Scheda filmica - IISS Pietro Sette

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Scheda filmica - IISS Pietro Sette
La scheda filmica e didattica è a cura di Giancarlo Visitilli. Ogni diritto è riservato
UNA STORIA SEMPLICE (Italia, 1991)
Regia: Emidio Greco
Interpreti: Gian Maria Volonté, Massimo Dapporto, Ennio Fantastichini, Ricky Tognazzi,
Massimo Ghini
Genere: giallo, socio-politico
Durata: 94’
Sinossi
Dopo il ritrovamento di un cadavere con accanto un foglio con una frase, “Ho trovato.”, tutti
pensano ad un suicidio. Ma la successiva esecuzione di due omicidi e i dubbi del carabiniere,
intervenuto dopo il fatto, fanno virare le indagini verso tutt’altra strada...
DENTRO IL FILM
Meditando sulla giustizia
L’ultimo racconto di Leonardo Sciascia, pubblicato pochi giorni prima che morisse, è una storia
siciliana che del giallo possiede tutte le principali caratteristiche: dall’apparente suicidio, seguito da
un duplice delitto, all’inchiesta, con tanto di indiziato innocente e due colpevoli al di sopra di ogni
sospetto. Si tratta, piuttosto, di una reale e disperata “meditazione sulla giustizia”, di grandissima
attualità.
Il regista, Emidio Greco, ha sceneggiato il romanzo, quasi fedelmente, cominciando il suo racconto,
proprio dall’arrivo, la sera della vigilia di S. Giuseppe, dell’anziano diplomatico, Giorgio Roccella,
a Monte Rosso, suo paese siciliano, da cui era assente da molti anni. Questi chiama la polizia perché,
nella propria villa isolata, ha scoperto qualcosa di strano. Il brigadiere che gli risponde, per sua
volontà, andrebbe subito sul luogo, ma il commissario gli dice di aspettare l’indomani, perché la
telefonata potrebbe essere uno scherzo e di non cercare lui comunque.
Il mattino seguente, il brigadiere e un agente trovano, nella villa, il cadavere del proprietario, ucciso.
Una pistola in terra, accanto al corpo, adagiato sulla scrivania, col braccio appoggiato su di un
foglio, su cui c’é scritto: “Ho trovato.”.
Intorno alla villa, ci sono molti magazzini, ma tutti sprangati con lucchetti nuovissimi. Giungono il
questore, il colonnello dei carabinieri e il commissario, e la prima ipotesi è, a detta del commissario,
di “un semplice suicidio”. Il brigadiere, invece, è certo che deve trattarsi di omicidio, e lo stesso
pensa il professor Franzò, vecchio amico del morto, che depone di aver ricevuto una visita dal
Roccella, appena giunto in paese, e più tardi una sua telefonata allarmata, in cui comunicava di aver
trovato installato nella villa il telefono, a sua insaputa, e di aver rinvenuto un certo quadro di valore,
da tempo sparito. Però, essendo in dialisi, Franzò non ha potuto raggiungere subito l'amico, nel
frattempo morto.
Il giorno dopo, un treno è fermo nella campagna. Il capotreno chiede ad un rappresentante di
medicinali, di passaggio da lì, di andare ad avvertire il capostazione della stazione di Monterosso. In
realtà, dopo un po’ di tempo, sarà lo stesso capotreno ad andare personalmente a piedi alla stazione,
dove troverà il capostazione e il manovale ammazzati. Intanto, è giunto anche il procuratore della
Repubblica, ex alunno del professor Franzò, che questi ha sempre giudicato un inetto. Il
rappresentante di medicinali va poi a deporre che egli ha portato il messaggio a colui che ha creduto
il capostazione, ma ha anche visto due uomini che arrotolavano la tela di un quadro. A questo punto
il commissario, durante un sopralluogo alla villa, dove ha appena dichiarato di non essere mai stato,
trova, invece, subito un interruttore nascosto. Perciò la mattina dopo spara per uccidere il brigadiere,
che però si salva e uccide il superiore.
Le autorità decidono di archiviare come incidente la morte del commissario. Ormai tutto è chiaro. Il
commissario, evidentemente implicato in attività criminali, aveva ucciso Roccella, presentandosi
alla villa in qualità di poliziotto; la merce preziosa, che vi veniva conservata, era stata trasportata di
notte alla stazione ferroviaria, dove c’erano i complici, poi uccisi anche loro. Il rappresentante non
aveva visto i due cadaveri in terra.
Quando questi sta per ripartirsene e andarsene definitivamente dal paese, riconosce, attraverso il
volto di un prete della zona, padre Cricco, quello stesso uomo che egli ha creduto il capostazione.
Sulla scia del grande successo di Gianni Amelio (Porte Aperte, 1990), Emidio Greco ripropone la
collaudata coppia Volontè-Fantastichini, arricchendola con comprimari come Massimo Dapporto,
Massimo Ghini, Macha Meril e un giovanissimo Ricky Tognazzi (e breve apparizione del fratello
Gianmarco). Ci sono scene in cui giganteggia Volontè: da quelle iniziali, sul traghetto, immerso
nella nebbia (“Forse non c’è più (la Sicilia”), alla sua agitazione in macchina, quando afferma, per
mezzo di una straordinaria frase (“l’ultima speranza è morire. A una certa età, morire è l'ultima
speranza”) le sue perplessità, il più delle volte sottaciute e dette mediante i lunghi silenzi ‘che
parlano’ (tipico nella recitazione di molti film di Volonté), gli sguardi, il semplice movimento del
sopracciglio, un breve cenno del capo chino, ecc.
