UN ULTIMO BREVE ROMANZO AUTOBIOGRAFICO di
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UN ULTIMO BREVE ROMANZO AUTOBIOGRAFICO di
UN ULTIMO BREVE ROMANZO AUTOBIOGRAFICO di Efrem Kowalski Stanotte ho deciso di togliermi la vita, ma ricordo che la scorsa estate ci fu un giorno – per la verità soltanto una manciata di minuti, forse un'ora – in cui mi sentii felice. È da quegli istanti di pura gioia che voglio iniziare a raccontarvi la mia storia. Klaus parte, in due minuti siamo alla spiaggia. Non c'è molta gente alle dieci. Ci spogliamo: loro fino a rimanere in costume a fiori, io in mutande bianche. Loro muscolosi e tozzi, io magro e alto. Loro con pettorali sporgenti e spalle larghe, io con costole sporgenti e spalle curve. Ci buttiamo in acqua. Non ho una buona tecnica, ma il fisico regge, riesco a seguirli. In Lettonia non sono mai andato in piscina, i miei non mi ci hanno portato. Nuotavo nei fiumi e nei laghi durante la bella stagione. Quando sono esausto mi fermo. Lucas e Klaus non se ne accorgono. Riprendo a nuotare con vigore, fino a raggiungerli. Li supero a fatica, mi fermo davanti a loro. Smettono di nuotare. Guardiamo verso riva, siamo lontani. Le persone sono piccole. Come gli scarafaggi del mio appartamento di Riga, dico loro. Non mi sentono, hanno gli occhi sulla spiaggia. Mi accorgo che siamo al centro del lago. È la prima volta che nuoto tanto, dico quando mi guardano. Mi fanno i complimenti. Lucas mi chiede di provare ancora. Nuoto per un tratto di una decina di metri. Così fai doppia fatica, dice. Devi spingere più con gambe. Rilassa braccia spalle, spingi gambe. Dai, vai! Riprovo seguendo il consiglio. Non è facile, ma credo di aver capito. Mi rilasso stando a mollo come un morto per alcuni istanti, poi li sfido a chi torna prima a riva. Li lascio precedermi. Accelero battendo forte i piedi sulla superficie dell'acqua. Li supero e mi dirigo verso riva senza girarmi. Nuoto a tutta. Mentre nuoto penso, penso alla mia vita, senza giudicarla: non ne sono in grado. Rivedo nell'acqua torbida del lago il primo giorno in Austria, la paura, l'eccitazione, lo smarrimento, rivedo i primi turni in fabbrica, le gelide levatacce invernali, la solitudine della sera; poi penso ai libri che ho letto, alle righe che ho scritto, capisco che non è stato inutile; infine rivedo i miei nella nostra catapecchia, felici e sorridenti. Alzo la testa, mi giro. Lucas è un paio di metri dietro a me, Klaus una cinquantina, si è arreso. Rallento e mi faccio affiancare da Lucas. Mi guarda paonazzo mentre prende un respiro. Fingo di essere stravolto e rallento ancora. Lucas mi supera fino a toccare la sabbia con i piedi, comincia a correre e si getta sulla spiaggia. Una manciata di secondi e sono lì anch'io. Lucas grida nel suo strano gergo. È un grido liberatorio, di vittoria; eppure, a causa della malattia, suona orripilante e grottesco. Le madri e i bambini ci guardano, le une preoccupate, gli altri divertiti. Lucas respira a fatica. Continua a gridare. Non si accorge degli altri; se ne frega se l'intera spiaggia lo sta osservando. Lo ammiro, io non ne sono capace. Sono sempre stato timido, e con l'età sto peggiorando. Lucas si alza, abbozza un sorriso. Alza il braccio in segno di vittoria. Gli schiaccio il cinque. Ci sediamo sulla battigia, osserviamo Klaus arrancare fino a riva. Gli spruzzi ci finiscono negli occhi. Diamo il cinque anche a lui, prima di vederlo cadere sul pietrisco della spiaggia. Il sole ci asciuga in pochi minuti. Lasciamo Klaus addormentato sulla sabbia e passeggiamo sul bagnasciuga. È bello camminare quando non servono parole. Guardiamo la natura che ci circonda, il bosco che s'inerpica sulla montagna, i riflessi del sole sull'acqua leggermente ondulata, il cielo azzurro senza scie. Gli altri bagnanti non li vediamo, non li sentiamo, non li respiriamo. La spiaggia è affollata all'inverosimile: non per noi: la nostra spiaggia è deserta. Quello fu uno dei rari momenti felici della mia vita austriaca: tutto ciò che rimane, felice non è: proprio per questo ve lo voglio raccontare. Parte prima 23 dicembre 1998 Tra due giorni è il mio compleanno. Amo l'inverno. Mi ricorda il paese dove sono nato. A Natale compirò trentadue anni. Lavoro in fabbrica, alla periferia nord della città. Ogni mattina mi sveglio alle 5,23. Fuori è tutto nero, ma intravedo dalla portafinestra la luce giallo-arancio di un lampione. Chiudo gli occhi maledicendo me e la scelta di venire qui. Mi riaddormento. La sveglia suona di nuovo. Stendo d'istinto le braccia e le gambe più che posso e mi alzo di scatto. Cammino nudo sul pavimento gelido, raccolgo i vestiti color blu officina ammucchiati in un angolo assieme alle nuvole di polvere sempre più grandi ogni settimana che passa. M'infilo in bagno: due minuti e sono pronto. Esco di casa alle 5,41. Cammino nel buio. Il respiro sotto il cono di luce di un lampione solitario si fa fumo pastoso, risucchiato dal vento. Il viso è rivolto agli scarponi neri, rigidi, dalla punta metallica, che calpestano la neve facendola scricchiolare. L'aria è gelida. Mi passa a fianco un cane col muso a terra, il pelo ghiacciato e dritto. Il vento comincia a soffiare cattivo e tagliente, e si insinua negli spifferi della mia vecchia giacca grigia. Stringo i denti. Il freddo e l'oscurità non mi fanno paura: sono cresciuto in Lettonia. La corriera passa puntuale alle 6,10 – anche se è da giorni che nevica senza tregua. In corriera ci siamo io, l'autista, il solito odore acre di sudore evaporato e una manciata di persone silenziose. Nessuno mi rivolge la parola. Non ci sono luci sulla corriera. Quando riesco dormo fino a fine corsa. Altre volte osservo dal vetro – unto dai miei stessi capelli castani – il nero del paesaggio. Oggi no. Oggi scrivo nel buio. Alle 6,35 la corriera arriva in stazione. Mentre l'autista manovra per parcheggiare, osservo i piloni squadrati che dividono i settori di provenienza dei mezzi. Scendo nell'aria ferma. Ingobbito per il freddo me ne vado alla fermata dell'autobus. Aspetto che passi l'11. Sono le 6,52. Tra un minuto l'11 arriverà e io salirò. Andremo insieme a nord, fuori dalla città. Arriva. Salgo. Come ogni mattina mi sorprende la mancanza di un odore caratteristico, mi siedo, schiaccio la faccia contro il vetro di ghiaccio. É ancora buio. Mi addormento. Anche sull'autobus nessuno mi rivolge la parola. Alla prima fermata mi sveglio. Vedo salire un paio di colleghi, stranieri e con gli abiti sudati del giorno prima, esattamente come me. Nemmeno mi salutano. Tengo la faccia schiacciata al vetro e dormo fino all'alba. Estraggo dalla giacca un libro, leggo. A volte annoto su un foglietto i pensieri, gli stati d'animo, le mie stupide idee. Ho una laurea in Letteratura Russa e lavoro otto ore al giorno in una fabbrica austriaca che produce stampati di lamiera per la costruzione di impianti di refrigeramento per automobili. JESUS' BLOG – 31 DICEMBRE 1998 - non pubblicato Ogni mattina immobile su una sedia di plastica grigia, davanti a questo schermo 16:9 a digitare cose di poco conto, leggere e rileggere notizie falsate, lamentarmi eccetera eccetera. Dopo, la musica non cambia: traffico, casa, cambio d'abito, mezz'ora di corsa, doccia, cena per due cuori solitari, film sul divano e, per finire, un paio di pagine del romanzo di turno. Sono stufo. Mi domando se ha ancora senso vivere in quest'Austria di fine millennio, in quest'Europa che tenta invano di saldare le sue stanche membra come un vecchio meccanico fallito. Dicono che il mondo tra un anno andrà in pezzi, oppure imploderà inghiottendo dentro sé l'umanità intera – fosse vero almeno avrei qualcosa da ricordare per l'eternità. Non ce la faccio più a nuotare nel buio, in quest'acqua algida e torbida e insipida, in questo brodo fangoso di contemporaneità mutante e sempre uguale. Vorrei scorgere le verità nascoste sotto il velo delle apparenze: vorrei che la melma divenisse acqua trasparente e scorresse come un torrente di montagna: vorrei non fosse tutto così vuoto e buio. Se penso che ho meno di trent'anni e me ne mancano quaranta alla pensione, sento un vomito caldo salirmi dall'esofago. Dicono che fare il giornalista sia il lavoro più bello del mondo: lo pensavo anch'io, invece mi ritrovo rinchiuso in questa gabbia di vetro limpido e cieco, dove respiro a fatica. Mi chiedo se ci sia un modo di scappare che non sia togliersi la vita. Con un pezzo al giorno – compresa la domenica – non ci campi. Con due sopravvivi. Devi scriverne almeno tre per sperare di metter su famiglia. A volte ci riesco, a volte no: e comunque famiglia non fa rima con felicità. Sette e diciassette Scendo. Sono le 7,17. A volte le 7,18. Tra i capannoni grigi vedo il mio, capannone e destino. Mi avvicino lento. Mi accoglie il boato dei motori posti all'esterno dell'edificio. Sempre accesi, alimentano i macchinari interiori. È un rumore assordante, simile al rombo di un elicottero. Mi fermo e faccio un respiro: tengo il fiato e mi perdo a pensare a occhi aperti. Mi sembra di vedere davvero un elicottero. Viene dal cielo con lunghe pale bianche. Viene per portarmi via, a casa, dai miei, dalla mia gente. Non atterra. Lancia una corda dall'alto, mi aggrappo, l'elicottero si alza, rapidissimo, s'inclina in avanti, verso nord-est, sfreccia verso la Lettonia: è là che amici e parenti mi aspettano a braccia aperte, mi accolgono da vincitore, da eroe. Lascio i pensieri volare via, entro in fabbrica. Il boato si fa sordo. Quasi sopportabile. Do uno sguardo rapido in giro: vedo solo macchinari immobili. Non c'è nessuno che lavora. Forse qualche caporeparto alla macchinetta del caffè. C'è puzza di olio e stalla, ma si respira ancora bene. Il turno precedente finisce alle sette del mattino. Nonostante il chiasso dei motori esterni, i macchinari interiori sono spenti. Sembrano spenti da una vita: invece no, riposano. Vado a timbrare il cartellino. Il turno inizia alla mezza. Ho una decina di minuti. Appendo la giacca piena di strappi, prendo il libro, vado in bagno. Quando esco sono tutti lì, zitti e stanchi di vivere. Abbruttiti da alcol e sigarette. Consumati dalla fatica, col cervello spento e l'alito pesante. Incapaci di pensare a come scappare. Accendo il mio macchinario, metto le cuffie, ricomincio. Alla mia sinistra – appoggiata sopra un cartone – c'è una pila di pezzi metallici piatti dello spessore di circa sette millimetri. Sono esattamente duecentotrenta, lo so per esperienza, li conto ogni giorno. Non basteranno nemmeno per la mattinata. Ne piego uno ogni quarantatré secondi, a volte quarantadue, a volte quarantaquattro. È facile. Prendo un pezzo alla volta, lo inserisco nell'apertura della macchina piegatrice, stacco le mani dal pezzo, premo una barra di ferro con lo scarpone destro, la macchina entra in funzione, il pezzo si piega verso l'alto quasi fino alla verticale; quando la macchina ha finito emette un bip, io afferro il pezzo, levo lo scarpone dalla barra, sollevo il pezzo e lo appoggio in un apposito contenitore di plastica posto alla mia destra. Poi ricomincio da capo. Adesso c'è puzza di sudore fresco, e di pneumatico, e di macchinari oliati, e di verde spento e tute blu: il resto odora di grigio. Anche togliendosi le cuffie piene di cerume giallognolo lasciato da quello del turno prima, il rumore non consente di scambiare parole col proprio vicino. Lavoriamo fino alle nove e cinquanta, l'ora della pausa. Suona la sirena. Tutti alzano per la prima volta la testa. La maggior parte di noi, se mai possiamo considerarci un noi, si precipita fuori a fumare. In dieci minuti un operaio medio riesce a fumare due sigarette di fila, qualcuno tre. Chi non fuma si raduna in piccoli gruppi. JESUS' BLOG – 1 APRILE 1999 - non pubblicato È come se fossi in sella a un vecchio Ronzinante triste e stanco. Eccoci lì, ogni giorno, l'uno sull'altro a percorrere questa strada senza uscita – una lingua d'asfalto nero e lucido, appena creato eppure già vecchio – e questa strada non ha fine: scende, scende sempre più, dritta e perfetta nella sua lucida nerezza. Il mio Ronzinante è cieco, ha male agli zoccoli, non si abituerà mai a questo falso manto nero, caldo e odoroso e viscido. Lui un tempo – chissà se ancora se ne ricorda – camminava sul verde dei prati, sulle terra rossa, sulle rocce gentili, sotto un sole amico, nell'aria profumata di fiori e resina. Adesso sopporta a malapena questo mio corpo flaccido e pesante di infiniti tristi pensieri e della mia anima ormai morta. Avrei bisogno di trovare un segnale di svolta lungo la via, oppure cadere rovinosamente e rialzarmi mezzo morto, con la testa bacata, lasciando a terra il povero Ronzinante – come un'inutile appendice – a marcire, finalmente felice per l'eternità. LA SETTIMANA SCORSA La settimana scorsa ho fatto amicizia con due ragazzi sordomuti dai capelli lunghi fino alle spalle. Non capivo perché non portassero le cuffie. All'inizio faticavo a capirli. Li osservavo muovere con difficoltà le labbra secche e la lingua grossa e corta su quei loro visi rudi e simpatici. Nonostante il mio tedesco non sia buono, scandisco le parole lentamente, e loro mi capiscono. Ci facciamo qualche risata. Sono straniero, ma Lucas e Klaus mi vogliono come amico. Non c'è tempo che per poche frasi e la sirena delle dieci suona violenta. Corriamo ai macchinari, cuffie e si ricomincia. In silenzio. Alle dodici c'è la pausa pranzo. Io, Lucas e Klaus, camminiamo rapidi, quasi correndo, fino alla mensa. La pausa dura mezz'ora. Stiamo in coda dieci minuti, a volte quindici. Ci sediamo, mangiamo, torniamo rapidi alla linea. Due o tre minuti e si ricomincia. Odio il pomeriggio. Lavoriamo dalle 12,30 alle 16,10. Senza pause. Alle 14,15 lascio il macchinario acceso e vado in bagno. Mi rinfresco il viso e mi guardo allo specchio. Le ultime due ore sono le più dure, soprattutto la penultima. Il tempo rallenta. Non scorre più. Continuo a buttare gli occhi sull'orologio tondo appeso al muro. Cerco di mettercela tutta nel lavoro. É l'unico modo per farsela passare. Mentre piego lamiere penso alla mia vecchia casa col tetto traballante nel villaggio dove sono cresciuto, ai miei poveri genitori e agli amici – pochi per la verità – rimasti là: mi ricopro di un telo di tristezza. L'ultima ora di lavoro sono giù di morale, soprattutto il lunedì, anche se il lunedì il tempo scorre più veloce. La sirena suona. Spegniamo le macchine, ci spingiamo l'uno contro l'altro per timbrare il cartellino. Ci sfreghiamo coi vestiti sudici liberando nuvole d'invisibile pelle morta. Quando tocca a me, la maggior parte degli operai è già salita in macchina. Esco, estraggo il libro dalla tasca, aspetto l'11 alla fermata. Siamo in tre. Ma è come se fossi solo. D'estate la luce del sole rimbalza sulla pagina bianca, mi abbaglia. Ogni tanto alzo lo sguardo, ammiro le montagne. Ora è inverno. Non si vede lontano. La luce non rimbalza sulla pagina bianca, non abbaglia: è la luce di un lampione, non vera luce. Quando arriva l'11 salgo, mi siedo vicino al finestrino e mi rimetto a leggere. Scendo al capolinea, mi dirigo in biblioteca. I miei vestiti di fabbrica colorano di tristezza le vie del centro. Nessuno mi conosce. In biblioteca – la grande e bella biblioteca della città – do un'occhiata ai quotidiani, massimo dieci dodici minuti. Poi sfoglio con pazienza le riviste di critica letteraria. Sono difficili, il mio tedesco non è ancora di livello letterario. Avrei bisogno di parlare, ma non ho amici: eccetto Lucas e Klaus, che sono sordomuti. Nessuno nomina il mio paese d'origine. Si sente parlare di Russia, Mosca, San Pietroburgo, Leningrado. Mai di Lettonia. Non importa. Sono ospite. Devo essere umile e lavorare sodo. Quando me lo chiedono faccio gli straordinari. La mia paga è di quasi quindici mila scellini austriaci, circa settecento lat. Quando faccio cinquanta ore, arrivo a ventimila scellini. Vado in banca e metto i risparmi sul conto dei miei: ogni mese mando loro novemila scellini, cioè quattrocento lat, che tra qualche anno – se anche in Lettonia arriverà la moneta unica – equivarranno a seicento ECU o euro. Di più non posso risparmiare. I miei genitori sono poveri e malati. Nel mio paese nessuno ci aiuta. Loro non lavorano. Mia madre è troppo grassa. Mio padre è stato licenziato perché, dopo un incidente di lavoro, è diventato paraplegico. Riceve un assegno mensile di quarantuno lat, neanche la ventesima parte del mio stipendio – non capisco come potrà mai esistere una moneta unica in Europa. La mamma cerca lavoro ogni giorno ma, a causa della crisi e della sua obesità, non lo trova. Durante l'università ho lavorato per mantenermi. Ciò che avanzavo lo spedivo a casa. Li aiutavo come potevo. Se sono qui in Austria è per loro. Io amo la Russia. Sì, io, Efrem Kowalski, lettone dalla nascita, cattolico tra i protestanti, amo la Russia. I miei non sarebbero contenti di sentirmelo dire, ma ogni amante della letteratura può capire ciò che intendo – per amante della letteratura intendo chi come me dà la stessa importanza alla realtà e all'immaginazione. È lassù, nel regno di Tolstoj, che sogno di migrare. Non voglio che i miei genitori passino la vecchiaia tra i morsi del freddo e della fame. Con il denaro che mando loro, possono mangiare, comprarsi dei vestiti, cominciare a ristrutturare il tetto della casa e comprare le medicine per mio padre. Lui soffre di forti dolori alla schiena. Ha bisogno di essere visitato da medici specialisti. Quando li chiamo continuiamo a piangere. Mi dicono di tornare. Mi dicono che i soldi che spedisco sono troppi. Non vogliono che soffra per loro. Sanno che sono troppo buono. Ho imparato che la vita è sofferenza. Bisogna soffrire per sopravvivere: è quello che voglio fare. JESUS' BLOG – 11 SETTEMBRE 1999 - non pubblicato Sono nato in Austria, sono cresciuto in una buona famiglia di origini italiane, ho ancora entrambi i genitori e una sorella bionda e piena di amanti, ho studiato all'università, ho scelto di fare il giornalista. A venticinque anni mi sono infatuato di una ragazza bellissima: magra, sorridente e mora di capelli. L'ho conquistata senza sforzo. I miei mi hanno regalato auto e casa, e lei è venuta a stare da me. Ho avuto dalla vita tutto ciò che chiedevo. Eppure non ci sto a credere che sia tutto qui: cosa voglio veramente? Non esiste alternativa. Sono io a essere vuoto, triste, codardo. D'ora in poi mi spoglio, e mi lascio trasportare nudo dall'inutile fiume – lento e tremante – della vita di fine millennio. DOPO IL TRAMONTO Sono le sei. Prendo un paio di libri in prestito ed esco dalla biblioteca. Mi dirigo alla stazione. Il sole se n'è già andato dietro i palazzi di cemento della città. I lampioni sono tutti accesi. Salgo sull'ultima corriera, mi siedo e leggo. Quando scendo è buio e freddo. M'incammino verso casa con le spalle ricurve e il viso rivolto a terra, sugli scarponi scuri. Ascolto la neve che scrocchia sotto i miei passi pesanti. Il respiro sotto i lampioni si fa nebbia, l'aria gelida si colora di arancio. Mi passa a fianco un cane col muso a terra e il pelo bianco e dritto per il ghiaccio. Dormo in un appartamento vecchio e umido. Io l'ho reso sporco. Pago quattromila scellini. Era il prezzo più basso. In Austria non esistono affittanze nere. Mi cambio, indosso le mie vecchie scarpe e, senza fermarmi a pensare a quanto sono stanco, esco a fare una corsa nei boschi innevati. Quando corro mi sembra di essere tornato nelle foreste dove sono cresciuto. Poi alzo lo sguardo e capisco di non essere a casa: le montagne qui sono altissime e poetiche: fanno paura. Amo correre in solitudine su questi sentieri perfetti di neve bianca. Su e giù e su e giù e su e giù: un lento massaggio che mi aiuta a dimenticare le fatiche della giornata. Rientro e faccio un bagno tiepido, leggendo. Metto il pigiama, mangio. Apro una lattina di legumi, divoro il panino che ho preso in mensa. Non ho la televisione. Non ho un computer. Alle dieci mi metto a letto, sotto le coperte: scrivo fino ad addormentarmi. JESUS' BLOG – 31 DICEMBRE 1999 Benvenuti, questo è il primo post che avete l'onore di leggere. Lo sto scrivendo in un istante molto particolare, un istante a cavallo tra il vecchio e il nuovo: tra un minuto infatti entreremo nel terzo millennio: due mila anni esatti – così dicono – dalla nascita di Cristo. Non credo in nessun Dio, eppure sento che le cose cambieranno: millennio nuovo, vita nuova. Basterebbe che le regole della fisica facessero un'eccezione e il mio sogno si avvererebbe e alzando gli occhi al cielo stellato riuscirei a intravedere tra una stella e l'altra un uomo luminoso planare magicamente sulla terra, il nuovo messia, una creatura capace di miracoli. I miei occhi sono sazi di normalità, vogliono vedere cose nuove, cose impossibili: un nuovo colore, una nuova forma. Le mie orecchie pregano per sentire un rumore nuovo, una melodia inaudita, una nuova scala musicale. Il mio naso agogna odori nuovi, profumi magici, puzze extraterrestri. La mia bocca smania per assaggiare un gusto originale. La mia pelle anela un brivido nuovo, totalizzante. E la vostra pelle? La vostra bocca? Il vostro naso? Le vostre orecchie? I vostri occhi? Non desiderano forse le stesse cose? Abbiamo bisogno di un piccolo principe che sbarchi in terra austriaca con la sua astronave e risvegli dal torpore la nostra piccola umanità. Me ne accorgo solo ora: mezzanotte è passata da tre minuti, e non è cambiato nulla. SABATO MATTINA Il sabato mattina, quando non lavoro, indosso le mie vecchie scarpe da ginnastica e corro. Non importa se piove o nevica, se fa freddo o fa caldo: corro e basta. Visito i paesi limitrofi. Balzo dopo balzo macino chilometri su chilometri. A zero gradi dopo tre chilometri inizio ad avere caldo, dopo cinque sudo, dopo sette le gocce scivolano sulla fronte, dopo dieci sgocciolano dal mento. Non sento fatica. La fatica è un'altra cosa. La fatica è quella che mi uccide ogni giorno dentro la fabbrica. La corsa è sofferenza e libertà, e io amo soffrire e essere libero percorrendo salite ripide e lunghe, salite che non finiscono mai, e intanto osservo lo scheletro degli alberi attorno: abeti rossi e bianchi, pini, larici e castagni nei boschi, e ciliegi, peri, immense distese di mele e viti da vino, in aperta campagna. Ho imparato a riconoscerli nonostante sia inverno e molti di loro non siano che sparuti rami sostenuti da un tronco immobile. Corro senza fermarmi, senza un obbiettivo, svoltando all'ultimo, seguendo l'istinto, cercando di evitare asfalto e cemento. Quando entro in un centro abitato, cerco la biblioteca. Il sabato sono chiuse. Mi piacciono le biblioteche, anche da fuori, anche quando sono brutte. Poi cerco una libreria e se la trovo entro. Sono sudato, la gente non lo nota. Forse non mi nota. Sfoglio libri profumati di carta fino alla chiusura. Non compro. Esco che è mezzogiorno e sento le campane suonare. Estraggo dalla tasca il secondo panino della mensa del venerdì – il venerdì ne prendo sempre due. Bevo da una fontana. Passeggio sotto il sole, aiuta la digestione. Alle tre ricomincio a correre fino a casa. Il sabato sera lo passo a scrivere stanco e soddisfatto riflettendo su quanto sia diversa una giornata in fabbrica da una trascorsa in mezzo ai libri e alla natura. Ogni due sabati, faccio una pausa dalle mie lunghe sedute di scrittura per telefonare ai miei genitori – la tariffa notturna è meno dispendiosa. Due volte ho sentito un compagno di università di Riga. Si parla del più e del meno. Dice che verrà a trovarmi. Non è venuto nessuno. Aspetto. Va bene così. In solitudine. Sto scrivendo un romanzo in tedesco. Io, emigrato in Austria per guadagnare denaro sufficiente affinché i miei genitori possano curarsi e sopravvivere, io, con una laurea di cui a nessuno importa, io, lettone, io, che non parlo bene tedesco, io, che non posso aspirare che a un posto interinale in fabbrica: sì, io – proprio io – sto scrivendo un romanzo in tedesco. In solitudine. Va bene così. Riesco a mettere via abbastanza denaro per le medicine di mio padre. Non è la vita che sognavo da bambino, ma va bene così. Corro, leggo e scrivo. Nessuno me lo impedisce. Quindi va bene, per ora va bene così, in solitudine. Non ho bisogno di amici. Sfrutto il tempo a mia disposizione. Devo esercitarmi. Solo così posso imparare, diventare uno scrittore vero. Scrivo tutta la domenica. La corsa nei boschi mi aiuta a scrivere meglio, a sfogarmi. Ne ho bisogno. Senza finirei con l'ammazzare qualcuno, forse me stesso. Corro ogni giorno, più di un'ora. Il sabato più di sei. Ho visitato cittadine, centri di borgata e piccoli villaggi, di corsa. Sono stato in cima alle montagne, fino a tremila e cento metri di altitudine, di corsa. Prima o poi dovrò comprarmi un paio di scarpe, queste hanno la suola consumata. A casa mangio insalata verde e pane integrale che prendo in mensa. L'insalata la nascondo nel pane, il pane in tasca. Un vicino brizzolato dall'aria intelligente mi ha regalato sei lattine di legumi. Grazie. Abbi cura di te. Grazie di cuore, signore. Cerca di sorridere ogni tanto. Io annuisco e muovo le labbra per proferire un altro grazie, ma lui non me ne dà il tempo. Non ringraziarmi, ragazzo. Prenditi cura di te, mangia di più o finirai male... Trovati una ragazza... La vita è già abbastanza triste... Non l'ho più visto. Ogni tanto apro una delle sue scatole, quando non resisto ai morsi della fame. Non vado in negozio. L'unico posto in cui vado, oltre alla fabbrica e ad alcune librerie dove non ho mai comprato nulla, è la biblioteca. Sono stato in tredici biblioteche. Comprese quelle viste da fuori i sabato mattina, fanno ventuno. Da quando sono in Austria ho letto settantacinque libri. Diciannove manuali di scrittura creativa e cinquantasei romanzi. È così che ho imparato il tedesco. Sono felice per i miei genitori. Sanno che sono troppo buono. Sono arrivato a settembre, tra due giorni è Natale, e a Natale compirò trentadue anni. JESUS' BLOG – 2 GENNAIO 2000 È arrivato, il segno che aspettavo è arrivato. Sto per pubblicare un estratto dall'edizione odierna di StadtNews. Mi tremano le gambe da stamattina. Spero non sia la solita bufala mediatica. Se non dovesse esserlo, siamo davanti a un fatto straordinario. Poco chiare le dinamiche dell'accaduto. RAGAZZO CROCIFISSO IN ALTA MONTAGNA Un escursionista trova il corpo nudo di uno straniero. Comune di Nachbardorf - Trovato il corpo di un escursionista lettone vittima, probabilmente, di un terribile gesto suicida. Il recupero è stato reso difficoltoso dal vento fortissimo e dalla neve alta. La Forestale ha dovuto attendere più di un'ora prima di poter atterrare con l'elicottero del soccorso e poter così intervenire. La vittima aveva circa trent'anni. Il corpo nudo dell'escursionista e' stato trovato legato a un pino. Per ora non si conoscono altri dettagli sulla vicenda. Ad avvertire i soccorsi una famiglia che stava effettuando un'escursione presso il bivacco Göttlichkeit. Secondo indiscrezioni ufficiose, quanto ricostruito dalla polizia porterebbe a ipotizzare che lo straniero soffriva da tempo di antropofobia. Nemo Riporto anche uno stralcio delle dichiarazioni rilasciate a una radio locale del padre di famiglia che per primo ha scorto il ragazzo. . "Presumibilmente durante la giornata di Natale, il giovane si era allontanato dalla sua abitazione in Sklave-Stadt per raggiungere il rifugio-bivacco Brauner Bär. Il giorno seguente, o i successivi, impossibile accertarlo, il ragazzo ha proseguito verso est. Dopo circa sei ore di cammino ha raggiunto il bivacco Göttlichkeit: da quest'ultimo il giovane non si è più allontanato." "..." "Non ci sono segreti nelle nostre montagne: tutti sanno tutto di tutti." "..." "Gli ultimi ad averlo visto sono stati in teoria due fratelli del paese di Zitadelle, che lo avevano raggiunto al rifugio Brauner Bär su richiesta della nonna, la quale afferma di avere ospitato il giovane nella propria abitazione il giorno di Natale." E questo è solo l'inizio. Indagherò e pubblicherò al più presto su questo blog gli sviluppi della vicenda. NATALE 1998 Mi alzo, faccio colazione, mi vesto, vado a correre. La neve copre le strade, le case, gli alberi, le montagne. Le mie scarpe hanno i buchi. Affondo i piedi nel bianco della neve, corro senza fermarmi. Quando la salita è ripida e non ce la faccio perché scivolo, mi fermo. Mi giro a guardare il paese dove ora vivo. È immobile e bianco, un bianco scuro. Tranne un paio di automobili, gente felice che va a pranzare dai propri genitori. Tranne le lucette di natale sparse ovunque, accese anche di giorno, a ricordarmi che dovrei essere felice anch'io. Piango. È il primo Natale che passo da solo. La famiglia è lontana, così gli amici. Mi faccio forza, non ci penso. L'effetto è contrario. Lucas mi ha invitato a passare il Natale da lui con suo fratello Klaus e i loro genitori. Ho detto no. Come se questa solitudine fosse una sfida. Superato un Natale in solitudine, nulla può potrà spaventarmi. È dura. Smetto di pensare. Riprendo a correre verso valle. I piedi congelati. Non mi resta che comprare un paio di scarpe da ginnastica nuove, il mio regalo di Natale postumo. Vorrei farmele spedire dalla Lettonia, dove costano molto meno. Per strada non incontro nessuno, solo milioni di fiocchi di neve tutti uguali, tutti diversi. A casa accendo il boiler dell'acqua calda e aspetto di fronte alla stufa a legna. Sono diventato bravo ad aspettare. La legna l'ho presa nei boschi, un po' alla volta, in ottobre. Faggio e abete rosso per lo più. Tagliavo i rami con l'accetta che ho trovato sotto al lavello oppure la spezzavo coi piedi, poi riempivo lo zaino. Tre viaggi al giorno, per quasi un mese. Al buio, per non farmi vedere. Poi ho smesso e ho cominciato a correre. Quando l'acqua è tiepida mi butto nella vasca. Rimango disteso cercando di assorbire il calore. Immobile leggo un libro della biblioteca. Quando l'acqua è fredda, esco, mi asciugo, mi butto sul divano, mi copro con la coperta puzzolente che ho trovato in un armadio. Guardo fuori dalla finestra. Ha ripreso a nevicare. Riprendo a leggere. A mezzogiorno poso il libro e mi alzo. Metto un legno nel fuoco. Nel frigo ci sono tre panini della mensa, due con la verdura infilata dentro. Prendo quello senza, lo scaldo sopra la stufa facendo attenzione a non bruciarlo e lo mangio lentamente, masticandolo più del dovuto. Bevo acqua e ne scaldo un altro con la verdura. L'ultimo lo tengo per cena. Metto altra legna nel fuoco. Lo osservo crepitare accovacciato a terra come un indù. Dicono che aiuti a ricaricare l'energia attraverso il primo chakra. Guardare le braci arancioni e il fuoco giallo e bianco mi aiuta a rilassarmi, a non pensare al resto. Prendo un pezzo di legna da ardere (uno stizzo?). È faggio. Ne osservo le venature, lo avvicino al naso e ne respiro l'odore di bosco, poi lo getto nella stufa e osservo le scintille rimbalzare contro le pareti. Davanti al fuoco c'è luce sufficiente per leggere. È caldo. In casa la temperatura non supera i sedici gradi. Sono abituato al freddo. Non mi dà fastidio. Il freddo è salute. Il freddo è dove sono nato. È giunto il momento. Sono ore che aspetto. Decido che l'attesa è terminata. Prendo la cornetta, compongo il numero. Aspetto. Niente. Non risponde nessuno. Riattacco. Aspetto dieci minuti. Sanno che sono troppo buono. Prendo la cornetta e chiamo. Niente. Spero non sia successo niente. Mi avevano detto che stavano a casa. Devono aver cambiato idea. Forse mio fratello si è deciso a fare pace e invitarli a pranzo. Provo a chiamarlo. Niente. Sono preoccupato. Se fosse successo qualcosa mi avrebbero avvertito. Sanno che sono troppo buono. Sono a casa da quattro ore e il telefono è ancora muto. Riprovo. Riattacco la cornetta. Ho freddo. Mi metto la coperta sulle spalle. Prendo il libro e siedo davanti alla stufa. Non riesco a leggere, le lacrime mi annebbiano la vista. Sanno che sono troppo buono. Alle otto il telefono squilla. È una telefonata a carico del destinatario. Accetto. È mia madre. Dice che sono usciti a pranzo. Dice che grazie al denaro che gli spedisco le cose vanno meglio, e a Natale si sono concessi qualche piccolo lusso. Le faccio gli auguri. Mi passa papà. Papà ringrazia per i sacrifici che sto facendo. Dice che Piotre saluta e ringrazia pure lui. Con il mio denaro ha potuto saldare parte dei suoi debiti. Mio fratello è lì, con loro, preferisce non parlarmi. Papà mi ripassa la mamma. Lei manda baci in continuazione. È felice. Dice che è orgogliosa di me. Dice di tenere duro. Dice che i sacrifici che faccio le rendono la vita più facile. Ringrazia da parte dei parenti: dopo anni di stenti hanno rimesso piede in un ristorante, e tutto grazie ai miei sacrifici. Dice che mi pensano sempre, che sto facendo la cosa giusta, che sono il loro eroe. Poi mi fa gli auguri e mette giù. Nessuno si ricorda che è il mio compleanno. Sanno che sono troppo buono. Nemmeno la mia famiglia sa che oggi compio trentadue anni. Sanno che sono troppo buono. Solo io lo so. Solo io in tutto il mondo. Solo io nell'universo. Poi capisco che è uno scherzo che richiameranno per farmi gli auguri di buon compleanno. Guardo l'orologio, sono le nove. Le lacrime mi inondano il viso. Fuori nevica. Entro nel letto e spengo la luce. Sanno che sono troppo buono. La lontananza cancella la memoria, non è importante che si siano dimenticati di uno stupido compleanno: in verità – a causa della concorrenza col compleanno di Gesù (lui sì che si è sacrificato per il prossimo!) – non l'abbiamo mai veramente festeggiato. Oggi mi sarebbe bastata