusti.
Crediamo piuttosto, forse influenzati dalla nostra
esperienza, che Platone concepisse le idee sì come
principi etici, ma anche come marchi spirituali, come
fuochi che, dividendosi in tante scintille restano in noi
anche dopo la nascita e prima della morte. Le idee
come principi agenti. Le idee come energie che, una
volta liberate nell’individuo, non possono far altro che
condizionarlo.
Se “ricordiamo” parte di una verità celeste conosciuta
in un vissuto ultramondano, tale “ricordo” non può
che condizionare tutto il nostro essere, renderci dei
“risvegliati”. Ridurre tutta la dialettica platonica ad
un puro accordo d’opinioni circa il più verosimile è, se
forse non proprio errato, quantomeno brutto.
Ad uomini in cui la zivilization della propria
comunità ha spento quelle energie – d’origine
metafisica – che definiscono una civiltà come kultur
ed incatenato quei superiori istinti creativi che
rendono degna la vita terrestre, Platone ha tentato
di dare la possibilità di ridestarsi.
Lo ha fatto sfruttando quelle stesse forze che erano
state la causa della degenerazione.
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Per questo, crediamo, ha scritto i suoi dialoghi: in un
vero e proprio atto di propaganda e di diffusione
parziale del suo pensiero, tentando di raggiungere il
maggior numero di uomini, nello spazio e nel tempo,
ed attendendo coloro che, “uomini di rango”,
avrebbero avvertito in loro quell’istinto proprio a chi
sente le idee agire in sé, irresistibilmente.
Soltanto costoro, nell’Accademia (la quale,
ricordiamolo, fu tempio alle muse, e non una semplice
e comune scuola, come troppi vorrebbero credere),
durante una vita comunitaria dura e disciplinata,
avrebbero appreso i più profondi insegnamenti del
maestro, che in gran parte per noi, resteranno un
mistero, nonostante la ricerca sugli scritti dei suoi
discepoli, e nonostante le nostre azzardate sensazioni
sulle motivazioni psicologiche del suo pensiero.
Difesa della Tradizione
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ISLANDA
di Lodovico Ellena
"L'Islanda non è la meta, l'Islanda è il viaggio".
(slogan di una nota ditta di auto a nolo)
"Tutto in Islanda fa paura".
(Luciano Corona)
"Dopo un viaggio in Islanda nulla sarà più come prima".
Prima del viaggio.
L'ultima Thule, il sole a mezzanotte, il paese che fuma,
il freddo che punge, l'acqua che ribolle, mari di lava,
vulcani, iceberg, cavalli, pecore, foche, oceano, balene,
cascate: questo e molto altro ancora è l'Islanda. Meta
di infiniti itinerari possibili questo paese sta
diventando sempre più luogo di interesse da parte di
viaggiatori intenzionati a ripercorrere un intenso
viaggio nel tempo e nello spazio più che compiere una
semplice vacanza, il cui unico scopo sembra invece oggi
essere un dovere obbligatorio delle masse, ossia
divertimento a tutti i costi. In breve l'Islanda è ben
altro che spiagge affollate, discoteche, tintarelle, sballi,
localini e "pupe da lumare", è piuttosto l'esatto
contrario di tutto ciò. Si giunge a Keflavík - di fatto
unico aeroporto internazionale islandese ad una
quarantina di chilometri da Reykjavík - e il primo
impatto rivela immediatamente alcuni imprevisti:
nonostante la temperatura decisamente fresca si
notano infatti alcune grosse mosche ronzare mentre la
luce del sole è decisamente intensa ed è altresì evidente
che l'estetica del paese è decisamente carente e
piuttosto insignificante, fatto che rimarrà una
costante per quasi tutti i centri abitati islandesi. In
effetti molti avvertono di non aspettarsi né cattedrali
né grandi opere sui percorsi dell'isola e forse meglio di
tutti lo studioso Régis Boyer nel suo libro sui vichinghi
(1) ha spiegato che ciò lo si imputa al fatto che il rigore
del clima e la popolazione limitata, nonché l'utilizzo
per millenni di legno e torba, hanno necessariamente
impedito la conservazione di testimonianze urbane,
artistiche o religiose antiche. Basti dire che al presente
l'intera popolazione islandese consta di meno di
trecentomila abitanti e quando si pensa che la sola
Torino ne conta invece circa un milione, il discorso si fa
immediatamente più chiaro. Interessante comunque,
sempre prima di intraprendere un qualsiasi percorso,
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Thule Soci
definire il tipo etnico dell'islandese; Vichingo senz'altro
- il cosiddetto "fenomeno vichingo" si data tra l'800 ed
il 1050 - si distingue però da altri tipi simili. Tanto i
vichinghi danesi erano infatti noti per la loro innata
abilità nel commercio così quelli norvegesi erano invece
più portati per scelte avventurose, mentre infine i
vichinghi svedesi considerati tra i popoli scandinavi
come quelli più pacifici. Altrettanto differenti gli
orientamenti religiosi: i danesi preferivano Odino,
mentre i norvegesi Thor, mentre ancora gli svedesi
adoravano Freyr. E un mito da sfatare, ossia quello
dell'elmo con le corna divenuto simbolo vichingo tanto
nella cinematografia quanto in certa letteratura:
nessun archeologo ne ha mai trovato uno, sottolinea
ancora Boyer in un passaggio dal sapore revisionista.
Peraltro non sono poche le sorprese addentrando la
materia vichinga: tutti gli dei furono anch'essi
sostituiti dal Cristo, dalla Vergine e da mille altri santi
esattamente come accadde un po’ ovunque, ma assai
più interessante è invece stabilire il confine di ciò che
è possibile definire vichingo. E' qui decisamente arduo
stabilire con assoluta precisione filologica ciò che può
dirsi celtico o germanico o scandinavo o vichingo,
tanto per i costumi quanto per la religione tanto per gli
abiti fino alla mentalità quotidiana, questo campo
rimane tuttora aperto al dibattito tra specialisti della
materia. Per ciò che concerne le rune và infine
aggiunto che questi simboli rimangono testimonianza
fondamentale per lo studio dei vichinghi anche
islandesi; quelle del cosiddetto alfabeto "futhark"
composto da sedici caratteri, sono quelle proprie dei
vichinghi dell'800: il cosiddetto periodo d'oro. Il
dibattito sul presunto valore magico delle rune da
sempre in corso viene assolutamente respinto da taluni
studiosi ma fu Tacito nel 98 d.C. nella "Germania" il
primo che in qualche modo ne diede documento.
Scrisse infatti: "(I Germani) dopo aver tagliato un
ramo da un albero che produce frutti, lo riducono in
schegge e queste, distinte da alcuni segni, spargono
assolutamente a caso sopra una candida veste" (2):
sarebbe infatti stata tale pratica secondo alcuni il
prototipo delle rune utilizzate per presagi e
divinazioni, apparse poi però di fatto soltanto un paio
di secoli più tardi in Germania. Un'ultima
considerazione sulle saghe islandesi; per secoli ritenute
documenti fedeli e per ciò utili alla ricostruzione della
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vita e della società vichinga, tendono oggi ad essere e solo in questo senso - ridimensionate nella loro
importanza: furono infatti scritte alcuni secoli dopo
l'epoca vichinga, facendo per questa ragione
riferimento a fatti idealizzati e non di quel presente in
fieri, perciò rendendolo meno storico e quindi meno
attinente a quella quotidiana realtà.
Il viaggio.
La principale strada islandese la statale numero 1
congiunge l'isola in un anello ideale consentendo in
questo modo di percorrere il territorio - un nastro di
duemila chilometri circa -, così toccando i quattro
punti cardinali. Vari tratti di questo percorso non sono
asfaltati e un'altra costante accompagnerà il
viaggiatore per tutto l'itinerario: migliaia di pecore del
tutto libere potrebbero in qualsiasi momento pararsi
improvvise di fronte all'auto, per questa ed altre ragioni
il limite di velocità in tutta l'Islanda è rigorosamente
di 90 chilometri orari. Prima tappa del nostro viaggio
la penisola di Snæfellsnes dove ci attende un
pernottamento in una fattoria, o almeno ciò che
dovrebbe esserlo già che questi luoghi immersi nel
silenzio e nella natura più profonda sono in realtà
strutture con decine di camere a disposizioni dei
viaggiatori con tanto di possibilità di ristoro
alimentare. Gli islandesi mostrano immediatamente il
loro carattere: riservati ma gentili in caso di necessità
nonché disponibili a raccontare ciò che le guide non
raccontano: è così che veniamo a sapere di una colonia
di foche visibile nel proprio habitat a pochi chilometri
da noi. Ci avventuriamo sul posto nei pressi del faro di
Garðar e qui tra sterpaglie, dislivelli, sabbia, alghe e
sassi dopo un percorso di mezz'ora si giunge sulla cima
di un'insenatura che sfocia nell'oceano tra evidenti
segni di maree in movimento. Il cielo ed il sole
combinano giochi di luce surreali ed il silenzio viene
rotto soltanto dal respiro dell'acqua: così và per decine
di minuti. Ad un tratto improvviso le foche; adagiate su
alcuni massi si confondevano con il grigio delle pietre,
mentre altre fanno capolino dall'acqua osservando
quegli intrusi. Sembrano interrogarsi sul perché di
questa indiscreta presenza e sembrano spiare ogni
movimento: è una sensazione eccitante e vigile insieme,
già che ci si accorge di essere invasori in un luogo in cui
saremmo senz'altro in difficoltà per un'eventuale
ritirata: cose simili si vanno anche a pensare di fronte
ad un infinito oceano senza certezze civili se non la
propria agilità per battersela alla bisogna. Sono solo
pacifiche foche ma la prima lezione è già arrivata:
quante incertezze recano le moderne certezze.
All'indomani si riparte quindi alla volta di una nuova
meta mentre il viaggio porta su di una vetta
particolare, molto particolare: si tratta di Helgafell,
ossia il monte un tempo venerato dai fedeli del dio
Thor. Nonostante la modesta altezza (73 metri) da lì si
gode una vista inebriante sul territorio circostante e
non si può fare a meno di notare sulla cima dozzine di
piccoli tumuli eretti da qualche visitatore: di questi
tumuli, il cui fine sembra essere propiziatorio, è piena
l'Islanda intera tanto che se ne notano infatti ovunque.
Si tratta di piccoli mucchi di pietre, evidentemente
presente segno di un sentire lontano e ancestrale. La
zona che attornia questo monte è di rara bellezza, e
numerosi vulcani inattivi contribuiscono a rendere il
paesaggio ancora più imponente e selvaggio. Non
distante il vulcano Grabròk che eruttò circa 3000 anni
fa e che numerosi viaggiatori di passaggio vanno ad
ammirare da vicino scalando il sentiero che conduce al
centro del cratere: sensazioni inquietanti, come quella
di percorrere i bordi del medesimo osservando l'interno
e immaginando devastazione e lava. L'Islanda è un
paese che fuma e quel posto è soltanto uno degli
innumerevoli luoghi in cui si è scatenato l'inferno,
quell'inferno che in dozzine di posti è possibile vedere
fisicamente grazie ad eccezionali documentari filmati
di eruzioni, alluvioni, terremoti, esplosioni e
devastazioni. In qualche caso una speciale pedana
rende ancora più realistico il tutto, simulando durante
le proiezioni il movimento del terreno durante una di
queste eruzioni. Ma più di tutto, forse il paesaggio nei
pressi del lago Mývatn rende merito a queste
inquietanti riflessioni; quella zona è infatti cosparsa di
crateri e le acque sono nere di lava, tanto che il "lago
del moscerino" (questa la traduzione letterale di
"Mývatn", dovuta ad orde di piccoli moscerini innocui
ma assai fastidiosi) viene indicato come perfetto
esempio dell'attività geotermica islandese, soprattutto
in considerazione del fatto che un'ennesima grande
eruzione è ritenuta imminente. La zona alterna prati
verdissimi e acque azzurre ad aree di desolato spettrale
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ISLANDA
di Lodovico Ellena
ma altrettanto suggestivo nero lavico: è una visione
irreale, soprattutto verso sera quando la luce del sole
degrada lievemente di intensità pur restando
comunque viva e luminosa. I dintorni di questo lago
sono popolati da innumerevoli specie di uccelli e una
chiesetta risparmiata da un'eruzione che sommerse
tutto il circondario nei pressi di Reykjahlídh che però
miracolosamente si salvò, è meta di curiosi. Peraltro
non è l'unico episodio legato a luoghi sacri, tanto che
questi fatti lasciano realmente senza parole.