Greco non forza la narrazione, rispetto al romanzo di Sciascia, relegando, ad una sola scena, il
potere metaforico dell’immagine: il treno fermo, nel mezzo della campagna siciliana, in attesa di un
semaforo verde che non arriverà mai. Immagine di un Paese fermo, arreso alla propria violenza,
nelle beghe della corruzione, comprese quelle delle più importanti istituzioni: lo Stato e la Chiesa.
Nel finale del film e del romanzo, appare il pessimismo esasperato di Sciascia, in rapporto alla
corruzione tra mafia e potere, che raggiunge il culmine nel doppio finale, in cui si è costretti ad
ammettere che, non solo la verità è impossibile dimostrarla, ma è soprattutto pericolosa da
testimoniare. Solo così, ci si convince dell’inversione di marcia, nel finale, e la fuga verso il
“Continente” da parte del rappresentante.
Il pessimismo semplice
Molti critici, riconoscono, nell’ultima fase della produzione di Leonardo Sciascia, un periodo
“malinconico e fortemente pessimista”. Non sarà un caso che, questa storia, raccontata anche dal
regista Emidio Greco, sia tutta improntata ad un cupo pessimismo, che lascia pochi spazi alla
speranza. Il film è asciutto, sobrio, nella sceneggiatura*, realizzato in una Sicilia assolutamente
lontana dagli stereotipi turistici e folcloristici. Le stesse battute fra i protagonisti sono di
un’essenzialità invidiabile ad uno scrittore che, durante la sua produzione, ha dimostrato di
conoscere bene, fin nel profondo, l’animo italiano, quello del cittadino e del cattivo cittadino, i suoi
costumi e la sua cultura, finanche la sua ricca lingua, anche se ammette: “L'italiano non è l'italiano.
È il ragionare”.
Sin dalle prime sequenze* del film, ci si imbatte in un paese che ‘brucia’… Eppure, un anziano
signore ammette “Niente, non succede niente. Bruciano i vecchi mobili, speriamo non diano fuoco
anche a noi”. Si tratta di scene e battute emblematiche, per raccontare un Paese più vasto, che
evidentemente è l’Italia di allora e, ahinoi, rimane, per molte cose, soprattutto in rapporto alla
corruzione, lo stesso di oggi, in cui “si fa una fatica a descrivere quello che si vede” come afferma
un agente della polizia, chiamato ad iniziare l’indagine.
A tal proposito, sono molto interessanti l’uso e i movimenti della macchina da presa*, che riesce a
compiere un’indagine, essa stessa, minuziosa: la camera segue tutto in modo preciso, da terra, dov’è
una pistola, fino al braccio che, “se si tratta di omicidio, la mano doveva essere penzoloni e non sul
tavolo”, mentre vediamo che segue il corpo della vittima, fino alla cima del braccio, posato sul
tavolo. Riusciamo a leggere, anche in modo dettagliato, la scritta sul foglio (“Ho trovato.”), e a
vedere, insieme, una serie di oggetti, perché “tutto serve per ricostruire la personalità del morto”.
Non si tratta, quindi, proprio di “una storia semplice”, come vuol dichiarare e far credere il capitano:
“E’ un caso semplice: suicidio”. Invece è vero quel che sospetta, sin dal primo momento, e dando
fastidio al capitano, il brigadiere: “C’é scritto ‘Ho trovato’ e il punto. Ecco perché non è una storia
semplice”.
E’ sul non detto, su ciò che “c’è dentro, fra le righe”, che appare il sospetto. Nella storia c’è
“l’odore dell’omicidio” di cui si parla, non è un caso che, ironicamente, mentre si indaga, spesso,
fra i poliziotti si utilizzi il nome “romanzo”. Appunto, già nello scritto di Sciascia questo poteva
essere un vero e proprio meta-linguismo: l’utilizzazione del nome romanzo, in rapporto alle
intricate vicende che lo scrittore stesso cerca di districare, attraverso i suoi personaggi. Si afferma,
addirittura che potrebbe trattarsi di un qualcosa che assomiglia al romanzo pirandelliano, “Il
poliziotto che dà la caccia a se stesso (Pirandello)”.
Fra gli accorgimenti più interessanti, tuttavia, rispetto alla versione cinematografica, rimangono i
giochi di sguardi, alcuni falsi movimenti, il sotteso, il pensato e non pronunciato, che acuiscono la
suspense, fino al finale, che arriva, a sorpresa, come la pioggia, che ‘bagnando’, lascia tutti
impietriti, perché l’effetto del finale del film è, appunto: “chi lo avrebbe mai pensato?!”.
Il regista
Curiosità
 Grolla D'Oro come Miglior attore a Volontè, R. Tognazzi, Dapporto e Ghini;
 Nastro d'argento 1992 per la Sceneggiatura;
 Globo d'oro della stampa estera 1992 per la Sceneggiatura e la Musica;
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Il film è dedicato a Gianluca Favilla, scomparso in quell'anno, poco dopo il termine delle
riprese;
Per Volonté questo fu l’ultimo film italiano interpretato
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