una frase, due parole, una stupida domanda: “Sei felice?” senza tempo Nessuno mi chiede come mi chiamo. Solo Lucas, Klaus e forse il caporeparto conoscono il mio nome. Durante le ultime notti ho pensato. Ho scelto io di fare questa vita. Non per i miei genitori, l'ho fatto per me. Avevo voglia di vedere il mondo, di vivere un'esperienza diversa, di apprendere una nuova lingua. Scrivo male. Scrivo frasi corte. Scrivo il più possibile al presente perché non so usare bene il passato. Miglioro di giorno in giorno. Ho scelto io di fare questa vita. E ora sono qui. E mi maledico. Mi maledico e non oso pensare di tornare in Lettonia. Neanche morto. Sono cocciuto. Lo sono sempre stato, fin da bambino. Cocciuto di un imbecille!, mi diceva mio fratello maggiore Piotre quando andavamo nei boschi per raccogliere i funghi e lui voleva andare a casa e io insistevo per rimanere; o quando portavo due secchi d'acqua anziché uno, e finivo per cadere a terra; o quando raccontavo a mamma che l'avevo visto fumare. Cocciuto di un imbecille, diceva, se ti prendo ti affogo nel Daugava! Il mio grande sogno è fare lo scrittore. Se mi accorgerò di non essere talentuoso a sufficienza per il mestiere di scrittore, diventerò critico letterario. Leggo libri su libri. Di ognuno scrivo una scheda con un giudizio complessivo sull'opera, uno sullo stile, uno sullo sviluppo della trama, uno sui personaggi principali. Poi scrivo la trama, non più di mezza facciata. Se lo stile è di quelli da non dimenticare, riporto qualche passo: ricopio parola per parola come un amanuense (si dice così, no?). Ho un quaderno grande comprato a Riga. È lì che scrivo le mie schede. Avrei bisogno di un computer. Aspetto di trovarne uno usato. Sono disposto a spendere l'equivalente di cinquanta euro. Ogni venerdì pomeriggio, quando non faccio straordinari fino a tardi, passo al mercatino delle pulci cittadino. Vendono di tutto, dagli abiti ai mobili, dai libri ai computer. Eppure io non compro niente. Non ne ho realmente bisogno. Fingo di essere certo che il mio grande sogno si avvererà. Sognare mi aiuta, mi rende felice. Mi fa sentire un principe nel suo castello. Scrivo, lavoro, corro. Tre parole, posso sintetizzare la mia vita con sole tre parole, tre verbi, tre semplici azioni: scrivere, lavorare, correre. Il resto sono cose di poco conto – a parte respirare e bere acqua. Mangio in mensa in dieci minuti. A cena impiego ancora meno. Dormo poco. Quando mi assale la febbre dell'ispirazione, mi perdo a scrivere fino al mattino e il letto manco lo sfioro. Questa è la mia vita: tre azioni, tre verbi, tre semplici parole. Un'azione creativa, la scrittura. Un'azione obbligata, il lavoro. Un'azione per canalizzare l'energia e trasformarla, la corsa. L'impatto con la fabbrica è stato violento. All'inizio bastavano venti minuti di corsa e tornavo a casa rigenerato. Ogni giorno, dopo il lavoro, uscivo di casa e correvo. Non importavano la pioggia, il ghiaccio, la neve: uscivo e correvo: e la gioia tornava a rimbalzare tra le particelle infinitesimali del mio corpo. Il fine settimana anziché riposarmi, correvo di più. Oggi, dopo due mesi a un ritmo crescente, un'ora non mi basta. Corro finché il fisico regge. La mente non dà segni di cedimento: troppa rabbia da sfogare. Sono determinato. Corro osservando i colori della natura, respirando aria pura e pensando a una cosa: la scrittura. Scrivo nella mente al ritmo dei miei balzi indiavolati. Idee su idee, trame su trame, scalette per romanzi chilometrici, infiniti personaggi complessati, ambientazioni fantastiche: una marea di idee mi sommergono la testa. Mentre corro soffro. Soffro e sono felice. Dimentico le otto ore di lavoro e m'immergo nelle dolci acque gelate del sogno, facendomi cullare da piacevoli illusioni. Il corpo suda salato. Le gambe tremano. Il cuore batte. La natura verde scuro e marrone e bianca di neve mi circonda come un utero materno. Torno bambino. Affiorano i ricordi. Penso a mio padre. A quando mi portava a passeggiare nei boschi piatti della nostra amata terra. Io la Russia l'ho sempre amata, nonostante tutto. Ho amato, amo e amerò la Grande Madre, culla di geni letterari insuperati: Tolstoj, Dostoevskij, Cechov. Nessuno potrà superarne la grandezza. Il valore di ogni loro parola aumenterà col passare degli anni, dei secoli, dei millenni. Nulla può scalfire gli scrittori veri. Ammiro Kafka, Joyce, Proust, Shakespeare, Dante, ma chi potrà mai appropinquarsi ai nostri scrittori? Ai geni della grande tradizione russa, che ancora nessuno ha capito fino in fondo? Io sono lettone e tale mi sento. Il mio villaggio natale è in Lettonia, a pochi chilometri dalla Russia. Amo la mia patria. Abbandonarla è stato triste e doloroso. Letterariamente però sono russo. Russo dal cervello alle piante dei piedi, russo dal cuore alle punta delle dita. Quando leggo sono russo, quando scrivo sono russo. Amo la Russia, amo San Pietroburgo e Mosca. Anche se non ci sono mai stato. Amo ogni vero scrittore russo, dal primo all'ultimo. Sento di appartenere alla patria letteraria russa. Nelle mie vene scorre il talento dei grandi scrittori russi: l'estro di Dostoevskij, la caparbietà di Šalamov, l'intelligenza di Cechov, la magia di Lev Nikolaevič Tolstoj. A volte esagero. Sogno a occhi aperti. Fantastico per ore. Mi serve per darmi la carica. Solo pensando al mio obbiettivo, mi sento vivo. Solo sognando, vivo. Il resto è mera sopravvivenza. Solo sognando di diventare un romanziere, esco dal lento grigiore di ogni giorno e torno a essere un animale vivente. Al lavoro sono un uomo morto. Non riesco a pensare. Un giorno ci ho provato, ho provato a lasciare la mente libera di pensare alle trame dei miei romanzi. Ho lasciato che i personaggi parlassero tra loro, ho lasciato che gli occhi vedessero montagne innevate, deserti sabbiosi, oceani senza fine. Quel giorno in venti minuti ho sbagliato due pezzi. Non mi era mai successo di sbagliare due pezzi nello stesso turno. Mi sono agitato. Avevo paura di perdere il posto. Mi sono sentito in colpa. Lo ricordo come fosse stamattina. Ho pensato a mia madre che mi mollava un ceffone. Stavo quasi per sbagliare un altro pezzo. Quando sono tornato dal bagno sconvolto con la faccia bagnata, ho visto il caporeparto. Mi sono messo a lavorare. Lui si è fermato a guardarmi, immobile. A un passo da me. Io ho continuato a lavorare, osservandolo con il dietro dell'occhio. Potevo respirare il suo alito acido. Probabilmente aveva saltato il pranzo come al solito. Quando se ne è andato, ero immerso nel sudore. Nelle settimane successive non ho più sbagliato. Ho cominciato a piegare lamiere con una velocità e una precisione superiori alla media. Non ho più provato a pensare. Ho svuotato la mente. Mi sono arreso alla ripetitiva meccanica del movimento. Perdere il posto di lavoro significa non spedire i soldi a casa. Mio padre ne ha bisogno. Senza cure mediche rischia di morire. Non potendo fantasticare durante la giornata lavorativa, mi concedo il resto del tempo. Sogno di diventare uno scrittore come Tolstoj o come Šalamov. So che non succederà, so che sognare di essere uno scrittore è un'utopia. Sognare mi rende felice, continuerò a farlo. PRIMA PRIMAVERA I ciliegi fioriscono di bianco e rosa pallido, i sambuchi creano un'aura di profumo attorno a sé, le fontane spruzzano acqua gelida nella luce chiara. È primavera: maggio. Non è più buio al mattino. Il sole mi rende felice. Il mio tedesco è migliorato con sensibilità. Lo scorso inverno è stato un inverno triste, è stato un inverno noioso e ripetitivo, ripetitivo e noioso come le mie tristi parole: le cose devono cambiare, non posso continuare così. Se corro è per prepararmi a partire. Da novembre scorso a oggi ho corso circa ottocentocinquanta chilometri. Quasi la distanza che mi separa da casa. In verità sarebbero più di mille chilometri, ma mi piace pensare che in questi mesi, simbolicamente, ho corso fin lassù. Entro la fine di maggio conto di superare i mille chilometri. Per settembre i millecinquecento. Fino a dicembre mi accontentavo di una decina di chilometri al giorno. A gennaio – anno nuovo vita nuova – ho comprato un paio di scarpe da corsa giallo evidenziatore al mercatino delle pulci: da quel momento ho iniziato a correre almeno due ore e mezza al giorno. A marzo, per un'infiammazione alle ginocchia, ho dovuto allentare il carico: faccio stretching venti minuti prima di partire, in corriera: mi siedo in fondo, levo gli scarponi con la punta di metallo, e assumo posizioni tali da stirare i muscoli. Poi riallaccio gli scarponi, cammino svelto verso casa, mi cambio, scendo le scale di corsa ed esco. Salgo in paese, sbircio dentro uno dei due negozi di alimentari, quello dove c'è alla cassa una ragazza magra con neri capelli e prospero petto, poi scappo via verso nord e corro libero nei boschi. Quando rientro, dopo un'ora e mezza circa, faccio ancora stretching, mentre aspetto che il boiler scaldi l'acqua per il bagno. Nonostante lo stretching e le scarpe nuove, le ginocchia spesso bruciano e sono costretto a prendermi delle pause. In quei giorni mi sento male: impazzisco. Me ne resto in casa a fare flessioni e piegamenti addominali. Inutile. Per sfogarmi ho bisogno di muovermi, di immergermi nella natura, nei boschi, nel silenzio della mente: libero di evadere dalla realtà e rifugiarmi nei pensieri. Non so per quanto potrò reggere questa vita solitaria. Inutile avere dubbi: la mia vita è così e non potrebbe essere altrimenti, non esistono alternative. Se corro è per prepararmi a partire. PRINCIPIO D'ESTATE Si avvicina l'estate. Lavoro bene. Fa caldo. Ho ricevuto un aumento in scellini equivalente a ottantaquattro euro. Amo il sole di giugno, il sole che scotta. Sono più veloce dei miei colleghi, più preciso, mai in ritardo, mai malato. Sono contento. I soldi non sono niente, eppure fanno comodo. Ora posso spedire qualche scellino in più ai miei. Mio padre ne ha bisogno. Non sono arrabbiato con loro. Sono stato egoista e stupido. I miei hanno invitato i parenti al pranzo di Natale al ristorante: e con questo? Una volta nella vita! È giusto così. Sono io l'egoista, a pensare male, a lamentarmi perché non mi è stato chiesto se sono felice. E poi sei felice? che domanda è? Esistono domande più stupide? Non ho altro che loro. Il mio scopo è renderli felici. Dovrei essere io a ringraziarli per avermi dato uno scopo nella vita. Grazie all'aumento posso mandare loro l'equivalente di settecento futuri euro, molto più di uno stipendio lettone medio, quasi due. Non è un miracolo? Felice per la promozione, mi sono procurato un computer. È un po' datato. Non è portatile, ma sono riuscito a trasportarlo fino a casa sulle spalle. L'ho trovato al mercatino dell'usato, per una manciata di scellini, trentotto euro virgola tredici per la precisione. È un Canon object.station 41 grigio topo con lo schermo quadrato. Non lo voglio collegare a internet, né usarlo per altri scopi se non la scrittura. È sul tavolo della cucina da tre settimane e si è già reso indispensabile, sempre che al mondo esista qualcosa di indispensabile oltre al cibo e ai sogni. La revisione dei testi è più veloce. Posso correggere all'infinito. Scrivo e riscrivo febbrilmente tutte le notti. Ho messo da parte il romanzo che stavo scrivendo da settembre. Per la verità l'ho bruciato, anche se è tutto ancora in testa. Lo considero un esercizio. Da quando scrivo al PC, ho iniziato una nuova storia. Nuovi personaggi, nuove ambientazioni. Ho visto il foglio bianco virtuale, ho mentalmente resettato il passato. Al mattino è dura alzarsi, in compenso ho accumulato in poche settimane duecentomila caratteri spazi inclusi. Fanno più di cento pagine stampate, forse centocinquanta. Per assurdo, se quello che ho scritto avesse una trama ragionata e ragionevole, avrei pronto un romanzo. Non è così. So che scrivere è riscrivere. La prima bozza è merda, diceva Hemingway. C'è molto da cesellare. Interi passi andranno rimossi. Metà di ciò che ho buttato giù verrà buttato via – senza versare lacrime, in teoria. Scrivere è un gioco senza redini: è riscrivendo che inizia il lavoro dell'artigiano, il vero mestiere dello scrittore. Se l'arte è scrivere, il lavoro è riscrivere. Lo so perché l'ho letto su decine di libri di scrittura creativa. Lo so perché le schede dei libri che ho scritto sul quaderno sono piene di cancellature. Lo so perché non può che essere così. Chi ha inventato le matite doveva saperlo che scrivere è riscrivere. Purtroppo per lui, niente più gomme, niente più matite: siamo stati tutti rapiti dall'agilità dei computer. Il passo successivo sarà comprare una stampante. ESTATE La mia pelle non è più lattiginosa. Ho preso colore, prima rosso, poi viola, ora marrone. È arrivata l'estate, così la stampante Epson Stylus Color P860A, gialla come la sottiletta di formaggio dei toast che mi faceva mia mamma da piccolo. Stampare su carta è costoso e inevitabile. Lo schermo di un PC non è abbastanza nobile, la revisione va fatta su carta. Amo la carta, amo leggere toccando con mano, amo sporcarmi. Sarà per questo che il numero di libri che ho letto nelle biblioteche della zona è salito a oltre duecento. È luglio, la lettura non mi ha abbandonato. Vado a nuotare nei laghi blu più del cielo, cammino in cima alle montagne verdi e marroni e grigie: non dimentico di portare un libro di carta ingiallita dal tempo. Leggo e annoto a gomma e matita fino alla morte sul quaderno. Devo mantenere vivo il mio sogno: senza, sarei un uomo morto: se smetto di sognare è la fine. Eppure una voce interiore mi perseguita: se corro è per prepararmi a partire. NOTA D'AUTORE #1 Il giornalista ("Nemo") non mentì, disse soltanto le cose a metà, scatenando un piccolo putiferio mediatico. Evidentemente il suo giornale aveva bisogno di vendere più copie. Ma procediamo con ordine e sarà tutto più chiaro. Sapevo che le cose dovevano cambiare. Sapevo che la vita non poteva finire lì, in quello sputo di universo nel quale avevo sempre vissuto prima di sentir parlare di Efrem Kowalski. Quando, oramai dieci anni fa, lessi quell'articolo, mi venne un colpo al cuore. Non ci credevo. Un ragazzo si era davvero suicidato crocifiggendosi nudo in cima a una montagna? “Eppure, se lo scrivono i giornali, deve per forza essere vero...” mi ripetevo con poca convinzione. Volevo andare a fondo nella questione, capire cosa passasse nella testa di quel ragazzo nei giorni precedenti a quel gesto così inusuale. Mi ricordava, per certi versi, il suicidio rituale dello scrittore giapponese Mishima. Ci tengo a precisare che a quel tempo non era ancora stata pubblicata l'autobiografia di cui avete appena letto i primi capitoli e quindi, noi giornalisti, brancolavamo nel buio. 2 AGOSTO 1999 È il primo d'agosto. È lunedì. È mattina. Stasera vengono Lucas e Klaus a cena. Non ho niente in casa. Esco e mi dirigo verso la piazza. In paese ci sono due negozi di alimentari. Non sono mai entrato in nessuno. Li ho sempre visti da fuori. In uno c'è la solita ragazza alla cassa. L'edificio è vecchio rispetto all'altro, ricorda il negozio del mio villaggio in Lettonia. Spero sia più economico di quello nuovo. La gente passa, osserva. Qualcuno deve avermi già visto mentre correvo oppure mentre andavo o tornavo dal lavoro. Due anziane mi guardano, ridono. Mi osservo anch'io: i miei vestiti sono logori e troppo larghi ormai, ho gli scarponi con la punta in metallo. È agosto e la gente in agosto non si veste così. Sudo, un po' per il sole, un po' per gli sguardi di scherno. Decido di entrare nel vecchio negozio, quello con la ragazza alla cassa. Compro tre scatole di lenticchie, una cipolla, una bottiglietta d'olio d'oliva da mezzo litro, un chilo di riso, una scatola di sale fino e un barattolino di peperoncino macinato. Non serve altro. La cassiera è magra, porta la minigonna. Ha i capelli lisci e neri. È truccata, forse troppo. Si intravede la riga del seno. Non porta la fede. Le sorrido e pago. Mentre esco mi rendo conto che da quando sono in Austria non ho ancora cucinato. Poi penso alla cassiera. È il primo giorno di ferie. Hanno chiuso la fabbrica, per l'intero mese. L'ho scoperto venerdì, quando il capo ci ha detto di tornare riposati. Preferivo lavorare, farmi pagare le ferie in busta paga. Lucas e Klaus mi hanno invitato a casa domenica. Avevo pensato di alzarmi presto e correre da loro. Lucas e Klaus abitano in un paesino giù in valle, oltre la fabbrica. Sessantadue chilometri d'asfalto sono troppi per le mie ginocchia malate. Hanno la macchina. Vengono loro. Arrivano per pranzo. Cammino verso casa con la testa china per evitare gli sguardi della gente. Mi sento in colpa, quasi avessi compiuto un reato. Ho speso tanto quanto undici euro. Sono molti. Con quei soldi mio padre avrebbe potuto pagarsi una visita dal dottore, o mangiare minestra per una settimana. L'olio, il peperoncino, il sale e il riso mi rimarranno per i prossimi giorni, il resto se ne andrà nelle nostre pance affamate. Klaus è un gran mangiatore, Lucas non è da meno. Devo trovare una soluzione. Già butto via denaro per un tetto e quattro mura, non mi va di spenderne anche per mangiare. Mi sembra di toglierli dalla bocca dei miei genitori. Ho davanti un mese, devo sfruttarlo al meglio. Potrei dormire in un bivacco per tutto agosto, cibandomi di funghi e frutti di bosco, animali se necessario, liberare l'appartamento e sotto-affittarlo. Qualcuno suona. Mi spavento, non ci sono abituato. M'inquieto. Non è la prima volta che sento suonare il campanello. È successo ancora nell'arco dell'anno. Un paio di volte ha suonato il postino durante le feste natalizie per farmi firmare pacchi per la padrona – lei poi, entrambe le volte, mi ha detto che farei meglio a farmi gli affari miei. Altre volte, non più di dieci, hanno suonato venditori ambulanti marocchini. Una volta i testimoni di Geova, ai quali avevo offerto un bicchiere d'acqua da dividere in due. In casa ho soltanto un bicchiere. Sono Lucas e Klaus. Chi altro può essere? Ci saremo capiti male sull'orario... Apro senza domandare e grido nel vano scale di salire. Poi mi ricordo che sono sordomuti. Quando mi vedono sorridono, mi abbracciano. Li faccio entrare. Percorrono il corridoio buio, entrano in soggiorno. Si guardano in giro. Dicono che la casa sembra disabitata. Posano gli zaini a terra e tirano fuori, da sotto la giacca, due bottiglie di vino rosso e due di prosecco. Vanno in cucina: Lucas apre il frigo, Klaus deposita il prosecco nel freezer, Lucas richiude il frigo. Gli faccio notare che è spento. Rimane immobile per un po', poi cerca il cavo e lo collega alla presa di corrente. Tranquillo, dicono guardandosi negli occhi, sarà settimana divertente! Mostro l'appartamento. Il bagno è essenziale, scuro nonostante la finestrella posta nell'angolo alto della parete, di fronte alla porta. Accendo la luce. Manca il lampadario. Klaus entra e piscia. Noi osserviamo lui e le piastrelle lucide verde mare. La camera da letto è piccola: un letto scuro a una piazza e mezza, un comodino con una candela, una scatola di fiammiferi, tre libri che ho preso in prestito, un quaderno, una penna, una matita e una gomma. Preferisco leggere e scrivere a lume di candela, costa meno e non affatica gli occhi. C'è un vecchio armadio dalle pareti sottili, anch'esso in legno scuro. I muri sono anneriti e ammuffiti agli angoli. Probabilmente la casa puzza di cantina, ma io non riesco più a cogliere l'odore di muffa, mi ci sono abituato. Torniamo nel corridoio. Il pavimento è cosparso di rotoli di polvere visibili da lontano. Scusate se la mia casa non è accogliente, dico invitandoli a tornare in soggiorno. Ho l'indispensabile. Stavolta sono loro a non rispondere. Lucas apre la portafinestra ed esce. Klaus lo segue sul poggiolo con una bottiglia di prosecco che ha preso in frigo. Esco anch'io. Stappiamo, facciamo girare, fino a svuotare. Klaus corre a prenderne un'altra. Vivi in mezzo a montagne, dice Lucas con il viso illuminato dal sole. Annuisco sorridendo. Domani vi porto lassù, in cima, dico indicando la vetta più a oriente. Lucas legge il labiale, poi osserva il mio dito, quindi la montagna. Lo osservo inarcare le sopracciglia e aggrottare la fronte. Klaus torna dalla cucina, stappa la seconda bottiglia. Comincia a girarmi la testa. In silenzio osserviamo. Un paio di donne sulla trentina in stivali di gomma verde uva camminano in fretta per strada con dei fazzoletti bianchi a raccogliere loro i cappelli. Vanno a preparare il pranzo ai mariti e ai figli rimasti nei campi a lavorare. Le sento parlottare sotto il sole cocente e ridere forte riempiendo di allegria la stradina. Le loro risa rimbalzano da un muro all'altro, creano un'eco che amplifica le loro voci. Mi chiedo se Lucas e Klaus riescano a cogliere la magia di certi attimi, attimi come questi che rendono unica la vita. Forse è diverso per loro, basta un'immagine in movimento per cogliere un mondo. Noi, normodotati, non riusciamo nemmeno a immaginarlo. Porto in tavola ciò che resta della seconda bottiglia di prosecco che già Klaus ne apre una di rosso. C'è una sedia. Altre tre sono impilate a lato del divano. Mentre Lucas e Klaus bevono, io cucino quattro etti di risotto alle lenticchie secondo la ricetta del libro della biblioteca. La pancia mi scoppia. Non sono abituato a mangiare più del necessario. Il mio stomaco negli ultimi mesi si è ridotto. Credo di aver perso tra i dieci e i quindici chilogrammi da quando vivo in Austria. Mi piace digiunare, lo so fare bene. Mentre si appisolano, uno disteso sul divano, l'altro sul letto, lavo i piatti e le posate. Esco sul poggiolo di legno sbiadito e leggo disteso al sole. Quando leggo perdo la cognizione del tempo. Una mano mi scuote la spalla. Inserisco il segnalibro e mi alzo. Guardo in faccia Lucas mentre si stropiccia gli occhi. Andiamo a svegliare Klaus. Li porto a fare una passeggiata nel bosco. Prendo la cesta di vimini che qualcuno, forse la padrona, ha lasciato nell'appartamento. Lucas e Klaus sono felici. Anni che non mettevano piede in un bosco. È fresco e ombroso, a differenza delle strade del villaggio. Ci rilassiamo. Nomino a voce alta, in lettone, gli alberi: larici, pini, abeti, faggi; i funghi: porcini, russole, finferli, finferle, maniti vinate, vesce. Loro ripetono il nome, non saprei se in dialetto o in tedesco. Ci sono alcuni funghi di cui non conosco il nome. Quando vediamo un fungo velenoso, come la amanite falloide, dico loro di non raccoglierlo. Se finisse nella cesta potrebbe contaminare quelli buoni. Spiego loro che i funghi velenosi sono più belli: hanno la cappella lucida di un colore sfavillante ricoperta di puntini bianchi. Non sembrano interessati. Alle sette torniamo verso casa con la cesta colma. Klaus e Lucas sono esausti, sorridono. Mentre fanno la doccia assieme, preparo loro tre etti e cinquanta di risotto con i funghi che abbiamo raccolto. Apriamo la seconda e ultima bottiglia di vino rosso, brindiamo alla giornata trascorsa. Cedo il letto a una piazza e mezza, dormo sul divano scricchiolante. MARTEDÌ D'AGOSTO È martedì mattina: 3 agosto 1999. Mi alzo verso le sei e vado a correre. Mentre corro penso. Se mi fossi organizzato per tempo, avrei potuto raggiungere i miei genitori in Lettonia, visitare gli amici di Riga. Avrei potuto prendere con me lo zaino e iniziare a correre verso nord-est. Superare le montagne dormendo nei bivacchi e, una volta in pianura, al confine con l'Ungheria, prendere il primo bus per Riga. Oppure continuare a correre. Arrivare a Vienna è una scarpinata (si può dire così, vero? o si dice scarpata? non ricordo più...) di un paio di giorni. Tra Vienna e Varsavia ci sono circa un mezzo migliaio di chilometri, altrettanti tra Varsavia e Riga. Una volta a Riga avrei potuto passare la notte da un amico e poi fare l'autostop fino a casa. Stare con la mia famiglia. Ritornare a Varsavia a piedi sarebbe stato divertente, avrei risparmiato un sacco di soldi. Da Varsavia a Vienna si può transitare in sei giorni. Una volta a Vienna potevo riattraversare le montagne verso ovest oppure prendere un bus. Ormai è tardi, non posso mandare via i miei amici. Non mi va. È colpa mia, avrei dovuto pensarci prima. Sulla soglia di casa smetto di pensare. Un'ora di corsa equivale a un'ora di pensieri. Un'ora di pensieri equivale a un'infinita catena di immagini. Un'infinita catena di immagini equivale a un romanzo potenziale. Un'ora di corsa, e ho una storia da raccontare. La storia di oggi è un immaginario viaggio a piedi verso casa: vale la pena di scriverla? La storia di un emigrato lettone che per risparmiare torna a casa correndo, vale un anno di immobile agonia di fronte allo schermo di un PC? Sì. Ogni storia merita di essere scritta, se la si sa scrivere. Quando le gambe corrono, la mente detta le storie. Quando le gambe riposano, la mano le scrive. In casa mi levo le scarpe giallo evidenziatore, mi spoglio, entro in bagno e faccio una doccia gelata osservando le piastrelle verde mare. Tre minuti e sono nell'accappatoio. Non mi va di sprecare elettricità e acqua. Più risparmio, più denaro posso spedire. Più denaro spedisco, più faccio felice i miei: la felicità dei miei è la mia: la mia felicità è basata su una logica di matematica perfezione. Sanno che sono troppo buono. Vado in soggiorno, prendo uno dei libri della biblioteca e esco sul poggiolo di legno attento a non scheggiarmi le piante dei piedi. Il sole del mattino mi riscalda. L'aria è fresca, si respira un profumo salutare. Sono contento di vivere in montagna. Non riuscirei a vivere in pianura come fanno Klaus e Lucas. Tanto meno in città. In Lettonia lo facevo ai tempi dell'università, qui in Austria è diverso. L'Austria è montagna, isolamento, riflessione, è aria fresca, è montagne, è boschi, è cielo blu. È l'unico mio lusso. Ed è un lusso economico. Spendo meno a stare qui in paese che a vivere in città, o nelle vicinanze. Impiego più tempo ad arrivare ma risparmio più denaro. L'unico contatto con la realtà sono la corriera, l'autobus, le relative fermate. Il resto è un alienante lavoro in fabbrica, una mensa coi colleghi della fabbrica, una solitaria corsa quotidiana nei boschi, un appartamento desolante e, soprattutto, gli infiniti meandri della letteratura, letta e scritta: un mondo parallelo a quello reale, fantastico eppure altrettanto vero. Tutto qui. Potrei aggiungere i minuti durante i quali telefono ai miei, i monologhi della padrona di casa con l'alito cariato, le rarissime volte che ci incrociamo. Non c'è altro, solo pace, silenzio e fatica. Nuovamente una mano mi scuote la spalla. È un'altra volta Lucas. Chiudo il libro, lo poso, mi giro. C'è anche Klaus. Mi alzo e preparo la colazione. Latte con lo zucchero e biscotti. Mi dicono che hanno intenzione di fare la spesa per ringraziarmi dell'ospitalità. Grazie, dico aprendo bene la bocca. Si mettono a ridere. Parla come mangi, dice uno dei due, no siamo ciechi! Rido anch'io. Invidio la loro inesauribile gioia, la voglia di scherzare. Io, da quando vivo in Austria, l'ho persa. Sopravvivo. Usciamo. Prendiamo la macchina. Una golf nera sgangherata, vecchia di una trentina d'anni. Un modello che in Austria non avevo ancora visto. Mi fanno cenno di salire. Salgo dietro. Fa caldo, inizio a sudare. Vorrei aprire il finestrino, ma è bloccato. Domando perché girano con un'auto del genere, loro non rispondono, non mi possono sentire. Sorrido e appoggio il viso contro il finestrino fresco riempiendolo di sudore. È la prima volta che viaggio su un'automobile da quando sono arrivato. Klaus preme sull'acceleratore. Osservo gli alberi dal finestrino, sono sfuocati. Lucas e Klaus non aprono bocca. Finita la discesa parcheggiamo davanti a un supermercato. Entriamo. Mentre io spingo il carrello, loro lo riempiono, finché non è zeppo (si dice così, no?). Pagano con il bancomat una somma a mille cifre, l'equivalente di futuri centocinquanta euro – sempre che la moneta unica di cui tutti parlano sarà davvero messa in circolazione. Mi riprendo dai pensieri e vedo Lucas allungare a Klaus un'enorme banconota da mille scellini. Non ne avevo mai vista una. Mettiamo tutto nel polveroso bagagliaio della golf. Quello che non ci sta lo tengo al mio fianco, in una gigantesca borsa di canapa. Klaus parte, in due minuti siamo alla spiaggia. Non c'è molta gente alle dieci. Ci spogliamo fino a rimanere in costume a fiori loro, in mutande bianche io. Loro muscolosi e tozzi, io magro e alto. Ci buttiamo in acqua... Ma questa storia felice ve l'ho già raccontata. Vi va di camminare in montagna questo pomeriggio?, dico rivolto a Lucas. Fa una faccia più eloquente di mille parole. Scherzavo. Scusami, dico grattandomi la nuca. Potremmo portare la spesa nel frigo e tornare qui, no? Lucas storce la bocca. Hai patente?, mi chiede. Sì, ma... praticamente non ho mai guidato. Te la senti?, dice facendo il gesto di guidare. Non so che rispondere. Auto vecchia, mi dice Lucas alzando le spalle e sorridendo. Va bene, mi hai convinto. Torniamo da Klaus e gli sfiliamo le chiavi dell'auto dalla tasca interna del costume. Lui neanche se ne accorge. La golf non è all'ombra. La carrozzeria scotta. Apriamo il bagagliaio e prepariamo tre panini al formaggio. Fa caldo, dovrebbero bastare a sfamarci. Richiudiamo il bagagliaio. Saluto Lucas. Sono eccitato. Dall'ultima volta che ho guidato sono passati tre anni, penso mentre addento il panino. Lo ricordo bene, stavo portando all'ospedale una giovane vicina: era incinta. Suo marito non era in casa e lei, una ragazza molto carina, aveva chiamato me. Avevo la patente da poco, forse un mese. Salii sull'auto francese, non ricordo il modello, e accesi il motore. Guidai meglio che potevo, cercando di farlo velocemente, senza rischi: non avevo un conto in banca. Lei gridava di accelerare. In silenzio la maledicevo per non aver chiamato un'ambulanza. L'ospedale era lontano, le sue grida mi innervosivano, c'era sempre più traffico. Ero teso, nervoso. Talmente concentrato che appena vidi un anziano avvicinarsi alle strisce, frenai d'istinto: un signore, anziano pure lui, ci tamponò. Non c'era tempo, il bambino stava per nascere: perché ti sei fermato!, gridò, accendi questa cazzo di macchina! La ragazza continuava a urlarmi nelle orecchie. Io stavo fermo nell'auto spenta. Non capivo più niente. I clacson delle auto dietro, gli insulti di lei a fianco: avevo la testa sovraccarica, la mente invasa da rumori che sommati davano il silenzio: non sentivo più niente: silenzio. Respirai lentamente nell'infinita pace dell'atmosfera ovattata che mi proteggeva dal caos esterno. Mi sembrava di vivere un sogno. Mi vedevo da fuori, da lontano, dall'alto. Il cuore aveva smesso di battere. Non sentivo. Accesi il motore e ripartii. Guidai tranquillo fino all'ospedale senza sentire niente, senza fare caso agli improperi della mia vicina. Silenzio, soltanto silenzio. Mi fermai di fronte al pronto soccorso. Lei scattò fuori dalla portiera lasciandomi lì, solo, immobile, in pace con me stesso. Parcheggiai l'auto, con lentezza. Tornai alla reception e chiesi dove l'avevano portata. Mi recai dove indicato camminando senza fretta. Mi sedetti nella sala d'aspetto, presi una rivista e iniziai a leggere incredibilmente concentrato su un lungo articolo riguardante, lo ricordo ancora, il popolo degli Inuit e la loro prossima estinzione. Le grida di un uomo mi destarono. Il marito, il vicino di casa. Alzai le chiavi dell'auto e le scrollai. Il suono metallico attirò l'attenzione di tutti i presenti, compresa la sua. Mi riconobbe, si avvicinò, rispose al sorriso e si sedette al mio fianco. Andrà tutto bene, dissi appoggiandogli la mano su una spalla. Ero ancora sotto shock, cioè nel mio mondo ovattato di pace perfetta. Avevo reagito allo stress eccessivo chiudendo le porte al mondo esterno. Vivevo in un mondo surreale nel quale ogni cosa importante perdeva di significato, ogni dettaglio assumeva importanza. Tutto mi rimbalzava attorno mentre leggevo con passione l'articolo sugli Inuit, tutto tranne la mosca che mi accarezzava il viso da qualche minuto: la mia mente vagava nelle terre estreme della Groenlandia, il mio corpo stava immobile a godersi i massaggi di una mosca qualsiasi. Grazie, disse dopo qualche tempo. Si alzò e prese a passeggiare avanti e indietro da una parete all'altra della sala. Si sedette. Manca molto? Non credo, andrà tutto bene, vedrà. Mi guardò negli occhi. Io guardai i suoi. Erano enormi, le palpebre tremavano. Se avesse saputo dell'auto, avrebbero tremato ancor più. Non dissi niente. Non volevo rovinargli la gioia del primogenito. Andrà tutto bene, non ne dubiti, dissi tornando a occuparmi del popolo Inuit. Due giorni dopo bussarono alla porta per mostrarmi la piccolina. I danni dell'auto ammontavano a settecento lats, una cosa come mille euro. Dovetti lavorare un'estate per restituirli. Mangiato il panino montai in macchina. Guidare una golf vecchia di trent'anni è facile: display analogico con gli indicatori in plastica tipo orologio, finestrini manuali e durissimi. All'inizio parti piano, massimo in seconda. Quando prendi confidenza metti terza, poi quarta. Ti senti un dio. Ai tornanti scali senza frenare, in uscita acceleri. Apri il finestrino sinistro, appoggi il braccio fuori. Guidare in agosto è divertente. Non c'è traffico, l'aria entra dal finestrino, mi rinfresca il viso. Arrivo di fronte a casa, non c'è posto. Vorrei lasciare l'auto in mezzo alla strada con le quattro frecce, ci ripenso. Cerco un posto nel parcheggio e quando lo trovo spengo il motore e scarico a terra le borse di