Qualche decina di chilometri da quei pressi si trovano
altri luoghi suggestivi ed altrettanto impressionanti:
Námafjall, Krafla e Dimmuborgir: nomi per noi
piuttosto improbabili ma ne esistono di peggiori. Se
l'Islanda è un paese che fuma, Námafjall ne è concreta
dimostrazione; si tratta di una vasta area il cui terreno
è bruciato dal calore sotterraneo visibile in alcune
pozze ribollenti dai cui fori fuoriesce un intenso fumo.
La temperatura è elevatissima e l'odore di zolfo sovente presente nelle abitazioni che sfruttano
l'energia geotermica portando così acqua calda in casa
- onnipresente; il paesaggio è lunare, tanto che a
perdita d'occhio è possibile scrutare un panorama
giallo ocra, mentre tutto intorno scene da inferno
dantesco restituiscono alla vista un ambiente
assolutamente surreale. E a pochissimi chilometri da
quel luogo il vulcano Krafla maestoso e fumante, caldo
e inquietante dall'alto dei suoi 818 metri. L'ultima
eruzione avvenne nel 1984 e - come scrivono alcuni
autori - in certi punti la lava è calda e fumante
rendendo così ben viva l'impressione di un'imminente
ennesima eruzione: un'esperienza intensa, soprattutto
perché le enormi crepe sul terreno lavico indicano ai
geologi una possibile ripresa dell'attività nel prossimo
futuro. Da quella cima si gode una vista indescrivibile;
tra i possibili percorsi nella lava si giunge al cratere e
da lì è possibile vedere in lontananza un vero e proprio
mare nero. Una colata lavica dalle dimensioni
impressionanti di cui non è dato vedere la fine, come
fosse un immenso fiume nero che stempera
all'orizzonte; da chiedersi come può essere una simile
visione nel momento dell'eruzione, guai però sedersi a
meditare queste elucubrazioni: il terreno scotta.
Ancora una volta non distante - l'intera Islanda è
costellata da simili luoghi tanto che ci si trova
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Thule Soci
obbligatoriamente a doverne escludere alcuni - il sito di
Dimmuborgir, ossia "gli oscuri castelli". Si tratta di un
percorso della durata di circa un'ora tra sentieri e
forme laviche altissime che tempo ed erosione eolica
hanno modellato, così creando una vasta area nella
quale si ha l'impressione di aggirarsi tra castelli
maledetti, ruderi e carcasse di mostri e draghi. Uno dei
punti più visitati del luogo nonché famosi è quello di
Kirkjan, ossia della "chiesa", laddove la natura ha
forgiato una cattedrale gotica dal soffitto a volta e
laddove in estate si tengono addirittura concerti: una
visione assolutamente sconcertante. Il luogo, forse
data la conformazione del terreno riparato da queste
notevoli pareti di lava, è particolarmente caldo specie
in condizioni di bel tempo: fatto raro ma gradito a noi
latini abituati a temperature ben più miti.
Islandesi e dintorni.
Alcune osservazioni sugli islandesi; mentre noi
circoliamo intabarrati a vari strati impermeabili, fa
contrasto osservare invece gli indigeni in abiti estivi
leggerissimi: peraltro ognuno è re a casa propria.
Anche le loro abitudini alimentari potrebbero lasciare
a volte sconcertati, ma l'occasione di assaggiare la
"carne" di balena - quando mai ci si sarebbe ancora
presentata un'occasione simile? - non ce la siamo fatta
sfuggire, così come quella di gustare lo "squalo
putrefatto" (golosità locale, ossia l'hákarl) e di bere la
grappa locale: la Brennivin, 40 gradi ottenuti dalle
patate e aromatizzati con cumino. Naturalmente non
sono soltanto questi gli alimenti - ad esempio la
pulcinella di mare (lundi) và fortissimo da quelle parti
-, ma questo è stato il tangibile frutto della nostra
esperienza. La balena; ha una consistenza notevole
come si trattasse di carne di vitello ma il retrogusto è
quello di un pesce: una strana sensazione peraltro
ottimo piatto e non ce ne vogliano gli estremisti
dell'animalismo ecologico, ma qui si tratta nient'altro
che di voler conoscere questa tradizione millenaria
islandese. Il Brennivin; ce ne siamo fatti un bel po’ nel
corso del nostro viaggio ed è possibile affermare che
ha superato senza ombra di dubbio il rigoroso esame a
cui lo abbiamo sottoposto: promosso senz'altro, parola
di alcolisti a tenuta stagna. Lo squalo putrefatto, roba
che le stesse guide consigliano esclusivamente a "chi
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ha lo stomaco robusto": qualcosa di non lontano dal
gorgonzola a ben vedere, così stagionato dopo sei mesi
di macerazione sotterranea a causa del gusto acido di
quel pesce appena pescato. Sembra che nemmeno gli
uccelli che si nutrono di carogne osino toccarlo, non
potevamo perciò non cogliere una simile provocazione
ma alla fine siamo sopravvissuti all'odore pungente di
ammoniaca ed al gusto di carne dal sapore
disorientante: servita in piccoli dadi infilati da uno
stuzzicadenti nonché accompagnata da un bicchierino
di Brennivin, considerato dalle malelingue come
"antidoto" a quel sapore. Peraltro anche il pesce
essiccato è cosa ordinaria da quelle parti;
naturalmente decisamente più potabile per
mediterranei in vena di esperienze, lo si trova in ogni
dove: dagli aeroporti ai mercati, dagli scaffali da
colazione negli alberghi ai banchetti dei bar. E non è
niente male, basta soltanto superare l'imbarazzo
dell'impatto; chi lo consuma come fosse trattarsi di
croccanti patatine, chi invece con fette di pane
imburrato. Artigianato; e qui il discorso si fa invece
più breve soprattutto perché se si escludono capi
d'abbigliamento in lana e gadget vari (assai curioso il
simbolo del martello di Thor, il Mjöllnir, onnipresente
soprattutto su portachiavi), rimane ben poco da dire.
Due oggetti però vanno menzionati; portacandele
ottenuti da pietre laviche levigate e bucate al centro
nonché venduti a prezzi non del tutto economici e audite audite!- scatole ermetiche assolutamente vuote
contenente "pura aria di montagna islandese": e ne
devono ben vendere a giudicare da quante ne hanno in
mostra sugli scaffali, oltre a tutto ad un prezzo non del
tutto popolare. Stavamo per cascarci anche noi, non
fosse che un improvviso lampo di saggezza contadina
ci ha fatto riporre quella scatola vuota al proprio
posto: beati gli islandesi e sia fatta lode ai gonzi,
motori dell'economia.
Strade e cascate.
Le strade - o meglio la strada - d'Islanda vanno
affrontate con cautela e giudizio, soprattutto perché
ampi tratti sono del tutto privi di asfalto e a ciò si
aggiunga il rischio - altissimo - di trovarsi
improvvisamente una o più pecore stranite e immobili
sul percorso. Nei 2600 chilometri da noi sviluppati ci
siamo altresì trovati in varie occasioni ad imboccare
un bivio tirando dritto per quella che ritenevamo
essere la strada maestra (la già citata statale numero
1), per accorgerci chilometri oltre che quella che
appariva secondaria in quanto più piccola e
malridotta, era in realtà quella principale. I tratti non
asfaltati sono polverosi e zeppi di buche con sassi e
scossoni oltre alle inevitabili pecore lì ancora più
imprevedibili, mentre ripide discese evolvono verso il
nulla civile, tanto che se viene in quei casi alla mente
l'idea di una possibile foratura o di un incidente, è
meglio accantonare subito simili elucubrazioni: ciò
accadesse sarebbero grane grosse. Vagando comunque
per tali sentieri si giunge a stupende cascate: tre quelle
da noi incontrate sul percorso e lo spettacolo della
natura ha ampiamente ripagato quella fatica:
Goðafoss, Skógafoss e Gullfoss.
Goðafoss oltre ad essere straordinariamente
affascinante ha una sua particolare storia. Secondo la
leggenda sarebbe infatti il luogo in cui, assunto dagli
islandesi nell'anno mille il cristianesimo come religione
ufficiale, le statue delle antiche divinità nordiche
furono lì gettate: da qui il nome "cascata degli dei".
L'acqua scorre direttamente su di una colata lavica che
nel corso dei secoli si è modellata e levigata e il salto è
di circa una decina di metri ma la notevole ampiezza
del fiume rende realmente suggestivo quell'imponente
insieme. Skógafoss è invece alta ben 60 metri e anche
qui una leggenda la riguarda: sarebbe infatti custode
del ricco tesoro di un colono peraltro mai trovato da
alcuno. Infine Gullfoss, 32 metri di acque che si
tuffano all'interno di un canyon provocando arcobaleni
che è possibile osservare sul ciglio stesso dell'orrido
accessibile fino all'ultimo millimetro, senza protezioni
di sorta. Anche qui una storia ma assai meno
leggendaria e ben più cruda; si tratta della vicenda
legata alla persona di Sigrídur Tómasdóttir, energica
donna che sul finire del 1800 combatté con tutte le sue
forze il progetto di alcuni imprenditori che avrebbero
voluto
sfruttare
la
forza
della
cascata
compromettendone così definitivamente la bellezza.
La donna, dopo una lunga questione, la spuntò per
una serie di circostanze che le furono favorevoli: aveva
comunque minacciato di gettarsi tra i flutti qualora le
cascate fossero state violentate. Non a caso gli islandesi
riconoscenti hanno dedicato a Sigrídur un piccolo
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ISLANDA
di Lodovico Ellena
museo ed una lapide commemorativa: esemplare
antesignana dell'ambientalismo più puro e
disinteressato, altro che certa politicaglia nostrana. Ma
il viaggio continua e di cascata in cascata nonché di
vulcano in vulcano, si alternano altri paesaggi irreali
come ad esempio quello offerto dal villaggio di
Glaumbær, completamente costruito in torba e
visitabile al fine di far meglio comprendere come
fossero le abitazioni islandesi di un tempo. In quelle
case si svolgeva la vita domestica nell'antichità e,
soprattutto nei mesi invernali, in quei pochi metri
quadrati si trascorrevano gomito a gomito intere
stagioni. Tutto si svolgeva tra quelle pareti tanto che
rigide regole comportamentali per sopportare quella
coabitazione ravvicinata garantivano la quiete:
immaginato al presente per noi individualisti europei
continentali, un simile tipo di vita desterebbe qualche
ragionevole perplessità. Non distante, a Vidhim
Rarkirkja, ancora la torba protagonista: questa volta
però si và a trattare di una chiesetta, sito tra i più
antichi del paese, piccola ma assai graziosa e molto
visitata anche per via del fatto che in tutta l'Islanda
testimonianze architettoniche o artistiche del genere
restano piuttosto rare.