plastica tese al limite. Sono otto più quella di canapa. In due viaggi porto la spesa in casa. Metto in ordine i vari acquisti iniziando dal frigo. Bevo acqua, chiudo la porta, scendo le scale. Salgo in auto e sfreccio verso il lago. Il vento mi sforza i capelli. Faccio i sessanta all'ora, mi sembra di volare. Nessuno stress, nessun grido, nessun insulto, niente traffico né clacson: non può essere sempre così semplice la vita? Percorro la strada che costeggia il lago con il braccio sinistro appoggiato al finestrino. Ogni tanto guardo nello specchietto laterale. Vedo il mio volto deformato e felice. Rallento e procedo in terza a non più di trenta chilometri all'ora. Da dietro un muretto un pallone. Poi un bambino. Corre all'impazzata. Guarda dritto davanti a sé. Gli sono a cinque metri. Vorrei non aver mai accettato di guidare quest'auto. Vorrei non essere mai esistito. Vorrei morire anch'io assieme a quel bambino. Giro il volante verso destra e freno. Le ruote fischiano. L'auto esce di carreggiata. Poi si ferma. Silenzio. Ho gli occhi chiusi. Sento un pianto crescere nell'aria fino a diventare un grido. È vivo, penso. Apro gli occhi. Il bambino è immobile, lo vedo con la coda dell'occhio sinistro. Mi volto. Grida e trema. Avrà sei, sette anni. Torno a guardare davanti a me. Vedo un enorme bidone marrone dell'organico rovesciato. La spazzatura riempie la strada e il vetro dell'auto. Sento puzza di pesce. Metto le mani sugli occhi. Il cuore trema per lo spavento. Cerco di scendere dalla macchina. Con difficoltà raggiungo il bambino, piange ancora immobile, disperato al centro della strada. Mi piego verso di lui e lo abbraccio. Gli dico che va tutto bene, che non è successo niente. Lo prendo per un braccio e lo accompagno sul marciapiede. Le auto passano come niente fosse. Non sanno che c'è stato un miracolo. In spiaggia nessuno ha visto niente. Gli chiedo di portarmi dai suoi genitori, penserò poi alla macchina. Lui, appena li vede, corre piangendo di nuovo. Io aspetto finché il bambino non mi indica da lontano. Alzo un braccio. Solo allora suo padre, o presunto tale, si alza e si dirige verso di me. Io mi preparo a dire “non è niente, chiunque sarebbe riuscito a evitarlo, è stato un gioco da ragazzi. Ma no, si figuri, non si preoccupi, l'importante è che suo figlio stia bene, per la macchina basteranno un centinaio di euro, sa, non è mia, me l'ha prestata un amico, può pagare direttamente a lui i danni...” Il padre, un grosso pelato sulla quarantina, una volta di fronte, mi guarda in silenzio. Poi mi sferra un violento pugno in pancia, sotto lo sterno. Accuso il colpo. Mi manca il fiato. Mi piego in avanti, fino a cadere carponi. Non riesco a respirare, lo sguardo fisso a terra. Vedo i piedi dell'uomo allontanarsi. Dice qualcosa che non capisco sugli stranieri che infestano il paese. Senza alzarmi, mi allontano carponi verso una fontana. Metto la testa sotto l'acqua gelida, aspetto che il dolore all'addome svanisca. Il respiro si fa sempre meno contratto. Bevo e mi rialzo senza voltarmi. Torno alla macchina. Faccio retro. Smonto e risollevo il bidone marrone. Prendo uno a uno i sacchettini semitrasparenti fuoriusciti e li infilo nel bidone. La puzza di pesce e frutta rancida m'invade i sensi. Tengo duro fino a richiuderlo. Ritorno alla fontana e mi pulisco le mani, le braccia e la faccia. L'odore non se ne va. Vado alla macchina e la osservo: c'è soltanto un'ammaccatura sul paraurti anteriore, sopra la targa. Rimonto sull'auto e guido lentamente, in prima, fino alla spiaggia dove Lucas e Klaus mi stanno aspettando. Quando arrivo, li vedo giocare a pallone in acqua con due ragazze. Le ragazze hanno lo stesso costume rosa sul petto che risalta sulla loro pelle abbronzata. Il pallone è giallo evidenziatore come le mie scarpe da corsa. Mi siedo vicino ai vestiti e aspetto. Cerco di dormire, ma lo shock è grande. Ho rischiato di uccidere un bambino innocente. Il pugno me lo sono meritato. Stavo rispettando i limiti: eppure mi sento in colpa: erano anni che non guidavo, dovevo stare più attento. Quando Lucas e Klaus tornano a riva sono eccitati. Lo si intravede dai costumi da bagno rigonfi di speranza. Hanno conosciuto due ragazze. Mi fanno entrambi l'occhiolino, prendono i cellulari e tornano da loro. Si scambiano il numero e le salutano. Per un momento ho la tentazione di chiedere loro cosa se ne fanno due sordomuti del numero di cellulare, ma taccio. Mi dispiace rovinare la loro euforia, è bene che sappiano quanto sono stupido. Gli racconto la vicenda in dettaglio. Non ridono quanto avrei sperato. Non c'è da ridere. Sono un potenziale assassino. Lucas è preoccupato per la macchina. Ci alziamo. Li porto al parcheggio. Mi dispiace, dico. Loro si guardano. Fanno una faccia strana che non capisco. Poi scoppiano a ridere. Non capisco ancora. Niente, dice Lucas. No vedo niente. No, voglio pagare i danni, dal primo all'ultimo. Io pago sempre i miei debiti. Mi mettono una mano sulla spalla, Lucas la destra sulla sinistra, Klaus viceversa. Con lo sguardo mi fanno capire che non è successo niente. Andiamo. Offrono un giro di whisky al bar della spiaggia. Rifiuto, costa troppo, non me lo merito dopo quello che ho combinato. Hai bisogno, dicono. Allento i nervi, chiudo gli occhi un istante e accetto. Vedo Klaus allungare al barista una banconota da duecento scellini. Facciamo un brindisi. Beviamo senza sorseggiarli, uno dopo l'altro, un imprecisato numero di whisky on the rocks, così chiamano i due gemelli quel cocktail. Mi fa bene, ne avevo bisogno. Non toccavo alcool dalla festa di addio a Riga, quando, col mio amico dell'università, ci scolammo dodici birre da mezzo litro. Intanto il sole scappa. Mi rilasso sulle sdraio in vimini all'aperto contemplando i granelli di sabbia e il lago. Lucas offre l'ennesimo giro. Da alticcio passo presto a ubriaco. Sono magro e l'alcool mi va subito in testa. Il sole tramonta, mi ritrovo a ridere al buio con Lucas, Klaus e le due amiche coi costumi rosa. Una di loro, la più carina, è sordomuta. L'altra, più robusta, è sua sorella. È lei a venire da me e a chiedermi di fare due passi. Quando siamo lontani comincia a parlare. Che ci fai in giro con due sordomuti? Sono i miei due unici amici. Perché? Colleghi di lavoro. Non sei austriaco, vero? Sei appena arrivato? Sono qui da un anno. Si sente? Un po', dice guardandomi meglio. Di dove sei? Sei russo? Letterariamente, vorrei risponderle, ma non capirebbe. Taccio. Metà austriaco e metà russo? No, sono nato in Russia e lì ho vissuto fino al millenovecentonovantuno, poi rimanendo immobile mi sono trasferito in... Ah, ho capito, dice lei eccitata. Dopo l'indipendenza sei diventato uzbeko! Ho indovinato? Non proprio. Kazako? Tagiko? Estone? Lettone? Ucraino? Lituano?, dice a raffica. Poi si ferma. Vengo dalla Lettonia, dico. Sei lettone! Ah, lo sapevo che eri lettone, dice mettendomi una mano sulla coscia e sorridendomi di gusto. Ha gli occhi chiari e tondi, le labbra carnose. Ho sete, ti va di bere qualcosa, dico. Offri tu?, aggiungo sorridendo facendole l'occhiolino. Ma guarda te 'sto scroccone!, dice. Io non bevo, sei tu l'ubriacone fino a prova contraria. E smettila di guardarmi le gambe, maniaco. Va bene così?, dico spostando lo sguardo. Non intendevo dire che devi guardarmi le tette!, dice appoggiandomi un'altra volta la mano sulla coscia. Chissà cosa pensa di me. Che effetto faccio sulla gente? Come mi vedono gli altri da fuori? Lei mi ha chiamato maniaco. Forse non sa che non tocco una donna da quasi quindici mesi, chiunque avrebbe lo sguardo di un maniaco. Mi ha dato dell'ubriacone e, a parte oggi, non mi ubriaco da anni. Mi ha dato dello scroccone, è una vita che mi faccio in quattro per aiutare i miei genitori. Le racconto di oggi. Grida divertita e continua a ripetere un pugno in pancia, fantastico, troppo divertente... sei proprio uno sfigato! Ride a crepapelle. Io sorrido inebetito dall'alcool. Rotto il ghiaccio le racconto anche della vicina di casa incinta. L'alcool mi rende loquace. Un successone. Lei ride all'impazzata e mi dà dell'imbranato. Sei uno spasso, mi dice. Sarà, penso mentre sogno di bere l'ennesimo sorso di whisky e di baciarla. Cala il silenzio. Prende a camminare. La seguo. Ci ritroviamo a guardare la luna appoggiati su uno steccato in riva al lago. Sei strano, dice all'improvviso. Sembri simpatico e pieno di aneddoti, e dici, dopo un anno che sei qui, di avere solo due amici sordomuti. Com'è possibile? Cos'hai fatto in quest'anno? Come hai passato le serate? Cosa hai fatto nei fine settimana? Possibile che tu non conosca nessuno? Mi prendi in giro? Non mi va di rispondere. Rimango zitto ammirando la luna. Ci spostiamo ancora, verso il lago. Ci sediamo. Lei non parla. Io muovo i piedi sott'acqua spruzzando nel buio. La guardo e sorrido. Se non ne vuoi parlare, non ne parliamo. Mi sono fatta indiscreta. Stando spesso con mia sorella... insomma hai capito, quando posso dialogare normalmente con qualcuno tendo a esagerare, divento uno scioglilingua infinito. Non m'interessa sapere come vivi, dice infine. La guardo ancora e sorrido, ancora. Penso che dovrei agire. Ti hanno tagliato la lingua? Mi avvicino alle sue labbra spinto un po' dall'alcol un po' da un coraggio che non sapevo di avere. La sto per baciare, lei si scansa. Mi respinge. Ho già un ragazzo, dice fredda alzandosi. Mi dispiace, sarà per un'altra vita. Sorride e se ne va. La seguo. Quando siamo al bar, Lucas, Klaus e la sorella non ci sono. Dove saranno?, chiedo. E dove vuoi che siano, dice lei. Non ci arrivi? Perché credi che li abbiamo lasciati soli? All'inizio non capisco, sto in silenzio. Mi sento inadeguato. Non so che dire. Le offro una birra piccola. Non so di cosa parlare con lei. Ho paura che ogni cosa dirò, non le andrà bene. Quando vedo arrivare Lucas e Klaus abbracciati alla ragazza e sorridenti, capisco cosa intendeva dire. Torno nel mio guscio di solitudine, mentre gli altri, attorno a me, brindano alla vita nel buio di una notte d'agosto, la mia prima notte da ubriaco in terra d'Austria. PRIME INDAGINI Mi recai a Sklave-Stadt, il paesino dove abitava Efrem Kowalski. La padrona di casa diceva di non conoscerlo per nulla. L'aveva visto soltanto un paio di volte. Fece un cenno con la mano, come a dire che lo riteneva uno scemo, o forse un pazzo. Non aggiunse altro. Parlai col caporeparto della fabbrica dove lavorava da oltre un anno. Mi disse che frequentava esclusivamente due gemelli sordomuti. Girava voce che questi, dopo la crisi dell'azienda, se n'erano scappati in Thailandia. Anche lui non sapeva dirmi altro. Avrei voluto rintracciare e intervistare i due gemelli, ma poi mi resi conto che era impossibile – a meno di non recarmi fino in Thailandia. Volevo parlare coi genitori del ragazzo. Una volta recuperato il numero, telefonai per ore. Me la cavavo con il russo, avremmo potuto dialogare. Non li trovai. Cercai il numero di telefono dei vicini. Mi dissero tutti che con i Kowalski era meglio non parlarci. Erano gente strana. Le televisioni nazionali si interessarono presto al caso, diffondendo la notizia a mezza Europa, come vedremo più tardi. Si trattò di un grave caso di morbosità mediatica. Uno dei primi, a soli due anni e mezzo dalla tragica morte della principessa Lady Diana. Ho scelto di riportare gli sviluppi di questa incredibile storia nell'ultima sezione del volume, dando modo al lettore di finire di leggere interamente l'eredità letteraria lasciataci dal giovane suicida – intervallata dalle interviste che ho potuto raccogliere durante i primi giorni del nuovo millennio. Buona lettura. RISVEGLIO D'AGOSTO La mattina del quattro agosto, quando mi sveglio, una luce calda mi invade gli occhi socchiusi. Deve essere tardi, penso. Faccio per alzarmi, un grande dolore alla testa me lo impedisce. Ripenso alla notte precedente e mi viene in mente la ragazza. Non ricordo nient'altro. Credo di aver bevuto molto, soprattutto in seguito al suo no. Mi sento vuoto e triste, in colpa per aver speso soldi inutilmente. Mi guardo attorno. Sono sul divano di casa. Non vedo coperte sul mio corpo. Solo un paio di mutande. Frugo nella tasca della camicia appallottolata a terra. Per fortuna ho il portafoglio. Lo apro: ci sono i documenti, ma le tre banconote da cento scellini se ne sono andate per sempre. Venti futuri euro volatilizzatisi. Mi maledico. Con un grande sforzo mi alzo a sedere. Prendo la testa tra le mani. La stringo e penso alla serata. La lascio e mi alzo. Vado in bagno a pisciare. Lucas e Klaus dormono ancora. Sopra al water sento una gran voglia di vomitare. Non so se sia il mio corpo a voler rigettare le tossine, o la mia anima. Mi alzo e mi giro, mi inginocchio e mi piego. Niente. Mi ficco due dita in gola. Tossisco forte, una decina di volte. Niente. Non ce la faccio. Troppo tardi. Ho ingoiato tutto: ci sono abituato. Guardo l'orologio appeso al muro della cucina. Fa le dieci e dodici. Le lancette sono sovrapposte. Apro la portafinestra, esco. Un'aria gelida, nonostante sia agosto, mi penetra nelle narici. Il sole è a est. Il poggiolo dà a sud-ovest. Mi godo la pace e il silenzio e il mal di testa. Il villaggio tace. Molti sono partiti con i camper. La gente del villaggio è benestante. Ricca rispetto ai miei compaesani lettoni. Qui sono rimasti i contadini, ricchi e stacanovisti. Li vedo lontani, nei campi intenti a lavorare. Passano sotto al poggiolo nell'ordine tre vecchiette vestite di nero indaffarate a chiacchierare di tutto e di tutti, un bambino ciccione con un pallone sgonfio ai piedi e un vecchio canuto col bastone di faggio. Il resto del paese dorme, le case attendono il sole di mezzogiorno per scaldarsi, i passeri fischiettano sui rami dei ciliegi nei giardini. Respiro a pieni polmoni, ritrovo la gioia che al risveglio non avevo. Esco. Giro per il centro. Deserto. Entro nel negozio di alimentari. Prendo del pane fresco. Vado alla cassa. Faccio per pagare, il portafoglio è vuoto. Mi maledico, per la seconda volta. Mi scuso con la cassiera. Anche oggi è troppo truccata. Lascio il pane dov'è ed esco. Attraverso la piazza quando una voce mi sorprende. Mi scusa! Ehi, mi scusa! Io?, penso girandomi e guardandola da lontano. Sì, tu!, dice come se sapesse leggere nel pensiero. Vieni qui! La vedo tenere il sacchetto del pane con una mano e con l'altra tagliare l'aria su e giù. Cosa ho fatto?, dico una volta vicino. Tieni, dice sorridendo. I soldi ce li metto io. Me li ridai quando passi qua. Non so cosa dire. Un gesto così non mi era capitato. In Lettonia sì, in Austria no. Dico grazie molte, signora, e faccio un inchino lieve. Signorina, non sono mica in trappola!, grida e scoppia a ridere. E tu? Io?, dico sorpreso dalla domanda. No... non sono sposato, balbetto. Vorrei dire di più, ma ho ancora la bocca impastata dall'alcol. Parli strano, non sei mica di qua, vero? No, vengo dalla Lettonia, dico. Mi guarda senza parlare. Sto studiando tedesco, dico, sui libri. Sui libri? Devi parlarlo il tedesco, s'impara prima! Sento un'ondata di caldo uscirmi dalla testa, mi faccio piccolo, le spalle curve, come sempre. Che c'è? Non ti mangio mica! Scusi, riesco a dire. Non sono abituato a parlare, dico a lei e a me stesso. Sorride, non sa cosa dire. Mi faccio pena. Rifletto mentre alterno uno sguardo verso le montagne a uno sguardo verso gli scarponi dalla punta di metallo. Non mi escono le parole di bocca. La sera scorsa era diverso, ero ubriaco. Ho sempre pensato che la timidezza sia inutile. In questi momenti è un danno irreparabile. Chiudo il negozio e andiamo a fare un giro, dice con decisione. Tanto ormai chi doveva comprare il pane, l'ha comprato. Mica viene più nessuno a 'ste ore! Penso a cosa rispondere. Lei si volta, entra nel negozio e esce con le chiavi in mano. Chiude, mi prende sotto braccio e mi trascina verso nord, in cima al paese. Camminiamo veloci. Fa caldo. Finisce la strada asfaltata e scura e ne inizia una sterrata e bianca. Finiscono le case e iniziano i prati. Finiscono i prati e inizia il bosco. Ci sono venuto spesso a correre, penso mentre cammino emozionato. Alzo lo sguardo verso l'alto: il cielo è blu. Torno a posare gli occhi su di lei. È sudata. Fa caldo, dice. Ha denti bianchi e compatti. Le sorrido anch'io e annuisco. Sei di poche parole, tu, dice senza smettere di camminare. Mica ti mangio! Poi si volta e accelera il passo. Mi precede, quasi trascinandomi. Osservo i capelli caderle dolcemente sulle spalle, sfiorarle e poi risalire. Oggi non ha la minigonna. Ha i jeans. Nel bosco si sta bene. È più scuro, più fresco. La ragazza, un paio di metri davanti a me, sterza (si dice, no?) verso sinistra. Lasciamo la strada sterrata, ci arrampichiamo carponi sul pendio di terra umida, raggiungiamo l'apice, scolliniamo. Da lì parte un lungo prato in discesa, circondato da faggi e abeti. Una radura nascosta nel bosco. Eccoci arrivati, dice. È bellissimo, riesco a dire. Vieni, siediti qui. Ci sediamo in cima al prato. Uno accanto all'altro. I rami di un faggio ci coprono per metà. Mi guarda. Io osservo la distesa d'erba. Lei, buttandosi, mi travolge. Inizia a baciarmi con la lingua selvaggia. Hai bevuto ieri, dice staccandosi dalle mie labbra. Hai un alito da schifo. Tossisce. Sa di cane bagnato, dice sputando sull'erba. Poi sbuffa. Prende una gomma da masticare dalla sua borsetta nera e me la infila in bocca. Torna selvaggia. Mi lascio prendere e sbattere al suolo. Lei si toglie la maglietta rossa a maniche corte. Ha il petto coperto da un reggiseno bianco. Toglie anche quello, mi prende una mano e la poggia su un seno. Mi lascio andare all'istinto. È una vita che non lo faccio. Quando la sento ansimare mi si riempie il petto di orgoglio. Subito si alza lasciandomi insoddisfatto, felice a metà. Non capisco. Si stende sul prato e respira a pieni polmoni il fumo grigio di una sigaretta. Rimango immobile in attesa di un suo gesto, di una parola. Lei si accende un'altra sigaretta. Mi distendo anch'io a schiena in giù. Sudato e nudo. Lei appoggia il viso sul mio petto e rimaniamo così per qualche attimo. Devo tornare, mi dice gettando la seconda sigaretta accesa tra l'erba. La accompagno, signorina, dico facendomi pena. Sbrigati, ho fretta! Mica posso tenere chiuso un'ora! Spengo la sua sigaretta, la raccolgo da terra assieme alla prima e me le infilo in tasca. Lei è già lontana. La raggiungo correndo. La lascio al negozio. Lei entra rapida, senza salutarmi. Torno a casa. Salgo le scale. Quando entro mi accorgo di aver dimenticato il pane sul prato. Ridiscendo le scale, esco correndo e risalgo la montagna fino al punto in cui ho fatto l'amore a metà con quella strana ragazza troppo truccata. Prendo il pane. Per terra trovo anche un oggetto. Lo raccolgo e lo annuso. Ha il suo odore. Mi metto a correre giù per il prato. Entro nel negozio di alimentari, glielo porgo. Lei, senza dire niente, lo prende e torna a servire un anziano cliente. Rimango fermo aspettando nuovamente un suo gesto, una parola. Niente. Mi giro e esco, corro a casa. lente canzoni sordomute Lucas e Klaus sono svegli. Stanno cantando sulla terrazza. Mi avvicino cercando di non farmi sentire, voglio spaventarli. Quando sono alla portafinestra si girano come niente fosse. Ciao, dove andato?, dicono all'unisono smettendo di cantare. Amo il gergo ridotto all'osso col quale comunicano. È poetico e rapido allo stesso tempo. Mimo il gesto di correre. Sempre corsa, eh? Capace rilassarti? Impara da noi, dicono toccandosi le pance prominenti. I capelli lunghi oltre le spalle, la barba pungente, il fisico sfatto li fanno sembrare dei cantanti rock. Quando riprendono a cantare, la loro voce, forse un falsetto, stride. Non conosco la canzone. La melodia è dolce, le parole escono strascicate, incomprensibili. Come fanno dei sordomuti a cantare? Vorrei tanto chiederglielo, non me la sento. Piace?, chiedono quando hanno terminato. Annuisco. Poco o tanto? Non so cosa rispondere. Orecchiabile? Da, dico in russo. Da?, dice Lucas con la faccia storta. Significa che siete andati alla grande!, dico per rassicurarli. Loro si guardano e si danno il cinque. Abbiamo scritta noi! Vogliamo registrare disco nostre canzoni! Sorrido compiaciuto. Idea grandiosa!, dico. Li guardo rimirarsi pieni d'orgoglio. Pensavi fabbrica grigia fumosa nostro unico passatempo? Capisco solo metà delle parole di Klaus. Riesco a cogliere l'ironia, il senso. Vorrei dirgli che anch'io ho un sogno e non faccio che pensarci giorno e notte. Lascio perdere. Non capirebbero. Per loro leggere è una perdita di tempo: figuriamoci passare le serate a scrivere centinaia di inutili cartelle al computer. Bravi, sono orgoglioso di voi!, dico. Vorrei far cenno alla difficoltà che avranno incontrato a causa della loro malattia, non mi sembra il momento. Ho paura di non trovare le parole adatte, di ferirli. Non mi va di rovinare la nostra settimana di festa. Li abbraccio rimanendo col dubbio: come fanno due sordomuti a scrivere note e cantare canzoni? Penso a me e alla mia testardaggine di voler scrivere in tedesco anziché in lettone o in russo: è un po' la stessa cosa: sia per loro che per me è l'immensa fatica a esprimerci che ci rende autentici. L'aspirante artista cerca la semplicità nella cura infinita; il vero artista la trova. Prepariamo il pranzo e mangiamo. Vedete quella montagna?, dico indicandola. Certo, noi non cechi!, dice Lucas. Rido. Pomeriggio andremo lassù, quasi fino in cima. C'è un bivacco dove è possibile dormire. I due si guardano. Poi rivolti a me gridano, fin lassù? Forza, dobbiamo smaltire l'alcol di ieri. Lasciaci digerire, dice Lucas. Il miglior modo per digerire è camminare. Forza, fin là è discesa, vedete? La salita viene dopo. Appunto, dicono. Non troppo contenti, preparano gli zaini e indossano scarpe e calzettoni. Faccio per scendere le scale. Ehi!, grida Lucas. Cosa mangiamo? Torno su di qualche gradino in modo che possa leggere le labbra. Ho comprato del pane. Poi nel bosco possiamo raccogliere funghi, ortiche, mirtilli e fragoline. Tranquillo, non moriremo di fame. Lucas mi guarda un po' perplesso. Poi colpisce il muro con violenza per tre volte. È uno dei loro codici per chiamarsi, deduco. Subito dopo esce Klaus, chiude la porta e viene a portarmi le chiavi. Le ripongo nella tasca dello zaino e chiudo la cerniera. Scendiamo le scale di corsa e una volta fuori cominciamo a camminare verso sud. salita Quando inizia la salita Klaus si mette in testa. Dopo un po' io e Lucas non lo vediamo più. Continuiamo a camminare in pace, senza parlare. Io osservo le foglie dei faggi oscillare e produrre un rumore antico, una voce che mi parla, e io sono felice di ascoltarla. Quando corro certe cose non le noto. Ogni tanto i nostri sguardi si incontrano e ci scambiamo un sorriso. Non esistono parole belle quanto un sentimento. Ci godiamo la fatica e procediamo lenti, immersi nel silenzio: lui nel silenzio assoluto, io nel silenzio del bosco, dei ruscelli, dei passerotti e delle capinere. Quando arriviamo a un crocifisso di legno, troviamo Klaus in piedi che ci aspetta. È la sua vendetta: ultimo in acqua, primo sulla terra. Io mi avvicino al crocifisso e lo accarezzo, lo annuso. Non credo in Dio eppure la figura del Gesù – credo nella sua esistenza – in croce mi ha sempre affascinato: l'intensità di quel volto sofferente si insinua nel mio cuore ogni volta che lo osservo. È quassù, attorno al crocifisso, che parcheggiano le auto i più sfaticati. È un mercoledì d'agosto e non c'è un'auto. Sono tutti al mare, in Italia, in Croazia, chissà dove. Chi è rimasto lavora. Anche Lucas e Klaus se ne vanno la settimana prossima, non ho capito dove. Ho preferito partire da casa a piedi, come quando vado a correre. La loro vecchia golf avrebbe faticato. Lucas insiste per sedersi ai piedi del crocifisso a riposare. Guardo di nuovo in faccia Gesù, poi osservo Lucas: sono entrambi sofferenti. Klaus però scalpita per proseguire, incurante del fratello. Tiro fuori dallo zaino una bottiglia d'acqua vuota. Klaus, seguimi, dico dandogli una pacca sulla spalla e facendogli segno con la mano. Lasciamo riprendere fiato a Lucas e ci inoltriamo nel bosco di abeti rossi. Camminiamo in salita a gran velocità. Mi volto e noto la faccia stravolta di Klaus, stenta a seguirmi. Continuo senza decelerare. Quando giungo alla sorgente Klaus non c'è più. Mentre riempio la bottiglia sento i suoi passi pesanti. Quando arriva gli porgo l'acqua, è troppo affannato per riuscire a bere. Scendiamo dai, Lucas si sarà riposato, dico cercando di fargli leggere il labiale. Mi guarda perplesso senza spiaccicare parola, ansimando. Alza la bottiglia, comincia a bere. Torniamo da Lucas, dico lentamente. Ok, dice rosso e sudato. Scendiamo a passo svelto e diamo da bere a Lucas. Metto la bottiglia nello zaino, ripartiamo. Procediamo vicini, con lo stesso passo. I sassolini del sentiero si spostano alla pressione dei nostri passi decisi. Senza volerlo diffondiamo nell'aria un suono ritmato, antropico. La prima goccia di sudore che mi scivola sul viso va a bagnare la maglietta bianca. Mi fermo, la tolgo e la ripongo con cura nello zaino. Mentre riprendo a camminare osservo il mio costato scheletrico chiedendomi se non sia troppo magro. Devo stare attento a quei due: se uno di loro dovesse perdersi, non servirebbe a niente gridare: non mi sentirebbe. Questo e altri pensieri mi affollano la testa. Salgo senza nemmeno rendermene conto. Osservo le scarpe da ginnastica nuove. Sono un guanto vellutato per i piedi rigidi e callosi. Alzo lo sguardo e controllo se i miei due amici mi seguono. Butto gli occhi in su. Il blu uniforme mi riempie la vista di gioia. In mezzo alla natura mi sento a mio agio, sempre, spariscono i cattivi pensieri e non sono ossessionato dalla malattia di mio padre, dalla cattiveria di mia madre, da un lavoro in fabbrica alienante e ingrato, dalla vita solitaria e incolore che sto vivendo in Austria. Era meglio andare in Russia, penso spesso. Avrei potuto praticare la lingua letteraria per eccellenza, iniziare a scrivere romanzi in russo, idioma che ho studiato per anni. Non avrei faticato per trovare un lavoro, ma di certo non sarei arrivato alle cifre che guadagno qui in Austria: però adesso starei scrivendo libri come un giovane Tolstoj, non come un giovane Süskind, se mi spiego. A volte penso che dovrei fregarmene di tutto, perfino dei miei genitori. Scappare dalla società e vivere in mezzo alla natura come fece il buon Thoreau a Walden. Oppure spostarmi in Sud America o su qualche isola della fascia equatoriale dove potrei passare il tempo a pescare, leggere e scrivere, come faceva Hemingway a Cuba. Poi torno alla realtà, non serve a niente scappare. Preferisco affrontarla. Non riuscirei a sopravvivere schiacciato dal senso di colpa della fuga. Una delle poche cose che ho capito di me, è che sono buono. Forse troppo. Non so perché. Forse è una forma di vigliaccheria. Il mio carattere è così e così continuerò a vivere, a costo di strisciare per terra, calpestato come un tappetino rosso. Ehi!, sento urlare alle mie spalle. Sono Klaus e Lucas che m'implorano. Mi sono perso nei pensieri, nei meandri della mia inesauribile fantasia: mi capita spesso negli ultimi mesi. È la voglia di evadere, le gambe vagano nel mondo reale con la testa persa tra le vicende di un mondo immaginario. Mi succede anche quando corro: gli occhi vedono il sentiero, la mente guarda la trama di un nuovo romanzo. Oppure quando sono in corriera: i miei occhi vedono parole, la mia mente vaga verso lidi lontani anni-luce, dove il sole scalda i cuori solitari e la gente si guarda e sorride: negli ultimi mesi per tre volte non mi sono accorto del tempo e dello spazio reali, del loro continuo scorrere e sono sceso alla fermata successiva, e ho camminato verso casa nel buio della sera con i piedi dentro agli scarponi da lavoro con la loro maledetta punta di ferro che impedisce ogni istinto di libertà. Senza accorgermene mi perdo una volta ancora a pensare, Klaus mi dà uno strattone supplicando una pausa. Spiego loro, più a gesti che a parole, che di lì a poco c'è un punto panoramico dove sostare e bere un po' d'acqua. Ricominciano a camminare con energia. Nella testa mi batte forte una canzone. È diversa da quella che cantavano Lucas e Klaus. Mi rimbalza in testa una cantilena russa. Viene da lontano, da un remoto angolo d'infanzia. Me la cantava mia madre quand'ero piccolo, forse anche mio padre, quando ancora camminava sui suoi piedi, quando ancora sorrideva. Com'è venuta, la melodia se ne va, lasciandomi solo, immerso in pensieri sterili. Mentre la mente è persa a cercare mia madre intenta a cantarmi una canzone, gli occhi vedono un giaciglio. Come un automa mi fermo, esco dal mondo dei sogni, e mi siedo ad aspettare. Lucas e Klaus non tardano. Offro loro dell'acqua e li invito a sedersi. Con l'indice punto verso il villaggio in basso, cercando d'individuare la casa dove vivo. Da qui sembrano tutte uguali, come le casette di un presepe. Attendo finché Lucas non si accorge della mia mano alzata: urlare non sarebbe servito a niente. Dice di averla individuata. Mi rendo conto che indica un altro punto. Poi lo osservo dare una pacca a Klaus assorto in altri pensieri. Sono rossi in viso per il sole di montagna e la fatica, gocciolano di sudore, il panorama riesce a derubare loro un sorriso. Capiscono di aver percorso un bel tratto di strada. Mentre Lucas mi spiega a fatica che le case del paese sembrano – se ho capito bene – i minuscoli pezzi di un mosaico, Klaus calcola il dislivello accumulato: in meno di due ore ci siamo alzati di circa mille e duecento metri d'altitudine. Stiamo proseguendo ai ritmi indicati dai cartelli posti lungo il sentiero, dico. Quando corro impiego poco più di mezzora, penso. Il sole si sta lentamente abbassando a ovest. Un'ora e saremo arrivati al bivacco. Lassù, a oltre duemilacinquecento metri, ci saremo noi, un paio di caproni, se siamo fortunati un piccolo branco di camosci, qualche decina di marmotte e un falco pellegrino. Anche se è agosto, il sole tramonta, l'aria si fa fresca. Le notti sono lunghe e gelide, un'infinità di stelle riempie il cielo. Lo so perché in giugno mi è capitato di passarci un fine settimana. La ricordo come un'esperienza amena immerso nella natura d'alta quota. Nessuno per due giorni e due notti. Solo il vento e un falco pellegrino a farmi compagnia. Ancora una volta la mano di Lucas mi desta, vogliono riprendere il cammino. Ricominciamo a salire il versante sud. Sono contento. Amici di parche parole permettono di camminare in libertà, lasciando ai sogni il compito di cullare l'anima. Non è stato un caso se siamo diventati amici. Non esistono le coincidenze. Avevo bisogno di loro, loro di me. Mi fanno compagnia dandomi il tempo e lo spazio per respirare. Il nostro è un matrimonio felice. Non posso paragonarli agli amici che avevo a Riga ai tempi dell'università, non c'è la stessa condivisione, la stessa unità di vedute, la stessa profondità, però, ci si intende a livello umano, e senza di loro sarei un vegetale. Non è un caso se le prime due ragazze che mi hanno degnato di uno sguardo negli ultimi dieci mesi – da quando ho messo piede in Austria – sono apparse dopo che Lucas e Klaus hanno messo piede a casa mia, cioè lunedì scorso. Mi stanno rimettendo in sesto. Mi stanno riaprendo le porte della società. Ora che ho perso i genitori, gli amici, i conoscenti di una vita, sono loro l'unica ancora di salvezza che mi lega al mondo degli uomini. Non credo che quando se ne saranno andati continuerò a fare questa vita dissoluta. Ogni tanto è utile fare gli stupidi, ubriacarsi, prendere la vita alla leggera, sperperare il proprio tempo. Molti scrittori famosi erano grandi bevitori e infaticabili donnaioli. Hemingway, Bukowski, Miller, Kerouac: uno scrittore la vita, prima di raccontarla, la deve vivere, diceva Emerson (o forse era Thoreau?). In fondo gli scrittori americani non gli ho mai capiti: quando puoi leggerei i russi nella loro lingua madre, il resto non conta: sono tutti scrittori minori. La settimana prossima, quando Lucas e Klaus se ne saranno andati, riprenderò le mie letture, mi darò tutto alla scrittura: se voglio sfondare e vivere di libri sarà bene impegnarmi adesso che sono in ferie e ho il tempo che mi serve: non voglio passare il resto dei miei giorni con un inguaribile senso di colpa. Li vedo in lontananza. Aspetto che guardino le mie labbra. Eccolo, dico indicandolo. Il bivacco si sporge rosso tra le rocce grige, dure, a un centinaio di metri, quasi in cima alla montagna. Sarà bene raccogliere un po' di legna, dico. Guardate qui! Mostro loro i funghi che ho raccolto lungo il sentiero. Mi guardano a bocca aperta, mi abbracciano. Dico loro di raccogliere i rami di pino mugo che trovano per terra. Io m'incarico dei tronchi più grossi. Li appoggio sulle spalle e accelero fino al bivacco. Li butto a terra, apro il chiavistello ed entro. Un tanfo di stantio mi invade le narici e il palato. Esco, prendo fiato e rientro. Apro le finestre. Lascio lo zaino su un letto e torno fuori a guardare a che punto sono. Li accolgo con dell'acqua fresca. Li invito a darmi i rami raccolti e a sdraiarsi sui letti per prendere fiato. Ti ammazzo, dice Lucas gettandosi sul materasso impolverato. Aspetto che il suo cuore prenda un ritmo più umano e lo aiuto a sollevarsi. Lo porto fuori, dietro al bivacco. Lo lascio guardare. Dopo un po' ci raggiunge anche Klaus. Rimaniamo lì, in silenzio, immobili a osservare le vallate verdi che si perdono a vista d'occhio puntellate di gruppi di case qua e là. Solo la grande città rovina l'idillio che abbiamo dinnanzi agli occhi. La vediamo sbuffare, la sentiamo respirare affannosa. Poi torno a guardare le alte cime che danno forma a un orizzonte seghettato e lontanissimo. Sento gli occhi farsi lucidi. Una piccola lacrima mi accarezza la guancia destra. Sono felice. Mi volto a guardare i miei amici. Li abbraccio. Hanno gli occhi bagnati e rossi. Il tramonto ci saluta con un cerchio viola, enorme e infuocato, che scende sotto l'orizzonte. Li stringo forte a me, come fossero fratelli, come se dopo un anno avessi finalmente ritrovato la famiglia che avevo perso. Aspettiamo che il sole se ne vada, fino all'ultimo. Si accorgono che ho il viso segnato dalle lacrime. Mi baciano sulle guance e mi danno dei buffetti a turno, sorridendo. I loro sguardi si fanno di nuovo tristi, sale la notte sempre più scura. Quando sono certo che entrambi mi stiano guardando, dico che preparerò un'ottima cena. Sembra passato un secolo, invece solo stamattina ho fatto l'amore con una semisconosciuta, dopo quindici mesi di astinenza. Un amore a metà. Un amore che mi ha lasciato insoddisfatto, carico di energie positive e negative. Di lei mi è rimasto soltanto un sacchetto con del pane integrale. Posso rivederla quando voglio, lei non mi parlerà. Forse non le è piaciuto il modo in cui l'ho fatto, forse non le andava bene la forma del mio fallo, o forse le è rimasto impresso il mio alito di whisky marcio, di cane bagnato: forse non gliene importa niente di me. Sono solo una comparsa, una maschera come le altre, piccola e insignificante: un puntino invisibile del quale non vale la pena ricordarsi. Klaus accende il fuoco con la legna raccolta. Se i rami sono troppo lunghi li spezza con gli scarponi contro l'angolo retto che la parete forma con il pavimento. Io accompagno Lucas a riempire una pentola. Dalle rocce cade acqua lievemente salata e, goccia a goccia, Lucas aspetta che la pentola sia piena. Nel frattempo torno verso valle per raccogliere mirtilli e fragole di bosco. Fra un po' sarà buio. Corro per dieci minuti, fino a incontrare una piccola radura circondata da un bosco di pini. Sapevo che qui avrei trovato quello che cercavo, ci sono stato ancora. Estraggo la bottiglia di plastica dallo zaino, bevo l'ultima acqua rimasta e la riempio pazientemente di fragoline e mirtilli. La chiudo con attenzione e la ripongo nello zaino. Riprendo a correre con le ultime luci del giorno. In un quarto d'ora sono di nuovo al bivacco. Mostro la bottiglia. Non capiscono. Si avvicinano, fanno salti di gioia. Sei grande!, dice Klaus. Io sorrido. Bastasse questo, dico tra me e me pensando alla fatica immane che sto mettendo nella stesura del romanzo. Nonostante abbia un fisico esile rispetto ai gemelli, al loro fianco mi sento un vero uomo. Con le donne austriache mi sono rivelato un disastro: un maniaco, un accattone, un oggetto sessuale dall'alito puzzolente. Al lavoro mi trattano da schiavo, da robot. Quando sono al telefono devo fingere di non capire che i miei genitori non amano più me, ma i soldi che spedisco ogni mese. Sono un artista frustato e insoddisfatto, un illuso consapevole di esserlo. In compagnia dei miei due amici mi sento a posto, considerato per quello che sono realmente, un ragazzo magro, con le gambe storte – e forse ogni tanto l'alito pesante – che ama correre, leggere, scrivere e andare in montagna. È questo che sono. La nottata passata e la giornata piena di eventi mi hanno reso stanco e felice. Decido di sdraiarmi un minuto sul letto dove prima ho appoggiato lo zaino, per riprendere le forze. Quando mi sveglio è tardi, lo sento dalla testa, da quanto pesa. La porta è chiusa. La stufa scoppietta. Emette una luce arancione e intensa. Chiedo agli altri che ore sono. Nove mezza, mi rispondono. Dovevate svegliarmi!, dico. Klaus e Lucas si mettono a ridere e tornano a trafficare ai fornelli. Mi avvicino. Hanno preparato una marea di spaghetti con panna e funghi. Mi spiegano che non è panna, ma latte che hanno munto da una capra. Come?, dico pensando di aver capito male. Loro tolgono la padella dal centro incandescente della stufa e la ripongono sul bordo nero. Mi fanno segno di seguirli. Usciamo. Fuori, al buio, intravedo la silhouette di un animale. Mi avvicino cauto fino a riconoscere una grossa capra legata con uno spago alla parete rocciosa illuminata da uno spicchio di luna. Ma siete pazzi?, dico. Come avete fatto a catturarla? Non rispondono. Il buio impedisce loro di leggere il labiale. Non c'è modo di comunicare. Mi giro verso il caprone, lo accarezzo e rientro nel bivacco. Come avete fatto?, ripeto. Passava qui. Abbiamo attirato con pane e saltati addosso. Raccontano l'accaduto freneticamente, un po' l'uno un po' l'altro, un po' insieme, rendendomi impossibile comprendere. Sorrido divertito e attendo che finiscano. Complimenti, dico. Ma ora è tempo di mangiare! Rimettono la padella sul fuoco per qualche decina di secondi. Li osservo ammirato finché non mi fanno cenno di spostarmi e la mettono al centro del tavolo in legno di pino. Ognuno mangia dalla padella con la propria forchetta, come usavamo fare in Russia nella mia famiglia. Ricordo che mio padre tra una forchettata e l'altra beveva mezza bottiglia di vodka ogni sera. Poi lui e mia madre sparivano in camera. Io e mio fratello restavamo soli, sparecchiavamo la tavola e io – cocciuto di un imbecille che non sei altro! - lavavo le stoviglie e la padella mentre lui andava a origliare. Mi alzo, controllo il fuoco e aggiungo uno stizzo. Torno a sedermi, aspetto che terminino di mangiare. Quando non ce la fanno più, riprendo in mano la forchetta e termino l'intera padella. Il mio stomaco assomiglia alla gobba di un cammello: posso stare due giorni senza mangiare: quando ce n'è, divento un pozzo senza fine. Lavo la padella, le forchette e il mestolo. Prendo la bottiglia e, a turno, ci beviamo delle sorsate di mirtilli e fragoline. È strano. Normalmente ci sarebbe chiasso. Invece noi rimaniamo in silenzio coi nostri pensieri, ci accontentiamo di fare gesti stupidi e grandi risate. E non ci manca niente. 5 AGOSTO 1999 La mattina seguente mungiamo del latte dalla capra prima di liberarla e facciamo colazione. Rimettiamo in ordine e chiudiamo la porta in gelido metallo del bivacco. Sono le otto e il sole d'agosto è lontano e un'aria fresca ci sorprende. Per scaldarci camminiamo verso est. In una mezzora siamo in cima, il vento ci secca il sudore. Lucas mi fa notare che sporgendosi si può scorgere il rifugio dove abbiamo passato la nottata. Nonostante le vertigini, mi sporgo. Il rifugio rosso vivo risalta tra le grige pareti rocciose. Sotto, lontano, inizia un bosco verde scuro. In fondo al bosco s'intravedono i prati e i campi coltivati, le strade e le case, a ovest più lontana la città, la grande società del futuro. All'improvviso sento un boato squarciare l'aria. Un ritmo regolare rovina il magico silenzio della montagna. Lucas e Klaus mi osservano senza capire. Con la mano destra descrivo nell'aria una spirale, con le braccia simulo il volo di un uccello. Il rumore è sempre più forte. Mi giro verso sud. Da dietro la montagna sbuca un elicottero nero. Si ferma qualche decina di metri sopra le nostre teste. Possiamo sentire lo spostamento d'aria. Mi tappo le orecchie. Ci inginocchiamo a terra per ancorarci meglio. Lucas e Klaus salutano con le braccia alzate. Vorrei farlo anch'io ma il boato è troppo forte, se tolgo le dita dalle orecchio ho male. A un certo punto scattano in piedi saltando e sorridendo come bambini. Così com'è venuto, rapidamente l'elicottero, se ne va a ovest, verso la civiltà. Rimaniamo immobili, rapiti dal volo di quell'enorme uccello volante. Scomparso all'orizzonte, dietro a una montagna, restiamo in silenzio ad ammirare il panorama infinito. C'è il sole che scalda, il vento è freddo e violento. Proseguiamo verso est, verso una cima lontana. I nostri cuori sono immuni a tristi pensieri, sufficiente a renderla una giornata unica. Trascorriamo la mattinata sulla cresta della montagna a quasi tremila metri, il tardo pomeriggio nei prati a mangiare lamponi e fragole selvatiche. Arriviamo a casa affamati, stanchi. Mangiamo e ci buttiamo, chi sul divano chi sul letto. I giorni seguenti li passiamo a turno al lago o in montagna accompagnati da un sole mai stanco. Quando se ne vanno divento triste. Torno triste. Avrei ancora bisogno di loro. Non ho voglia di stare solo, mi sono divertito. Vorrei anch'io andare in vacanza a Cuba per tre settimane, non ho soldi a sufficienza: in fondo al cuore preferisco restare, dedicarmi ai miei sogni. La domenica sera piango. Sono solo e annebbiato dalla tristezza. Non ho nessuno a farmi compagnia. Passo la notte a scrivere e versare lacrime. Il lunedì vado sui computer della biblioteca e cerco un volo dell'ultimo minuto per L'Avana. Sarebbe la prima volta per me su un aereo, la prima volta in America, la prima volta in vacanza. Lascio perdere. Il senso di colpa non mi lascerebbe in pace un secondo. Torno a casa, mi metto a scrivere. Senza più smettere. Salto il pranzo. So che se scrivo qualcosa di buono la mia vita può svoltare. So che non sarà facile, ma dando tutto se stesso, chiunque può farcela. 02/09/1999 Oggi è il due di settembre. Ho passato le ultime tre settimane a scrivere quattordici ore al giorno. Mi alzavo alle sei, scrivevo fino a mezzogiorno, mangiavo un paio di mele, tornavo a scrivere fino alle quattro, uscivo per correre nei boschi e, nel tragitto di ritorno, raccoglievo funghi, rubavo qualche mela; facevo una doccia a casa, cucinavo i funghi in padella, tornavo a scrivere fino alle undici di sera: se le forze e l'ispirazione me lo permettevano scrivevo a oltranza, fino a crollare. Scrivere al computer non mi piace, mi sembra finto. Batti dei tasti con le dita e sul video appaiono parole, una dopo l'altra, frasi, una dopo l'altra. Scrivere a penna o a matita ha un altro sapore, un sapore vero. La voglia di sfondare, di guadagnarmi da vivere scrivendo il romanzo del nuovo millennio, mi fa preferire la videoscrittura: odio questa parola e quello che significa, ho troppa fretta per frenare. Durante l'estate ho scritto settecento cartelle di testo, circa cinquecento in sole tre settimane. Se arriverò a mille vorrà dire che avrò battuto i tasti un milione e ottocento mila volte: pensare che l'idea era di scrivere un romanzo breve. Ho preso il ritmo. Nessuno mi può fermare, se non la morte o la malattia. Settecento cartelle sono tante, più di mille pagine. Non mi preoccupo di quello che scrivo: scrivo e basta. Mi basta ricordare che, come diceva Hemingway, scrivere è riscrivere e capisco che sono sulla strada giusta. Quando sentirò di aver finito, comincerò a rileggere. Rileggendo scremerò. Ipotizzando di avere tra le mani una prima bozza di mille cartelle, sono certo che a forza di tagliare, arriverò a ridurre il manoscritto a due o trecento cartelle, non di più. Voglio uno stile asciutto, diretto, essenziale: niente avverbi e aggettivi inutili. So che sono sogni e che rimarranno tali, ma se uno non crede non ha nemmeno senso vivere. La vita è un lungo e triste sogno. 14/10/1999 Quattordici ottobre. Ieri mi hanno chiamato dalla Lettonia a carico del destinatario. Lucas e Klaus non fanno altro che raccontarmi di Cuba. Hanno conosciuto decine di ragazze: noi piace amore in tre, non fanno che ripetere. I miei non si facevano sentire da ferragosto, eccetto una cartolina da Culdiga a luglio e una da Tallin a fine agosto. Sanno che sono troppo buono. Passo le pause ad ascoltare le avventure dei miei due amici. A volte mi ripetono cose già dette, mi piace ascoltare. Penso possa essere materiale utile per un romanzo. Ascolto e mi chiedo se, oltre alle ragazze, abbiano visto gli splendori e le miserie dell'isola. Io non me la sono più sentita di telefonare. Sanno che sono troppo buono. Ho continuato a spedire il denaro, mi sono rifiutato di chiamarli. Le uniche volte che l'ho fatto non li ho trovati a casa. Mia madre ha comprato un cellulare, non mi va di buttare denaro. Vorrei chiedere se sanno chi sono Guevara e Castro, se hanno visto il comunismo con occhi da capitalista, se hanno fatto qualche foto. Se ieri mi hanno chiamato c'è un motivo. Hanno chiamato perché non si sono visti recapitare l'ultimo assegno. Ho detto loro di non preoccuparsi, i soldi arriveranno, sarà un ritardo dovuto alle poste. È la verità. Mi hanno chiesto come sto e perché non li vado mai a trovare. Ho risposto che oltre ai soldi che spedisco non me ne avanzano, se non quelli per la mia sussistenza. Allora mia madre mi ha rinfacciato di essermi comprato il computer, la stampante e le scarpe da ginnastica. Io mi sono messo a piangere, in silenzio, ho cercato di riagganciare, ma, pensando alla malattia di mio padre, ho resistito. Riavvicinata la cornetta al mio orecchio ho chiesto a mia madre, come niente fosse, com'era Tallin. Sanno che sono troppo buono. Lei mi ha risposto in malo modo, ma quando ha capito che non ce l'avevo con loro, mi ha descritto il loro viaggio nei minimi dettagli, a cominciare dal pullman di lusso dove servivano alcolici e i sedili avevano la televisione incorporata, fino a raccontarmi ogni sfumatura della loro permanenza al Domina Inn City Hotel, nel centro storico di Tallin. A quel punto mi ha passato mio padre. Sanno che sono troppo buono. Dalla voce mi sembrava un uomo rinato, ma quando gliel'ho fatto notare ha cominciato a dirmi che quella era la prima e ultima vacanza della sua vita, che presto Dio l'avrebbe chiamato al suo fianco. Io gli ho dato un bacio sonoro, gli ho detto di spassarsela il più possibile. Sanno che sono troppo buono. Mio padre mi ha salutato bruscamente ridacchiando tra sé e sé e ha messo giù senza attendere il mio commiato. Sanno che sono troppo buono. 17/11/1999 È il diciassette novembre. Devo ancora ricevere la paga di ottobre. La fabbrica sta subendo le conseguenze della crisi. Il capo mi aveva detto di lavorare duro, di non preoccuparmi, per me ci sarebbe sempre stato lavoro. Klaus e Lucas sono in cassa integrazione dal primo del mese. Non mi fido del capo, pensa solo a se stesso, glielo leggo in faccia. Non mi fido di nessuno. Klaus e Lucas mi hanno aspettato fuori dalla fabbrica ieri l'altro. Siamo andati a bere una birra. Hanno offerto loro. Andiamo, hanno detto. Dove?, ho chiesto. Loro non hanno risposto. Dove?, ho ripetuto. Ancora silenzio. Cosa significa?!, ho ripetuto in preda la panico. Thailandia, ha detto Klaus. Soldi cassa integrazione. E poi soldi disoccupazione, ha detto Lucas mettendomi una mano sulla spalla. Calcolato possiamo vivere dieci anni. No problemi. Costo vita basso. Noi felici. Quando soldi kaput torniamo, ha detto Klaus. Mi hanno guardato con occhi al contempo tristi e felici. Addio intanto. Vorremo sempre bene. Hai fatto sentire noi persone normali. Saremo grati sempre. Era Lucas a parlare lentamente e a scandire bene le parole in modo che capissi. Intonarono la canzone che avevano cantato sul poggiolo di casa mia lo scorso agosto. Mi salutarono. Addio, dissi quando già si erano girati. 01/12/1999 È il primo dicembre. Un mercoledì grigio. Sono in cassa integrazione. Da oggi. Anch'io, come i miei due amici, l'ho saputo poche ore prima. Anch'io, come loro, non sono disperato. Ho deciso che sfrutterò il tempo per scrivere. Il manoscritto, o meglio la prima stesura del mio primo romanzo, ha superato le millecinquecento cartelle. Ancora non intravedo la fine. A novembre scrivevo tutti i giorni, almeno cinque ore. Mi rifugiavo in casa. Mi avvolgevo con una coperta di lana blu e marrone. Me ne stavo seduto a scrivere al computer. A fine giornata stampavo, spegnevo il computer, correggevo a penna. Prima di dormire riaccendevo il computer, correggevo gli errori, toglievo dove c'era da togliere. Ora che non devo più lavorare in fabbrica posso aumentare il ritmo, lavorare al romanzo quindici ore al giorno, finché ho energie. Per le prossime tre settimane, fino a Natale, andrò avanti ad acqua, lattine di fagioli e pane vecchio. Andrò nel negozio di alimentari in piazza ogni tre giorni. Vedere un po' di gente mi farà bene. La ragazza dell'amore a metà, come la chiamo nei miei sogni tristi, sarà sempre fredda, cattiva. Non sa che sarò famoso. quindici ore Mi sono dato dei limiti. Ho paura di impazzire. Quindici ore al massimo dal lunedì al venerdì, non più di dieci ore nei fine settimana, quattro e sei, cinque e cinque, sei e quattro. Non posso eccedere, rischierei di perdere il contatto con la realtà. Lo so perché alla fine di agosto, quando alzavo lo sguardo dal computer, vedevo i personaggi del romanzo contro il vetro della finestra, come fossero vivi. Come se la realtà parallela nella quale la mia mente viveva, stesse cercando d'invadere il mondo reale. C'è chi la chiamerebbe pazzia, io la chiamo passione. Il lavoro in fabbrica, per quanto anch'esso alienante, in settembre mi aveva fatto tornare normale. Da quando non lavoro più, temo per la mia salute mentale: vale la pena di rischiare? La risposta è una: non ho niente da perdere. Per ovviare alla pazzia, durante il fine settimana è bene che mi attenga alla realtà, dimenticando per quanto possibile il mondo che ho creato nella mia mente. Per questo ho fissato il limite di dieci ore per l'intero fine settimana. Non vedo l'ora di portare a termine la prima bozza e potermi dedicare totalmente alla riscrittura. Non corro più. Me ne accorgo solo ora. Con la cassa integrazione la paga è calata. Degli oltre mille euro di stipendio base, me ne rimangono settecentocinquanta. Quattrocentocinquanta per i miei, anche se comincio a pensare che siano troppi, il resto per me: per mangiare e per l'affitto. La cosa positiva, oltre al tempo libero, è che non spendo un euro per i mezzi di trasporto. Dopo due settimane di cassa integrazione, il quattordici dicembre alle ore tre e diciassette del mattino, sono arrivato a duemila cartelle. Un'eternità. Ho deciso di cambiare giorni e carico di lavoro. Una mattina mi sono svegliato e davanti a me c'era Christoph, un personaggio del mio romanzo. Lavorerò con tutte le mie forze dal giovedì alla domenica. Non scriverò, nemmeno un'ora, per tre giorni consecutivi: lunedì, martedì e mercoledì. Spero basti. Ho scelto questi giorni perché sono i giorni in cui tutti lavorano. Ho più tempo per pensare e starmene in pace: meno distrazioni, prima finirò il romanzo. Non parlo con nessuno. I miei non telefonano più. Lucas e Klaus non li sento da un paio di mesi, come potrei? Attendo che mandino una lettera, o una cartolina. Non ho colleghi con cui scambiare una battuta ogni tanto, uno sguardo, un sorriso accennato. Non vedo la padrona di casa. Ha cambiato metodo di pagamento: vuole che sia la banca a detrarre l'affitto direttamente dalla mio conto in banca. Si è spaventata quando le ho detto che mi hanno messo in cassa integrazione. Stava per buttarmi fuori. Ho pianto. Oggi sono andato a prendere il pane. La commessa dell'amore a metà, ha fatto finta di niente. Aveva la fede al dito. Soltanto una pazza si sposerebbe a dicembre, in una chiesa buia e gelata, mentre fuori sferza un vento freddo da nord. Una pazza che, se me lo avesse chiesto, anche in malo modo, avrei certamente sposato. Nonostante tutto. Non ho nessuno con cui confrontarmi. Non ho nessuno. Se non uno specchio e uno schermo vuoto. Scrivo e leggo, scrivo con la mente e corro stando fermo, mangio e dormo, scrivo un romanzo senza fine. Fine Prima Parte JESUS' BLOG – 3 gennaio 2000 Segue uno stralcio delle dichiarazioni che la signora Berta Socke ha rilasciato durante la conferenza stampa. "Ho visto quel povero ragazzo che camminava il giorno di Natale, solo e tutto bagnato sotto la neve. Mi ha fatto pena e l'ho fatto salire in casa. L'ho fatto sedere. Aveva fame e l'ho sfamato. Aveva sete e l'ho dissetato. Aveva freddo e l'ho scaldato..." "A un certo punto l'ho invitato a fermarsi a dormire da me. Ho una camera in più e il letto era già fatto. Il ragazzo invece di ringraziarmi ha cominciato a urlare, forse era il vino, non lo so, sembrava non capire più niente. Io per difendermi ho preso in mano un coltello e mi sono buttata contro una parete. Lui continuava a gridare, a farmi paura. A un certo punto ha preso le sue cose e se n'è andato di corsa. Io ero terrorizzata. Ho chiuso la porta a chiave. Ho preso i suoi calzini e l'ho gettati dala finestra, speravo li vedesse. Li avevo messi io stessa ad asciugare sul fuoco..." "La sera di Natale sono venuti a trovarmi i miei nipotini, Hans e Joseph. Ho raccontato loro tutta quella storia incredibile e si sono gentilmente offerti di raggiungerlo al rifugio Brauner Bär per portargli i calzini asciutti, vedere come stava e fargli un po' di compagnia. Ho detto loro di stare attenti, che era un ragazzo un po' strano." "Saranno partiti con le ciaspole verso le dieci della sera, bene o male." "Quando sono tornati da me, il giorno successivo, il 26 dicembre alle 14 circa, mi hanno detto che effettivamente si trattava di un ragazzo particolarmente strano, ma che stava bene, a parte qualche linea di febbre. Lo hanno lasciato dormire tutta la notte, gli hanno lasciato un po' di provviste e lo hanno avvertito delle valanghe: più di così non potevano fare!" UN ULTIMO BREVE ROMANZO AUTOBIOGRAFICO di Efrem Kowalski Seconda e ultima parte NATALE 1999 È natale. È natale e piove. È natale, piove: è il mio trentatreesimo compleanno. Chiamo i miei per gli auguri: la solita telefonata che mi fa ingoiare bocconi aspri. Sanno che sono troppo buono. Devo farla. Sono mesi che non ci sentiamo. Sanno che sono troppo buono. Do tutto a loro e loro continuano a chiedere di più, anche oggi che è natale, anche oggi che compio trentatré anni. Sanno che sono troppo buono. Hanno entrambi una voce dura, calcolata, astiosa, come se mi stessero sgridando, come se mi castigassero a soffrire perché ho sbagliato. Fanno leva sul mio senso di colpa, sul mio incondizionato affetto nei loro confronti. Dicono che i soldi arrivano in ritardo, che ne vorrebbero di più. Si lamentano che sia lontano da loro in questi momenti difficili. Sanno che sono troppo buono. Sono anziani, li rispetto. Non li capisco, li rispetto. Per questo continuerò a mandare ogni centesimo risparmiato. Se si comportano così avranno i loro motivi per farlo. Non sta a me giudicarli. Li amerei anche se volessero ammazzarmi. Senza di loro non esisterei, non sarei qui a sognare un futuro migliore. Sanno che sono troppo buono. Quando metto giù la cornetta, sono triste. Esco sul poggiolo e sporgo la faccia in avanti, sotto la pioggia leggera come fiocchi di neve. Rimango immobile, osservando l'alito farsi fumo. Rientro inzuppato e infreddolito. Decido di uscire. Non ho paura del freddo. Amo il freddo, mi ricorda quand'ero piccolo. Voglio staccare. Voglio andarmene da questo appartamento ammuffito. La telefonata ha rovinato il giorno più bello, il Natale, il giorno del mio compleanno. Devo uscire prima d'impazzire. Esco. Starò via qualche giorno, penso. Passo in negozio. Compro pane e affettati. È aperto nonostante la festività. È sempre aperto. La ragazza sposata, la cassiera in minigonne d'inverno, la ragazza dell'amore a metà, la ragazza fredda e cattiva, non mi fa gli auguri. Quando sto per uscire con la coda dell'occhio la vedo alzarsi. Mi giro sorridendo. Lei mi fredda con lo sguardo, scura in volto. Viene da me, mi spinge fuori in malo modo, oltre la soglia. Esce anche lei e chiude la porta a chiave. Si dirige verso ovest. Scompare dietro la curva della via acciottolata. Sento le campane suonare. È mezzogiorno. Torno a casa. Metto pane e affettati nello zaino, assieme a una bottiglia vuota, una canottiera e dei calzini di ricambio. Non dimentico la penna e il quaderno. Mi metto la giacca pesante e gli scarponi da lavoro con la punta di metallo. Mi avvio. Non riconosco le montagne. In inverno si somigliano. L'orizzonte è coperto da chilometri di neve. In estate ho percorso strade e sentieri. Ora mi sento cieco, perso. Ripenso per un attimo a Klaus e Lucas, al loro vivere sereno nonostante la malattia. Il ventuno dicembre è arrivata una cartolina da Pai. Era piena di errori grammaticali e aveva una grafia illeggibile. La difficoltà di esprimersi a causa della malattia si manifesta anche nella scrittura, pensai mentre entravo in casa. Leggendo la cartolina capii che fumavano spinelli e bevevano birra Chang, andavano ai concerti con le ragazze del posto. Stavano in un villaggio hippy vicino a Chang Mai, nel nord della Thailandia. La frase finale diceva: P.S. noi piace amore in tre!!! Erano felici. Io lo capisco dalle parole che usa, se uno è felice o no. Loro lo sono. Le loro sono parole sincere. Non sono false. Sono vere. Lucas e Klaus sono felici e spensierati. Se lo meritano. Hanno saputo convivere con la sfortuna e, al momento giusto, hanno tagliato le radici e sono volati dall'altra parte del mondo, nel posto giusto. Mi dirigo verso nord-est. Una regione che non conosco. Per questo mi affascina. Ci sono andato un sabato mattina, la scorsa primavera. A poche ore di cammino c'è un bivacco con letti e legna da ardere. Stanotte dormirò lì. Domani continuerò verso est, lungo la catena montuosa che conduce al confine con l'Ungheria. Un enorme altopiano desolato ricco di guglie altissime e di pendii innevati: è così che me lo immagino. Lenta via di pietra Percorro un'antica via acciottolata. Scivolo sul ghiaccio dei larghi ciottoli di pietra. Scendo a passi lenti per un'ora. Non c'è anima viva. A Natale se ne stanno a casa, al caldo, coi parenti. Anch'io se potessi. Invece cammino sul ghiaccio con un paio di scarponi neri dalla punta di metallo. Finita la discesa c'è una strada asfaltata a quattro corsie che taglia il passaggio, come un fiume del futuro, con argini dritti e infiniti. Regna il silenzio. Osservo la nuova intrusione antropica. Sputo. La mia strada romana, il mio mondo antico, va a infrangersi contro uno stupido muro di modernità. Non ci sono ponti nelle vicinanze. Non c'è nulla, se non un bosco ferito. Non vedo automobili. Forse è un tratto iniziale d'autostrada, poco frequentato. Salto giù dal muretto che la separa dai boschi ricoperti di neve. Scivolo, per poco non finisco a terra. Attraverso le due corsie. Scavalco il doppio guardrail che segue l'asse della strada. Scivolo e finisco a terra. Sbatto contro l'asfalto ghiacciato. Faccio per rialzarmi quando sento un clacson suonare lontano, stonato. Suona senza interruzioni. Mi alzo e termino la traversata di corsa, dolorante. Il clacson smette di suonare. Un'automobile grigia si avvicina. Il clacson continua a suonare nella mia testa. Viaggia nella corsia d'emergenza. Si ferma. C'è silenzio, a parte il soffio leggero del vento e il motore acceso. L'uomo è immobile. Il finestrino destro scende, lentamente, a velocità costante. Il vetro è giù, l'uomo muove le labbra, le agita, le corruga, le stira, impreca in un dialetto che non riesco a capire. Ha circa cinquant'anni, una sigaretta accesa, i capelli unti col riporto, il naso grande e butterato. Sono a un paio di metri dall'auto, colpevole della sua arrabbiatura. Rimango seduto sul guardrail. Faccio un gesto di scusa. Sorrido. Lui smette di stropicciare i muscoli della faccia, mi guarda con rimprovero. Forse aveva solo bisogno di prendersela con qualcuno. A questo pensiero sorrido di nuovo. Riparte sbandando. Una volta in carreggiata, sfreccia verso l'orizzonte. Torna il silenzio. Mi rialzo a fatica, metto un piede sul guardrail metallico, salgo in cima al muretto e mi ritrovo di nuovo immerso nella natura. La strada di ciottoli è scomparsa, così la serenità. Ho rischiato di morire, penso, morire il giorno del mio trentatreesimo compleanno. Le montagne sono vicine. Venti minuti di passo rapido e sono sul pendio. Il dolore per la caduta è sparito. La grande lingua d'asfalto è lontana, il grande fiume del futuro fa parte del passato. Sento sfrecciare un'automobile in lontananza. Camminare mi aiuta a dimenticare ciò che non conta. Il sentiero si inerpica stretto verso est. Alzo lo sguardo in basso a destra: c'è una strada carreggiabile che corre parallela al sentiero. La vedo avvicinarsi a ogni passo. È di pietrisco, larga quanto un'automobile. In alcuni punti ci sono pozzanghere ghiacciate. In cima alla strada c'è un paesino. Sembra un piccolo pugno di case, una ventina di persone al massimo: l'ultima traccia di vita umana prima dell'enorme altopiano che conduce all'Ungheria. Oltre il villaggio non c'è niente. Un oceano bianco senza fine. Non vedrò anima viva per decine di chilometri. È per questo che ci vado. Sono passato lassù all'inizio della scorsa estate. Forse in tarda primavera, non ricordo. Non c'era la biblioteca, questo lo ricordo, e nemmeno un punto di lettura. Guardo il campanile della chiesa, è quasi l'una, la gente mangia felice nelle vecchie case di pietra legno e mattoni: non più di una decina: alcune vanno a pezzi, altre hanno il tetto sfondato. Percorro la via che attraversa il centro abitato. Una vecchina mi guarda da una finestra. Sta appoggiata sul davanzale interno con le braccia leggermente piegate. Nel frattempo ha ripreso a nevicare. Ho i piedi inzuppati, non sento freddo. Il segreto sta nel camminare, nel non fermarsi. Devo continuare a camminare fino al rifugio. Lassù potrò scaldarmi, mangiare qualcosa. Mancano tre ore, se non ricordo male. Tre ore che, se la neve comincia a scendere con continuità, possono diventare cinque o sei. Devo tenere duro. Anziché scappare per non farsi vedere, la vecchina apre la finestra, mi saluta. Insolito, soprattutto qui, in Austria, in alta montagna. Nel paese dove vivo la gente sfugge. Ogni volta che alzo la testa c'è una persona, in genere un anziano. Ti osserva da dietro una tenda e un secondo dopo non lo vedi più, quasi si vergognassero di essere colti sul fatto, di essere accusati di spionaggio. La vecchina no, fa il contrario. Si sbraccia per richiamare la mia attenzione. Dove va co' 'sto tempo, bel giovine?, urla. Prendo fiato e rispondo a voce alta. Vado alla baita, in cima alla valle. Passano alcuni secondi. Sono dodici anni che non esco, dice lei con tono caloroso. Venga su dai, che le offro un po' di minestra! Rimango in silenzio, a pensare sotto la neve. Se accetto rischio di non farcela ad arrivare prima che sia buio. Però, penso, un po' di calore non può che farmi bene. Venga, grida la vecchina. Le apro. Venga su, bel giovine. Mentre m'invita a salire, penso a come smarcarmi in tempo per arrivare al bivacco, alle parole esatte da dire per non offendere la sua ospitalità. Non posso rischiare che faccia buio, mi perderei. Salgo e entro. Mi sorprende un fetore di vecchio, una ventata calda in faccia. Mi ricorda quando mia madre apriva il forno per controllare se la torta era pronta. Solo che la torta non puzzava. Profumava sempre di mele e limone. Si siede, dice. Sorrido. Si sedia. Sorrido ancora. Si... si senta, insomma, dice la vecchia imbarazzata. Si segga, la correggo sorridendo. Mi scusa, ma oramai sono anni che non parlo più il tedesco. Qui in paese noi vecchi parliamo solo nel dialetto. La televisione non si vede bene. C'è un antenna lassù, dice indicandomi fuori dalla finestra la cima di un monte lontano. La vede? Il vetro è appannato. Lei ci passa la mano sopra. Nessuno la guarda più la televisione. Da piccola leggevo i libri delle fiabe e delle leggende, ma adesso sono troppo vecchia e troppo cieca. Ride. Fa troppo caldo. Sudo. Tolgo in fretta la giacca a vento e la appoggio su una sedia di legno in cui è stato intagliato un foro a forma di cuore. Mi guardo in giro. Le pareti sono ricoperte da assi dello stesso legno arancione chiaro di cui è fatta la sedia. Dalla cucina arriva odore di bruciato. Il resto della casa puzza di sporco e stantio. Ci sono continue vampe di calore insopportabili. Mi assale un senso di nausea. Su, si sent... La vecchia si ferma, sempre più imbarazzata. Sì sì, mi seggo subito. Corre in cucina. Sulla tavola c'è una foto: lui con una zappa in mano, lei con un secchio di patate. Dietro alla coppia c'è un piccolo trattore verde a quattro ruote. Da noi, in Lettonia, i trattori sono rossi con una sola ruota davanti. Gli abiti dei due contadini sono sporchi e lisi, ma il sorriso sul volto dice tanto sulla felicità di una vita semplice e vera. Lei torna con un piatto di minestra fumigante. Sotto l'ascella ha del pane. Qui c'è il vino, ragazzo, mi dice indicando il bottiglione al centro della tavola. Grazie signora, dico sorridendo. L'odore acre è passato. Mi ci sono abituato. Anche lei sorride e solo ora noto che non le è rimasto neanche un dente bianco. Ne conto tre nell'arcata superiore, quasi completamente neri, mentre sotto ce ne sono due ingialliti al centro. Bella foto, dico per rompere il ghiaccio. Poi mi tuffo nella minestra bollente. Lei sorride amara. Getta lo sguardo sulla cornice, la prende in mano e indica col dito avvizzito. Questo è... questo era mio marito, dice prima di scoppiare in lacrime. Mi alzo dalla minestra, nella quale mi ero perso, e le appoggio una mano sulla spalla. Lei alza il viso e prende la mia mano. La stringe e, asciugandosi le lacrime, mi dice che la minestra si sta freddando. Oh sì, ha ragione, dico scivolando via delicatamente con la mano. Mi risiedo e aspetto che mi racconti vita e miracoli di lei e di suo marito. Invece no. Se ne sta zitta e mi guarda mangiare. Perché va fin lassù tutto solo il giorno di Natale? Non ho parenti, dico senza alzare il viso dalla minestra calda. Togliti quei brutti scarponi. Avrai i piedi gelidi, mi dice. Si china a