Iceberg e mostri.
Ma una delle visioni senz'altro più impressionanti
dell'intera Islanda resta quella relativa agli iceberg. Li
abbiamo incontrati a Jökulsárlón, un posto fuori dal
mondo giusto ai piedi dell'immenso ghiacciaio di
Vatnajökull raggiunto al punto in cui scioglie in
impetuoso fiume: una visione realmente immensa e
insieme annichilente. Blocchi di ghiaccio galleggianti
che lentamente degradano verso l'oceano in un punto
dove nuovamente le foche la fanno da padrone e
laddove l'orizzonte perso nel grigio cielo di una
normale estate nordica, stordisce ed invita a ripensare
la propria vita ed al suo relativo senso nonché a
comprendere in un attimo come fu che gli islandesi
videro gli dei. Così come nei fiordi, infiniti come tutto
quel paese, che si incuneano in ogni dove disegnando
contorni sui contorni lavici: un'opera d'arte in
continuo mutamento, questo è l'Islanda. E tale
scenario forse più che altrove lo si vive a Vík ("baia")
il paese delle pulcinella di mare, singolare simpatico
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Thule Soci
uccello incoronato simbolo dell'isola dai contrasti
cromatici e dall'aspetto unico; gli islandesi lo mangiano
fin dai tempi vichinghi ma la specie è protetta e
rispettata così come lo sono cavalli e pecore, evidente
omaggio all'importanza che questi animali hanno
avuto - ed hanno - per la stessa sopravvivenza umana
in quegli estremi posti. A Vík comunque, oltre alle
ripide e meravigliose scogliere sferzate dal vento
oceanico, è possibile osservare un complesso lavico
tuffato nell'oceano a qualche centinaia di metri dalla
costa che non può fare a meno di ricordare
l'inquietante quadro di Arnold Böcklin "L'isola dei
morti", anche se dai cipressi e dalle irreali rocce dipinti
dal pittore a quelle colonne laviche resta comunque
una certa differenza. Vi è ad ogni modo una sorta di
atmosfera simile, grigia e sospesa allo stesso tempo,
inquietante e misteriosa insieme. E a proposito di
luoghi inquietanti il viaggio ci conduce di lì a poco a
Lagarfljót, ameno lago dai colori suggestivi e
dall'infinita pace di quelle acque non fosse che qui proprio come in Scozia a Loch Ness - una tradizione
locale vuole dimori un mostro, addirittura dipinto su
alcuni quadretti appesi alle pareti del locale ristorante.
Si tratterebbe di un enorme serpente acquatico, ma ciò
che più fa specie è la conformazione del lago - lungo e
stretto - quasi identica a quello scozzese: una
somiglianza veramente sconcertante e straordinaria,
anche se qui non se ne è fatto il commercio che invece
domina ingombrante a Loch Ness dove invece si
trovano dozzine di pupazzi di "Nessie", portachiavi,
gadget, nonché un museo su quella vicenda mentre
alcune agenzie organizzano tour sul lago con tanto di
telecamere subacquee che scrutano i fondali del
medesimo, fino all'acqua in bottiglia rigorosamente
targata "Nessie". Come fare palate di soldi su di una
suggestione, tanto meglio la quieta e discreta pace
contemplative di Lagarfljót. E' a questo punto che ci
mettiamo alla ricerca di un angolo - per quanto
possibile - ancora più isolato ed estremo: stiamo infatti
andando a caccia di un posto dal nome per noi
improbabile, Grenjadarstadur, perché è ferma
intenzione di cercare ciò che resta di una lapide con
incisioni runiche: e la nostra ostinazione sarà
premiata. Il posto è bellissimo tra i bellissimi, ospita
un piccolo cimitero (nostra meta) ed un museo del
locale folclore ricavato all'interno di alcune case
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antiche costruite in legno e torba. Conterà si e no
cinquanta anime, tanto che esiste un piccolo bar per i
visitatori del museo. E' un luogo immerso in una pace
infinita dove dozzine di mucche pascolano mentre
alcuni bimbi corrono all'orizzonte: difficile dir loro di
non sdraiarsi sulla nuda terra per contemplare la
bellezza di quel cielo, difficile impedir loro di
accarezzare quei pacifici ruminanti, difficile anche
immaginare il paradiso tanto diverso da quel luogo.
Un vento sferzante accompagna quel girovagare tra
lapidi e azzurro e alla fine la ricerca è premiata: eccola,
siamo di fronte a vere rune quelle per il cui semplice
possesso intorno al 1200 la chiesa in Islanda puniva
con la morte. Simboli magici, strumenti del demonio,
paganesimo da estirpare: eppure, sia consentito dirlo,
su di noi un fascino irresistibile: forse il tempo da cui
giungono, forse la palpabile magia che trasmettono,
forse qualcosa di profondo e ancestrale per cui il nostro
essere vibra di fronte al mistero che le penetra. Per noi
le rune significano molto al punto di compiere migliaia
di chilometri per poterle vedere e toccare e ora sono
qui, incise da qualche mano vissuta secoli fa. Le
sfioriamo con timoroso rispetto, le fotografiamo e
cerchiamo di impossessarci di quell'immagine mentre
il vento sibila: rune vere, tra le più antiche esistenti al
mondo: è a questo punto che una birra marca Thule
diventa un dovere più che un piacere. Una nota: oltre
alla "Thule" l'altra birra più bevuta è la "Viking" ma
occorre fare attenzione: in bottiglia hanno gradazione
e gusto intenso, alla spina per noi iscritti all'Ordine
degli Alcolisti, divengono poco più che acqua.
Ultimi passi e Reykjavík.
Stiamo comunque ormai ripiegando verso la capitale,
meta conclusiva di questo peregrinare. Rechiamo
quindi a Thingvellir luogo prescelto dai vichinghi
islandesi che lì tennero nel X° secolo il loro primo
parlamento all'aperto, di fatto così assumendo la
paternità della democrazia in Europa. Il posto è tra i
più belli dell'intero paese; escludendo il panorama di
specchi d'acqua frastagliati misti al verde impossibile
di quella pianura, Thingvellir và famoso soprattutto
perché dal punto di vista geografico si trova
esattamente a cavallo tra nuovo e vecchio mondo, in
quanto situato proprio nel bel mezzo di una
spaccatura provocata dalla deriva dei continenti. Non
a caso qui nel 1944 l'Islanda proclamò la propria
indipendenza dal dominio norvegese e danese. Fu
questo uno dei luoghi che ispirarono Wagner quando
compose l'opera sui Nibelunghi, il che più di tante altre
parole spiega molte cose. Ma il tempo volge al termine
e resta sulla strada un luogo che ha dato a tutti i posti
simili del mondo il proprio nome: Geyser. In realtà si
scrive Geysir (chi ha inventato il correttore automatico
andrebbe appeso per le vergogne) ed altrettanto in
realtà sul posto si può osservare soltanto il fratello
minore, ossia lo "Strokkur", che spara acqua bollente
fino a 40 metri mentre Geysir raggiungeva i 60. Motivo
di quella definitiva quiete quanto di più scemo si possa
immaginare: la gente a forza di lanciare pietre al suo
interno per ragioni analoghe ai fessi che lanciano
monetine nei pozzi o negli specchi d'acqua, lo ha
intasato rendendolo di fatto morto. Uno degli
spettacoli più incredibili della terra svanito nel nulla a
causa di un abisso d'incoscienza nel quale, per quanta
luce si faccia, nessuno è ancora riuscito a vedere il fondo.
E alla fine Reykjavík. Due giorni da dedicare a questa
straordinaria città il cui termine "città" và sempre
inteso in senso islandese già che le loro città nulla
hanno a che spartire con le nostre, vuoi per gli ampi
spazi tra le case, vuoi per il verde onnipresente.
Bohemién, fresca, giovane e frizzante, lo spettacolo
vero è la gente più che l'architettura o i musei. Ne
abbiamo incontrati di tipi umani; dalla ragazza in tuta
subacquea con tanto di maschera e pinne che
girovagava per il mercatino delle pulci a quella vestita
da superman ai giardini, dal gruppo rock che ci dava
dentro secco in pieno centro sotto gli occhi attenti di
dozzine di fan etilici fino ad un gruppo di bevitori in
mutande colorate come cocorite, per giungere ad una
bella coppia di vichinghi con elmo cornuto sul capo
recanti seco un'intera cassetta di lattine di birra
sottobraccio. Bevono questi vichinghi e - continua a
sorprendere questa cosa per quanto noi si sia un
popolo piuttosto ballerino - quando scoprono la nostra
italianità accolgono la notizia con sincera gioia. Tra i
popoli, sembrerà quanto meno curioso, la nostra
esperienza ha rivelato che in giro per i quattro cantoni
del mondo siamo tra quelli che generalmente si
tollerano di più: naturalmente abbiamo anche noi i
nostri buoni nemici qua e là ma ci guarderemo bene
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ISLANDA
di Lodovico Ellena
dal dire che tra loro compaiono gli inglesi: non
faremmo mai un'affermazione simile per albionico
rispetto, va da sé. E' comunque tempo di valige;
quattro ore di volo attendono e l'aereo parte di buon
mattino tanto che la sveglia alle quattro è implacabile.
Attraversiamo quindi per l'ultima volta quella verde
città nell'irreale luce delle cinque mattutine per recarci
all'aeroporto; siamo però ancora in tempo per
rispondere alla reiterante domanda questa volta posta
da un forzuto vichingo: "Vi piace l'Islanda?". "Certo
che ci piace, dopo un viaggio in un paese come il tuo,
tutto sarà diverso amico". L'uomo si illumina, sorride
e ci dona un biscotto: anche questo è l'Islanda, il paese
dove vivono gli dei. E noi li abbiamo visti e sia fatta
lode a Odino e resa gloria a Thor che vegliarono su di
noi concedendoci di percorrere quasi tremila
chilometri in condizioni a tratti estreme, senza aver
avuto il benché minimo problema. L'Islanda fuma,
l'Islanda respira, l'Islanda non è una vacanza: l'Islanda
è l'ultima Thule.
(1) Régis Boyer, La vita quotidiana dei vichinghi (800
- 1050), ed. Fabbri, Milano, 1998.
(2) Tacito, La Germania, ed. Fabbri, Milano, 2001,
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Thule Soci
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EMOZIONI:
THULE ITALIA IN WESTFALIA
7-12 settembre 2007
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LO SPECCHIO DI
DIANA
a cura della Sezione Femminile
dell’Associazione Thule-Italia
Dianae
Dianae sumus in fide
puellae et pueri integri:
Dianam pueri integri
puellaeque canamus.
o Latonia, maximi
magna progenies Iovis,
quam mater prope Deliam
deposivit olivam,
montium domina ut fores
silvarumque virentium
saltuumque reconditorum
amniumque sonantum:
tu Lucina dolentibus
Iuno dicta puerperis,
tu potens Trivia et notho es
dicta lumine Luna.
tu cursu, dea, menstruo
metiens iter annuum,
rustica agricolae bonis
tecta frugibus exples.
sis quocumque tibi placet
sancta nomine, Romulique,
antique ut solita es, bona
sospites ope gentem.