fatica sotto il tavolo e me li slaccia senza lasciarmi il tempo di capire. Me ne sto zitto e aspetto che finisca. Quando la vedo riemergere con i calzettoni annacquati in mano e la schiena dolorante, la ringrazio. La osservo allontanarsi verso la stufa e appenderli con un paio di mollette. Non ce n'era bisogno, dico spezzando il pane sopra il piatto e immergendolo nella minestra. Lei si avvicina con un bicchiere vuoto in mano. Berrò anch'io un po' di vino, dice riempiendo i due bicchieri fino all'orlo. Prosit, dice alzando il bicchiere. Lo avvicina alla bocca e lo manda giù in un sorso, la bocca tirata in una smorfia di dolore. Riprende la bottiglia in mano e se ne versa un altro. Lo beve e mi guarda senza dire nulla. Inghiotto l'ultimo tozzo di pane e mastico in silenzio. Evito il suo sguardo. Non so cosa dire. Bevo un po' di vino e appoggio il bicchiere sul tavolo. Il suono rimbomba nella casa vuota. Penso che sia giunto il momento di dileguarmi. Si sta facendo tardi. Mi volto all'indietro e guardo fuori dalla finestra che lenta si sta appannando un'altra volta: non sono più semplici fiocchi di neve, ma pagine di un diario fatte a pezzi per disperazione. È questa l'immagine malata che mi riempie gli occhi mentre la vecchia alle mie spalle beve il terzo bicchiere di vino rosso. Le vorrei chiedere una cosa, ma... ecco, mi vergogno un po'... Ragazzo, ho ottantaquattro anni, ne ho sentite tante, va là. Mi rigiro verso la finestra. I fiocchi cadono pesanti. Ecco, vede... dico indicando con il pollice la finestra. Posso, cioè potrei, fermarmi, se non è un problema, se non disturbo, cioè... ecco, fermarmi a dormire qui, per questa notte, solo per questa notte?, dico abbassando lo sguardo. Mi piace questa vecchina. Adoro il fatto che viva in casa tutta sola. La osservo sorridermi. La sua bocca si apre violacea di vino. Sorrido anch'io grattandomi il capo imbarazzato. Potrebbe essere mia nonna, la nonna che non ho mai avuto. All'improvviso smette di sorridere e si appresta a parlare. Da dove è, lei, ragazzotto?, mi dice fredda. Sorpreso, rispondo tremante. Vengo dalla Lettonia, da un piccolo villaggio nel nord... Un attimo, dice voltandosi verso la cucina. Quando torna ha in mano un lungo coltello che probabilmente usa per tagliare la carne. Ho capito, sa, cos'ha in testa! È arrivato tardi. È passato un suo amico cinque mesi fa, dice inferocita. Adesso sappiamo come difenderci. Ce l'hanno spiegato i poliziotti della città. Come?, dico incredulo. Non capisco. Lei fa due passi indietro e afferra il fucile che è appeso alla parete. Questo me l'ha lasciato mio marito. Prima di morire mi ha detto che avrebbe sorvegliato su di me, dice l'anziana ingobbita col fucile sotto all'ascella e il coltello nella sinistra. Ho capito tutto, lo so come siete fatti voi stranieri. Siete tutti uguali. Venite qui da noi che siamo gente per bene e ci fregate i soldi. Mi guarda con disprezzo. Poi sputa per terra. Si sente lo schiocco secco della saliva quando tocca terra, e una macchia viola appare sulle assi del pavimento. Siete tutti uguali. Le pensate tutte per derubarci dei nostri soldi e dei nostri gioielli, dice sempre più incavolata. Crede che non l'ho ancora capito, ragazzotto? Va in giro da solo il giorno di Natale dicendo che va a dormire sulla montagna, e per di più con quegli scarponi del lavoro: è ovvio che la scoprono, caro mio. Non sono così stupida quanto pensa, caro mio! Avevo capito che c'era sotto qualcosa, ho sentito l'accento straniero! Via di qua! Presto, se non vuole che chiami la polizia! La guardo negli occhi sperando sia uno stupido scherzo. Non lo è. È tutto vero. L'ignoranza crea paura, la paura violenza. Dovevo saperlo, c'è in ogni romanzo degno di tale nome. L'ignoranza genera violenza. Senta, mi dia modo di spiegarmi. Mio padre stava molto male così io sono... Vattene, ladro! Mi piego sotto il tavolo e afferro gli scarponi. Mi alzo e prendo la giaccia con l'altra mano. Mentre attraverso la stanza, vedo i calzettoni messi ad asciugare sopra il fuoco. Posso almeno prendere i calzettoni?, dico umile. Fa freddo fuori. Ho detto di andare!, dice secca la vecchia. Li brucerò nel fuoco così non potrai andare tanto in giro a derubare altra gente. Hai capito? Ma devo tornare a casa, io vivo a... Se ne vadi o sparo! Non ci crede che è carico?, dice gettando il coltello sul tavolo e imbracciando il fucile con entrambe le mani. Trema. Perde l'equilibrio e ondeggia. Chiamo gli abitanti del paese e la bruciamo in piazza! Le chiedo solo di ridarmi i calzettoni, per piacere. Comincia a gridare. Poi, sempre con gli occhi su di me, afferra il mio bicchiere di vino mezzo vuoto in mezzo al tavolo, e lo secca in un secondo. Lo appoggia nuovamente sulla tovaglia e torna a imbracciare il fucile con entrambe le mani. Avvicina l'occhio al mirino e prende la mira. Corro via prendendo al volo lo zaino che avevo lasciato all'entrata. Scendo le scale e cammino rapido e scalzo nella neve giù dalla strada dalla quale sono venuto. Quando sono fuori dal paese, mi fermo sotto un albero, mi metto la giacca, mi asciugo i piedi con le mani e cerco nello zaino i calzini di ricambio. Non li trovo. Non ci sono. Forse la vecchia me li ha presi quand'ero distratto. Forse li ho dimenticati. Indosso gli scarponi gelati e alzo lo sguardo al cielo. Non ho voglia di tornare. Ho soltanto voglia di camminare velocemente e dimenticare tutto. Da lontano vedo il campanile della chiesa. Sono le due e venti. Stavolta evito di entrare in paese. Lo aggiro con passo spedito scendendo nei boschi alla mia sinistra. La neve fresca m'impedisce di correre. Cammino contro il tempo. Dopo qualche minuto i piedi sono di nuovo caldi. La mia fronte comincia a sudare. Apro la cerniera della giacca a vento senza fermarmi, con lo sguardo verso la cima della montagna. Ogni tanto mi volto per osservare se qualcuno mi segue. Non credo la signora abbia chiamato la polizia, ma sicuramente avrà avvertito il villaggio della mia presenza. A quel pensiero accelero, sperando che la neve cancelli in fretta le mie orme. Sono certo che nessuno del villaggio penserebbe che io sia realmente andato in questa direzione, per di più senza calzettoni e con questi scarponi dalla punta metallica. Mi rilasso, senza mai rallentare. Il buio arriva quando ancora cammino. Le indicazioni sono coperte da metri di neve. Non ricordo dove sia il bivacco. Non credo di essermi perso, ma proseguire al buio potrebbe essere pericoloso. Mi fermo un istante a riflettere sul da farsi. Alzo lo sguardo e apro la bocca. Il cielo è nero. Chiudo gli occhi e sento i fiocchi di neve appoggiarsi sulla fronte e sulle guance, accarezzandomi. Riapro gli occhi. Le prime stelle sono già alte in cielo. Se torno al villaggio rischio di essere denunciato alla polizia o picchiato a sangue, se proseguo rischio di perdermi e morire assiderato. Non mi importa. Potrei anche morire. In questo momento niente ha più senso. Se vivere è ciò che ho fatto negli ultimi quindici mesi, allora preferisco morire. Ce l'ho sempre messa tutta. Non ho rimpianti. Ho sempre fatto quello che credevo giusto senza pensare alle conseguenze. Non devo avere rimpianti. Sono cresciuto felice nella povertà. Mi sono laureato grazie a una borsa di merito. Ho sempre lavorato e aiutato come meglio potevo la mia famiglia, da mio fratello ai miei genitori. Gli amici mi hanno sempre accusato di eccessiva bontà: non credo ci siano limiti all'essere buoni. Sono convinto che il mondo sarebbe migliore se fossimo più buoni. La penso così perché sono un vigliacco. Chi è troppo buono è un vigliacco, mi aveva detto un giorno un'amica a Riga. Chi è troppo buono è un vigliacco, uno che non ha il coraggio di affrontare le conseguenze, uno che ha paura di vivere la vita. Non ho mai capito perché ce l'avesse con me. Ho anche creduto fosse invidia, oppure amore. Ma se ripenso ora alle sue parole capisco alla perfezione ciò che voleva dire. Cercava di dirmi che l'essere umano in fondo è egoista e agisce sempre per se stesso. Nell'aiutare ostinatamente mio fratello, mia madre e mio padre si nascondeva la paura di affrontare il mondo. Avevo paura di affrontare il mondo con le mie gambe. La mia fede cieca nella bontà altro non è che un volersi sentire indispensabile. Aiutando gli altri in realtà ho sempre voluto aiutare me, ma ho finito col diventare un perdente, un senza speranza. Se ora il gelo mi portasse a miglior vita non potrei biasimare il destino. Me la sono cercata io tutta questa sfortuna, questa ingratitudine. Se la gente che incontro non fa altro che usarmi e trattarmi come mi tratta, è a causa dell'aura negativa che mi sono costruito. Mai uno scherzo, mai uno sbaglio, mai un'eccezione: la mia vita è tutto uno scherzo, tutto uno sbaglio, tutta un'eccezione. Sono stufo di questa vita condotta impeccabilmente a spalare la merda (come dicono qui) dall'alba alla notte inoltrata. La cosa migliore è che io mi abbandoni, qui e ora, alla forza della natura. Che la neve mi sommerga e mi renda puro. Mentre rifletto disperato in un silenzioso delirio, la luna. Nel buio sbuca da dietro la montagna, la luna. Forse è il destino che per una volta mi sorride, forse è una stupida coincidenza. Un'enorme luna piena si staglia nel cielo. Non è ancora il mio momento. Non deve finire così. Riprendo a camminare rincuorato e non passa un'ora che scorgo tra gli alberi il bivacco: pare aspettarmi da una vita, immobile e solo. Nell'insperata gioia che mi assale non sento più la fatica di una giornata intera spesa a camminare nella neve, tanto meno sento il freddo del vento che sferza da nord-est. Tiro una leva di ferro arrugginito e apro la pesante porta di legno scuro e consumato. Entro nella baita e getto lo zaino pieno di neve sulla tavola di larice massiccio. Mi sdraio un attimo sul letto per riposare. Sento gli occhi chiudersi e la mente rilassarsi. Mi assale un sonno imponente, al quale non riesco a resistere. Chiudo gli occhi e quando li riapro ho freddo. Non so quanto tempo sia passato, non ho con me né orologio né cellulare. Mai avuti. Non ho voglia di alzarmi, tanto meno l'energia per farlo. Se resto immobile congelo. Tremo. Credo di avere la febbre. Faccio un enorme sforzo e mi giro su un fianco. Spingo con le braccia stanche fino a tirarmi su a sedere. Mi spoglio dei vestiti sudati e mi avvolgo tutto con la coperta di lana che ho trovato sul letto. Mi avvicino alla stufa, spezzo qualche legnetto e lo infilo. Cerco nel cassettone un pezzo di carbonella, c'è solo legna da ardere. Torno allo zaino, prendo l'accendino. Sulla panca c'è un quotidiano. 21 agosto 1991. Sorrido, penso a quanto sia strano il destino e strappo la prima pagina, la appallottolo e la infilo nella stufa. La infiammo e soffio sperando che i legnetti prendano fuoco. Attendo continuando a soffiare. Penso alla Russia. Penso ai deportati in Siberia, alla Kolyma, all'isola di Sachalin. Penso alla gente morta di fame e di freddo. Mi accorgo che sto ancora tremando. Prendo un'altra coperta e mi copro. Un legnetto ha cominciato a ardere. Sposto gli altri affinché prendano fuoco. Soffio per ravvivare la fiamma e all'improvviso li sento crepitare allegramente. Prendo uno stizzo dallo sgangherato cassettone metallico e lo butto sopra gli altri. Una volta acceso il fuoco, cerco una pentola, esco, la riempio di neve, ci aggiungo una manciata di sale e la metto sul fuoco. Non ho fame, ma so che mangiare qualcosa di caldo mi farà bene. Nel frattempo mangio il pane e gli affettati, a piccoli bocconi, uno alla volta. Recupero energia. Non ho con me medicine, nemmeno un'aspirina. Non mi ammalo da anni. Forse non ho la febbre, è la stanchezza di una giornata storta. Guardo fuori dalla finestra. Osservo la luna. In lontananza scorgo un movimento. Mi spavento. Il cuore inizia a battermi forte. Aspetto sperando di essermi sbagliato. Forse è il vento che fa cadere la neve dagli alberi. Guardo meglio. È un animale. È grosso. Vedo un orso camminare lentamente in direzione del rifugio. È enorme e scuro. Mi volto e corro a sbarrare la porta. Poi torno alla finestra. Sorrido anche se il cuore mi batte forte. Solo per il fatto di sorridere, mi sento già meglio. Anche se si tratta di un sorriso falso, forse folle. La finestra dalla quale guardo è piccola. L'orso non può passare da lì, l'avrebbe già fatto. Nonostante ciò tremo. Ho paura. Mi sento al sicuro, ma tremo. Il misto di stupore e timore mi fa dimenticare la febbre, la stanchezza e il gelo nelle ossa. Metto un paio di stizzi nella stufa e riprendo a osservare l'orso che cammina felpato sotto i fiocchi di neve illuminati dalla luna. Lo vedo meglio, è di fronte a me, a una ventina di metri. Non è solo. Dietro di lui un cucciolo lo segue inciampando. Forse è una madre col suo piccolo, forse un padre alla disperata ricerca di cibo. Credevo che gli orsi in inverno andassero in letargo, eppure non sto sognando, un orso gigante e bruno si sta avvicinando, le sue zampe pesanti si muovono eleganti nella neve appena caduta. Forse durante il letargo escono per cercare cibo. Sanno che possono trovarlo qui, nei pressi del bivacco. Non ha importanza il perché delle cose. Appoggio i gomiti sul davanzale, il mento sui palmi delle mani e osservo. Mi godo lo spettacolo della natura selvaggia che mi circonda. Si avvicinano. L'emozione è grande. Mi sento vivo. Non m'importa niente della mia vita, di ciò che è stato. Tanto meno di ciò che sarà. Sono certo che questo istante lo ricorderò per la vita. Godo immerso nella natura. C'è soltanto una parete di pietre levigate a dividermi dal mondo selvaggio, dall'universo primitivo che mi vive intorno. L'orso si ferma. Guarda nella mia direzione. Non credo mi possa vedere. Si gira verso il piccolo. Lo aspetta, gli lecca la testa. Proseguono alla mia sinistra, senza degnare di uno sguardo me e il rifugio. Li osservo in silenzio sparire e ringrazio il destino per avermi portato quassù. L'acqua bolle. Nel mobile ci sono due confezioni di pasta italiana, mezzo chilo di riso, due scatolette di tonno e cinque lattine di fagioli borlotti. Decido di fare del riso al tonno e fagioli. Metto nell'acqua tre pugni di riso e aspetto che cuocia. Nel frattempo torno alla finestra. Non li vedo più, ma di fronte a me ho un prato bianco, la neve che cade e la luna che rende l'atmosfera magica. Doveva essere il mio peggior natale, è il natale migliore che poteva capitarmi. Doveva essere il mio peggior compleanno, è il compleanno migliore che poteva capitarmi. A volte basta un istante a salvare una vita. Basta un dettaglio a dare significato a un'intera esistenza. Basta un sentimento a riempire una vita senza genio. Torno ai fornelli. Mescolo il riso e apro il tonno e i fagioli. Mescolo ancora e torno alla finestra. Guardo il panorama. Sono estasiato. Mi perdo a pensare al significato delle cose, alla vera essenza della vita, all'importanza della dimenticata lotta per la sopravvivenza, quando una gigantesca faccia d'orso compare alla finestra. Faccio un salto all'indietro cacciando un urlo soffocato. Indietreggio carponi osservando la finestra in alto. L'orso spinge la sua faccia contro il vetro. Cercando di vedere all'interno. Lo spavento di prima ora è terrore. Sono bloccato. Non serve a niente continuare a sussurrare parole lettoni per rincuorarmi. Non puoi entrare, dico, in tedesco, senza gridare. Non ne sono più così certo. Lo osservo dal basso, ansimo. Ho la sensazione che mi stia guardando, che abbia capito che potrei essere carne per i suoi denti. Ci osserviamo l'un l'altro in silenzio per attimi in cui il respiro stenta a venirmi. Lo fisso in apnea, attento a non fare rumore, immobile. Mi sento impotente, e questo mi piace. Non so cosa fare. Torno a respirare. Mi rilasso. Sorrido. L'orso dà una botta contro il vetro. Poi un'altra. Mi sposto strisciando verso il mobile. Senza staccare lo sguardo dall'orso, frugo nel cassetto delle posate. Prendo il coltello più lungo. L'orso smette di colpire la finestra e si limita a fissare. Rivolge l'occhio verso il fuoco. La fiamma scoppietta, la luce esce e illumina la stanza dai contorni mossi. Aspetto. Osservo e aspetto. Osservo, godo e aspetto. La paura mi ha dato energia, vita. Ecco cosa dovevano provare gli uomini preistorici quando una belva si affacciava alla loro grotta. Adrenalina, eccitazione, ecco cosa provavano in quegli attimi di lotta per la sopravvivenza. Indifferente, come niente fosse, l'orso si stacca dal vetro. Mi riavvicino alla finestra e lo osservo tornare da dove è venuto, sempre seguito dall'orsetto, sempre con passo elegante, sempre gentile. Mangio il riso, aggiungo tre stizzi al fuoco e mi ficco nudo sotto cinque strati di coperte. rumori Quando apro gli occhi è buio. Sembrano passati pochi minuti da quando mi sono addormentato, può darsi siano passate ore. Butto un occhio sulla stufa, il fuoco è acceso. Sento un rumore. Viene da fuori. L'orso ci ha ripensato, avrà chiamato i rinforzi, penso sorridendo tra me e me. Vieni pure, penso, ti sto aspettando. Mi alzo e infilo altri due stizzi (stizzi suona male, meglio tizzi?) nella stufa. Non sento altri rumori. All'improvviso, mentre torno verso il letto, un doppio colpo alla porta mi fa cadere la coperta. Mi prende l'angoscia. So che c'è qualcuno!, grida una voce rauca da fuori. Aprite! Io taccio, in preda al panico. Non so se aprire. Ho paura. Chi può bussare a quest'ora della notte di Natale? Soltanto un malintenzionato, un folle, un feroce assassino. So che ci sei, esce il fumo dal camino! Forza, apri!, dice la voce rauca. Fa freddo. Eppure una goccia di sudore mi percorre la schiena. Immobile attendo, non so cosa. Se non apro, spaccherà la finestra ed entrerà comunque. È troppo piccola per un orso, ma abbastanza grande per un uomo. E se fosse davvero uno psicopatico? o un serial killer? All'idea tremo. Probabilmente si tratta di un brav'uomo che ha freddo e chiede solo di entrare a scaldarsi. Razionalmente è così, non può che essere così. Ma io ho paura, e la paura è tutto tranne che razionale. Mi potrebbe denunciare, penso nel silenzio. Questo è un rifugio d'emergenza, non posso non aprire, devo aprire, non aprire è contro ogni regola. Se invece si tratta di una spedizione punitiva organizzata dalla vecchia, di certo non sarebbe arrivato un solo uomo, ma almeno un paio. Forza apri, qui fuori è freddo, non ti mangiamo mica!, dice un'altra voce, più giovane. Apri dai, abbiamo fame e ci stiamo ghiacciando qui fuori. Ho paura. E se fossero veramente due abitanti xenofobi del villaggio, aizzati dalla vecchia? Chi altro potrebbe venire fin quassù nel cuore della notte? Se non apro, entreranno con la forza. Tanto vale aprire. Gelo. Mi piego a prendere la coperta caduta. Un attimo, arrivo. Scusate, stavo dormendo. Chi è là? Prendo tempo. Intanto afferro il coltello, quello lungo. Lo nascondo sotto le coperte. Siamo due alpinisti. Siamo appena arrivati con le ciaspole. Con questa luna è uno spettacolo passeggiare. Quelle parole mi rincuorano. Apro. Salve, entrate, dico. Scusate se ci ho messo tanto, ma la precauzione non è mai troppa. I due mi guardano con un sorriso immobile mentre attraversano l'entrata dirigendosi verso il grande tavolo sul lato opposto della stanza. Che meraviglia!, dice uno. Vero, Hans? Fantastico!, dice l'altro. Erano anni che non si vedeva una luna così! No, dicevo, che caldo meraviglioso! Ah, sì, vero, dice quello alto. Chiudo la porta e aggiungo un altro stizzo. Desiderate del tè?, dico. I due non rispondono. Posano gli zaini e frugano nel mobile. Non c'è un cazzo qui, Joseph! Solo pasta, riso e altre scatolette. Vada per il tè, dice l'altro, Hans, se ho capito bene. Esco con la pentola e la riempio di neve. La metto sul fuoco e chiudo la porta. L'avete visto l'orso?, dico infreddolito. Che orso?, dicono all'unisono degnandomi finalmente di uno sguardo. Era qui fuori, prima... mi interrompo. Cioè... un po' di ore fa. Un orso? Vivo? Due orsi. Un orso grande e uno piccolo, dico mentre li osservo affettare del salame e masticare con violenza del formaggio. Mi spiace, vecchio mio, ma gli orsi da queste parti vanno in letargo a novembre, impossibile che hai visto orsi stanotte!, dice Hans, quello alto e gobbo, mostrandomi la faccia ebete. Sei un bugiardo!, grida l'altro alzandosi in piedi e puntandomi l'indice. Io me ne sto zitto e guardo l'acqua bollire. Con la coda dell'occhio osservo il piccoletto in piedi: ha ancora l'indice puntato su di me, non ne vuole sapere di sedersi. Forse mi sono sbagliato, dico senza alzare la testa. E il tè?, grida Joseph, sempre in piedi. Arrivo, dico prendendo in mano la pentola, attento a non scottarmi. La luce del fuoco illumina a stento i loro visi vissuti. Hans, ingobbito con gli occhi incollati al tavolo, nonostante le rughe sembra avere una ventina d'anni. Joseph, piccolo e dal sorriso malefico, ne avrà almeno cinque in più. Hanno mani grandi e nodose, le dita ricoperte da grandi calli, la pelle rossa e secca per il vento. Sembrano usciti da una grotta. Hanno uno spiccato accento, simile a quello della vecchia, diverso dall'accento degli operai di città. Prendo coraggio e mi siedo. Si diede anche Joseph. Che fai?, mi dice il piccoletto. Come?, rispondo intimorito. Faccio per alzarmi. Quello alto mi prende il braccio impedendomi di alzarmi dalla sedia. Che lavoro fai?, dice. Non sembri uno tanto sveglio. Fabbrica, dico. Lavoro nella grande fabbrica giù alla città. Te l'avevo detto che era uno di città, dice Joseph sorridendo malignamente verso l'altro. Per la verità non ho niente a che vedere con la città. Si dice così, no? Si dice così cosa?, dice Hans. Niente a che vedere, così, per dire niente da spartire, niente in comune, giusto? Non so. Non c'ho capito un cazzo, dice Hans. Cala il silenzio. Be', comunque lavoro nella zona industriale a nord della città, ma vivo in un paesino a oltre mille metri d'altitudine. I due scoppiano a ridere. Che c'è? Parli come uno di città!, dice Hans ancora più ingobbito per arrivare a bere il tè dalla tazza appoggiata al tavolo. Non sarai dell'altra sponda?, dice prima di bere un altro sorso. Ridono ancora a crepapelle. Hans per poco non si soffoca per il tè andatogli di traverso. Sembra che hai fatto le scuole, dice quell'altro con un gesto di disgusto. Ho studiato all'università nel mio paese, dico. Impossibile, nei paesi non c'è l'università. Sei un bugiardo!, grida il piccoletto. No, non avete capito. Vengo dalla Lettonia. Lettogna?, dice Hans succhiando un altro sorso di tè dalla tazza. Dov'è questa cazzo di regione?, dice Joseph. Lettogna? Mai sentita! È nel Tirolo del Sud? Nell'Italia austriaca? No, è uno stato che faceva parte dell'Unione Sovietica, a nord-est della Polonia, più o meno. Sì, è vero, Joseph, ho sentito parlare della Polonia, dev'essere a nord, dice Hans guardando l'amico. È vicino alla Germania, giusto? Annuisco. Ah sì?, dice il nanetto sorseggiando il tè fumigante. Beh, chi se ne frega da dove viene? Non è dell'Austria, è straniero. Sì, ma mica vuol dire che dobbiamo ucciderlo, dice il gigante ruttandomi in faccia. Io cerco di sorridere. Mi sento di nuovo la febbre. Joseph mi guarda dal basso verso l'alto col solito sguardo cattivo. Ha l'alito che puzza di birra. Probabile che abbiano bevuto in qualche osteria prima di venire. E chi ha detto che dobbiamo ucciderlo?, dice ridendo di gusto. Io mi alzo e mi dirigo sul letto dove il coltello mi aspetta tra le coperte. Vai già a dormire, straniero?, dice Hans. Sì, scusate, sono molto stanco. Forse ho un po' di febbre. Guarda che stavamo scherzando. Vieni qui che beviamo un po' di grappa. La grappa ti guarisce. No, scusatemi, preferisco dormire, dico avvolgendomi sotto i cinque strati di coperte. Fai come vuoi, noi berremo per tutta la notte. Speriamo non ti dia fastidio il fumo, dice Joseph estraendo dal taschino un pacchetto di sigarette e scuotendolo in aria. In un attimo il fumo invade la stanza andando ad aggiungersi a quello meno fastidioso della stufa. Li osservo. Sento di avere gli occhi rossi e lucidi. Sotto i cinque strati di coperte stringo forte il coltello. Cerco di resistere, ma crollo nel sonno. silenzio Mi sveglio. C'è un gran silenzio. Non capisco subito dove mi trovo. Non sento respiri. Non russa nessuno. La luce che entra dalla finestra illumina la stanza a giorno. Di scatto alzo le spalle e getto lo sguardo alla tavola. Non c'è più niente. Sono scomparsi gli zaini. Anche i piatti, le tazze, le ciaspole da neve, le racchette da montagna, tutto sparito. Il tavolo è sgombro. Come non fossero mai esistiti. Non vedo più il mio zaino. Mi alzo. Guardo sotto il letto. Non c'è più. I miei vestiti bagnati sono spariti. Pure gli scarponi con la punta di metallo. Sono nudo in mezzo a un oceano di neve a tre ore di cammino dalla civiltà. Non sono morto, ma di certo non sarà facile tornare al villaggio scalzo con qualche coperta addosso. E non è detto che al villaggio qualcuno sia disposto ad aiutarmi. Deve averli mandati la vecchia, non c'è altra spiegazione. Torno a letto e mi avvolgo di coperte per non sentire freddo. Guardo la stufa spenta. Forse tornare al villaggio non è la soluzione, potrebbero denunciarmi o, come aveva detto la vecchia, bruciarmi in piazza. Meglio evitare il villaggio e proseguire oltre? Non lo so. Nudo? Impossibile. E poi non sto ancora bene. Non ho voglia di pensare. Sono stufo di essere trattato male. Sento il mondo cadermi addosso. Devo correre. Adesso. Subito. Ho bisogno di correre. Senza pensare mi alzo, apro la porta e comincio a correre sulla neve. Grido al cielo una bestemmia con tutta la forza che ho in corpo. Poi un'altra, e un'altra ancora, e ancora e ancora, grido e bestemmio fino a crollare. Rimango lì disteso nella neve a zero gradi, nudo e disperato. Sprofondo nel silenzio. Comincio a piangere. Sento la neve sciogliersi attorno a me. Non dura molto. Il freddo ammanta lentamente il mio corpo. Non fa male. Soffrire mi è indifferente. Anzi, è un sollievo. Fa più male la solitudine. Mi sento solo. Abbandonato. Dai miei, dalla gente, dai miei ideali. Il mio corpo è insensibile. La mia anima piange. Mi lascio morire. Morire come un perdente, come uno che credeva di poter cambiare il mondo, e non ha abbastanza genio per farlo. È il mondo che ha cambiato me. Mi ha isolato. La natura mi ha parlato. Mi ha sussurrato la verità. Lei non mente. Mi ha detto che ho sbagliato. Mi ha detto che questa vita non è fatta per me. Mi ha detto di andarmene, di non tornare più tra la gente. Mi ha detto che sono diverso, che non c'è nessuno come me. Mi ha detto che il male vincerà. Il diavolo si nasconde dentro l'umanità. La paura sarà l'unica legge fino alla fine dei giorni. Mi lascio morire così, in una morsa di freddo polare, in preda al delirio. Chiudo gli occhi e affondo la testa sotto la neve. sopravvivere Qualcosa si muove. È qualcosa sopra di me. Sono morto? Non sono morto? Apro gli occhi a fatica. Sono sotto. A ogni rumore la neve si fa più chiara. Da blu ad azzurra, da azzurra a bianca, finché vedo una lingua rosa che lecca e alita. Spinge fino a sollevarmi la testa. Si appoggia sulle mie spalle e mi solleva la schiena. Mi ritrovo seduto. È così il paradiso? Così uguale alla realtà? Di fronte a me una vallata innevata e un enorme cielo blu. Metto le mani a terra e, lentamente, sospinto dalla forza misteriosa dietro alle mie spalle, mi alzo in piedi e ballo un po' di qua e di là. Rimango su, fermo, aspettando di riprendere sensibilità. Poi comincio a muovere le dita delle mani e dei piedi. Sempre più velocemente, come in una danza indiavolata. È allora che un piccolo orso mi appare davanti leccandomi le mani. Ripenso alla nottata, agli orsi fuori dal rifugio. Sono morto? Non sono morto? Provo a credere che quello che vedono i miei occhi sia il paradiso. Impossibile. Oppure sogno. Non è la vita reale ciò che vedo e sento. Mentre me ne sto lì a pensare e aspetto che il sole mi aiuti a riprendere sensibilità, l'orsetto mi salta addosso. Finisco a terra nella neve soffice. L'orsetto mi monta sul torace e mi lecca il viso. Sono rapito dal delirio? Mentre la lingua mi scalda il viso penso che forse Dio, ovvero il destino, mi abbia dato un'altra possibilità. Basta pensare! Svegliati!, grido. Comincio a muovermi. Spingo via l'orsetto. Cerco di alzarmi, ma lui è di nuovo lì, pronto a gettarmi a terra. Il sangue riprende a circolare. Nudo nella neve, mi sembra di sudare. Appena l'orsetto mi punta, mi sposto come un torero impacciato. Mi giro e l'orsetto è di nuovo lì, a puntarmi un'altra volta. Facciamo questo gioco un numero indefinito di volte. Fino a sfiancarmi. Ho ripreso sensibilità. Ho caldo. Penso a quanto sia unica e bizzarra quella situazione e rido, quando all'improvviso vedo un enorme orso bruno in cima al prato. Lo osservo immobile correre a gran velocità verso di noi. Mi sento attraversare dalla paura e da un'insperata dose di energia. Ecco l'istinto di sopravvivenza che si fa sentire nuovamente. In un attimo mi sento rinato. Scosto l'orsetto con un braccio, mi alzo in piedi e corro dentro al rifugio. Sbarro la porta e mi avvicino alla finestra. Ho paura, non mi sono mai sentito così vivo. Non sento più freddo. Sono nudo e bagnato, col sole che a stento entra a illuminarmi. Una ritrovata vitalità mi corre in corpo, all'impazzata. Vedo comparire i due orsi. Come niente fosse, come se non fossi mai stato lì fuori, s'inoltrano nel bosco. Sempre con passo gentile, elegante. Mando un bacio con la mano all'orsetto: senza saperlo mi ha salvato la vita. Non solo, mi ha restituito una nuova voglia di vivere. In mezzo alla natura non sono più prigioniero di una gabbia sociale, ma libero di vagare senza meta nel mondo sconfinato. Forse è questo il mio universo. Forse è tra le montagne che posso trovare la via per la realizzazione, dico. La folla applaude. Una ragazza mezza svestita mi porge una targa e dei fiori. Grazie, dico. Grazie a tutti. È tanto che aspettavo questo momento. La folla applaude ancora. Vorrei dedicare, dico, questo premio a voi lettori. Senza di voi io non esisto. La folla applaude e inneggia il mio nome. A quel punto apro gli occhi. Sento freddo. La luce del sole mi abbaglia. Sento freddo. Alzo la testa: sono sdraiato nella neve. Sento freddo. Eppure la luce è forte, così forte da scaldarmi. Mi volto di lato e mi alzo. Una volta in piedi mi scrollo la neve di dosso. Mi avvicino allo steccato dal quale si domina la vallata lontana. Sorrido per il sogno appena fatto. È così vivido nella memoria che pare vero. Rivedo l'orsetto che mi spinge per terra e l'arrivo dell'enorme orso bruno che si precipita giù dal prato nella mia direzione. A volte i sogni aiutano a capire. Sento freddo nonostante il sole. Entro nel rifugio ancora sorridente e accendo la stufa. Solo allora mi accorgo che il mio zaino è proprio lì, dietro la stufa. Lo prendo e controllo: c'è tutto. Trovo anche i calzini che avevo lasciato dalla vecchia, asciutti e stirati. Mi rivesto e capisco solo ora che era uno scherzo. Uno scherzo che, a causa della mia poca fede, stava per costarmi la vita. Sono il solito malfidente. Penso sempre che il mondo mi odi: è solo colpa mia, sono io a emanare energia negativa. Gli altri sono buoni, sono io che li rendo cattivi. Apro il mobile. È tutto in ordine. Hanno pulito i piatti e le pentole, anche gli utensili che avevo sporcato io. Che stupido sono stato ad avere paura di quei ragazzini. Hanno fatto bene a farmi uno scherzo, me lo sono meritato. Avranno pensato che sono un deficiente. Comincio a pensarlo anch'io. Prendo una pentola e la riempio di neve. Non ho paura di uscire. Esco nudo e a testa alta. Non ci sono uomini che possono ferirmi, né animali nemici. Mi sento parte, una piccola particella insignificante, della natura che mi circonda. Rientro in casa lasciando la porta spalancata. Appoggio la pentola d'acciaio sulla stufa gelida. Accendo il fuoco e soffio sulla fiamma. Attendo che l'acqua inizi a rumoreggiare, inserisco una bustina in infusione e sorseggio il tè, lentamente, guardando in piedi fuori dalla porta. Decido di aprire anche la finestra e arieggiare la stanza. Un'aria fresca mi soffia addosso. L'episodio dell'orsetto non so già più dire se fosse reale, oppure un sogno o un delirio pre mortem. Non ha importanza. Sono vivo e felice. Bevo l'ultimo lungo sorso di tè e mi rivesto. Metto i calzini, esco, socchiudo la porta e prendo a camminare in salita. Guardo la cima. Circa trecento metri di dislivello. La neve si fa più alta. Sprofondo a ogni passo. Tra poco sarò lassù per vedere cosa c'è dietro. Cammino senza pensare che poche ore prima stavo per morire assiderato nella neve. Devo avere più fiducia, in me e nel mio destino. E soprattutto nel prossimo. L'ottimismo genera benessere. Mi muovo rapido per recuperare la sensibilità latente alle dita dei piedi. Sudo e soffro sotto il sole. I cristalli di neve mi accecano, sento la pelle del viso bruciare. Cammino e sgombro la mente da ogni paura. Arrivato sulla bocchetta ammiro il panorama che si apre ai miei occhi: verso est montagne innevate per chilometri e chilometri. In lontananza invisibile c'è l'Ungheria. Mi sembra di vedermi già lì, a varcare il confine di stato, con la gente che mi applaude e grida all'impresa. Mi desto dai sogni di gloria e mi volto. Osservo in basso le case del paesino. Sono sette edifici. C'è anche quello della vecchia, anche se non riesco a individuarlo con certezza. È acqua già passata. Chi sono per giudicare una povera vedova? È già tanto che mi abbia ospitato a pranzo. A quell'età non si può pretendere che uno ami la prima persona che s'intrufola in casa, per di più straniera. Non si può pretendere che uno a quell'età, senza aver studiato, non abbia paura del diverso. Senza marito e con nessuno al fianco, è normale che quella povera vecchina non se la sia sentita di ospitarmi per la notte. Stupido io a farle una proposta così invadente. Che sciocco sono stato. Pensare che ha asciugato e stirato i miei calzettoni con cura, ha convinto Joseph e Hans, senza dubbio suoi nipoti, a venire su a vedere come stavo. Forse si sentiva in colpa, povera vecchina. Mi volto verso destra, a nord, e risalgo il crinale della montagna. È poca strada, non posso rinunciare alla conquista della vetta. La neve a ogni passo mi arriva fino in cima alla coscia. Rallento il ritmo fino quasi a fermarmi. Tra un passo e l'altro riposo qualche secondo. Salgo a cuor leggero contando i passi. Quando arrivo in cima esulto in silenzio. Sento assalirmi un brivido lungo la schiena. Sono sul tetto del mondo, del mio piccolo mondo austriaco, e nessuno può dirmi cosa fare. Nessuno può vedermi. Sono libero di gridare, cantare a squarciagola, buttarmi nella neve. Giro su me stesso e osservo il panorama di alte vette che s'inchina al mio cospetto. Giro e rigiro fino a perdere l'equilibrio e cadere. Mangio un po' di neve e mi rilasso a schiena in giù. Mi alzo e comincio a correre, giù, verso ovest, in direzione del rifugio. Rischio di ammazzarmi, non m'importa di morire. Sono a casa, e a casa uno può morire contento. Corro e m'inciampo nella neve infinita. Solo un miracolo non mi fa travolgere da una valanga. Corro giù a perdifiato, vedo il rifugio avvicinarsi. Rotolo su me stesso: in avanti, di lato, indietro. Mi sembra di essere tornato bambino, quando mio fratello mi spingeva giù dalla slitta e rotolavo nella neve ghiacciata. Ora è diverso: non sto più crescendo, sto tornando bambino. Non ho più paura delle angherie e dei soprusi di mio fratello o di prenderle dai miei: sono padrone di me stesso e schiavo della natura che mi circonda: solo lei può decidere per me, solo lei può decidere di me. Mi affido a lei. Torno al rifugio giusto in tempo per inserire uno stizzo nel fuoco. Soffio e subito la brace riprende vita con una grande fiammata che mi scalda il viso. La passeggiata mi ha ridato energia e voglia di lottare. Mi avvicino al mobile e lo apro. Prendo in mano il riso. Dietro c'è un foglietto. Ti è piaciuto il scherzetto straniero? La prossima volta cerchi di essere più simpatico! I tuoi amici nuovi: i mitici fratelli Hans e Joseph. PS: attento a le valanghe e a le nonne della montagna! Un'altra prova di quanto io sia inadatto a vivere nella società. Non riesco più a fidarmi del prossimo. Per me vivere è diventato un continuo isolarsi, un inutile nascondersi. Come se tutti mi fossero nemici, come se tutti mi odiassero. In realtà nessuno mi può odiare, perché nessuno mi conosce. Conoscermi è impossibile: vivo in un mondo mio, fatto di libri: libri che leggo e libri che scrivo, che forse è ancora peggio. Quando leggo entro nel mondo di un altro, per qualche ora. Quando scrivo entro nel mio mondo, per l'eternità. Se scrivi non stacchi mai. A volte non sono le tue mani a scrivere, lo fa il tuo cervello, anche quando dormi. È così che in me esiste un universo infinito, in continuo mutamento, un universo che mi fa sognare a occhi aperti. Con gli uomini non ci parlo. La lingua orale per me non esiste. Esistono solo le lettere dell'alfabeto, nero su bianco. Esistono i tasti consumati di una tastiera e una ventina di simboli coi quali ricreare ogni volta un mondo unico, un mondo diverso da quello fisico nel quale vive il mio corpo. Il mondo reale è un mondo che scompare: sono le parole a creare immagini, le immagini a creare mondi animati ricchi di odori, sapori, gioie e dolori, sentimenti e sensazioni, universi non meno veri di quelli fisici: niente confini, niente regole, niente limiti: piccoli sogni che diventano intere esistenze. Se solo avessi il tempo e il talento per mettere su carta i miei infiniti mondi... I pensieri scorrono rapidi mentre con la mano mescolo il riso nell'acqua bollente. Nel frattempo mangio l'ultimo pezzo di pane e l'ultima fetta di formaggio nostrano. La fame, come prevedevo, non se ne va. Ho bisogno di ricuperare calorie. Scolo il contenuto della pentola e mangio un enorme piatto di riso in bianco, sul quale verso olio d'oliva in abbondanza. Lo mando giù con calma, masticando dieci volte prima di inghiottire ogni boccone. Alla fine mi sento nel pieno delle forze: ho ritrovato la giusta sensibilità in ogni parte del mio corpo. Al posto dei calzettoni, ancora bagnati, indosso un po' di stoffa che ho strappato dal lenzuolo. Non è un gesto nobile, ma senza mi congelerei i piedi. Se mai troverò il coraggio di continuare il mio viaggio verso est, saranno indispensabili per camminare senza buffe, visto la facilità con la quale si bagnano i calzini nella neve. Mi rilasso sulla panca senza dormire. Rivado con la mente alla trama del romanzo che sto (o meglio stavo) scrivendo negli ultimi mesi. Ho da tempo superato le tremila cartelle. Se i miei calcoli sono giusti, corrispondono a più di quattromila pagine. Ipotizzando che dopo la revisione almeno un terzo di quanto ho scritto verrà tagliato, da me o dall'editor della casa editrice, sempre che il mio sogno si realizzi, mi rimarrà un libro di quasi tremila pagine. Sono prolisso. Forse anche Tolstoj lo pensava di sé. E invece non lo era, non lo era per nulla, era essenziale nonostante le migliaia di pagine che scriveva. Per questo, ma non solo per questo, i suoi romanzi contengono dettagli, episodi, vite, mondi, universi. Vorrei porre fine al mio strazio, ma non posso. Sono convinto che sia il romanzo stesso a dovermi dire basta, non devo essere io a cercare una fine: ci volessero cinque anni a scriverlo, non mollerò mai su questo punto. Strazio e estasi, sconforto e passione si fondono in me come un torrente in piena, e come un torrente la scrittura tra curve, scossoni e saltelli, scivola via veloce e infinita. I personaggi stanno aumentando a dismisura. Mi basta socchiudere gli occhi e nominarli, e un'enorme groviglio di sensazioni mi travolge l'anima: è come se io li vedessi e loro vedessero me. Non sono più io a farli agire, forse non lo sono mai stato, sono loro a muoversi liberamente dentro la mia testa. Saranno loro stessi a porre fine a questa storia, io non voglio decidere per loro. Non so se vivranno o moriranno, se rimarranno o se ne andranno. Non posso, non ci riesco, non sarebbe giusto, non è così che deve andare. Ognuno di loro avrà quello che si merita, cascasse il mondo. Mi alzo e apro tutti i cassetti della stanza, un vizio che non perderò mai. È in fondo al baule che trovo il diario del rifugio. Un ingiallito plico di fogli legati su un lato con ago e lana color viola. Su ogni foglio qualcuno ha lasciato un pensiero, una data e una firma. Metto legna nel fuoco e mi sdraio a letto sfogliando con cura il diario. Circa a metà c'è una mappa a penna biro blu che descrive il percorso a nord-est, fino al confine ungherese, o quasi. Sotto alla mappa è descritto un itinerario a tappe che attraversa la catena montuosa per decine di chilometri. Leggo e rileggo col cuore che mi batte. Mi viene caldo, tolgo la coperta. La firma porta due nomi. La data è di luglio. Dieci giorni di cammino dormendo in bivacchi o rifugi d'alta montagna. Non ho più un lavoro, amo la montagna, mi piace la fatica: non c'è niente e nessuno che mi possa impedire di provarci. L'unico problema è la neve. I passi che dovrò affrontare in questa stagione sono ricoperti di neve. Rischio di trovarmi solo a tremila metri d'altitudine, senza legna e cibo. Nei bivacchi ci sono sempre un po' di stizzi (non avendo con me un dizionario, ho deciso di scrivere questa parola in corsivo, per giustificarla, nel caso in cui si dimostrasse appartenente al gergo dialettale) e una piccola scorta di cibo. Ciò non toglie che qualcosa possa andare storto. Non m'importa di morire. Di morire in questa vita. C'è soltanto una cosa. Non posso abbandonare il mio romanzo, la mia storia. Non portare a termine il romanzo sarebbe come aver vissuto a metà. Non m'importa di morire in questa vita. M'importa non aver realizzato il mio sogno di scrittore. M'importa non aver vissuto il vero amore, né con Dio né cogli uomini. sopravvivere – scrivere – morire Sopravvivere e scrivere, oppure vivere e rischiare di morire. Ho sempre pensato che per scrivere non serve niente: carta e penna, il resto lo fa tutto la testa, tempo permettendo. Vivere è molto difficile. Serve coraggio, un coraggio che io non ho avuto. Sopravvivere o morire? Sopravvivere non è vivere. Meglio rischiare, e vivere. Finché dura. PRO: quando sarò arrivato a destinazione, ovvero al confine ungherese, sarò un uomo felice. CONTRO: se morirò durante il percorso, morirò da stupido. Nella vita è così, non ci sono decisioni facili: l'importante è agire, e io non l'ho fatto veramente. Andare o rimanere? Proseguire o tornare? Buttarsi o rinunciare? A volte credi di fare la cosa giusta, poi t'accorgi che era quella sbagliata. Passano un paio di giorni e capisci che è quella giusta: in realtà è anch'essa sbagliata. Non c'è strada giusta, non c'è strada sbagliata. Non c'è la strada, ci sono le strade. Conta questo. Non c'è verità, ma incertezza. Non sappiamo il perché e non sappiamo il come. È buio. Conta questo. JESUS' BLOG – 4 gennaio 2000 Segue una parte dell'intervista ai fratelli Hans e Joseph Keller. Hans, come avete trovato il ragazzo? Abbiamo bussato varie volte alla porta del Brauner Bär, ma lui non ci apriva. Sapevamo che c'era: il camino fumava. Ci ha lasciati fuori al freddo per almeno un'ora, poi si è deciso ad aprire. Era ricoperto da più coperte, ma sotto era nudo. I vestiti erano ad asciugare sulla stufa. Joseph, che tipo era? Anche se la nonna ci aveva avvertito di stare attenti, non capivamo perché non ci avesse aperto subito la porta. Una volta seduti a tavola ha iniziato a parlare di cose strane, di Russia, di lauree, di città, addirittura di orsi. Non si capiva bene cosa diceva, non parlava bene il tedesco e nemmeno capiva il dialetto. So soltanto che dopo un po', all'improvviso è tornato a letto senza dire nulla. Hans, come avete passato il resto della nottata? Quando siamo arrivati era già passata la mezzanotte, ma c'era la luna piena. Dentro al rifugio c'era molta luce, tra il fuoco della stufa e la luna alla finestra. Non avevamo sonno. Abbiamo parlato a lungo mentre lui russava. Ci siamo accorti che teneva sotto le coperte un coltello affilato. E poi quella storia dell'orso grande e dell'orso piccolo ci fece ridere un sacco. Se devo essere sincero pensavamo che era un po' suonato. E poi, Joseph, cosa è successo. Abbiamo dormito sulle panche, noi di montagna ci siamo abituati. Una volta mattina, una mezzora prima dell'alba direi, abbiamo lavato tutto, messo in ordine, gli abbiamo lasciato un po' di pane e affettati, e abbiamo lasciato nell'armadio un biglietto con scritto: stai attento alle valanghe e alle nonne di montagna! Ci sembrava una bella battuta. E anche utile. Ci eravamo accorti che non era un buon montanaro: parlava come un cittadino, era magrissimo e poi aveva due scarponi di quelli da lavoro, con la punta di metallo. Bisogna proprio essere pazzi per venire in montagna con degli scarponi del genere. Siete stati voi a chiamare l'elicottero, Hans? Sì, parlando con la nonna, ci siamo detti che forse era ancora lassù. Nessuno lo aveva visto tornare indietro, né da Nachbardorf né da noi a Zitadelle. Non c'erano altre possibilità, a meno di non attraversare l'intero altopiano fino a Paradicsom, al confine con l'Ungheria. Saremmo anche andati a verificare noi di persona, ma continuava a nevicare, e con la neve fresca era davvero impossibile muoversi. Quindi l'ultimo dell'anno abbiamo chiamato l'elisoccorso e gli abbiamo raccontato del ragazzo. Sa cos'è successo poi? L'elicottero è andato su davvero, l'ha trovato, e quello stronzo di un cittadino, mi scusi ma quando ci vuole ci vuole, invece di chiedere aiuto con entrambe le mani, come anche un bambino sa fare, ha alzato una sola mano, come per salutare: si può essere più teste di... insomma, ha capito cosa voglio dire? Si è praticamente suicidato con le sue stesse mani! E il bello è che parlava come un cittadino e diceva di essersi laureato in un paese! Laureati stranieri che venite qui a rubarci il lavoro e le donne, statevene a casa! Va bene, fermiamoci qui. Grazie, direi che è tutto. SECONDA NOTTE AL BIVACCO Perché no? È la domanda che mi martella la testa. Questa è la mia vita, l'unica a mia disposizione. Sento che la devo vivere al massimo, non pensando sempre e solo ai bisogni degli altri: questa è la mia vita, la mia sfida col destino, la mia lotta per la sopravvivenza! È notte. Mi alzo di scatto. Cerco tra le coperte il diario del rifugio, lo apro su una pagina vuota e lo appoggio sul tavolo. Afferro una penna abbandonata nel mio blocco per gli appunti. È scuro nella stanza, non buio. Entra una luce: è la luna. Ancora lei. Appongo la data e inizio a scrivere nella semioscurità quello che, se qualcosa andrà storto, sarà il mio testamento per l'umanità. Sempre che qualcuno sappia chi sono. Sempre che qualcuno sia interessato a quanto ho da dire. Sempre che qualcuno non trovi il mio corpo congelato in qualche imprecisato posto delle Alpi austriache, sotto metri di neve, e si prenda la briga (è corretto?) di aprire lo zaino e leggere questo ultimo breve romanzo autobiografico. Altrimenti si dovranno accontentare di queste poche frasi senza senso che escono ora dalla mia penna, inquieta e febbrile. Ho quasi trent'anni e non ho ancora imparato a vivere. Ringrazio il destino per avermi portato qui, lontano da una società con la quale mi è impossibile convivere. E la colpa è mia. Se guardo fuori dalla finestra non vedo che neve, metri su metri. Dentro è caldo. C'è ancora tanta legna da ardere. La lascio a chi verrà dopo di me. Ho deciso di partire domattina all'alba (tra non più di un paio d'ore). Seguirò l'itinerario verso est che porta al confine con l'Ungheria. Ho con me un paio di scarponi, uno zaino e qualche provvista. Ho lasciato nell'armadio tre lattine di fagioli, una di tonno, mezzo chilo di pasta e cinque euro per la legna che ho bruciato, per il lenzuolo strappato e per il cibo di cui mi sono appropriato. Spero bastino. Non vi preoccupate per me, è sufficiente che leggiate queste mie parole. Tranquilli, arriverò, non morirò, sono ancora troppo giovane. Vorrei solo che in caso di mia scomparsa prematura, andaste al piano terzo di via W. A. Mozart, 5 e consegnaste il manoscritto che troverete sul desktop del PC a un editore. Non vi chiedo altro, prendete pure i miei soldi e i miei effetti. Non ho nessun parente. Sono solo da una vita. Se invece non morirò, oh uomini di montagna, passate a trovarmi, donate anche a me un po' di aria fresca e pura, voi che non avete ancora assaggiato il veleno della modernità. K. “Tolstoj” K. un paio d'ore Ho dormito un paio d'ore. È mattina. Sento lo stomaco brontolare. Metto uno stizzo tra le braci accese e soffio. Esco a mettere un po' di neve nella pentola per l'ultima colazione qui al bivacco. Mentre aspetto che l'acqua diventi calda a sufficienza, rileggo decine di volte le parole che ho scritto nel diario del rifugio. Muoio dalla voglia di cambiarle, riscriverle, cesellarle, rivoltarle, limarle. Resisto, meglio lasciare che l'emozione pura venga a galla in maniera istintiva, naturale: meglio dimenticarsi per una volta di tecnica e stile. Mangio un'abbondante dose di pasta ai fagioli. Ho fame. Divoro il formaggio che mi hanno lasciato Hans e Joseph. Ho fame. Apro una confezione di tonno. Esco a lavare per l'ultima volta il piatto, la forchetta e il coltello. Riempio di nuovo la pentola di neve e preparo un tè. Inserisco nello zaino il riso che è avanzato nella confezione. Nell'armadio rimangono due lattine di fagioli e mezzo chilo di pasta. Dal portamonete estraggo un po' di monetine – l'equivalente di futuri cinque euro – e le appoggio sopra uno dei due barattoli di fagioli. Nella tasca dello zaino metto un sacchetto di sale e uno di zucchero. Metto l'ennesimo stizzo (o si dice tizzone, adesso mi viene un atroce dubbio, se solo avessi un dizionario...) di legna nella stufa e mi siedo a sorseggiare il tè, mentre ricopio con perizia l'itinerario dal diario al mio taccuino. Una parola sbagliata o mancante e rischio di perdermi. Ho calcolato che in caso di emergenza potrò comunque spostarmi a valle e raggiungere un centro abitato in una o due giornate di cammino. Avrò bivacchi in cui ripararmi, trovare legna, cibo e un letto caldo: una notte all'addiaccio in alta montagna potrebbe essere fatale. Mi sdraio sotto le coperte con in corpo il tè bollente, il sonno mi sorprende senza che me n'accorga. Quando mi sveglio dalla finestra entra il chiarore della luna. Fa freddo, il fuoco è spento. Non so che ore sono, mi sento riposato. Le braccia e le gambe e la schiena e la testa sono affondate nel materasso, pesanti e immobili. Ho passato la giornata a letto. Non mi era mai capitato. Mi maledico. Poi ci ripenso. È ora. Mi alzo, piego le coperte, mi vesto, prendo lo zaino ed esco. Prima di chiudere guardo per l'ultima volta l'interno del bivacco. Chiudo e mi giro. Non c'è nulla di fronte a me, se non un mare bianco, infinito. Scorgo le cime degli alberi ondulanti per il vento, dietro un cielo stellato intento a farsi chiaro. Costeggio il perimetro del bivacco. In fondo alla valle una luce accesa nel paese lontano. Forse viene dalla casa della vecchia svegliatasi per pregare un dio qualunque, per chiedergli di farla volare da suo marito. Oppure è l'abitazione di un quarantenne che ha perso la bussola e medita il suicidio. O è la casa di Hans e Joseph che si preparano a un'altra escursione in ciaspole. L'unica verità è che quella luce illumina la casa di chi ha scelto di vivere in mezzo agli uomini, e ne accetta le leggi. Chiudo gli occhi un istante e mi volto verso nord-est. Guardo la cima della montagna. Il cielo s'è fatto più chiaro. La luna, lontana, va lentamente a nascondersi dietro una montagna azzurra. Cammino e a ogni passo sono più libero. Affondo nella neve e mi sento leggero. Quando affiora la fatica, la mente si rilassa. Sono fatto per sudare, non per chiudermi in una stanza a pensare. È il sudore a ricordarmi che sono vivo. Non c'è libro più bello di una lunga salita. Non c'è pagina più densa di un foglio di neve bianca. Non c'è vita più sensata di una vita trascorsa camminando. Mi alzo di quota senza voltarmi. Fisso la vedretta. La neve lassù è perenne, c'era anche la scorsa estate. La guardo senza pensare a nulla se non a respirare. Seguo mentalmente l'aria entrare, invadere il corpo e uscire. Svuoto la mente. Affondo nella neve e riemergo, affondo e riemergo, affondo e riemergo. Ogni passo ha bisogno di pazienza e perizia. È un ritmo lento, senza fine. Non mi volto. È presto per guardarsi alle spalle. La strada è lunga e invisibile. Esco dal vuoto mentale e disegno la via. Sotto la cima, in piena vedretta, girerò a destra per giungere al passo. Evito di zigzagare. Punto dritto alla cima, poi secco a destra per scollinare. Sembra breve, non lo è. Il bianco della neve non ha profondità, è un foglio appoggiato sulla montagna. Il sole non si è fatto vedere, ma la sua luce illumina il mio mondo. Vorrei girarmi, voltarmi verso il passato. Tengo duro, al buio. Ho creato un sentiero, non voglio vederlo. Come ogni nuova via alla prima nevicata sparirà, non lasciando traccia. Non ci sarà traccia del mio passaggio. Ci sono abituato. Sono su. Senza pensarci svolto a destra e punto verso il passo. Cammino aiutandomi con le mani. Soffro. La neve è immensa come un mistero nel quale perdersi all'infinito. Godo. Quasi nuoto in questo mare. Soffro e godo. Galleggio a fatica e a fatica mi avvicino all'obbiettivo sul quale ho messo gli occhi. Non c'è gioia più grande che veder nascere il sole. Il vento mi respinge. Non ho paura, so che è fatta. Un passo e ci sono. Sento una luce dietro. Mi giro e un immenso sole rosa mi entra negli occhi. Metto una mano sulla fronte per proteggerli, non sono abituati a tanta luce. La bellezza mi abbaglia. M'inchino alla natura, al quotidiano miracolo col quale si manifesta. La luce mi scalda. Il vento ha smesso di soffiare o, se soffia, non lo sento. Nessun dolore ai piedi e alle mani, sento solo caldo e gioia di vivere. M'invade la bellezza del passato. Una bellezza triste, indelebile. Saluto con la mano il piccolo bivacco, qualche centinaio di metri sotto la suola degli scarponi con la punta di metallo, fradici. Addio, Lucas; addio, Klaus: addio, cari amici solari che ve la state spassando con le ragazze thailandesi. Addio, orsetto che in sogno mi salvasti la vita. Addio, Hans; addio, Joseph: che la vita vi riservi infiniti significati da poter comprendere. Addio anche a te, vecchina che non mi hai capito: che tu possa salire al cielo e sedere al fianco di tuo marito. Addio, vita inutile e falsa. Il mio addio è un atto magico. È un lasciarmi alle spalle ciò che è stato, con affetto. Non c'è odio in me. C'è voglia di vivere, non più di sopravvivere. C'è voglia di lottare per la sopravvivenza, cioè vivere. L'atto magico serve a imprimere nella mente questo istante. Il mio gesto simbolico si fa cicatrice nella mia anima. Alzo ancora la mano e saluto nel vuoto. Il sole non acceca chi vuole vedere. Brucia gli occhi di chi vuole rimanere nell'ombra: ho passato troppo tempo al buio. È venuto il momento di cambiare. Non so come e non so dove, so che ora c'è il sole a illuminarmi la via. Finalmente mangio il pane e gli ultimi affettati che ho comprato nel negozio della ragazza dell'amore a metà. Li mastico lentamente, assaporando ogni boccone come fosse l'ultimo. Poi scendo facendo attenzione a non scivolare, o rotolare in avanti. Il segreto sta nell'equilibrio. Mi lascio trasportare dall'istinto. Esco dall'essere uomo ed entro nella natura che mi circonda. È un gesto fisico, reale, non più psicologico. Mi faccio animale selvaggio e torno a fondere vivere e sopravvivere, conscio della loro indispensabile coincidenza. Ora vivo per sopravvivere. Solo la lotta per la sopravvivenza mi rende vivo. Non c'è libertà più grande. Mi fermo e lancio un grido disumano al cielo, un grido di autostima. Immagino il mondo tremare ai miei piedi. Un istante dopo mi vergogno di essere uomo, e come tale ignorante ed egoista. Ancor prima di sentire il boato, vedo i muri di neve crollare lontano. Uno sull'altro li vedo accasciarsi, farsi fango bianco. Sono colpevole. La slavina è sull'altro lato della valle, a centinaia di metri da me. La vedo travolgere gli alberi, piegarli, spezzarli, ammazzarli. Si spezza anche il mio cuore disumano, o troppo umano, innaturale. La vedo farsi più forte, più violenta, incanalarsi in una valletta, prendere velocità e vigore, spazzare via ciò che incontra. Sono l'uomo, il responsabile della morte di quegli alberi. Ho ucciso. Ho ammazzato. Ho rotto un equilibrio perfetto. Resto immobile in silenzio. Attendo che la furia si plachi. Sul mio viso sento scendere le lacrime, il cuore pesante. Sono vivo. Eppure morto. Ho spezzato il miracolo della vita, della natura. Con un grido inutile, al contempo umano e disumano, lanciato solo per gonfiare il mio stupido ego. La valle torna a tacere. Soffrendo in silenzio imparo. Ringrazio dio, o chi per lui, per l'esistenza del senso di colpa. Riempio d'aria la pancia, poi gonfio il torace. Chiudo gli occhi. Li riapro. Espiro dalla pancia, poi dal torace, lentamente ascolto. Mi svuoto della colpa e mi tengo il senso. riprendo a camminare Riprendo a camminare, triste e vivo. Non avrei sopportato una morte stupida. Un suicidio indesiderato. Il mio viaggio è lungo. Giro a sinistra e procedo in orizzontale, verso nord-est, passando sotto la cima. Trovo un ritmo sostenibile e procedo costante, fermandomi solo un paio di volte per ingiallire un po' di neve e berne un altro po' di bianca col sale: abbassa la temperatura del corpo, ma disseta. Quando il sole giunge nel punto più alto capisco che è mezzogiorno. Dovrei mangiare qualcosa, preferisco aspettare di giungere al rifugio e scaldarmi un po' di riso. Da alcuni minuti ho notato un punto nero. Vedo una distesa bianchissima, qualche pino mugo piegato dalla neve e un punto scuro, grande sì e no tre pini. Dev'essere il tetto del rifugio. Guardo il cielo chiaro e, senza smettere di camminare, mi vedo in piena notte intento a scavare all'impazzata tra la neve per raggiungere l'entrata. Torno a concentrarmi sui miei passi, non c'è modo migliore di passare il tempo. La camminata è lenta, le forze si fanno vane. Mi fermo. Prendo fiato e mi asciugo il sudore sulla fronte. Dalla tasca prendo il sale e ne lecco un po'. Ingoio un pugno di neve e cerco il sacchetto dello zucchero. Ne mangio un grumo e lo richiudo. Metto in bocca altra neve e riprendo a camminare. cammino senza sosta Cammino senza sosta. Continuo a camminare. Cammino e cammino e cammino. Non ho visto anima viva, eccetto una poiana solitaria. Il sole è quasi sceso. Il punto nero non è più un punto nero, non è più un miraggio, è una macchia nera, è reale. Dopo qualche minuto, potrebbero essere passate ore, vedo di fronte a me un bivacco di legno. È sommerso dalla neve. Cammino rapido, ma è come se il rifugio si spostasse alla stessa velocità. Sono sudato e stanco. Devastato. Continuo ad avanzare. Fermarsi significherebbe morire congelato. E allora cammino. Continuo a camminare. Cammino senza sosta. So che posso contare sulla luna. Non sono preoccupato. Prima o poi arriverò. Potrò scaldarmi e mangiare un piatto bollente. Nonostante tale certezza, o speranza, tremo. Più per la fatica che per il freddo. Il sole tramonta e il bivacco sembra a poche centinaia di metri. Sembra. Continuo a camminare in fretta, sempre affondando fino all'inguine a ogni passo. Cammino e cammino. Cammino senza sosta. Sogno una minestra calda. Amo faticare. E allora cammino. Non ho più forza, eppure cammino. quando arrivo Quando arrivo, una luna ovale illumina l'abitazione. Vedo una finestra. La porta è sommersa dalla neve. Mi avvicino, appoggio lo zaino, scavo a piene mani. Il tempo scorre. Apro un varco. Prendo lo zaino, spalanco la porta verso l'interno. Entro. La puzza di chiuso mi assale, la respiro, sa di salvezza, sa di vittoria. La temperatura non cambia, è come fuori, soltanto più umido. Lascio lo zaino sul tavolo. Prendo la legna fine, ce n'è molta nella cassapanca, la butto nella stufa. Ci sono fiammiferi e giornali vecchi. Accendo il fuoco e soffio lentamente, senza smettere. Quando i legnetti s'infiammano, prendo uno stizzo (ho sempre più paura che la parola giusta sia tizzo o tizzone, o semplicemente pezzo di legna...) più grande e ce lo getto sopra. Riempio una pentola di neve, chiudo la porta e la metto sul fuoco. Getto del sale nell'acqua e mi spoglio. Appendo i vestiti pesanti a un filo vicino alla stufa, mi asciugo con i giornali e mi avvolgo con una coperta. Mi appoggio al letto e chiudo gli occhi un istante. Mi sveglio che è buio. La stufa è spenta. Io tremo. Mi alzo a fatica. Le gambe ballano dal freddo. Le tengo ferme. Riaccendo il fuoco. Mi sento la febbre. Confesso a me stesso che me la sento da giorni, da quando era Natale, da quando ho trentatré anni. Mi copro con un'altra coperta e mi siedo. Ho paura a sdraiarmi. Se mi addormento rischio di non svegliarmi più. Le forze mi abbandonano. Ogni mia energia è spesa a tremare. Gelo. Ho i piedi ghiacciati e la fronte che scotta. Mi alzo e metto le mani sopra la pentola. Il vapore mi scalda. Non ho fame, sono troppo stanco per mangiare. Cerco una bustina di tè nell'armadio. C'è solo zucchero. Lo prendo e ne getto una manciata nella pentola. Aggiungo del sale. Non appena l'acqua bolle, riempio una ciotola di metallo e l'avvicino alle labbra. Brucia. Bevo a piccoli sorsi. Sento l'acqua scendermi, scaldarmi. Mi sembra di vederla, andare giù, scendere fino ai piedi congelati. Ne bevo ancora e ancora. Mi sforzo. Impiego quasi una mezzora per finire la pentola. Prendo un paio di stizzi (li chiamerò così anche se non sono certo dell'adeguatezza di tale vocabolo) e li getto nel fuoco. Mi butto sul letto e aspetto. Quando mi alzo è buio. Sono sudato. Sto meglio, ma la testa mi gira. Mi alzo e faccio pipì nel lavandino. Riaccendo il fuoco. Riempio la pentola di neve e aspetto. Quando l'acqua è calda, ci butto dentro sale e zucchero. La finisco tutta, in fretta. Piscio e metto altri due stizzi nella stufa. Mi butto nel letto. JESUS' BLOG – 5 gennaio 2000 Signor Bezahlen, come ha scoperto il corpo del giovane? Io, mia moglie e le mie due figlie abbiamo lasciato la macchina nell'abitato di Nachbardorf alle ore 8 del mattino. Abbiamo raggiunto con le ciaspole il bivacco Göttlichkeit all'incirca alle 11 e 30. Ho lasciato mia moglie e le bambine all'interno del rifugio e mi sono allontanato con la scusa di scattare qualche foto. Mi scusi se la interrompo, come ha trovato il bivacco al suo interno? Ho capito subito che qualcosa non andava. La porta era spalancata e la legna finita, cosa assai rara in un rifugio d'alta montagna. Il letto era sfatto. C'erano vestiti e coperte per terra. Di fianco alla stufa erano posti uno zaino e un paio di enormi scarponi da lavoro, quelli con la punta di metallo, ha presente? Certo. Cosa avete pensato lei e sua moglie? Non capivamo cosa potesse essere successo. Chi lascerebbe i propri abiti in un bivacco? C'era qualcosa di strano, mi sembra ovvio. Per questo mi sono allontanato. C'erano delle impronte nella neve, un calpestio piuttosto recente che portava dritto a un albero, un pino credo. Cosa ha visto esattamente su quell'albero? Non capivo quello che vedevo. L'albero formava una specie di croce. Come se fossero stati segati tutti i rami tranne due che si diramavano in direzioni opposte, formando un angolo di novanta gradi rispetto al tronco, capisce? Proprio come una croce. Ho una foto se vuole. Vada avanti, la prego. Quando capii cosa c'era su quella croce, inorridii. Non credevo ai miei occhi, dico davvero. Ringraziai il cielo che le mie bambine non fossero lì con me. Un'immagine del genere non la si dimentica più, per il resto della vita. Può essere più preciso? So che non dev'essere facile... Un ragazzo completamente nudo con le braccia aperte, legate all'albero con della stoffa. Le braccia erano legate ai polsi, ai gomiti e sotto le ascelle. Le gambe penzolavano nel vuoto a pochi centimetri dalla neve. Il capo sporgeva in avanti, ma lo si poteva vedere in viso. Mi avvicinai per vederlo meglio. Aveva la barba sfatta e i capelli tutti spettinati, lunghi fino alle spalle. Al collo aveva appeso qualcosa, un taccuino, forse un quaderno. Era legato anch'esso con della stoffa, strappata da un lenzuolo del bivacco, immagino. Quindi, ha detto, si è avvicinato per vederlo meglio. Bene, cosa ha notato? Il ragazzo era nudo. Alto e magrissimo. Le gambe sottili e convergenti, cioè storte verso l'interno, il termine tecnico credo sia convesse. Il costato era fino, gli potevi vedere le costole. I piedi lunghi e stretti. Ma la cosa che mi ha veramente inquietato era il suo viso smunto, osseo... e poi... Che intende dire? Su, avanti, lo dica. Sorrideva. Intende dire che il ragazzo stava sorridendo? Esattamente. Il ragazzo aveva un sorriso sul volto. Come se... Come se? Non vorrei essere preso per pazzo, ma era come se fosse... diciamo... felice. Mi può mostrare la foto che ha scattato? Eccola. L'ho mostrata anche alla polizia. Vede? Sì, ha ragione. Il ragazzo sorride, non ci sono dubbi. Incredibile, no? Esatto. Come se fosse stato felice di morire. Sa quanto mi hanno offerto per questa foto? Non mi interessa. Be', interessa a me: io e mia moglie potremo smettere di lavorare. Ci crede? Interessante. Ma passiamo oltre, magari ci torneremo più tardi. Senta, è vero che lei conosce i fratelli Keller e la loro nonna materna, la signora Socke? Certo, qui ci si conosce tutti. Anche tra paesi distanti un'ora di auto? Certo, si capisce che lei non è un uomo di montagna. Li ho visti crescere Hans e Joseph. E la signora Berta ha visto crescere me. Quindi ritiene attendibile le loro deposizioni? Hanno riferito di aver chiamato l'elisoccorso. Abbiamo verificato, dicono la verità. Ma secondo lei perché allora l'hanno fatto soltanto l'ultimo dell'anno? Perché hanno aspettato il 31 dicembre visto che giurano di aver veduto il ragazzo per l'ultima volta la notte del 25? Scusi se insisto, ma, le ripeto, lei non è un uomo di montagna, altrimenti saprebbe che nei paesini le voci girano. Noi ci preoccupiamo di chi sale le nostre montagne. È chiaro il perché: avranno aspettato e sperato di vederlo tornare. Deve sapere che se uno passa, qualunque ora sia, non passa mai inosservato. Ha ragione. Ma avrebbe potuto arrivare fino al Göttlichkeit, come effettivamente ha fatto, e poi scendere fino a Nachbardorf, non ho ragione forse? Allora, vede che non mi ascolta? Se fosse passato a Nachbardorf, io o qualche altro paesano l'avremmo senz'altro visto e in poche ore la notizia sarebbe giunta fino a Sklave-Stadt, a casa della signora Socke e a quella dei Keller. Quindi lei esclude che i Keller o la signora Socke possano aver spaventato in qualche modo il ragazzo? Lo escludo. Si figuri, una vecchia signora! Come può anche solo pensarlo! E i Keller su al Brauner Bär? Non crede che possa essere successo qualcosa di spiacevole? Le dico io cos'è successo. Lo avranno fatto sedere a