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Non poteva che cominciare con le meravigliose parole
di Catullo questo articolo dedicato a Diana, frutto di
un’escursione sul lago di Nemi che ha visto come
protagoniste le donne della Sezione Femminile
dell’Associazione Thule Italia.
umana, veniva invece raffigurata come una torcia o
una fiamma, accompagnata dai cervi o cerva lei stessa.
Il cervo è, nella tradizione indoeuropea, simbolo di
rinnovo e regalità, per fare un esempio a noi vicino e
sicuramente molto più famoso di altri, lo ritroviamo,
in Europa, nelle saghe irlandesi (ricordiamo, fra le
tante, la leggenda della Dea Cerva Sadb, signora dei
Sidhe e legata a Finn mac Cumaill, l’eroe guerriero del
ciclo del Leinster e capo delle Fianna, le bande di
guerrieri a servizio del re d’Irlanda ma, soprattutto,
incarnazione del Dio detto anche “lo Splendente”).
Ancora una volta il Mito, che sia per diffusione o
ancestrale, ci ricorda che un filo conduttore lega la
storia non scritta di numerose popolazioni
tramandandone l’origine senza bisogno di ricorrere
all’archeologia, la storiografia e le scienze “moderne”
in genere.
“Panoramica del Lago di Nemi”
L’analisi del mito di Diana rischia di farsi in ogni
momento troppo lunga e non solo per una predilezione
culturale e religiosa delle autrici.
Sono stati in molti a scrivere della Potnia per
eccellenza, l’incarnazione della regalità femminile, la
Signora delle selve e delle fiere, cercheremo quindi, per
non divagare troppo, di toccare i punti salienti del mito
di Diana cominciando dall’iconografia classica che la
vede con l’arco e il cane, evidentemente cacciatrice. Si
tratta però di una rappresentazione in realtà molto
tarda come tarda è l’associazione della Dea alla luna.
Il nome “Diana” deriva dalla radice sanscrita Div
dalla quale l’aggettivo dius, luminoso, splendente, ma
non di luce lunare, questo è certo; Lucina, “la dea del
luogo chiaro”, splende della luce che filtra attraverso le
fronde degli alberi nei boschi che sono il suo tempio.
L’appellativo di “Luminosa” e anche “Lucifera”, la
sua raffigurazione vicino a fuochi o torce accese e il
fatto che nella selva Ariccia, antica sede del culto di
Diana Nemorense, venisse mantenuto un fuoco
perennemente acceso, fanno pensare a un culto
sovrapponibile a quello di Vesta ma molto più vecchio.
Nelle rappresentazioni più antiche, come spesso accade
per le divinità del Principio, la Dea non aveva forma
“Statua che raffigura Diana Cacciatrice
(Piazza principale di Nemi)
Antonella Tucci / Pellegrinaggio a Nemi
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LO SPECCHIO DI
DIANA
Possiamo in effetti affermare con assoluta convinzione
che la vera essenza e funzione del Mito è insegnare e
raccontare la storia dell’uomo dal principio ad oggi
senza alcun bisogno di prove empiriche.
Prima di addentrarci nel Mito della Potnia italica è
bene però soffermarsi ancora un momento su uno degli
attributi classici della Dea: la verginità, e sul senso che
realmente è doveroso dargli.
E’ curioso come i significati di molti vocaboli, storpiati
nelle moderne accezioni, siano il faro e la prova
lampante della decadenza in mezzo alla quale viviamo
senza neanche accorgercene.
Sull’aggettivo “vergine” già il vecchio vocabolario
degli accademici della Crusca, datato 1612, riportava:
“si dice, sì di femmina, sì di maschio, che non sien venuti
ad atti carnali. Latin. virgo.”; lo stesso Garzanti mette
come prima definizione: “si dice di donna che non ha
mai avuto rapporti sessuali (rar. riferito anche a uomo)”
e solo come quarta: “integro moralmente; intatto, puro:
animo vergine”.
Sull’etimologia dell’aggettivo “vergine” gli studiosi sono
concordi su due possibilità: l’affinità della parola latina
“virgo” con la radice “vir”, ossia la medesima di “vira”
(uomo robusto e forte) o con “vireo” (verdeggiante); Vi
è anche chi fa risalire la parola alla radice “varg” dal
sanscrito “urg” (spingere, gonfiare, essere turgido,
rigoglioso, pieno di succo, forza ed energia).
In ognuno dei tre casi è evidente come l’antica
accezione non si preoccupi tanto dell’integrità di una
membrana quanto di una integrità spirituale della
quale determinati atteggiamenti o, più precisamente,
modi di essere, non sono che il riflesso.
La vergine è l’incarnazione della Madre nel suo aspetto
fertile, sempre giovane e simbolo di rinnovamento, la
cui linfa vitale non si esaurisce mai; E’ la donna che
incarna con dignità e devozione l’archetipo che
rappresenta, colei che è libera da vincoli coniugali
perché non si lega a un uomo indegno così come Diana
non ha solo un compagno ma un paredro: “colui che le
sta accanto come suo pari”, opposto e complementare.
Ma veniamo adesso al mito che lega la Signora delle
Selve allo Speculum Dianae, il Lago di Nemi e ai
boschi che lo circondano.
Si narra che il culto di Diana fu introdotto a Nemi da
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Thule Soci
a cura della Sezione Femminile
dell’Associazione Thule-Italia
Oreste, figlio di Agamennone e Clitennestra che, dopo
l’uccisione della madre e di Egisto, venne incaricato da
Apollo di trafugare un simulacro di Diana in Tauride
(la Crimea) per sfuggire alla furia delle Erinni
(equivalenti delle Furie, tormentavano chi si
macchiava dei delitti più turpi portandolo alla follia).
Qui, dopo varie vicissitudini e l’uccisione del Re
despota Toante, Oreste si ricongiunse con la sorella
Ifigenia, sacerdotessa della Dea, e con lei fuggì
portando con sé la statua della sanguinaria Diana
Taurica nascosta in una fascina di legno e arrivò,
infine, sulle sponde del lago laziale di Nemi.
Così come la Diana Taurica pretendeva la morte di
ogni straniero che mettesse piede sulla sua terra, anche
la “nostra” Diana era legata a un sacrificio di sangue
benché di diversa natura.
Sotto le pendici di quello che adesso è il paese di Nemi
c’era un bosco ai tempi chiamato il bosco di Aricia e, al
suo interno, un albero sacro alla Dea sotto il quale si
aggirava, come dice Frazer nel suo indimenticabile “Il
Ramo d’Oro”, una truce figura, la spada sguainata,
senza mai abbassare la guardia, perché un solo attimo
di distrazione avrebbe potuto costargli la vita; Era il
Rex Nemorensis, il Re del Bosco, un titolo che solo chi
lo avesse ucciso avrebbe potuto sottrargli per morire
poi a sua volta, appena la vecchiaia lo avesse indebolito
perché uno più giovane e forte potesse prendere il suo
posto. Un titolo legato quindi al vigore dell’uomo
(Vira), al rinnovo e alla ciclicità degli eventi naturali.
Solo uno schiavo fuggitivo poteva però di diritto sfidare
il Rex Nemorensis e unicamente dopo aver colto una delle
fronde dell’albero sacro, probabilmente una quercia.
E se il Rex Nemorensis non si allontanava da
quell’albero non era certo solamente per il timore di
un pretendente al trono, egli gli era devoto e legato
come era devoto e legato alla Signora delle Selve, tanto
da far credere a ragione che l’albero e la Dea fossero
una cosa sola; Il famoso Ramo d’Oro, invece, la fronda
che dava al pretendente al trono il diritto di sfidare a
duello il Re, è facilmente riconducibile all’Aureus
Ramus che Enea dovette raccogliere su ordine della
Sibilla per scendere nel regno degli Inferi, da
Proserpina.
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Questo perché non vi è regalità né ascesa senza la
discesa nelle tenebre nigredee, la morte intesa come
rito iniziatico di passaggio e il tramite e il fine in questa
Via è il medesimo, che si tratti dei Misteri di Eleusi o
di Nemi: la Potnia.
Diana ma con una differenza sostanziale: eravamo in
molte stavolta a provare lo stesso sentimento, unite in un
sodalizio e sorelle in nome di un principio non del tutto
comprensibile ma certamente buono e giusto come poche
cose arrivano ad esserlo nella vita di una persona.
Il paredro di Diana e primo, mitico Rex Nemorensis è
stato Virbio, associato in seguito a Ippolito che, nella
tradizione ellenica, per sfuggire a Teseo viene travolto
da un cocchio trainato da cavalli e ucciso per essere poi
riportato in vita da Asclepio, nascosto nei boschi di
Aricia e camuffato, infine, dalla sua Signora, Diana,
che gli dà l’aspetto di un vecchio.
Sotto: Altare e offerte sull’altare
L’associazione di Virbio a Ippolito è senz’altro tarda
ma le motivazioni del divieto di introdurre cavalli nel
Nemus sono da ricercarsi, a livello ben più profondo,
nel significato che poteva assumere la figura del cavallo,
simbolo maschile di forza ed eroismo, in relazione a
quella della Signora delle Selve, indubbiamente Regina
oltre che dispensatrice di regalità.
V’è forse un ultimo collegamento da fare fra la figura di
Virbio/Ippolito e il martire cristiano Sant’Ippolito che
“legato per i piedi al collo di indomiti cavalli, fu crudelmente
trascinato per luoghi aspri e spinosi, e con il corpo tutto
lacerato rese lo spirito.”(tratto dall’opera «Reliquie Insigni
e “Corpi Santi” a Roma» di Giovanni Sicari) la cui
ricorrenza cade guarda caso proprio il 13 Agosto, giorno
in cui, secondo la tradizione romana, si festeggiava la
purezza primigenia e, naturalmente, Diana.
“Numen Inest”
E aleggiava realmente un Nume in quel Tempio
sprofondato in un silenzio innaturale, fuori posto come
solo i resti di un sapere antico possono esserlo in questo
mondo torturato.
Ci siamo raccolte intorno all’altare colme di timore
reverenziale, gli occhi lucidi di fronte alle offerte dei
pellegrini e delle pellegrine.
Ricordo una sensazione simile provata tanto tempo fa,
sulla tomba di una Regina mitica del Connacht, sposa
dei nove più grandi Re d’Irlanda e incarnazione stessa
della Sovranità; Sì, la sensazione era la medesima in
quei momenti di raccoglimento e silenzio nel Tempio di
Antonella Tucci / Pellegrinaggio a Nemi
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LE DANZE SACRE
FEMMINILI
Prima tappa di un percorso attraverso le Tradizioni
Sapienziali Femminili
Zeus sposa Era e genera Ebe, Ilizia e Ares, ma si unisce
anche a molte donne, mortali e immortali… …da
Mnemosine [gli nascono] le Muse, Calliope per prima,
poi Clio, Melpomene, Euterpe, Erato, Tersicore…
Ed era Tersicore, appunto, la musa della danza e della
lirica, nata da Zeus e Mnemosine, dall’unione
dell’Autorità con la Memoria, l’incarnazione di una
delle Arti più soavi. Raffigurata come una giovane col
capo cinto di fiori e uno strumento a corde fra le mani,
nelle rappresentazioni classiche raramente la sua
figura dà un’idea di staticità.
Saltando letteralmente di palo in frasca (o forse non
poi così tanto) mentre scrivo vedo, con gli occhi del
pensiero, l’opera di un artista giapponese, Hokusai, il
“vecchio pazzo per la pittura”: il monte Fuji, sulla
destra, svetta verso il cielo, imponente e granitico e
sembra che niente possa toccarlo, modificarne la
posizione, offuscarne la potenza; a sinistra un’onda,
60
Thule Soci
di Antonella Tucci
(Argentea)
colta al massimo dell’impennata, esattamente una
frazione di secondo prima che i flutti spumosi si
abbattano nuovamente e con violenza sulla massa
d’acqua sottostante e al centro, infine, in balia delle
forze antitetiche per eccellenza, l’Essere e il Divenire,
sfida la sorte una piccola e fragile barca di pescatori.
La mia attenzione, anche se con gli occhi della mente,
viene catturata come sempre dalla gigantesca onda e
non a caso perché è naturale per una donna
riconoscersi in tutto ciò che diviene e fluisce.
“Divenire” è una parola che spesso gli ignoranti hanno
adoperato, riferendosi alle donne, come sinonimo di
incoerenza e instabilità. Niente di più falso.
L’acqua del mare resta sempre acqua, per quanto
torbida o agitata possa essere, sensibile com’è ai venti
e alle correnti e la terra resta sempre terra
indipendentemente dalle nascite e dalle morti, dal
susseguirsi delle stagioni e dei cicli vitali.
La donna è naturalmente più vicina dell’uomo a questi
cicli, ne sente interiormente il ritmo, la sua esistenza ne
è scandita a livello più o meno consapevole, una
vicinanza che in passato era parte integrante del
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misticismo femminile e che veniva (e in certi casi viene
ancora) spesso comunicata attraverso la più ovvia delle
esternazioni in questo senso: la danza.
Parlare di “danze sacre” in età moderna è alquanto
difficile, le prove scritte diventano sempre più scarse
tanto più si viaggia a ritroso nel tempo e alla fine,
qualunque affermazione fatta in base allo studio delle
tradizioni, dei miti e dei documenti non scritti, viene
relegata nel limbo delle congetture. Poco male in
realtà, visto che è in questo limbo che a noi piace
muoverci, libere dalle catene della storiografia ma
consce della memoria di ciò che è stato e che, ne siamo
convinte, non muore mai: deve solo essere risvegliata.
Irina Naceo nel suo “Delle antiche danze femminili”
(edizioni della Terra di Mezzo) pone inizialmente
l’attenzione sulla moderna danza classica
paragonandola alla maggior parte delle danze
tradizionali femminili sopravvissute nelle popolazioni
che, ai giorni nostri, hanno mantenuto a tratti integre
le usanze del passato.
Nella danza classica, miracolo di postura ed eleganza,
il bacino deve restare assolutamente immobile, lo studio
della tecnica delle punte, se praticato precocemente, può
provocare gravi danni, anche irreversibili, quali scoliosi,
problemi alle ginocchia e alle anche ed infine, per
raggiungere quella grazia artificiosa e artificiale nei
movimenti, le ballerine pagano uno scotto non
trascurabile: l’estrema magrezza e rigidità dei muscoli,
nel complesso l’impressione è di trovarsi davanti una
figura eterea e androgina, essenzialmente priva dei tratti
distintivi femminili.
Non a caso la danza classica è un’arte moderna, nel
passato i movimenti tipici delle danze femminili erano
sicuramente meno artificiosi perché, anche quando
necessariamente costruiti, sottolineavano ed
esaltavano la figura della donna celebrando il mistero
della creazione e dei ritmi della natura.
Le tracce in Europa delle antiche danze sacre
femminili si trovano senza fatica: Snorri ci racconta di
una pratica sciamanica riservata solo alle donne, il
seidhr, magia femminile volta alla divinazione dove il
raggiungimento della trance si otteneva grazie alla
musica, abbiamo poi le descrizioni dei baccanali, delle
danze a Demetra e Persefone nei Misteri Eleusini, si sa
delle attività coreutiche delle fanciulle istruite da Saffo
e non è un mistero la presenza femminile nelle danze
dei Salii a Roma (Le Virgo Saliari); se diamo al
Simbolo la validità storiografica che gli è dovuta non
possiamo tralasciare inoltre le infinite pitture,
statuette e graffiti raffiguranti donne nell’atto di
danzare, la spirale neolitica stessa, così diffusa in
Europa, è probabilmente la rappresentazione grafica
della più antica danza primordiale di cui si ha notizia,
e poi poesie e miti e fiabe. Un panorama immenso del
quale ad oggi non è rimasto assolutamente niente.
E qui il paragone, in uno dei soliti voli pindarici che,
oramai l’avrete capito, sono parte di me, viene
spontaneo: la Danza Sacra e la Via della Spada in
occidente e il loro corrispettivo in oriente.
Ad oggi, chiunque voglia in Europa intraprendere la
Via della Spada sa di non potersi rivolgere ai sedicenti
maestri d’occidente.
La Scrimia, (così viene chiamata adoprando un termine
relativamente giovane) l’arte marziale italica, è
sopravvissuta, è vero, ma come privilegio di pochi, dove
a fare la selezione non è l’Arte stessa ma l’appunto
sedicente maestro, modus agendi di stampo squisitamente
massonico sicuramente corretto in certi campi ma che
poco ha a che vedere con la Via della Spada.
Ecco perché, come l’uomo che intenda intraprendere
realmente l’Arte che per diritto naturale dovrebbe
poter imparare deve necessariamente volgere lo
sguardo a oriente, così è costretta a fare la donna che
intenda riscoprire la Danza nella sua accezione sacra
tesa al ricongiungimento con l’Archetipo.
Con questo, sia chiaro, non intendo “promuovere” o
“preferire” le altrui tradizioni, al contrario il fine è di
risvegliare nella nostra Terra e fra la nostra Gente quelle
che sono tradizioni ancestrali e immutabili perché, come
il Guerriero è senza tempo e senza luogo, così lo è la
Danzatrice quale che sia l’iconografia e la collocazione
geografica che l’essere umano le ha attribuito nel corso
della sua storia e delle sue peregrinazioni.
Del perché presso alcune popolazioni, spesso e non a
caso definite “primitive” o “barbare” dall’occidentale
moderno, molte Tradizioni Sapienziali siano
sopravvissute non è il caso di discutere in questa sede
poiché il discorso porterebbe lontano allontanandosi
troppo dall’argomento in oggetto.
Antonella Tucci / Le danze sacre femminili
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LE DANZE SACRE
FEMMINILI
La Danza del Ventre
Brevi cenni storici
È pensiero comune che la danza volgarmente detta
“del ventre” sia nata negli Harem dove le concubine
la praticavano per ingannare il tempo in attesa che la
scelta del Califfo cadesse su di loro.
Solo due cose sono vere in questo luogo comune
occidentale, entrambe identificabili fra le righe: la
danza del ventre non era una danza nata “per gli
uomini” ed effettivamente le concubine dei califfi
venivano istruite nelle attività coreutiche, nelle arti e
nelle scienze.
Non ci dilungheremo troppo su un aspetto che
riguarda strettamente la cultura islamica e in un
periodo relativamente moderno perché a noi piace, per
quanto possibile in quanto limitatamente legate a un
corpo umano e inevitabilmente figlie della decadenza,
viaggiare a ritroso verso l’origine e non fermarci alle
degenerazioni della stessa.
In realtà “Danza del Ventre” è il nome che i viaggiatori
occidentali orientalisti del diciottesimo secolo diedero
a questo ballo dalle movenze morbide e sensuali,
principalmente concentrate nel bacino, percependone
erroneamente un erotismo volto alla seduzione del
maschio.
Il diciottesimo secolo era però piena decadenza anche
per il medioriente ed è vero che le ballerine, già da
tempo, danzavano per “professione” alle feste e ai
matrimoni al fine di mostrarsi e intrattenere e non
certo in un contesto sacro o rituale.
Putroppo l’assenza di documenti scritti antecedenti il
1700 rende difficile ricostruire la storia della danza del
ventre, ma vi sono, ad esempio, statuette
antropomorfe e decorazioni su ceramiche
predinastiche (3800- 3500 a.C) egiziane che fanno
pensare a danze a carattere magico-rituale; le origini
sono però molto probabilmente ancora più antiche e
si riallacciano ai culti mesopotamici di fertilità relativi
alla dea Inanna o Ishtar nella versione akkadica.
Ma i movimenti che compongono questa danza si
slegano da qualunque appartenenza geografica,
riproducendo, non solo con il ventre ma anche con la
parte superiore del corpo, le braccia e le mani, i
simboli archetipici che sono da sempre parte
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Thule Soci
di Antonella Tucci
(Argentea)
integrante del misticismo femminile, i medesimi che
qualunque donna riprodurrebbe, seppure ignara della
tecnica e della postura e scevra da qualunque
insegnamento in merito e, ovviamente, in uno stato
non dico d’estasi ma sicuramente consapevole,
ballando istintivamente al ritmo di strumenti
“primitivi”, percussioni o fiati.
Simboli archetipici nei movimenti della Danza del
Ventre
La posizione di base prevede i piedi ben piantati per
terra, le gambe leggermente flesse e le articolazioni il
più possibile morbide e rilassate.
A differenza della danza classica dove si cerca in ogni
modo di vincere la forza di gravità, la Danza del Ventre
permette alla donna di abbandonarsi al richiamo
ctonio della Madre.
L’Infinito
Il primo movimento in cui ci si imbatte muovendo i
primi passi in questa danza e che raramente risulta
“nuovo” agli occhi di qualunque donna, è una
oscillazione e torsione del bacino alternativamente a
destra e a sinistra che, se ininterrotta, riproduce quello
che viene chiamato “otto orizzontale”, due cerchi
gemelli uniti su un lato: il simbolo dell’infinito,
rappresentazione grafica di tutto ciò che, ciclico,
eternamente ritorna.
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Questo simbolo viene riprodotto molto spesso nella
Danza del Ventre, orizzontalmente, verticalmente o
lateralmente interessando sostanzialmente la zona
addominale e il bacino dove risiede uno dei centri di
forza più importanti, quello che gli indiani chiamano
Svadhisthana, raffigurato come una falce di luna
inscritta in un cerchio e circondato da sei petali nei
toni dell’arancione e del rosso; Anche lo Shimmy, la
rapida vibrazione del corpo prodotta dal rilassamento
e l’irrigidimento alternato dei muscoli delle gambe,
stimola questo Chakra, simbolo affine all’acqua
intesa come brodo primordiale in cui si sviluppa la
vita, risvegliando e distribuendo uniformemente
le energie legate alla sessualità e alla forza vitale.
Il Sole
La lenta rotazione del busto effettuata
mantenendo la schiena dritta, tramite il solo
spostamento del peso del corpo prima a destra,
poi indietro, ancora a sinistra e infine in avanti,
viene chiamata “Il Sole” e riproduce in effetti un
cerchio perfetto assimilabile, come tutto ciò che è
curvo e flessibile nella Geometria Sacra, alla
polarità femminile.
Viene così naturale pensare a Ouroboros, il
serpente che si morde la coda, che racchiude in sé
non solo la simbologia del cerchio ma anche quella
di uno degli animali sacri alla Madre.
Quello della Donna e il Serpente fu infatti un
connubio millenario, spezzato da chi volle
trasformare il sangue che rigenera in una
maledizione.
Il Serpente
Il movimento sinuoso del corpo e delle braccia che
ricorda l’incedere del serpente si rifà al periodo in
cui i cristiani non avevano ancora imposto a Maria
di schiacciare il rettile col piede demonizzando in
quel modo il principio femminile e decidendo che
il Divino non poteva avere volto di donna.