tavola, obbligato a giocare a carte e a bere vino e poi grappa fino a tarda notte, se non fino al mattino. Bene. Torniamo al corpo. Secondo quanto ha visto, pensa ad un suicidio? O ci potrebbero essere altre supposizioni? Non ci sono dubbi. D'altra parte la polizia non ha rilevato altre tracce fresche nella neve, se non le sue. E le mie, ovviamente. L'ha capito subito? Da principio ero spaventato e confuso. Era una scena talmente irreale che all'inizio provai paura, e poi, per un attimo, vero e proprio terrore. Chi poteva aver fatto una cosa del genere? Ero così inorridito che pensai di tornare subito da mia moglie e dalle bambine. Però poi non lo feci. Qualcosa mi diceva di non preoccuparmi. Uno strano istinto mi spingeva ad avvicinarmi. Sarà che ho una profonda fede in Dio, sarà che ero morbosamente attratto da quell'immagine irreale, non so, fatto sta che non seppi resistere. Mi avvicinai al ragazzo. Cosa provava esattamente? Lo so che sembra strano, folle, insano. Eppure quella croce di legno vivo, con quel povero cristo morto, mi attirava. Non ricordo bene, ma credo di essermi inginocchiato di fronte a quel corpo nudo e bianco. Era bianco quasi quanto la neve che lo circondava. Sembrava trasparente, come se fosse tutt'uno col paesaggio, come se facesse parte della natura che gli stava intorno. Venga al punto, la prego. Quando ho visto quel sorriso sul volto del ragazzo ho cominciato a piangere. Pregavo e piangevo, e non capivo perché. Non credo fosse tanto la messinscena della croce, quanto quel sorriso perfetto. Un sorriso che strideva con una morte dolorosa, piena di sofferenze, di fame e di freddo. Certo. Guardando questa foto si può intuire ciò che ha provato. No, si sbaglia, non credo sia possibile. Vede, una foto non è vera. L'unica verità era lì, di fronte a me. E ora non c'è più. Capisce che intendo? Certo, certo. Come ha capito che si trattava di un suicidio? Non so quanto tempo è passato mentre piangevo e pregavo, fatto sta che le grida di mia moglie mi hanno destato dall'estasi nella quale ero precipitato. Ricordo di essermi alzato a fatica e, senza vederla, ricordo di averle gridato di aspettarmi là. A quel punto mi sono asciugato le lacrime e ho guardato il ragazzo. Ho notato che i lembi di stoffa coi quali i polsi e le braccia erano legati all'albero, erano piuttosto larghi. Avrebbe potuto liberarsi, perché non lo aveva fatto? Capii che doveva averli fissati all'albero prima di infilarci dentro le braccia. Non poteva che essere un progetto di suicidio. Non c'era altra spiegazione. Inoltre... Inoltre? Se qualcuno l'avesse ucciso, crede che avrebbe sorriso a quel modo? È chiaro, ma può spiegarsi meglio... andare a fondo? Non è possibile spiegarlo a parole, ma, avendo davanti quella visione, se mi passa il termine, divina, capivo. In quel momento sapevo, cioè, intendo dire, che capivo perché era morto. Era morto perché voleva morire. Da quel sorriso era evidente che aveva sofferto abbastanza, che aveva voglia di ricominciare a vivere da un'altra parte, in un altro mondo, in un altro universo, o almeno questa è l'idea che mi sono fatta. Non so se mi spiego. Quel povero cristo voleva tornare bambino, non soffrire più. Bene... No, ancora un attimo, non ho finito. Vorrei aggiungere un'altra cosa. Sono certo che morendo a quel modo, cioè auto-martirizzandosi, se così si può dire, avesse provato un'emozione ultraterrena. Insomma, credo che nella sua infinita sofferenza abbia raggiunto Dio: ecco il perché di quel sorriso. [Segue una pausa di venti minuti durante la quale il signor Bezahlen rilascia una breve intervista a una rivista scandalistica] luce del mattino La luce del mattino mi sorprende. Le coperte sono fradice. I miei capelli bagnati di sudore mi preoccupano. Mi alzo nudo. Mi vesto. Il fuoco ha asciugato i pantaloni, le mutande, i calzini, la canottiera e il maglione. Prendo un panno da cucina e lo avvolgo in testa. Mi vesto. Accendo il fuoco e riempio di neve la pentola. Ho fame, buon segno. Cucino tre pugni di pasta all'olio e la divoro. Apro la finestra: l'aria fresca mi fa bene, lava via le tossine. Gli scarponi sono bagnati. Li appendo sopra la stufa dove prima c'erano i vestiti. Mi rimetto a letto e mi perdo a pensare. So di avere rischiato di morire assiderato. Questa sfida non è più un gioco. È di più. È una questione di crescita personale. Sento di dover affrontare la natura. Ho bisogno di lasciare a lei la scelta. Se dovrò morire, morirò. Se il mio istinto di sopravvivenza mi porterà sano e salvo fuori di qui, potrò tornare a vivere. La mia vita, così com'è stata nell'ultimo anno, non ha senso. Devo vivere un'esperienza ai confini, un'avventura che mi permetta di superare i miei limiti: voglio intraprendere una via dalla quale non si possa tornare. Cerco una trasformazione. Ho di nuovo freddo. Lascio i deliri a galleggiare nell'aria. Mi alzo, aggiungo un legno e torno a sdraiarmi. Mi è salita la febbre. Starò qui un altro giorno. Solo tra queste umili mura, illuminato dal fuoco e abbeverato dalla neve. Mi affaccio alla porta, la spalanco e rimango immobile, a parte i tremolii alle gambe e al costato, a godermi il sole di fine dicembre. Anche se il fisico soffre, mi sento bene. Questa solitudine non è come la solitudine di città. Qui c'è la natura, una natura amica che mi protegge, mi parla, mi mostra un mondo di pace e di perfezione. L'uomo quassù non esiste. C'è soltanto questa vecchia capanna di pietra, vuota. Ora la abita un animale. La neve copre i prati. Gli alberi crescono liberi. L'aria è pura. Sento la verità. È qui. Mi circonda. È dentro la mia testa. La verità vive in me. Mentre il mio corpo lentamente muore. Ho un brivido. Faccio un passo indietro e chiudo la porta. Ravvivo il fuoco scuotendo i tizzoni ardenti. Preparo una pasta ai fagioli. Mangio. Aggiungo un paio di stizzi e mi stendo. Quando mi sveglio il sole tramonta lontano. Respiro profondamente, ventre e torace, inspiro e espiro. Sorrido. Mi metto una delle coperte di lana attorno alle spalle ed esco scalzo nella neve. Affondo i piedi. Provo benessere. Osservo il sole farsi rosso. Lontano, sopra il bianco della neve infinita, qualche invisibile uccellino canta tra i pini mughi. Mi circondano sconfinate montagne. Mi guardano da ogni direzione. Mi sento osservato, protetto. La natura mi avvolge. Il mio cuore è colmo di gioia. Il mio cuore è gioia. Il cuore. Ho i piedi viola dal freddo e pieni di buffe. I muscoli delle gambe sfiniti. Il sole è scomparso. Tutto si fa buio e incolore. Rientro, chiudo la porta, getto uno stizzo nel fuoco, uno degli ultimi. Preparo un tè con sale e zucchero. Lo tengo tra le mani. Mi scotta la pelle, mi scalda l'anima. Mi siedo sul letto. Lo mando giù, a brevi sorsi, bruciandomi la gola. Mi sdraio sotto sette coperte spesse almeno due centimetri l'una. Ho caldo. Sudo. Mi addormento e sogno. Mi sveglio all'aurora. Fa freddo. Riaccendo il fuoco e mi affaccio alla finestra per osservare il sorgere del sole. Penso che da una finestra così grande l'orso non avrebbe avuto problemi a entrare. Un brivido mi sale sulla schiena. È un brivido di gioia, di contatto con la natura. Percepisco il miracolo che ho dinnanzi agli occhi, l'incredibile fortuna di essere al mondo, libero, in mezzo alla natura, lontano dai miei simili. Il mio simile è l'orso, il mio simile è l'uomo selvaggio, l'uomo primitivo, l'uomo che non c'è. Qui respiro senza soffocare. Gli scarponi sono freddi e bagnati. Decido di passare al rifugio ancora un'altra giornata. Ho perso il conto dei giorni. Ho tempo per riposare. Può darsi che la prossima tappa sia lunga e difficile. Non m'importa di faticare. Dovessi anche rimetterci la pelle, ne varrebbe la pena. Non ho mai provato una gioia simile a questa. Sono tornato bambino. Gioco con la vita. Correre e leggere mi hanno reso felice e speranzoso, ma vivere a contatto con la natura, con la sua forza, è un'esperienza unica. Essere in balia della verità assoluta, della madre terra, della mano creatrice: mi rende animale. Un'apparente involuzione, un'essenziale evoluzione. Tornare animale. Ricercare l'equilibrio uomo-natura, perso da millenni. Trovare sensazioni, sentimenti ancestrali. Nuovi ma non nuovi: nuovi perché dimenticati. Qui, al freddo, coi morsi della fame, con la pelle dei piedi che si sfibra sotto i miei occhi. Qui, soltanto qui, riscopro la mia vera natura, il motivo per il quale sono al mondo. In questo preciso istante, decido. Rimarrò finché ci sarà cibo per vivere e per sopravvivere: solo ora queste parole coincidono. Scriverò qui, su questa tavola e su quel letto, il mio breve romanzo autobiografico. È qui, in queste parole reali, che il tempo fittizio, finto, ha avuto inizio nel tempo reale, come se realtà e immaginazione per pochi attimi potessero coincidere; qui che le parole reali possono aspirare a coincidere con quelle finte, altrettanto vere, del romanzo; qui che il mio talento creerà, o meglio sta creando, un mondo più reale del reale, per lasciare, in forma d'arte, un ricordo indelebile di me, a una società con la quale ho fatto a pugni senza mai alzare un dito. Che sopravviva o che muoia, avrò lasciato qualcosa, un pezzo d'anima, un trancio di creazione artistica. Mi fermo. Apro gli occhi. Aggiungo uno stizzo. Torno a fantasticare. Mi stupisce la mia voglia di sorridere, la mia voglia di scherzare nonostante stia rischiando di morire di freddo e stenti, qui, in mezzo a distese eterne di neve, dominato da alte rocce ricoperte da duri strati di ghiaccio, qui, tra giovani alberi che sembrano vecchi: qui, in queste quattro mura di pietra fredda, sotto questo tetto di legno d'abete che profuma ancora di resina e vita. Aspetterò qui che la neve si sciolga. Ucciderò gli animali del bosco per saziarmi. Morderò carne morta, viva se necessario. L'annuserò, la manderò giù, in pancia, per sfamarmi. Cotta o cruda non ha importanza. Dovrò sfamare il mio corpo. La mia anima è sazia. In estate sarà facile. Il sole aiuta. Raccoglierò funghi e piccoli frutti nel bosco, denti di cane nei prati. All'occorrenza ammazzerò il primo essere vivente che mi capita a tiro. Anche un mio simile, se stessi morendo di fame, sempre che abbia miei simili. La sopravvivenza al primo posto, sempre. Sempre se ci arrivo all'estate. Prendo il quaderno e scrivo. Mentre scrivo capisco cosa sto scrivendo. Sto scrivendo il mio ultimo breve romanzo autobiografico. Scrivo della fabbrica, degli orari, dei silenzi in corriera, delle biblioteche, delle mie scorribande del sabato, delle mie corse quotidiane nei boschi. L'ho appena iniziato, qui e ora. Il mio brandello di vita perenne. La mia fetta d'arte per i posteri. Il mio regalo al mondo degli umani. Agli artisti, ai letterati, e chissà, forse a quella gente comune che non mi ha mai capito. Nel caso in cui qualcosa andasse storto, devo lasciare un testamento, per quanto umile e poco pretenzioso. Altrimenti non posso morire, morirei insoddisfatto. Un ultimo breve romanzo autobiografico. Suona bene come titolo. Un testo essenziale. Scritto a matita, e a gomma soprattutto. Un ultimo breve romanzo autobiografico scritto a gomma. E senza dizionario. Anche se credo che un vero scrittore non ne abbia bisogno, per questo il titolo non sarà Un ultimo breve romanzo autobiografico scritto a gomma e senza dizionario. Un vero scrittore usa i termini del parlato. È quella la lingua del divenire, la lingua del popolo, e di conseguenza la lingua del romanziere che al popolo, o a una piccola parte di esso, si rivolge. Sarà (ma potrei ormai anche dire è) un romanzo secco, ossuto, scarno, vivido, distillato goccia a goccia. Il contrario della prolissità con la quale ho cianciato nei mesi passati, quando la mia mente ha creato decine di personaggi che hanno vagato inutilmente per migliaia di pagine. Comincio a scrivere partendo dalla mia vita in Austria. Da quando ho iniziato a lavorare in fabbrica, passando per la casa della vecchietta, fino a queste ultime giornate febbricitanti in mezzo alla neve infinita. Sempre che riesca a finirlo (incrocio le dita della mano sinistra, con la destra sto scrivendo, non mollo la presa). Scrivo e riscrivo per ore e ore. Taglio fino all'osso, a volte decapito. Mi fermo soltanto per cucinare un po' di pasta di fagioli e mangiarla. Tanto da far tacere lo stomaco. Il suo brontolio mi deconcentra. Per assurdo, più dei morsi della fame. Scrivo una pagina a matita. Poi la cancello e riscrivo da capo. La terza stesura è quella buona, sempre. È da lì che inizia la mia vera opera di riscrittura. La stesura, per quanto buona e re-iterata, rimane merda, noi scrittori lo sappiamo bene, è un dato di fatto, fa parte del processo di scrittura: dopo la stesura comincia il lavoro d'artigianato: è qui che noi ci divertiamo! Le giornate passano con la matita e la gomma che si accorciano sul taccuino. Mi vesto sempre più e mangio sempre meno. Raziono le riserve di cibo per i giorni a venire. L'inverno è lungo. Se ho fatto bene i conti è ancora dicembre. Ieri sono uscito con un'accetta e ho tagliato un tronco del diametro di almeno dieci centimetri. L'ho caricato sulla spalla e l'ho trascinato fino al rifugio. Era verde e umido, ma una volta nel fuoco bruciava a meraviglia. Oggi nevica. I fiocchi sono piccoli in alta montagna, diversi dai canederli galleggianti che scendevano quando uscivo dalla fabbrica: era buio, io li osservavo scendere in controluce, sotto i lampioni, erano canederli di neve galleggianti. I fiocchi di montagna sono minuscoli. Ne prendo uno sul palmo della mano. È formato da cristalli esagonali concentrici. La perfezione della natura mi sorprende ogni giorno. Sembra tutto casuale. Non è vero, c'è una logica in tutto. Ciò che è imperfetto fa parte dell'infinita perfezione. L'uomo si crede il creatore, non è che un fastidioso foruncolo sul sedere di questo enorme universo. Presto saremo eliminati, scompariremo, verremo rimpiazzati da una specie meno egocentrica, più rispettosa. Ho fame. Il freddo quasi non lo sento. Ho fame. Anche la febbre è diventata cronica. Non mi dà più fastidio. La fame fa male. Ho fame. ieri Ieri ho preso la mia roba, sono andato verso est in cerca di legna o cibo, sapevo che era troppo chiedere di trovarli entrambi. Il sole ha retto poche decine di minuti. Poi una grande ombra ha abbracciato la montagna. Ha iniziato a nevicare. Due minuti dopo è venuta una bufera. Ho provato a scavare un fosso per proteggermi, non ne avevo le forze. Sono tornato qui, a fatica, lasciando lo zaino chissà dove. Era vuoto. Per fortuna il taccuino l'avevo lasciato sul tavolo del bivacco. Mi ero perso, e lo zaino era di troppo. Sarà ricoperto da metri di neve. Stamattina sono andato a prendere legna. Ho trovato solo qualche ramoscello. Sono finito. C'è poco da ardere, quasi niente da mangiare. Se non riesco ad accendere un fuoco e a cucinare riso, rischio di non uscirne vivo. Non voglio pensarci. Non voglio morire. Se domani fa bel tempo ripartirò in cerca dello zaino e di altra legna. Oggi ho pensato di tornare indietro, sarebbe una sconfitta. Mi ha sfiorato un pensiero: e se salvarsi fosse la vera sconfitta? Devo lottare. Non mi rimane che recuperare lo zaino, accendere un fuoco, mangiare tutto ciò che ho e partire come un razzo verso est. Sicuramente a poche ore di cammino ci sarà un altro bivacco con barattoli di cibo e legna tagliata in quantità, come ce n'era qui quando sono arrivato. Può darsi che incontri altre persone con gli sci o in ciaspole. Oppure un pazzo come me. Non mi va di chiedere aiuto al genere umano, ma se incontrassi un folle come me, un uomo selvaggio, un uomo di montagna sarebbe diverso: in due ce la caveremmo. Gli animali selvaggi vivono in piccole comunità. Sono passati tanti giorni dall'ultima volta che ho visto una persona. Piango. Asciugo le lacrime. Sono stanco. Ho sonno. Meglio che recuperi un po' di energie. Coi vestiti addosso e le solite sette coperte, crollo sul letto. Non sudo. Apro gli occhi. È notte. Aggiungo uno stizzo. Ne rimangono cinque. Soffio. Il fuoco scoppietta. Mi rimetto a letto, mi giro su un fianco e scrivo alla luce della stufa. Appoggio foglio e penna e dormo un altro po'. Mi sveglio. Non ce la faccio più. Ho sete. Quando mi sarò svegliato la neve che ho messo nella pentola col sale, si sarà sciolta e me la berrò d'un solo fiato. È notte e non ce la faccio più. Mi sveglio e non vedo nessuna pentola sul fuoco. Me la sono sognata. Ho sete. Non ce la faccio ad alzarmi. Mi allungo e metto un altro stizzo nel fuoco. appena Ho appena capito che morirò. Morirò qui. È tardi per scappare dal destino. Non sono triste. Non faccio salti di gioia, ma triste non sono. Credo che la gioia arriverà presto. E presto diverrà estasi. Ho deciso di morire a modo mio, con eleganza. Non so se credo in dio, in Dio o in qualcos'altro. Non ci ho mai pensato seriamente. Ero talmente concentrato sulla mia carriera di scrittore che ho messo da parte le cose più vere, le più importanti. Non c'è abbastanza legna per costruire ciò che voglio costruire. Ci vorrebbero un paio di tronchi. Qui ci sono solo stizzi. C'è un albero fuori, a un centinaio di metri. È solo in mezzo alla distesa di neve. L'ho ferito più volte, per sopravvivere. Ha ancora pochi rami. I più grossi, quelli che non riuscivo a tagliare con l'accetta. Mi avvicino alla finestra. Entra un'aria gelida. Tremo. L'albero è immobile. Un pino mugo insolito. Alto almeno tre metri. Con due rami che si diramano orizzontali, in direzione opposta, alla stessa altezza. Lascerò soltanto quei due grossi rami. Mi copro il più possibile con giacca e coperte. Esco con in mano l'accetta. Cammino dritto nella neve che sprofonda sotto gli scarponi, questi maledetti scarponi con la punta di metallo. Devo fermarmi. La fatica è troppa. Non ho mangiato a sufficienza. Riposo in silenzio. Respiro lento. Aspetto che tornino le forze. All'improvviso uno squarcio. Un rombo. Un rumore innaturale. Lontano. Nel cielo. Un battito d'ali mostruoso. Lo riconosco. È un elicottero. Lo cerco nel cielo. Non c'è. Rimango fermo. Forse è qualcuno che cerca me. Sono salvo? Forse la vecchietta, forse i fratelli. Forse la padrona di casa. Forse il caso. Forse il destino. Voglio davvero tornare in vita? Credevo di essere morto. Non c'è tempo per pensare. L'elicottero bianco a strisce arancioni appare all'orizzonte. Viene da est. Non c'è tempo per pensare. Tengo l'accetta nella sinistra e mi sbraccio con la mano destra. Grido e muovo il braccio destro di qua e di là. L'elicottero mi vede, è sopra di me. Non riesco a vedere il pilota, ma lui mi vede perché si è fermato sopra di me, una cinquantina di metri sopra la mia testa. Continuo a muovere il braccio destro di qua e di là con rinnovata energia. Grido e rido allo stesso tempo. Senza pensare ho deciso: ho deciso di tornare in vita. I pensieri volano nella mente. Vedo la salvezza venire dal cielo come se finalmente un dio si fosse accorto di me, della mia sofferente esistenza. L'elicottero si alza, percorre un'ovale stretta nell'aria, s'inclina verso ovest e riparte rapidamente per scomparire dietro la montagna. Mi ha visto, devo stare tranquillo. Mi ha visto, tornerà presto a riprendermi. Mi sento un leone. Mi avvio verso il pino mugo, unica presenza scura in una distesa immacolata. Da vicino è ancora più alto. Non tre metri, cinque. Mi arrampico sui rami più alti e ci do dentro deciso con l'accetta. Stavolta riesco a reciderli. Cadono come cadaveri. Decido di lasciare soltanto i due grossi rami che si diramano orizzontali in direzione opposta. Per scaramanzia. Non è detto che l'elicottero torni a prendermi. Tornerà, ma non è detto che torni. Mi ha visto, tornerà per salvarmi, ma non è sicuro al cento per cento. Tornerà, ma decido di lasciare quei due rami che, grazie al tronco eretto del pino mugo, formano una croce quasi perfetta che si erge nell'aria come un crocifisso. Così, per scaramanzia. Mi ha visto, tornerà. Tornerà. ultime ore Sono passate ore. Non è tornato. Ci ho pensato. Ho capito. È ovvio: due mani aiuto, una mano saluto. Fa anche rima. Colpa dell'accetta. Mi teneva occupata la mano sinistra. Destino. Destino o stupidità? Stupidità. Dormo, forse per l'ultima volta. Dormo con la certezza di morire qui, in Austria, in alta montagna, in un bivacco lontano dal mondo, in un'isola deserta circondata da un oceano di acqua ghiacciata. Quando mi sveglio il fuoco è spento. Ho sete. Sulla stufa c'è la pentola. Forse prima sognavo. Non lo so più. Non so più distinguere tra sogno e realtà. Rimango sdraiato e penso. Sono partito a Natale. Sono passati sei giorni. Venticinque più sei fa trentuno. Oggi è l'ultimo dell'anno. Oggi è l'ultimo. Mi alzo. L'acqua è fredda. Non la sfioro nemmeno. Ho altro da fare. Devo morire. Prendo la penna e il diario. Mi svesto del tutto, esco. Fuori è buio. Tremo. Cammino a caso, puntando al primo pino mugo in lontananza. Affondo. Non c'è più la luna a farmi compagnia. Mi ha abbandonato, come è giusto che sia. È buio e c'è il sole. È dentro di me. Il mio corpo è luce. Sono energia cosmica, non più carne. Alzo la testa. Non ci arriverò mai a quell'albero, a quella croce che si staglia nera nel cielo stellato. Non ho più la forza per camminare. Ho soltanto voglia di finire. Fine. Sono pronto. Sono pronto a morire: nella morte, nella sofferenza, nel martirio è la nuova vita, l'illuminazione. Scrivo. Mi accorgo di delirare. Il delirio è verità. Tra un'ora, forse meno, sarò morto. Questo mi rende felice. C'è la vita in questa mia morte, una vita che ho saputo cogliere solo ora. Non è il delirio di un pazzo: è il delirio di un uomo finito, è il delirio di un'energia infinita: è la verità rivelatami qui e ora. Arrivederci!, grido all'universo. Arrivederci nell'aldilà, dove saremo tutti buoni, veri e perfetti! Lo scrivo e lo grido. Prendo fiato per l'ultimo sforzo creativo. Ancora poche frasi e potrò morire in pace. Le mie braccia tremano. Non riesco a muovere le gambe. Le dita della mano non mi hanno abbandonato. Scrivo. Mentre muoio di freddo, di fame, di solitudine, ripenso per l'ultima volta ai mesi trascorsi in questo paese straniero. Penso, non scrivo. Come se morendo dovessi ricordare ogni cosa, un flusso ininterrotto di immagini mi passa sotto gli occhi mentre tremo, scrivo. Sono immerso nel buio nella neve bianca d'alta quota, in un imprecisato punto delle Alpi austriache. Nessuno sa che sono qui. Nessuno può venire a salvarmi. Ma la cosa che nessuno sa, è che muoio felice. Assiderato, solo e felice. Tre parole inconciliabili. Tre parole che ora in me si sposano alla meraviglia. Ma adesso basta scrivere. Ancora un paio di frasi, una manciata di parole e finalmente mi lascio morire: oggi è l'ultimo. Sono solo tra le montagne come un alpinista che maledice la cattiva sorte: eppure questa è la storia della mia salvazione: morendo, rinascerò. Un martire in estasi - FINE MANOSCRITTO - [Segue una pausa di venti minuti durante la quale il signor Bezahlen rilascia una breve intervista a una rivista scandalistica] Bene, la ringrazio di cuore, signor Bezahlen... Come? Sta scherzando? Non può mica lasciare l'intevista a metà! Lo so. Ma, vede, l'ha già detto mille volte ai telegiornali, ormai la sua versione la sanno tutti a memoria. A me interessava conoscere le dinamiche della visione... Sì, ma che razza d'intervista è mai questa se non mi chiede nemmeno cosa è successo dopo? Va bene. Continui. Cos'è successo dopo? Ma lei è la prima volta che fa un'intervista? Forse i miei colleghi della TV sono più bravi... Ah, ecco. Probabile. Insomma, direi proprio di sì. In fondo se lavorano in TV un motivo ci sarà. Bene, continuiamo. Dunque, quando mia moglie mi chiamò, le gridai di aspettarmi. Guardai ancora una volta il corpo del giovane, tutto bianco e ghiacciato, e mi soffermai su quel sorriso incredibile. A quel punto successe l'impossibile. Su avanti, non la faccia tanto lunga, conosco già il finale. Il ragazzo sollevò lentamente il capo e alzò lo sguardo al cielo. Cosa provò in quei frangenti, signor Bezahlen? Niente. Rimasi paralizzato. Ero certo che fosse morto da giorni. Era di un bianco cadaverico. Era morto. Come faceva a muoversi? Ce lo dica lei, signor Bezahlen? Appena ritornai in me, mi avvicinai e gli misi una mano sul petto. Non arrivavo a toccargli il viso, era troppo in alto. Lui non disse nulla. Forse non riesce a parlare, pensai. A quel punto il ragazzo reclinò il capo verso di me. I nostri sguardi si incrociarono. Aveva gli occhi azzurri, praticamente grigi. Non molto grandi, ma espressivi. Lo devo ammettere, a vederlo a quel modo, coi capelli castano-chiaro, quasi biondi, lunghi fino alle spalle, e le braccia legate a quella croce, lo devo ammettere, credevo fosse Gesù. Sì, lo sappiamo, signor Bezahlen, lo ha già detto alle TV di mezza Europa. Lo so, e non mi stancherò mai di ripeterlo! E poi la sua data di nascita... E la sua data di nascita coincide con quella di Gesù Cristo: il ragazzo è nato proprio il giorno di Natale, il 25 dicembre del 1966! Non lo trova incredibile? Sì, certo, è proprio incredibile... È morto a trentatré anni, proprio come Cristo! Non crede che sia pazzesco? Certo, pazzesco... E se gira il 9 nel 1966 ottiene 666, il numero del diavolo! 1666 significa un diavolo. Come fa a non capire? È morto il 31 dicembre del 1999, cioè il contrario di 1666, ovvero il contrario di un diavolo, vale a dire un angelo! Ed è risorto con l'avvento del nuovo millennio, il primo gennaio del 2000: è così evidente! Ci ha pensato? E se salvandolo avessi cambiato il corso della storia? Se ora quel sorriso da angelo si fosse trasformato in... un ghigno diabolico? Senta, fermiamoci qui con le congetture. Che ha fatto a quel punto? Lo ha slegato? No. Se avesse avuto delle fratture alla schiena e alle articolazioni avrei messo in pericolo la sua salute. Ho preso il mio cellulare, la copertura di rete era ottima, ho chiamato l'elisoccorso. In meno di cinque minuti è arrivato un elicottero, nel frattempo ho alitato sul corpo del ragazzo, non c'era tempo per andare a prendere delle coperte nel rifugio. Mentre alitavo mi sentivo sia un asino che un bue. Non stento a crederlo. L'ha capita? Come Gesù nella stalla. Certo. Bene la ringrazio. Non c'è di che. Quando uscirà l'articolo? Già domani. Anche sulla carta stampata, intende, spero. Niente carta stampata. Io scrivo le notizie soltanto sul mio blog. Poteva dirlo subito, signor... Tamanini. Se lo sapevo, non sprecavo tutto questo tempo. I blog, caro Tamanoni... volevo dire Tamanardi, ecco, Signor Tamanardi, i blog non li legge nessuno. Se lo dice lei... Be', comunque non mi faccia fare brutta figura, eh? Addio, Signor Bezahlen. NOTA D'AUTORE #2 Tutte quelle dichiarazioni erano fasulle. Almeno in parte. Era chiaro: ognuno tirava acqua al proprio mulino. Desideravano tutti denaro, successo, fama. Un povero ragazzo si era probabilmente auto-crocifisso, nudo e in mezzo al nulla. Ma questo non importava a nessuno, nemmeno ai suoi genitori. Importava invece farsi belli di fronte alla stampa e alla TV. Questa era l'Austria degli anni duemila. Anzi, direi l'Europa degli anni duemila. Apparire. Decisi di pubblicare comunque, anche se palesemente inattendibili, le interviste sul mio blog. Mettevano carne al fuoco in una vicenda dai contorni sconcertanti. Ci andava di mezzo un ragazzo con gravi turbe psicologiche che, anziché preso seriamente, era scaraventato di qua e di là dai giornalisti e dagli intervistatori della TV. Quando vidi le foto di lui nudo e praticamente cadavere, sulle riviste patinate, ebbi un'ulteriore conferma: la morbosità della gente non ha limiti. La polizia non si occupò neppure di perquisire casa sua. Lo fece soltanto il 20 gennaio, dopo che il ragazzo era scomparso. I giornalisti, una settimana prima, mentre Efrem non c'era, avevano frugato tra le sue cose e immortalato ogni angolo del suo appartamento. Anticipai tutti. Il 7 gennaio bussai. Efrem non era in casa. Era probabilmente a Vienna in qualche sede televisiva per l'ennesima comparsa. Mi bastò allungare una banconota alla padrona dell'appartamento per entrare. Mi lasciò solo. Non chiese nemmeno chi fossi. Mi invase una tristezza infinita: Efrem aveva vissuto per più di un anno in un posto lurido e deserto. Dimenticato da Dio. Accesi il vecchio PC. Niente password. Non esisteva una connessione a internet. C'era una sola cartella sul desktop. All'interno un file di testo. Resurrezione.rtf era il nome del file. Ultima modifica in data 5 gennaio 2000. Lo copiai su un dischetto. Cercai altri file. Non c'era nient'altro. Ancora non si sapeva che Efrem aveva cancellato un romanzo di oltre tremila cartelle. Un romanzo che, vista la notorietà in ascesa del personaggio, valeva centinaia di migliaia di copie. Appena arrivai a casa lessi Resurrezione e rimasi allibito. Pensai tutta la sera se pubblicarlo o no: alla fine lo feci. JESUS' BLOG – 7 gennaio 2000 RESURREZIONE di Efrem Kowalski E così ero risorto. Quando credevo d'essere salito al cielo e di sedere alla destra del padre, mi sono ritrovato sulla terra, in una lago di neve, con un uomo che pregava e piagnucolava di fronte a me. Gli avrei sputato in faccia se solo non avessi avuto le labbra congelate. Sapevo fin da subito che avrebbe rovinato tutto. Rimasi immobile. Anche quando si mise a gridare a squarciagola qualche stupida cazzata alla moglie. Due minuti prima ero in cielo, ero morto. Due minuti dopo ero sulla terra. Sulla terra con un perfetto imbecille che mi scambiava per Cristo. Mi fai pena, avrei voluto gridargli. Pagliaccio! Non riuscivo a muovere la lingua, altrimenti l'avrei insultato con piacere, con immensa gioia. Era una morte perfetta, studiata a tavolino, realizzata impeccabilmente. Avevo terminato il libro con un finale spettacolare, mi era pure costato una fatica immane: scrivere nella neve, con la mani ghiacciate, senza mangiare da giorni, un incubo che consiglio a chiunque abbia voglia di capire fino a che punto si può essere uomini. Ero arrivato a trentatré anni soffrendo come un cane, fino a desiderare la morte. L'unica possibilità di pubblicare era morire. Con una morte del genere – crocifisso nudo in mezzo al nulla – anche l'editore più cieco avrebbe capito: quel libretto da meno di duecentomila caratteri valeva più dell'oro! Chiedevo al mondo una sola cosa: essere lasciato in pace. Mi accontentavo di morire con al collo il mio best-seller perfetto. E invece no. Evidentemente era chiedere troppo. In fondo cos'era la morte se morendo avrei realizzato il mio sogno? Non avevo paura di morire. Mi spaventava di più vivere. Continuare a vivere nello squallore esistenziale in cui stavo marcendo. Due amici sordomuti, un lavoro di merda, migliaia e migliaia di fogli scritti da gente che non conoscevo, un computer polveroso e puzzolente che odiavo con tutto me stesso: che cazzo di vita! Non avevo scelto io di morire, lungi da me. Avevo lottato come un drago fino alla fine. Ero andato avanti per giorni nonostante il freddo e la fame. Quando ho capito che era finita, ero felice. Dopo quell'interminabile lotta, quell'infinita sofferenza, quel martirio senza tregua, morire era il più dolce dei desideri. Se poi morire significava pure realizzare il più grande dei miei sogni, pubblicare un romanzo, era inutile che quel ***** si scandalizzasse nel vedere il sorriso stampato sul mio volto. Non era il sorriso di un povero cristo, *****. Era il sorriso di un martire stremato al quale hai tolto per sempre il piacere di crepare! E comunque adesso sono qui. Di nuovo a scrivere. Non ho perso il vizio. Il libro me lo pubblicano lo stesso. Devo solo andare in TV e rispondere a qualche stupida intervista del cazzo. Ecco cosa mi aspetta nei prossimi mesi, uno schifo di vita da VIP. Non ci starò a lungo nella vostra società. Ho già in mente di andare a morire in culo al mondo. Sono stufo di questa vita. Era così bello morire, lasciarsi andare, lasciarsi cadere per sempre. Sono sfinito. Sfinito di sorridere. Di sorridere alle infermiere, ai medici, alla gente, ai giornalisti, agli intervistatori, agli editori, persino ai **** che ti salvano la vita! Lasciatemi perdere, sono solo uno scrittore, un disadattato: perché scriverei altrimenti? No, lasciatemi andare a fanculo, non fa per me questa vita. Ho voglia di morire. Ho visto il tunnel con la luce in fondo, io. Chi me lo fa fare di tornare indietro a vivere, adesso che ho trovato la direzione da seguire? La morte è la luce della verità. Meglio essere veri nella morte che sopravvivere in una vita non vera. Una vita in cui tutti portano delle maschere, in cui tutti fingono di essere altro da quello che sono veramente. Badate bene, gente, tra un po' imploderò, non mi vedrete più. Scomparirò. Andrò a morire in culo al mondo. Chi vuol capire, capisca. Chi non vuol capire, per me può anche andarsene affanculo. Addio. Efrem K., il ragazzo dal grilletto facile. PS: ho chiamato i miei e li ho mandati a fare in culo. PPS: e comunque – prima che me ne vada per sempre – ci vediamo in televisione, stronzi! Da una pagina del mio diario di quei giorni 9 gennaio 2000 Scendo dal treno alle 10 del mattino dopo un viaggio di oltre venti ore, viaggio che mi ha aiutato a dimenticare per un po' le polemiche seguite alla pubblicazione di Resurrezione. I genitori di Efrem abitano in Lettonia, quasi sul confine con la Russia. Attraverso per ore le foreste anonime che separano la capitale Riga dal piccolo villaggio. Le autorità lettoni mi hanno scongiurato di non pubblicare esplicitamente il nome del villaggio dove abitano i coniugi Kowalski. Non so niente di loro. Li ho sentiti al telefono un paio di