Il serpente è sempre stata una delle principali
ierofanie zoomorfe della Dea e animale a Lei sacro
ma fu trasformato in un demone tentatore
quando era invece simbolo di cambiamento,
rinascita e soprattutto di fecondità (basti pensare
alla dea Tiamat, a Visnù addormentato fra le spire
del serpente o alla leggenda dell’unione di Fauno
con Bona Dea), profeta e custode di segreti e
misteriosi tesori spesso ipogei (ricordiamo
l’italianissima Dea Serpente, la Sibilla
Appenninica e Medusa, custode degli Inferi).
Nel suo “Il corpo delle Dea”, Selene Ballerini cita
la psichiatra junghiana Esther Harding che
segnala un’associazione fra il serpente e la prima
mestruazione causata, secondo alcune antiche
credenze, dal suo morso; Anche in questo caso il
serpente vine inteso, quindi, come colui dal quale
ha origine il sangue inteso come principio creativo
e non come punizione per il più grande dei peccati.
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LE DANZE SACRE
FEMMINILI
Reali effetti benefici sul corpo della donna
La cosa più complicata per una donna che muove i suoi
primi ed è il caso di dire, timidi, approcci alla danza del
ventre è sicuramente “liberare” il bacino e le anche,
muoverli cioè sinuosamente e in modo naturale,
indipendentemente dal resto del corpo.
La motivazione risiede probabilmente nel fatto che la
maggior parte delle donne si “mantiene in forma” in
sala pesi o facendo spinning o just pump, attività che
non prevedono certo l’utilizzo del bacino o la capacità
di muovere diverse parti del corpo indipendentemente
l’una dall’altra e che “legano” anzi le giunture, se non
accompagnate da allungamenti e respirazioni profonde.
Giusto chi ama i balli latino americani spesso si trova
più avvantaggiata rispetto alle altre anche se i
movimenti risultano sempre più volgari di quelli di una
danzatrice orientale che pure muova il bacino nello
stesso modo.
Ad ogni modo, limiti fisici a parte, la mia idea è che siano
stati secoli di de-femminilizzazione della donna a farci
trovare innaturali dei movimenti che, non solo sono
naturalissimi per il corpo femminile, ma lo rendono più
forte dove è giusto che lo sia, in previsione per esempio
della gravidanza, del parto o dei dolori mestruali.
La posizione base della Danza del Ventre prevede il
bacino chiuso senza per questo contrarre innaturalmente
i glutei, questo porta ad un graduale allungamento e
raddrizzamento della colonna vertebrale.
Grazie a questa posizione è possibile riabituarsi alla
respirazione profonda, quella “addominale”, cosa che
soltanto chi pratica una disciplina, quale che sia la danza,
lo Yoga o un’arte marziale, oramai è in grado di fare.
Donne e uomini del ventunesimo secolo respirano
freneticamente come frenetici sono i loro ritmi, la
paura di arrivare in ritardo o la documentazione da
consegnare al capoufficio, le bollette da pagare e le
relazioni interpersonali condotte in modo sbagliato,
tutti questi stimoli negativi, se presi come fossero la
parte realmente importante della vita, portano alla
respirazione ansiosa che, anche quando non sfocia in
patologia (molti di voi si stupirebbero di scoprire di
non saper respirare), è la causa principale di una serie
di problemi fisici quali emicranie, mal di stomaco,
difficoltà a ricordare le cose, fatica a svegliarsi la
mattina, insonnia.
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Thule Soci
di Antonella Tucci
(Argentea)
La respirazione profonda aiuta inoltre a riscoprire il
proprio ventre e l’atto di contrarre e decontrarre i
muscoli senza sforzarli troppo ma per periodi
prolungati, li rende tonici e al contempo elastici, senza
l’irrigidimento innaturale che le sedute di ore in
palestra provocano e, soprattutto, senza l’aberrante
effetto “tartaruga” dell’addominale scolpito, primo
sintomo della de-femminilizzazione di cui sopra.
Inoltre la capacità di rilassare il ventre aiuta nei dolori
mestruali e, di conseguenza, durante il parto dove la
donna diviene parte attiva rendendo più sopportabili
le contrazioni e più efficaci le spinte.
Possiamo tranquillamente affermare che i corsi preparto, gratuiti o a pagamento che siano, le moderne
ginnastiche “dolci”, gli “innovativi” metodi americani
et similia, cerchino di insegnare quello che per secoli le
fanciulle di tutto il mondo hanno imparato dalle madri
e dalle sacerdotesse in modo sicuramente più
divertente ed efficace: danzando il mistero della vita.
Naturalmente anche le spalle risentono positivamente
di una postura corretta e della respirazione profonda e
soprattutto la schiena, sulla quale siamo solite
scaricare inconsapevolmente le tensioni della giornata,
si rilassa finalmente, allungandosi.
Conclusioni
E’ giunto il momento di tirare le somme di quanto
scritto e non v’è niente di più complicato.
Forse l’unica cosa, la sola che vale veramente la pena
di sottolineare è che non si deve essere ballerine per
danzare. Il mondo moderno ci ha insegnato che o si
impara a ballare fin da bambine o ci si accontenta delle
discoteche o dei balli di coppia. Tutto ciò è falso. Siamo
danzatrici per natura, danziamo la vita e la gioia
d’essere donne, danziamo perché rifiutiamo le catene
imposte da coloro che decidono cosa è bello e cosa è
giusto: gli stilisti, i media, le aberrazioni moderne che
oramai conosciamo bene, danziamo perché amiamo
abitare il nostro corpo finché la nostra anima dovrà
restarvi legata in questo mondo e in questo tempo,
perché l’unico canone di bellezza al quale rispondiamo
è quello dell’archetipo femminile al quale tendiamo,
danziamo perché danzando facciamo sì che la memoria
di ciò che è stato non si perda. Mai.
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Ringraziamenti
Sono forse strani i ringraziamenti alla fine di un
articolo tanto breve ma ho preferito ringraziare coloro
che hanno scritto i testi che mi hanno aiutata nella
stesura dello stesso piuttosto che stilare una sterile
bibliografia.
Ringrazio dunque Irina Naceo autrice di “Delle
antiche danze femminili” (Edizioni della Terra di
Mezzo); Maria Strova autrice de “Il Linguaggio
segreto della Danza del Ventre, I Simboli, la
Sessualità, la Maternità, le Radici dimenticate”
(Macroedizioni) e Selene Ballerini, autrice de “Il corpo
della Dea” (Edizioni Atanòr).
Ringrazio inoltre la mia Maestra di danza perché la
teoria non è niente se non si applica alla pratica con
costanza e sacrificio.
Ringrazio mia Madre e le mie Sorelle e Beatrice, i cui
disegni parlano della gioia d’essere donne meglio di
cento bei discorsi.
Ringrazio inoltre gli Uomini che fanno parte della mia
vita e grazie ai quali divenire quello che sono acquista
un senso.
E ringrazio anche Me Stessa per tutte le volte che avrei
potuto mollare ma non l’ho fatto.
Il tutto, ovviamente, non in ordine d’importanza.
“Tutto nella danza del ventre è segretamente intenzionale,
in essa si racchiude un linguaggio eterno”
Maria Strova
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UNO SCRITTORE
BENINTENZIONATO
Se il libro che andremo tra poco ad esaminare (“Con le
peggiori intenzioni”, Mondadori 2005) non avesse
vendute frotte di copie in giro per l’Italia, sarebbe ridicolo
solo il prendere in esame la possibilità di occuparsene; se
in ogni biblioteca pubblica romana (l’autore dell’articolo
ha preso in esame la sola città di Roma ma non dispera
che le cose stiano così anche altrove) non campeggiasse
fiera almeno una copia di tale romanzo, giù a ridere
all’idea di occuparsene; se ancora oggi, a due anni dalla
pubblicazione, l’autore non venisse invitato a pispolare
allegramente del suo remunerativo scritto a destra e a
manca in televisione, ancora risate.
Ma le cose stanno proprio così. E non c’è scappata
neanche una risata.
Ai suoi tempi, Federico Nietzsche, postumo in vita,
asseriva che “chi conosce in profondità, si sforza
d’essese chiaro; chi vorrebbe sembrare profondo alla
moltitudine, si sforza d’essere oscuro”; oggi, il postero
Alessandro Piperno, autore de “Con le peggiori
intenzioni”, ha d’un colpo riguadagnato alla chiarezza
e alla profondità la moltitudine: non si rammenta,
infatti, una profluvie di unanimi giudizi su un singolo
testo letterario – che non sia già stato sanzionato come
immortale – pari a quella che ha investito l’opera
prima del Piperno.
Come ha fatto il romanziere romano, già professore a
contratto all’università di Tor Vergata, a salvare capra
e cavoli? È sobillati da tale rovello che si è deciso di
sondare più a fondo.
Come romanzo, Con le peggiori intenzioni, a onor del
vero, non vale una cicca. È letteratura fiacca e
maldestramente accozzata. E vi è una teoria di motivi
oggettivi (che l’autore sembra aver disseminato
dall’inizio alla fine per venirci incontro
nell’operazione) a corroborare tale apparente assioma.
Anzitutto formali, lessicali e stilistici. I due più
evidenti: la verbosità e il turpiloquio. Piperno è uno di
quegli incontinenti che sublima i guasti della propria
debole vescica con inchiostro e carta bianca. Non c’è
requie per il lettore che s’avventuri senza macete nella
selva parolaia: serpentine sinonimiche prive di alcun
significato a parte quello di stancare l’occhio,
proliferazioni aggettivali che ammorbano, con
l’accelerazione riproduttiva di cellule impazzite, il più
dei sostantivi, come scialbe infiorescenze; un fottìo di
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Recensioni
di Valerio Raimondi
iperboli e un uso smodato di maiuscole (quanto alle
prime, per Piperno tutto è superlativo, tutto è
“issimo”; per le seconde, l’autore si spassa a creare
nuove categorie dello Spirito: l’Impoderabile, la Storia
– quale? – il Padre, l’Oblio, per non omettere la coppia
di contrari, d’ascendenza illustre, “salvati/sommersi”
– evidentemente in maiuscolo – tanto per limitarsi alle
primissime pagine); uno spreco di cultismi e un salasso
di forme auliche, fastidiose e puntuali come una goccia
cinese; un periodare non “a lunga gittata”, ché in tal
caso avrebbe avuto la parvenza di una classica
complessità, ma fitto di frasette veloci, voraci
accumulazioni, esasperanti cumuli verbaioli.
Insomma, in breve: un linguaggio barocco. Ma nulla
condivide tale sperpero da grafomane compulsivo col
nobile e alto uso che riusciva a farne un Gadda (tanto
per dire del migliore), inappuntabile uomo d’ordine
oltre che grande scrittore. Questi cristallizzava
l’ipertrofia in stile, Piperno ne fa scarico di sciacquone;
l’uno torceva lo stile col gesto drammatico d’una
scultura michelangiolesca, l’altro lo stile lo inamida
delle proprie polluzioni.
Il turpiloquio, poi. Vi si rompe, il Piperno, con gaio
sollazzo e rapace calcolo assieme. Quale traccia ha
lasciato nella pagina pipernesca Celine, colui che
magistralmente più di ogni altro seppe dosare nei suoi
romanzi, con altissima capacità mimetica, il rude e
aspro gergo soldatesco o l’argot parigino? Nulla. Il
“pipernismo” (come è stata non senza brillantezza
definita la “maniera” del nostro) sembra assediato
dalla smania di un non meglio precisato modernismo
letterario. Tutto tramato di volgarità becere ma
laccate e come tirate a lucido dal cultismo che in
genere segue, a controbilanciare facili concessioni alla
gratuità volgare di matrice televisiva. (Ma, del resto,
quello dello “specchio riflettente”, meccanismo
principe innescato dal tubo catodico, è il grimaldello
di molta produzione letteraria – e non solo – attuale, e
il nostro dimostra di conoscerne i meccanismi e di
saperli oliare con perizia)
Un tale pastrocchio stilistico produce invero un malloppo
duro a digerirsi se non da tripli stomaci, una prosa
insulsa, macchinosa, un testo farraginoso che fa acqua
dovunque. Solo noia (del lettore) e boria (dello scrittore).
Ecco allora la domanda cruciale: perché la Mondadori,
nel 2005, decise di fare, del romanzo in questione, il
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prodotto editoriale dell’anno? Un libro che, come
informano gli amanti dei numeri, vendette 90.000
copie solo nelle prime due settimane e 200.000 in
appena due mesi, dalle numerevoli ristampe (anche in
formato economico) e dalla meritata consacrazione
(l’anno successivo) come allegato al Corriere delle sera?
Il dato incontrovertibile è che il mercato editoriale
nostrano è comandato con fermezza da un grappolo di
case editrici. Fare di un libro il best-seller dell’anno è
un problema solo all’inizio, lo scegliere l’uno o l’altro
titolo. Poi entra in scena la macchina collaudata,
quella della pubblicità già uno o due mesi prima che il
titolo venga stampato, l’allerta dei maggiori critici dei
quotidiani che si prendano la briga d’una lettura in
anteprima per saggiarne il valore, il tonante megafono
una volta stampato e distribuito in libreria dei mezzi
di informazione sollecitati senza esclusione, i salotti
televisivi e via discorrendo.
E su Piperno ecco scatenarsi un ecumenico consenso
(paradossale per uno scrittore di origini ebree – anche
non conoscendole, lo proverebbe il nome e il profilo
adunco). Ancora più paradossale perché su tutti i libri
italioti che nell’ultimo decennio hanno monopolizzato
il mercato, sono piovuti, con un manicheismo sospetto,
tanti elogi quante, se non stroncature (quest’ultima è
una tradizione che non ha mai attecchito nel Bel
Paese), almeno remore all’incenso e critici dubbi. E
invece, nel 2005, finalmente un romanzo “sontuoso,
comico, tragico, miracolosamente e mirabilmente
incerto tra sciagura e parodia” (Sette); “uno dei più
brillanti esordi della nostra letteratura recente”
(Corriere della sera), che “rinverdisce la gloriosa
tradizione del romanzo borghese moderno” (Il Foglio);
“magico è il talento di Piperno” (Diario), “Piperno, un
ebraico re Mida che fa meraviglie” (Tuttolibri),
“stilisticamente molto elegante; divertente e
corrosivo” (Il Giornale), “la narrazione scorre
inesorabilmente esilarante, senza peli sulla lingua”
(Famiglia Cristiana) e, come non bastasse, il premio
Viareggio e il premio Campiello in sequenza. Un coro
di plauso e di allori le cui vesti di corifeo l’ha
degnamente indossate Antonio d’Orrico (“un romanzo
prodigioso, un libro che fa paura per la sua bellezza”),
critico capo del Corriere.
Il libro di Mellissa P, mi dico, ignobile mostro editoriale
degli ultimi tempi, era almeno tarato sul latente
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bigottismo borghese, pronto a vellicarne le bassissime
prurigini, e in questo stava la sua giustificazione a
posteriori. Ma con Piperno come la si mette? Dacché la
eventuale – e folle – giustificazione di un libro
commerciale, oggi, non la si può certo ricavare per
deduzione, ma solo per induzione – come s’è detto
sopra è la grossa casa editrice che sceglie prima quale
sarà il libro che immancabilmente venderà trequattrocentomila copie, forse un milione, al di là del
bene e del male. Piperno è il vuoto pneumatico
agghindato a festa con spillette e lustrini, e ogni
giustificazione formale, come quelle che hanno fatto a
gara a tirar fuori dal cilindro i critici di cui sopra, è ora
sordida mistificazione, ora appecoronamento all’incenso
già bruciato e al subisso di copie già vendute.
Ma c’è di più. Una seconda questione, cruciale in
questo scritto: perché mai nessuno – dico nessuno – fra
gli illustri critici (come fra gli improvvisati che a
centinaia si sono accapigliati su blog e su siti internet
dedicati), perché mai, dicevo, nessuno fra costoro ha
neanche solo accennato, se non, e nel migliore dei casi,
con brevissime e innocue sinossi, alla vera sostanza
pulsante del romanzo piperniano?
Vediamo allora di cosa parla, questo capolavoro.
Quanto alla sinossi, per insulsaggine e vietume della
medesima, basta riportare pedissequamente le poche
righe vergate in seconda di copertina:
“L’epopea dei Sonnino, ricca famiglia di ebrei romani,
dai tempi eroici dello sfrenato nonno Bepy e del suo socio
Nanni Cittadini – la cui irriducibile competizione peserà
in modo fatale sui rispettivi eredi – ai giorni assai meno
grandiosi dello sgangherato nipote Daniel. Le avventure,
gli amori, le ossessioni e i tradimenti degli eroi vitalisti
degli anni Sessanta e dei loro rampolli dorati e imbelli,
dei giovani e dei vecchi, delle famiglie antiche e dei
parvenu, dei fortunati e dei falliti, si succedono di festa
in festa, di scandalo in scandalo, in un romanzo
spettacolare”. Tutto chiaro? Perché è questo il nocciolo
oltre il quale nessuno ha avuto l’ardire di spingersi.
Invece a me, per esempio, è venuto l’uzzolo di capire di
più sull’endoscheletro, di vedere come è stato
accozzato il modellino in plastica.
Il dispositivo narrativo si fonda su di un bipolarismo
essenziale dall’inizio alla fine: da un canto la famiglia
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UNO SCRITTORE
BENINTENZIONATO
Sonnino, il cui “Padre” è Bepy; dall’altro, Sonnino
Daniel, l’ultimo di detta famiglia in quanto il di lui
nipote minore. Tale bipolarismo di fondo viene
letteralmente innervato dal tipo di narratore che tiene
banco per tutto il testo: un narratore in prima
persona. In realtà, che il narratore sia in prima
persona e chi sia effettivamente lo si scopre solo verso
pagina 50, quando attacca il pieno di spirito capitolo
terzo “L’eroico trafugatore di collant”; prima di allora
la netta impressione è che si tratti di una terza persona
onnisciente, dalla feroce ironia e dal tagliente
sarcasmo, a parte due o tre flebili tracce che mettono
sull’attenti il lettore esperto. Proprio per questo la
bipolarità strisciante famiglia Sonnino/ Daniel si regge
su un originario e incongruo rapporto di forze: poiché
il narratore – prima persona – è lo stesso Daniel
Sonnino, il quale, nel doppio ruolo di narratorepersonaggio, è il vero centro focale della narrazione. Si
dà il caso, dunque, che le vicende dei Sonnino siano
tutte filtrate dalla lente deformante di chi narra, e
plasmate sulla scorta del suo giudizio corrosivo e
moraleggiante. “Un ebreo che attacca gli ebrei” è lo
stesso autore a suggerire a un certo punto (e con quale
buona fede!), una sorta di moralizzatore severo e
intellettuale che mette all’indice la propria famiglia in
quanto sentina del vizio, che condanna senza appello
il vitalismo, incarnato in nonno Bepy, di formidabile
donnaiolo, di scialacquatore senza fondo, di
materialista della prima ora, e infine, bancarottiere, di
truffatore e ladro, ma sempre ben contento di esserlo.
La sferza del narratore-personaggio, però, si fa
incalzante, implacabile: la condanna è verso la
rimozione dei tempi che furono, poiché “questi giudei
della Roma bene avevano sostituito […] al terrore per
Mussolini e Hitler, la mimetica venerazione per Clark
Gable e per Liz Taylor”.
L’autore, che sulle prime avvezza lo sprovveduto
lettore a pensare che il narratore sia terzo alla storia e
purtuttavia onnisciente, dà fulmineo una scossa,
introducendo ufficialmente come legittimo proprietario
di quei giudizi salaci, scoccati senza remore, Daniel
Sonnino: così facendo imprime pesantemente, nella
mente sferzata di chi legge, come sigillo nella cera, la
costante presenza di questi come censore e moralista.
Ma proprio quando tale personaggio nodale fa la sua
comparsa, questo Minosse giusto rivendicante la
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Recensioni
di Valerio Raimondi
memoria dei cari estinti, è proprio lui a presentarsi (chi
scrive scrive appunto di se stesso!) come un depravato
della prima ora, onanista incallito, un’anima di fango
che s’eccita sessualmente alla vista – e all’odore – della
calze usate della zia israeliana, trafugandone una scorta
per i clandestini e furiosi smaneggiamenti; ragazzozerbino rispetto alle ragazze della classe scolastica,
smidollato e erotomane fino al parossismo.
E cos’è peggio di un giudice corrotto? La credibilità
del giudice giusto e salace viene annientata
miseramente nel giro di poche righe, quella stessa
credibilità che l’autore, al giudice-personaggio, aveva
cercato di conferire (si capisce ora con quale sforzo
farisaico) sin dall’attacco del romanzo.
Le rivendicazioni post-olocausto di Bepy e dei suoi, a
bruciare una vita di sfrenatezze e sregolatezze
iperboliche, appaiono tanto più legittime in quanto chi
sembrava avere i galloni per condannare con piglio
tranciante se ne dimostra fragorosamente indegno.
Così Bepy, per chi legge, può essere non più “il
dissolutore, il vitalista accecato da donne e denaro”, ma
più bonariamente una vecchia canaglia; la nonna Ada
non più quella “megalomane, vedova nera”, ma una
simpatica arteriosclerotica, e così di questo passo nel
catalogo famigliare, un rovesciamento parodico dopo
l’altro: la trasformazione è riuscita, e con successo.
Non mancano, peraltro, disseminate nel testo,
puntuali allusioni per far intendere che Daniel Sonnino
è niente di meno che alter-ego di Alessandro Piperno:
il narratore-personaggio sarebbe una chiara proiezione
dell’autore, la vicenda nient’altro che biografica,
individuale, isolata.
E no!, caro (e furbo) Piperno. Vuoi forse dare a bere
che la vicenda di cui straparli abbia quasi
un’ascendenza dantesca, di auctor (dunque narratore)
e personaggio assieme? (poiché Dante il suo viaggio
ascensionale l’aveva compiuto veramente, ma in altri
termini da quelli esplicitati dalla lettera – e i
contemporanei, loro sì baluardi di una popolare e
ingenua faciloneria, arrivarono a credere che un ciuffo
canuto della propria chioma il fiorentino se lo fosse
procurato realmente tra i gironi infernali!). Altro che
individualità (che certo in Piperno non potrebbe mai
eternarsi in universalità come l’esperienza dantesca –
ci mancherebbe), il professore a contratto non fa altro
che inserirsi, molto maldestramente, in un usato filone
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letterario cui ha dato linfa Philip Roth, scrittore
americano noto ai più (pure lui ebreo d’origine): il
topos dell’ebreo intellettuale e moralista che disprezza
fino al dileggio la propria famiglia, pia delle formali
consuetudini religiose, per poi rivelarsi un fervente
maniaco sessuale, un corrotto, un’anima bassa: la
famiglia vituperata per tutto il libro risulta giocoforza
simpatica a chi legge, in quanto vittima del ribelle; ma
il ribelle idem, poiché, dall’inaccettabile ruolo
autoassegnatosi di giudice inflessibile, dunque
antipatico come può esserlo un qualsiasi pedante, si
dimostra “sfigato”, pieno di problemi esistenziali (ci
passi, il lettore, tali espressioni di stampo giovanilistico
che pure ben s’attagliano alla materia): pari e patta!