volte. Abbiamo dialogato in russo. Mi sono sembrati strani. Il russo che ho studiato sui libri è differente dal loro. Finché un editore non si deciderà a pubblicare il breve romanzo che Efrem portava legato al collo quando è stato ritrovato, non sapremo mai cosa pensasse veramente. Le interviste che il ragazzo sta rilasciando sono fuorvianti, folli e palesemente false. Il suo scopo è evidente: accattivarsi le simpatie del pubblico. Efrem sa benissimo che più persone incanta, più copie venderà del suo romanzo. Ovviamente – come era prevedibile – nega di essere lui l'autore di Resurrezione: fa parte del suo gioco. Nel suo manoscritto invece – giurano gli editori che lo hanno potuto visionare – c'è tutto un altro mondo, un'altra dimensione nascosta. Efrem descrive la relazione con i genitori, con la padrona di casa, con i colleghi di lavoro della fabbrica. La polizia, dopo aver esaminato il libro, ha escluso, come avevano supposto in moltissimi, che si possa trattare di tentato omicidio. Sarà quindi quel testo a svelare all'Austria e a mezza Europa chi è veramente Efrem Kowalski, il ragazzo che si è crocifisso nudo su un pino di montagna in pieno inverno, ed è incredibilmente risorto. *** Sono teso. Sarò io il primo a intervistare i coniugi Kowalski. La cosa mi emoziona. In Lettonia la notizia del ragazzo è arrivata ieri l'altro, senza però scatenare la morbosità della gente, come è successo in Austria, Inghilterra, Italia e Spagna. Per questo nessuno ha ancora intervistato i Kowalski. Se riuscirò a fare una bella intervista, sarà un ulteriore passo in avanti per il mio blog. Ieri mattina ho ricevuto le prime richieste di pubblicità. Due aziende di Vienna mi hanno proposto un contratto di sei mesi per inserire nel blog una loro icona a margine. Di primo acchito ero restio a svendermi così, ma alla fine della giornata ho accettato ad entrambe le proposte. L'intervista ai genitori farà schizzare le visite al blog, e finalmente avrò realizzato il mio sogno: essere pagato per scrivere ciò che mi interessa. JESUS' BLOG – 11 gennaio 2000 *** – Lettonia, 9 gennaio 2000. Busso alla porta di legno secco e consumato. In un istante il mondo mi crolla attorno. Mi sento svenire. La puzza arriva ancor prima che aprano la porta. Puzza di rifiuti, di merda, di vecchio. Quando la porta si spalanca, mi trovo di fronte a una discarica d'immondizia. Un fetore mai provato mi entra in bocca, scivolando giù fino alla gola. Quando arriva il primo conato, mi giro per vomitare. Vomito e piango. Termino di vomitare, non di piangere. Mi rialzo in piedi e cammino in avanti. Non ho nessuna voglia di girarmi. Solo quando sono lontano, a una trentina di metri dalla casa-discarica, mi volto. Una donna obesa in piedi e un uomo altrettanto grasso in sedia a rotelle mi guardano senza capire ch'io possa essere. Stanno lì immobili, senza parlare. Io li guardo come avrei guardato due maiali affogare nel proprio sterco. Poi me ne vado. Bosco di Pai – Thailandia, Natale 2010 Seduto a un'enorme scrivania di un legno massiccio e liscio, all'ombra dei bambù, stava scrivendo a mano, con una penna. Attraversai il giardino d'erba e bonsai. La penna era una penna a biro blu. "Hi" mi disse. Quel saluto, quella voce, quel sorriso. Il passato rinvenne. "Salve" risposi in tedesco. "Sono venuto..." "Questo lo vedo" disse senza darmi il tempo di aggiungere altro. "Serviti. È tè verde." Sopra un tavolino di bambù c'era una brocca. Vi galleggiavano una decina di cubetti di ghiaccio. Presi un bicchiere di vetro pesante e mi servii. "Siediti, vecchia lenza di un blogger." Mi sedetti ripetendo mentalmente quelle parole così vivaci e colorate, che mai mi sarei aspettato da lui. Nessuno dei due apriva bocca. Né turisti, né thailandesi: non c'era nessuno a vista d'occhio. Intorno a noi si vedeva soltanto il manto scuro della foresta con qualche isola più chiara dove si coltivava il riso. "Come sa chi sono?" dissi. "Come hai fatto a trovarmi?" disse. Di nuovo silenzio. "Mi ricordo il tuo viso." "Ma io non l'ho mai intervistata." "Sei venuto a curiosare tra le mie cose, ricordi?" Riflettei un attimo. "Intende a casa sua?" Annuì. "Come lo sa?" Erano passati dieci anni, eppure mi sembrava fosse ieri. "Ero sul tetto. Ti osservavo." Rimasi interdetto. "Quindi ha finto di non essere in casa..." Sorrise. "Volevo che leggessi Resurrezione." "Perché proprio io?" "Tu o qualche altro sordido giornalista..." "Ah" dissi. "Non sta bene che un giornalista dica ah" disse prima di scoppiare a ridere. "Ah... be'... insomma... e poi cosa fece?" dissi grattandomi la nuca. Lui sorrideva senza rispondere. "Venne a vivere qui?" domandai. "Più o meno" disse. Non era magro come allora. La sua pelle non era bianca come dieci anni prima. Adesso era abbronzato e in piena salute, con i muscoli al posto giusto. Me lo ero sempre immaginato triste e serio, invece non faceva che sorridere in continuazione. "Allora? Come hai fatto a trovarmi, vecchia lenza?" "Ho rintracciato i suoi due amici, i gemelli, giù a Pai." Annuì sorridendo e io finalmente mi rilassai. "Non è stato difficile" dissi bevendo un sorso di tè e appoggiando il bicchiere sul tavolino. "Sono passato alla fabbrica dove lei lavorava a quel tempo. Nell'archivio erano schedati una trentina di dipendenti con disabilità certificata, di cui sette sordomuti, ma soltanto due con lo stesso cognome. I loro genitori mi dissero di andare a Pai in Thailandia e così..." "Avevo detto loro che prima o poi saresti arrivato." "Come?" "Sì, solo a te potevano dire dove vivo. A nessun altro, nemmeno ai miei genitori..." disse perdendosi in una risata sonora che pareva non finire mai. Io lo guardavo senza capire perché ridesse tanto. "Sinceramente ti aspettavo prima" disse asciugandosi gli occhi. Non sapevo che dire. Presi il bicchiere e bevvi un altro po'. "La verità è che tutto di lei mi affascinava..." dissi infine. "Dal romanzo che ha scritto all'amore per la montagna, per la corsa, per la letteratura... insomma... lei è quello che avrei voluto essere io." "Quando la smetterai di darmi del Lei, vecchia lenza?" "Scusami." "Siamo amici, no?" "Certo certo. Dicevo... la tua figura mi affascinava e allo stesso tempo mi inquietava. Ho continuato a fare delle ricerche sul tuo conto. Mai nessuno prima di te aveva cercato di suicidarsi in quella maniera..." Lo sentii nettamente deglutire e mi pentii di essere stato così schietto, ma lui iniziò ridere a perdifiato. Sembrava pazzo, il che potrebbe in parte spiegare lo stato in cui si trovavano i suoi genitori. Ma forse pazzo non era e si stava semplicemente prendendo gioco di me. Quando smise di sghignazzare, stavo per riprendere a parlare, ma lui mi precedette: "Durante i primi anni scendevo spesso a Pai e per prima cosa mi recavo in un internet point per leggere il tuo blog. Scrivevi solo di me e della mia storia: eri l'unico a capirci qualcosa" disse quasi serio. "E poi all'improvviso basta, hai smesso di scrivere e io ho praticamente chiuso i ponti con Pai." "Sì, hai ragione, ero ossessionato da te e dalla tua storia." "Perché hai chiuso il blog?" "Stava diventando una malattia." "Ma ti aveva reso piuttosto famoso, immagino. Ti fruttava un bel po' di soldi, no?" Decisi di dirgli la verità. "Avevo paura di incontrarti." Girò la testa e mi fissò negli occhi, in silenzio. "Non fraintendermi. Voglio dire che ero spaventato da me stesso, per questo ho cercato di dimenticare te e la tua assurda storia. Se volevo continuare a scrivere di te, avrei dovuto incontrarti, non potevo seguitare a inventare storie, dovevo scrivere la verità e quindi cercarti, trovarti e intervistarti." "E perché non l'hai fatto? Perché non sei venuto prima?" Osservai un istante l'enorme distesa verde di fronte a noi, l'orizzonte nebbioso e caldo, il cielo bianco e azzurro, il sole piccolo e giallo. "Avevo paura che la mia vita, dopo averti incontrato, sarebbe cambiata per sempre. Non mi sentivo pronto. In fondo – mi dicevo – sto bene: ho un lavoro, una ragazza, un appartamento in affitto, dei genitori che mi amano, una sorella che mi vuole bene, tanti amici..." "Che lavoro facevi?" "Insegnavo alle scuole medie." "Ma non facevi il giornalista?" "Poi ho smesso e ho provato a insegnare, e così nel tempo libero ho iniziato a fare delle ricerche su di te e sulla tua storia... Non mi andava più di riempire le teste della gente con menzogne nere e rosa, litigi di politicanti ingrassati dal benessere..." "Capisco." "Così ho aspettato il momento giusto e il momento giusto è arrivato." "Direi che hai tempistiche asiatiche..." disse sorridendo. "Ti troveresti bene da queste parti." "Tutto è venuto da sé. La ragazza mi ha lasciato, a settembre non ho trovato posto in nessuna scuola, gli amici erano troppo indaffarati a organizzare matrimoni e allattare bebè e io..." "Vieni" disse alzandosi. Lo seguii. "Questo è il mio paradiso terrestre" disse indicandomi un campo di riso. "Adesso vivo quassù, in mezzo alla natura, come ho sempre voluto. Mangio riso, verdura e frutta. Ci sono altri bungalow nella foresta. A volte i gemelli passano a trovarmi. Scrivo." Smise di parlare. Perché mi stava dicendo tutte quelle cose? Tornammo verso il bungalow. Lo superammo e ci incamminammo su un sentiero. Dalla cima di una collinetta si scorgeva in lontananza il villaggio di Pai. In cima, quando ci fummo seduti a terra, lui allungò le braccia in avanti e fece dei respiri lenti. La foresta era dovunque, sotto di noi. Un lungo fiume, di un verde spento, vi scorreva all'interno come un serpente. In lontananza soltanto foschia verde e bianca. "Anche tu mi hai sempre incuriosito" disse con lo sguardo fisso verso l'orizzonte. "Ho letto il tuo blog sin da quando ero in ospedale. Non capivo perché non venissi a intervistarmi di persona." "Adesso lo sai..." "Poi un giorno ti ho visto entrare in casa mia, ti aspettavo. Ti ho lasciato leggere il mio testo, copiarlo. Era scritto più per te che per me. Volevo che capissi come ci si sente a rivivere dopo... È difficile. Vedevo la fama e i soldi arrivarmi in faccia, sbattermi contro. Stetti al gioco finché potei. Poi decisi di sparire. In fondo avevo ottenuto quel che... lasciamo perdere." Fece una lunga pausa. Non osai interrompere il suo silenzio. "Quando finalmente potevo diventare uno scrittore di successo, capii che non era quello che desideravo. Io volevo vivere. Scrivere per me stesso e respirare in solitudine. Avevo sempre creduto di voler rincorrere il successo: mi sbagliavo. Volevo soltanto vivere. Volevo soltanto scrivere, che per me è un po' la stessa cosa. Ricominciare a vivere. Ricominciare a scrivere." Stette immobile, in silenzio. Speravo si confidasse ancora. "Per questo scrissi in fretta quelle quattro scemenze sulla mia resurrezione." Sorrise sonoramente. Si rialzò e prese a camminare in discesa. "Che c'è?" domandai. "Mi fa sorridere pensare che le uniche due cose che ho pubblicato siano un romanzo breve scritto al freddo e al gelo, coi morsi della fame e senza vocabolario, e un fuorviante e falsissimo racconto-confessione buttato giù in un paio d'ore." Non sapevo che dire. Lui scoppiò ancora una volta in una sonora risata. Lo trovavo quasi fastidioso. In realtà era invidia. "Non ti fa ridere che per così poco mi considerino uno scrittore?" "Ma il tuo romanzo ha vinto un sacco di..." "Lascia stare i premi letterari, non valgono nulla. Se ho vinto, è stato per le condizioni al contorno." Non osai controbattere. Nel frattempo facemmo ritorno al bungalow e ci sedemmo alla scrivania. "Posso?" Morivo di sete. "Certo, vecchia lenza, serviti pure!" Appoggiato il bicchiere trovai il coraggio di fargli la domanda che più mi interessava. "Scrivi ancora?" "Vieni." Mi alzai di nuovo. Sempre più sudato e stanco. Entrammo nel bungalow. "Vedi?" "Cosa?" Era buio. Facevo fatica, dovevo riabituare gli occhi all'oscurità. "Sono dei libri?" "Taccuini." "Posso?" dissi indicandoli. Mi avvicinai all'angolo in cui erano impilati. Infiniti taccuini erano disposti su tre file, due alte circa mezzo metro, una molto meno. Ne presi in mano uno. Era impolverato. Uscii e lo aprii. La scrittura era fitta e piena di correzioni e riscritture. "Sono tutti... pieni?" "Tutti" disse sorridendo. "Tutti pieni di parole." Smisi di osservarlo. Mi ero perso nella lettura. "Due romanzi" disse dopo un po'. "Il terzo lo sto incominciando, ma è praticamente tutto ancora qui, nella mia testa." Alzai lo sguardo verso di lui. Sorrise. Per la prima volta notai che era davvero felice. Non allegro. Allegro lo era da quando ero arrivato. Adesso era anche felice. Sereno. Soddisfatto. Lo vedevo da come gli brillavano gli occhi, dal tono di voce. "Che me li rubino pure. Li conosco a memoria. Sono scritti qui" disse indicando nuovamente con l'indice della mano destra la testa piena di lunghissimi capelli biondi raccolti in treccine rasta. Sorrisi. Ero contento di stare lì con lui: non volevo essere da nessun'altra parte. "Se vuoi prendili, sono tuoi. A me interessa scrivere, nient'altro. Se riesci a pubblicarli bene, altrimenti è lo stesso..." I suoi denti e gli occhi risplendevano bianchissimi mentre il sole se ne andava verso occidente. "Posso leggerli?" Sorrisi. Ci abbracciammo. "Abbiamo tutto il tempo" disse. "Abbiamo tutto il tempo." Poi il suo sguardo incrociò il mio. I suoi occhi grigi penetrarono i mie occhi azzurri. "Posso fidarmi?" domandò. "In che senso?" "Posso fidarmi?" chiese ancora. "Sì." Preparò da mangiare mentre io leggevo indiavolato. Ci mettemmo a tavola quando il tramonto era ancora lontano e il sole giallo e piccolo e alto in cielo. Sudavo. Il sudore sgocciolava sulle gambe, sui taccuini, sul piatto. "Non ti preoccupare, tra qualche giorno starai meglio" disse. Aveva in mano due scodelle. Le appoggiò sul tavolo. In una c'erano degli spaghetti di soia con verdure. Nell'altra una macedonia di frutti tropicali. "A proposito, buon natale!" disse abbandonandosi alla solita risata sonora e rientrò subito nella capanna. Quando uscì aveva con sé una cassa di legno. La aprì. Conteneva almeno una ventina di birre. Ne prese due, le stappò e me ne porse una. "Buon compleanno!" dissi cercando di sorprenderlo. "Quarantatré, se non vado errato." Prese la cassa e si avviò qualche metro più in là dove solo ora mi accorsi che scorreva un rigagnolo. Ai fianchi del piccolo torrente c'erano alcuni bonsai dalle foglie verdi e i grossi tronchi grigi intrecciati con le radici. Anche se a prima vista non riuscii a distinguere il tipo di albero, capii che erano tutti dei ficus ginseng. Estrasse le bottiglie di birra e le posò in acqua. "L'ho scavato io. Ci ho impiegato sette anni!" disse mentre tornava. "È il mio fiume. Mi piace avvicinarmi e osservarlo scorrere, ascoltarne la voce. La senti?" Bevemmo. Mangiammo. Bevemmo ancora. Fino a ubriacarci. "Ho preso in giro tutti, te compreso" disse quando si scolò l'ultima birra. Era scuro. Si contavano le stelle a migliaia. Qualche zanzara qua e là. Un grido selvaggio da dentro la foresta, poi di nuovo silenzio. "Ho preso in giro anche me stesso." "Come?" dissi dopo un po'. "Era tutta una farsa" disse con la voce alterata dall'ubriacatura. "Una farsa come gran parte della conversazione di questo pomeriggio." "Che intendi dire?" "Una farsa come la mia vita." "Cioè?" "Cioè ho sempre raccontato un sacco di balle." Non capivo. "Quelli non sono i miei genitori. Mi hanno cresciuto da piccolo prelevandomi da un orfanotrofio." "Quindi Kowalski non è il tuo vero cognome..." "Così come Efrem non è il mio vero nome. Sono soltanto parole. Non servono a niente, se non ad allontanarsi dalla verità." Lo lasciai parlare. "Non so chi siano i miei veri genitori. La Russia è troppo grande per rintracciarli. Probabilmente mi hanno abbandonato in fasce e si sono scordati di me..." Attesi che riprendesse. "Quei due mi hanno rovinato la vita." Attesi che si spiegasse meglio. "Quei due disgraziati mi hanno fatto lavorare da quando avevo otto anni. Non ho mai terminato gli studi. Quale università! Sono un autodidatta. Scappavo appena si addormentavano. Una nostra vicina si occupava di me. Mi faceva leggere e rileggere i suoi libri. Mi dava da mangiare minestra e patate calde. Se non fosse esistita, non sarei qui. Mi sarei ammazzato prima." Sentivo le lacrime scendermi sulle guance e farmi il solletico. "Allora?" disse probabilmente girandosi verso di me. "Allora?" ripeté nell'oscurità. "L'avresti mai pensato?" "Mi dispiace." "Ti dispiace?" disse, "mica è colpa tua?" Rimasi in silenzio. Bevvi un sorso di birra calda. "Quindi il tuo romanzo..." Tacque nell'oscurità della notte. "Perché nel tuo romanzo li chiamavi 'i miei genitori'? Perché non hai detto la verità?" "La verità!" gridò ridendo di gusto. "Quale verità?" "Be'..." "Vecchia lenza, chi ti dice che quello che ti ho appena detto non sia un'altra balla?" "Capisco che è la verità dalla tua voce: dall'intensità, dal tono, da come trema..." Esplose ancora in un grido di gioia. "Come sei ingenua, umanità!" urlò nell'aria. Gli fece eco un uccello lontano, nero nel nero. "È tutta una farsa, vecchia lenza. Il mondo sensoriale non è la verità. Può sembrarlo, non lo nego. Ma non lo è. Nemmeno se uno è bravo a trasformare, come un alchimista, il falso in vero." Tacque e io finalmente capii che c'era una domanda che volevo fargli da dieci anni. "Quanto c'è di vero in quel romanzo?" Lui applaudì e gli applausi riecheggiarono nel buio che ci circondava. "Ce l'hai fatta, eh?" disse. "Ci sei riuscito." "Adesso capisco perché sono qui." "Bene, allora ti illumino con la mia verità" disse sottovoce. Ero certo che stesse sorridendo nel buio. "Ascolta, vecchia lenza, apri bene le orecchie." Scandì lentamente la seguente frase che rimase per sempre nei miei pensieri: "Il tentato suicidio era tutta una farsa." Tacqui e ascoltai il mio cuore battere sempre più veloce. "Proprio così, vecchia lenza. Non dirmi che non ci avevi mai pensato..." Caddi dalle nuvole e mi tuffai nelle onde del mio oceano, schiantandomi sul nudo fondo della mente. Lui rimase in silenzio. "Vuoi dire che non intendevi suicidarti?" avrei voluto chiedergli, ma non riuscivo a parlare. "Mi dai un po' della tua birra?" disse. "Tieni. Finiscila pure" dissi senza aprir bocca. "Grazie." La bevve d'un fiato. Adesso riuscivo a intravederlo nell'oscurità. Portò lo sguardo in alto, verso le stelle. Poi tornò sulla terra, verso le fioche luci in lontananza. Lo osservavo starsene immobile con gli occhi puntati sul nulla. Io e lui in mezzo al buio della notte thailandese. Immersi in una foresta senza fine, in balia di noi stessi e della natura. Fece un lungo respiro. "Volevo pubblicare a tutti i costi." Si fermò. Non dissi nulla, volevo ascoltare la verità. "Quel libro era già scritto" riprese a dire. "Un ultimo breve romanzo autobiografico era nella mia testa, frase per frase, da mesi. L'avevo scritto e riscritto un centinaio di volte. A casa passavo le ore e i giorni e i mesi a migliorare quel breve testo finché non capii che eravamo entrambi pronti." Non credevo a ciò che sentivo. Eppure sapevo che raccontava la verità. La sua verità, se ne aveva una. Lo capivo dal tono della voce. Era naturale, dimesso, sincero. Ma chissà... forse mi sbagliavo ancora. "Non ho mai scritto un romanzo di tremila cartelle" disse risistemandosi le gambe. "Figuriamoci! Scrivo al ritmo di una pagina al giorno. Sono sempre stato lento a scrivere, e ancor più a pensare. In Austria ho passato un anno e mezzo a scrivere e riscrivere sempre lo stesso romanzo breve. Ho soltanto dovuto aggiungere un paio di scene." "Ti riferisci all'incontro con la vecchia e i suoi nipoti?" "E a chi altri?" gridò. "Volevano rovinare il mio piano quei bastardi!" "Ah" dissi. "Un elicottero..." aggiunse sottovoce. "Come?" "Un elicottero!" urlò. Era alticcio. Gli appoggiai delicatamente una mano sulla spalla. Era la seconda volta che lo toccavo, dopo il lungo abbraccio di qualche ora prima. "Ti va una canna, vecchia lenza?" Si alzò a fatica ed entrò in casa. Anche se avevo bevuto soltanto quattro birre e mezza, mi girava la testa. Era una nottata magica, forse l'inizio di una vita vera. All'improvviso uscì e gettò sul tavolo accendino, erba e cartine. Mi resi conto che una grande luna era sbucata da dietro la collina. Ora distinguevo il profilo di chi mi stava accanto. Vedevo le mie mani, il mio corpo. Le ascoltavo guardandole. "Avevo cominciato a lavorare a quel centinaio di cartelle appena arrivato in Austria. Avevo riscritto infinite volte la routine quotidiana di quei mesi: il lavoro in fabbrica, l'incontro coi gemelli, la settimana trascorsa con loro al lago e in montagna, la crisi della fabbrica, la cassa integrazione" disse convinto. "Una volta arrivato al bivacco, mi bastò ricopiarla a penna, dalla testa al taccuino." Più proseguiva più capivo che diceva il vero. Ci aveva preso tutti in giro. E nessuno se ne era accorto. "Ovviamente erano un sacco di balle. Non ho mai scopato con quella ragazza. I gemelli non sono mai venuti a trovarmi. Ma questo non ha importanza." Continuava a sorprendermi. "Si tratta solo di un romanzo, mica della verità! No?" Annuii pieno di ammirazione. "Non ho mai desiderato morire, te lo assicuro, vecchia lenza" disse appoggiandomi una mano sulla coscia. "Era un piano studiato nel dettaglio. Conoscevo bene sia il rifugio Brauner Bär sia il bivacco Göttlichkeit. Ci avevo dormito alcuni giorni l'estate del novantanove, nonché l'inverno precedente. Non ho mai patito la fame, nemmeno il freddo. Avevo calcolato tutto. Sapevo che l'uno gennaio qualcuno sarebbe passato di là, prima o poi. "Sarebbe entrato nel rifugio e avrebbe visto il mio zaino, i miei vestiti e tutto il resto. A quel punto anche la più stupida delle persone, avrebbe dato l'allarme o sarebbe venuto a cercarmi. Avevo calcolato che, nudo e in quella posizione, potevo resistere dalle dodici alle quindici ore. Fui fortunato, dovetti attenderne soltanto tre." A quel punto mi venne un dubbio. Lui se ne accorse. La grossa candela che stava sul tavolino si era spenta. Non ricordavo se l'aveva spenta lui, oppure un soffio di vento. Non ricordavo nemmeno quando l'aveva accesa. La luna ci girava attorno sempre più piccola e luminosa. "Devi dirmi qualcosa?" Non mi tornavano alcune cose. "Pensavo..." dissi confuso, "e se fosse venuto qualcuno prima dell'uno gennaio?" Si mise a ridere. "Nessun piano è perfetto." Sorrisi anch'io. "E comunque" riprese, "in qualche modo me la sarei cavata ugualmente. Che ne so, avrei potuto fingere di essere un po' matto." Annuii nel buio illuminato dalla luna. Mi sarei aspettato la solita risata, invece si fece serio. Gli passai la canna. L'accese. "Dimmi" disse dopo il primo tiro. "Non aver paura di conoscere la verità." "E se non fosse passato nessuno?" "Se per il tardo pomeriggio, non passava nessuno. Mi sarei slegato. Devi sapere che avevo nascosto sotto la neve, in un punto a me noto, una borsa impermeabile con vestiti pesanti, asciugamani, legna e cibo in scatola. Non potevo rischiare di morire assiderato. Anche se, te lo ripeto, nessuno piano è perfetto." "Incredibile..." dissi affascinato. "Scommetto che prima di venire quaggiù sei andato fin lassù a far sparire quella borsa." "Perspicace il nostro blogger!" ridacchiò. "L'ho bruciata con l'alcool e ho gettato le lattine sul tetto innevato del bivacco. Non potevo rischiare che qualcuno capisse tutto. Anche se lo reputavo impossibile. La mia verità è sempre stata al sicuro." Annuii ancora. "E infatti nessuno ha mai capito. Nemmeno io." Un lungo silenzio ci rapì. Finimmo di fumare e ci rilassammo. "Volevo realizzare il mio sogno. Ogni persona lo desidera. Sapevo di avere talento, ma non abbastanza per sfondare in una società..." "Egoista," intervenni, "superficiale, falsa, stolta..." Lo sentivo ridacchiare nell'oscurità. "Dove hai imparato a scrivere?" domandai senza paura. "Non lo so. Scrivere in tedesco non è stato facile. Però, mi ha aiutato usare parole semplici e immediate. Questo ha..." Si fermò. "Be', non ti voglio annoiare a quest'ora della notte. E poi siamo entrambi fumati all'inverosimile." "Non mi annoieresti mai parlando di scrittura. Starei anni ad ascoltarti" dissi guardandolo ammirato. "Sei ancora più misterioso di quanto credevo prima di incontrarti. Come se avessi un'energia..." Riprese a parlare. "Sai, non avevo alternative: non c'era tempo di aspettare. Nessuno avrebbe mai pubblicato un mio romanzo. Così cominciai a pensare, e durante il viaggio in pullman da Riga a Vienna ebbi un'illuminazione. Un'idea che, se messa in pratica, poteva aprirmi le porte del mondo dell'editoria." Cominciò a ridacchiare. "Era un'idea tanto stupida quanto geniale. Doveva essere stupida perché la società lo era. Per dialogare con uno stupido, non si può fare altro che diventare stupidi. Proprio lì stava la genialità della cosa: fingersi stupido per dominare gli stupidi. "Passai così l'intero viaggio verso l'Austria a scrivere ed elaborare quell'idea. La perfezionai via via che i giorni, le settimane e i mesi trascorrevano monotoni in una quotidianità che per me non aveva alcun senso." Ascoltavo a bocca aperta chiedendomi perché non ci avevo pensato io. "Mica male, no?" disse. "Il segreto è ragionare come il gregge." "Non ci avevo mai pensato. Ero sempre stato convinto che fosse sbagliato abbassarsi, mischiarsi con la folla, dialogare con gli schiavi della televisione..." "La tua è solo paura. Paura di non riuscire più a rialzarsi. Ma, vedi, se ti abbassi rimanendo sempre consapevole di quello che stai facendo, allora è diverso. È anche vero che io ho rischiato di rimanerne invischiato in quel mondo ipocrita, ma sono riuscito a fuggire prima che mi stregasse con le sue sirene..." "E adesso sopravvivi coi diritti d'autore." "E adesso VIVO coi diritti d'autore di quell'unico romanzo breve: se pensi che stia sopravvivendo, non hai capito ancora niente della vita, vecchia lenza." Aveva ragione. Lui stava vivendo. Cosa che io non avevo fatto mai. "Comincio a pensare che fosse davvero un piano perfetto" dissi. "Nessun piano è perfetto, non scordarlo mai." Riflettei sulle sue parole, ma senza capire veramente cosa volesse dire. Nel frattempo assaporavo il buio silenzioso illuminato dalla luna – luci e ombre ci circondavano senza inizio e senza fine: un'emozione immensa mi cresceva dentro. "Dev'essere stato vomitevole partecipare a tutti quei programmi televisivi, a quella spazzatura mediatica senza precedenti, a quei talk-show cretini eccetera eccetera?" buttai lì. "Poi, stringere addirittura la mano al presidente..." "Tutt'altro, vecchia lenza. Non sai quanto mi sono divertito a portare quella maschera!" Scoppiò a ridere appoggiandosi sulle ginocchia. Certamente l'effetto dell'erba. "Dovevo diventare un personaggio" disse un paio di minuti dopo, quando ormai si era ripreso dalla crisi di risa. "E lo divenni in pochi giorni. Divenni IL personaggio di quei giorni. L'immigrato povero, bruttino e sfortunato, col suo bel libro già ben confezionato che tutti volevano avere. Il libro nel quale spiegavo come ero arrivato alla decisione di suicidarmi." "Geniale!" dissi prima di fare un paio di tiri. Lui ruttò rompendo un silenzio irreale. "E a quel punto gli editori di mezza Europa..." "Non esageriamo, vecchia lenza." "Be', insomma, la grande editoria austriaca e tedesca ti offrì un compenso stellare per poter pubblicare il tuo romanzo..." "Esatto. Accettai l'offerta migliore, non ricordo la cifra esatta in scellini, ma si trattava di circa ventimila euro di anticipo, una fortuna per un poveraccio come me..." "E il sedici per cento dei diritti d'autore, giusto?" "Confermo, riuscii incredibilmente a strappare un sedici per cento." "E poi?" "E poi feci la cosa più saggia che potevo fare: tagliai i ponti con la mondanità: via..." "Scomparso nel nulla." Annuì. "Via per sempre!" gridai. Si azzittì. Rivolse lo sguardo di fronte a noi, e io con lui. Le luci di Pai sembravano troppo lontane, in un altro universo. "Se tu decidessi di pubblicare un romanzo ora, dopo dieci anni, diventerebbe un evento. Gli editori sanno spacciare qualsiasi cosa per un evento! Figuriamoci il secondo libro dello scrittore scomparso che aveva tentato il suicidio crocifiggendosi nudo!" Non disse nulla. Rimase immobile con la fronte imperlata di luce e sudore. "Che c'è?" chiesi. "Ho detto qualcosa che non va?" Gli venne allora un'altra crisi di risa. Alla fine scoppiai a ridere anch'io senza riuscire più a fermarmi. "Stavolta però, vecchia lenza, il mio romanzo non sarebbe atteso dal popolo bue, ma da quelli che hanno veramente apprezzato Un ultimo breve romanzo autobiografico." "Dici?" "Certo, vecchia lenza. Questo è il problema, se mai un problema esiste." Alzò le braccia lentamente come per stirarsi e fece un lungo respiro, poi le lasciò cadere ancor più lentamente, espirando col naso. Quindi rialzò le braccia e si ancorò con le mani dietro la nuca. "Il gregge non ha apprezzato quel romanzo." "Però se il tuo romanzo non fosse stato realmente valido, si sarebbe trattato della solita boutade da best-seller." "Boutade da best-seller..." disse impassibile. "Non conosco parole peggiori." "Invece ciò che hai scritto aveva stile, hai vinto premi importanti, hai venduto quasi duecentomila copie!" "E ancora ne vendo." "Hai scritto un piccolo ca..." "Chiunque può scrivere cento pagine di buona letteratura, se ha il tempo necessario e una sincera passione per la scrittura" disse battendomi sonoramente la mano sulla spalla. "Anzi, forse passione non è il termine adatto, meglio ossessione." "Io ci ho provato, ma non ci sono riuscito." Lo vidi alzare nuovamente le braccia nell'oscurità. Osservai il cielo nero: non avevo mai visto tante stelle in un solo istante. "Cazzate, vecchia lenza." Rimanemmo in silenzio. Io seguivo coi pensieri il ritmo alienante delle cavallette in lontananza, o forse erano grilli. "C'è una cosa che non ho capito." "Una sola?" "Perché parlavi spesso di euro anziché di scellini, visto che a quell'epoca gli euro ancora non esistevano?" Lui si mise a ridacchiare, quasi a gracchiare. "Volevo insinuare il dubbio." Riflettei. "Un messaggio simbolico per dire Attenti lettori, siete sicuri che, solo perché è stato messo nero su bianco, sia tutto vero?" "Più o meno, vecchia lenza!" disse scoppiando a ridere per l'ennesima volta. "Lo vedi che non sei poi tanto male..." Rimanemmo zitti a fluttuare con la mente. "Perché non t'inventi anche tu una farsa clamorosa?" gridò di botto nell'aria cieca della notte uscente. "In fondo nessuno oltre a te e ai gemelli sa che era una farsa. Potresti fingere anche tu un suicidio! No?" Vedevo i suoi occhi farsi grandi e bianchi e lucidi e tremanti. "Oppure dire che sei stato a letto con qualcuno di famoso... o che sei tornato a piedi dalla Thailandia fino in Austria... o che hai trovato un manoscritto firmato da uno vecchio scrittore..." Rimasi in silenzio. Ammirando la luce della creatività che sembrava crescere attorno a lui come un'aura. Poi scoccai la mia freccia infuocata. "O potrei dire che ti ho incontrato." Tacque, immobile. Ero teso. Non rispondeva. Sapevo che stava pensando. Eppure quel silenzio mi dava sempre più la certezza di averlo fatto incazzare. Invece disse semplicemente: "È un'ottima idea, vecchia lenza!" Una gemma di vita vera mi permeò il costato. Venne la tachicardia, poi il respiro affannoso: un calore immenso mi pervase la testa. "Se tu mi permettessi di trascrivere il nostro incontro-intervista..." Posò la sua mano sul mio collo e la strinse forte: provai un brivido che mi percorse il corpo fino ai polpacci, alle caviglie, ai piedi tremanti per l'emozione. "Non la smetti mai di fare il giornalista, è?" "No" dissi. Metà del suo viso era illuminato dalla luna perlacea che dondolava fissa nell'aria nera. "Perché non un romanzo?" Il cuore smise di battere di colpo per la troppa emozione. "Tu scriverai un romanzo, dobbiamo escogitare un piano" disse ridendo di gusto. "È da un po' che penso di cambiare aria." EPILOGO Fu così che andò. E adesso sto per pubblicare il mio primo romanzo, ovvero quello che state leggendo. Ho già firmato un contratto con un editore. Facendomi amico Efrem Kowalski (non ho mai saputo il suo vero nome), il mio scrittore lettone preferito – a dire il vero l'unico che abbia mai letto –, ho avverato il mio sogno: vivere di scrittura. Non scrivo fatti di cronaca, ma storie inventate: è questa la verità. Efrem, ha insistito perché inserissi in questo libro integralmente il suo Un ultimo breve romanzo autobiografico, il racconto Resurrezione e la trascrizione del nostro incontro. Poi è scomparso. Non l'ho più visto. Sono quasi certo si sia fatto una famiglia in qualche angolo di paradiso. La cosa che farà imbestialire il suo editore è che il romanzo che state leggendo sarà distribuito da subito in un'edizione economica il cui costo è di molto inferiore a Un ultimo breve romanzo autobiografico stesso. Paradossi dell'editoria. Nonostante questo, le vendite del suo libro aumenteranno a dismisura. Paradossi dell'editoria. Ancora rifletto senza capire cosa volesse dire con: "Nessun piano è perfetto." Forse alludeva alla vita. Jesus PS: Ho letto e riletto i due romanzi che aveva scritto su quei taccuini. Personalmente li ho trovati geniali, ma quando li ho proposti agli editori, a mio nome, nessuno ha voluto pubblicarli (se non con un congruo contributo da parte dell'autore!) Li ho riproposti allora con il falso nome del vero autore: non li pubblicheranno comunque: troppo noiosi, poco interessanti. Paradossi dell'editoria. O, molto più semplicemente, trattasi di buona letteratura. - fine -