Si prenda la pagina di un libro, e la si avvicini
lentamente al viso fino a farla cozzare contro il proprio
naso: le paroline, intelligibili con efficacia in un primo
tempo, si faranno indistinguibili segni grafici,
ghirigori, e il risultato finale dell’esperimento sarà
quello di poter dire, al massimo, che il materiale sul
quale sono impresse è carta. Questa medesima cosa
sembrano aver fatto Piperno e i suoi critici: il primo
inzuppando a tal grado la storia dentro alla questione
ebraica (non mancano, infatti, amplissimi riferimenti
alla questione dello stato d’Israele, poiché uno zio di
Daniel ne è un fervido abitante) da renderla
praticamente invisibile; i secondi, ingoiandosi il
beverone preparato a bella posta con la placidità
bovina tipica del filisteo d’oggi, hanno dato forza a tale
paradossale invisibilità.
“Con le peggiori intenzioni” non è un libro politico,
come direbbe invece un Vermijon qualunque, né
tantomeno un libro sottilmente e subliminalmente
politico; prova ne sia, attesterebbe, nonostante le
nostre resistenze, un Vermijon dei nostri giorni, che
non solo gli ardimentosi critici italioti (che sono pagati
per farlo, ma cosa poi… i critici?), ma tutti coloro che
ne hanno parlato e scritto (e non sono stati pochi date
le copie vendute) persino sul Web (vedere per credere),
hanno omesso, come l’avessero freudianamente
rimossa, anche un minimo accenno alla questione
ebraica sottesa a questo insulso testo, così come del
resto è sottesa a ogni testo che si inscriva in tale filone
aureo (dati gli incassi) più che letterario, e che
disponga dei medesimi topoi oramai facilmente
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decodificabili, da quando almeno per Roth, ogni anno,
si reclama da più angoli del globo, e a squarciagola, il
meritato Nobel. Ma non per questo ci faremmo
prendere la mano dalla mania cospiratoria; e certo non
ce la faremo prendere neanche quando, potrebbe
obiettare il nostro Vermijon, è palese, suvvia, che ogni
testo che metta in mezzo gli ebrei, oggi, rimanda
irrimediabilmente alla questione israeliana. E chissà
che colui che – calcherebbe la mano Vermijon – dopo
essersi inspiegabilmente sorbito il pappone sciapo di
300 pagine che colora tutti i personaggi di una scialba
luce di simpatia, sempre meno nebbiosa invero man
mano che ci si avvicina verso la fine delle medesime
300 pagine, non si identifichi alla fine in questo o in
quel campione di furfanteria, di perversione, di
sciatteria morale e compagnia cantante (ecco lo
specchio riflettente per il borghese piccino! –
gongolerebbe Vermijon), e chissà che tale avido lettore
piperniano non diventi, dopo tutto, molto più
indulgente nei confronti delle brutture che ci vengono
riferite, come acqua calda, provenire da certa parte del
mondo; chissà che certe questioni non vengano
liquidate con un bel sospiro di sollievo, pensando che in
fondo gli ebrei son simpatici, di natura, e hanno
ragione da vendere a fare quel che fanno.
Noi, che non siamo Vermijon, ci si accontenta d’aver
messo il dito goloso nel vasetto di marmellata rimasto
finora inviolabile e inviolato, pur essendo invitante e
gratuitamente disponibile.
1) Un capitolo de “Il lamento di Portnoy” (uno dei numerosi romanzi
di Roth che ha sostanziato questo filone letterario, guarda caso
anch’esso fornito di un noioso impianto monologante) si intitola,
senza possibilità di equivoci, “Seghe”; è incentrato sul protagonistanarratore Alex e sulle sue convulsioni masturbatorie sollecitate
dall’odore delle mutande della zia. Il Piperno ne esce, dopo non troppo
attenta lettura, quasi come plagiatore.
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LA DISOCCUPAZIONE
IN PILLOLE
Un uomo che desidera lavorare, ma non riesce a trovare
un’occupazione, è forse la visione più triste che la sorte
esibisce sotto il sole.
(Thomas Carlyle)
Per analizzare il fenomeno “disoccupazione” è
necessario partire dalla triste, ma non tanto,
constatazione che un certo tasso di disoccupazione è
non solo ineliminabile ma anche necessario al
benessere di una economia nazionale.
La questione è lapalissiana: nell’economia in cui
viviamo vi sono settori in continua espansione ed altri
che, di contro, si contraggono. Un certo tasso di
lavoratori che definiamo disoccupati, ma sarebbe più
corretto definirli in attesa di occupazione, permettono
proprio a tali settori in espansione di avere una vera e
propria riserva di manodopera senza la quale la loro
espansione non sarebbe possibile. Tale tasso di
lavoratori viene detto “disoccupazione naturale” a cui,
peraltro, l’economia tende nel lungo periodo.
Partendo da tale principio analizziamo ora la
disoccupazione come la somma di due tipologie. Il
primo tipo di disoccupazione con cui è necessario fare
i conti è quella di tipo frizionale. Essa è dovuta a delle
frizioni nel mercato del lavoro e proprio a quei settori
di cui parlavamo prima che si contraggono ed
espandono come polmoni dell’economia. Quando un
settore si espande ed uno si contrae non è per niente
certo che esso avvenga nella stessa misura; questo
purtroppo causa disoccupazione.
La disoccupazione di tipo frizionale è aggravata dai,
purtroppo amati, “sussidi di disoccupazione” che, nel
nostro Paese, sono particolarmente generosi.
I lavoratori disoccupati sono meno invogliati a cercare
lavoro finché parte delle loro necessità è garantita dal
sussidio e da qualche lavoro occasionale o “in nero” ed
in secondo luogo il salario a cui le imprese saranno
costrette a retribuire i lavoratori diverrà più alto di
quanto dovrebbe essere in un regime di sussidi
normale.
Un lavoratore pretende dall’impresa una notevole
quantità di denaro in più rispetto a quello garantitogli
dal sussidio e l’impresa è, dal canto suo, costretta ad
aumentargli il salario altrimenti il lavoratore potrebbe
ritenere molto più conveniente licenziarsi in modo da
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Società
di Enrico Gavassino
(Celto)
poter godere del sussidio. Il risultato è che molte
imprese sono costrette, per pagare stipendi più alti, a
licenziare lavoratori.
La seconda tipologia di disoccupazione, non certo
meno insidiosa, è quella strutturale. Essa è causata
dalla rigidità dei salari che, a sua volta, vede la propria
origine innanzitutto nell’eccesso di sindacato ossia
nell’eccessivo potere dei sindacati all’interno della
nostra economia.
I sindacati contrattano con le imprese per ottenere,
come sappiamo, salari più alti possibile e
normalmente, anche se meno delle loro pretese, il
salario aumenta.
Come notato nel caso dei sussidi, aumentando il salario
le imprese sono costrette a licenziare. Vi è poi un vero
e proprio trucco machiavellico a cui ricorrono i
sindacati in modo da ottenere salari più alti. In
preparazione alla concertazione nazionale, il sindacato
normalmente calcola il salario che ha intenzione di
chiedere tenendo conto unicamente del tasso di
disoccupazione del nord, notevolmente più basso di
quello del sud, giungendo quindi a chiedere salari
particolarmente alti che non tutte le imprese, sia del
nord che, soprattutto, del sud sono in grado di
garantire. Il risultato, di nuovo, è il licenziamento di
molti lavoratori in modo da garantire alti salari a
pochi; licenziamento che si sarebbe potuto evitare
esprimendo una politica sindacale più razionale.
Vi è poi un altro sistema di tutela sociale eccessivo per
una economia in crescita: il salario minimo. Esiste un
salario detto “di equilibrio” in cui vi è una perfetta
identità tra la domanda e l’offerta di lavoro: con tale
salario tutti coloro che vogliono lavoro lo hanno e chi
vuole assumere trova immediatamente i propri
lavoratori.
Il salario minimo imposto per legge, tuttavia, è più
alto del salario di equilibrio, il che crea uno squilibrio
tra domanda ed offerta.
Tra gli altri indiziati vi è poi il cosiddetto sistema dei
salari incentivanti: al fine di evitare che i lavoratori
lavorino male e, magari, cerchino un altro lavoro
meglio retribuito (labour turnover), le imprese pagano
salari il più generosi possibile in modo da inserire un
costo virtuale che i lavoratori subirebbero se
lavorassero male (difatti verrebbero licenziati e
perderebbero l’alto salario!) o al fine di evitare che il
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lavoratore cerchi una paga migliore; in tempi di lavoro
qualificato ed altamente qualificato è bene per le
imprese tenersi stretti i propri lavoratori.
Come detto in precedenza i salari alti portano le
imprese a dover licenziare in modo da avere il denaro
per pagare le persone a cui hanno aumentato il salario.
Normalmente, e in maniera anche sciocca a mio
avviso, il licenziamento avviene sulla base del criterio
dell’esperienza: normalmente i giovani, quindi “meno
esperti”, vengono licenziati. Non ho usato il termine
sciocco a caso: è evidente che, malgrado la sua
esperienza lavorativa sia minore rispetto ad altri
lavoratori anziani, sarebbe molto più intelligente
confrontare il curriculum; normalmente il giovane ha
effettuato studi specifici e possiede capacità che il
lavoratore anziano non possiede.
Non si deve pensare poi che la disoccupazione abbia
dei riflessi solo sulle nostre tasche e sui nostri
frigoriferi. In periodo di forte disoccupazione
normalmente i tassi di interesse aumentano
fortemente per cui gli investimenti diminuiscono
(questo invero causa stagnazione poiché meno
investimenti normalmente significa anche meno
assunzioni che aggravano la situazione di
disoccupazione già creata).
Ultima, ma non ultima vittima, è il PIL: il paese è più
povero e, stando così le cose e dovendo essere il nostro
rapporto deficit/PIL al massimo al 3%, l’Unione
Europea ce la farà pagare e anche cara!
Se i nostri governanti volessero renderci davvero felici
dovrebbero fare i conti con questi problemi contando
che siamo “una Repubblica fondata sul lavoro”.
Basta poco per essere felici! Lo ammette anche la
Euro-Baromoter Survey Series: una famosa ricerca
statistica effettuata tra il 1975 e il 1990 in numerosi
paesi d’Europa che ha fatto emergere il dato per cui
nei paesi con minore disoccupazione ed inflazione i
cittadini, interrogati sulla propria soddisfazione
personale, si dichiaravano particolarmente felici. Ma
capisco benissimo che salari minimi più bassi e cedere
di meno alle pretese sindacali siano provvedimenti
poco popolari e per il meccanismo del voto è meglio
lasciare la gente a spasso piuttosto che avere il
coraggio di mettere in atto certi provvedimenti.
Enrico Gavassino / La disoccupazione in pillole
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