Lectio al CGA 08-09 - 8° incontro
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Lectio al CGA 08-09 - 8° incontro
Lectio divina mensile al Centro Antonianum 2008 - 2009 8° incontro (17.05.2009) Filippo e Pietro: la Buona Notizia in cammino per le strade del mondo. Introduzione Nel settimo incontro ci siamo fermati sullo sconvolgente incontro di Saul di Tarso con Stefano prima e Anania dopo: due uomini che hanno osato amare il nemico, andargli incontro, perdonarlo e chiamarlo AMICO! Saul / Paolo ha scoperto la Grazia, l’amore totalmente gratuito con cui il Signore e i suoi discepoli sono capaci di relazionarsi. Questo amore gratuito, a rischio della vita e che offre vita a chi dà morte, è la vera salvezza portata dal Messia. Folgorato da queste esperienze Paolo diventa subito un annunciatore intrepido della Buona Notizia, un discepolo entusiasta di Gesù. È un’esperienza dolorosa e sconvolgente che passa per il buio totale e per l’esperienza battesimale: un morire con Cristo all’uomo vecchio, per risorgere con Lui a vita nuova. Intanto però la corsa del Vangelo era continuata verso la Samaria, ad opera di un altro diacono, Filippo. Pietro invece scende verso la costa mediterranea, prima a Lidda (oggi Lod) e a Giaffa (oggi sobborgo di Tell Aviv. Sono poche persone, pochi incontri, pochi “segni” e pochi discorsi, ma è un dilagare inarrestabile, come aveva detto Gesù (At 1,8). Ancora una volta la Parola di Dio, il Suo piano di salvezza si svolgono nonostante tutto e attraverso tutto. Nella docilità al Signore questo “poco” evangelico diventa però capace di aprire strade enormi, con orizzonti sconfinati: a Cesarea Marittima (il porto di Israele di allora), sede del governatore romano, è infatti un centurione dell’impero che si apre all’azione dello Spirito. Evento di incalcolabile portata cui tutti noi – discepoli provenienti dal paganesimo – siamo debitori! Ma soprattutto è Pietro che viene guidato dal Signore, passo dopo passo, a “convertirsi” ad una visione nuova della realtà, a stabilire nuove relazioni, aprendo porte da sempre chiuse. Testi biblici At 8,4–40; 9,32–11,18. Testo di riferimento BIZZETI P., Fino ai confini estremi. Meditazioni sugli Atti degli Apostoli, Bologna 2007, 158–167; 191–213 Sussidio n° 1 (per Atti 10,34–35) (DUPONT J., Nuovi studi sugli Atti degli apostoli, Milano 1985, 300-303) Dio non fa differenza di persone (v. 34) Notiamo anzitutto che la formula esprime una dottrina tradizionale. Paolo la ricorda a proposito di quelli che detengono l’autorità della Chiesa (Ga 2,6), a proposito della differenza di condizione tra padroni e schiavi (Col 3,25; Ef 6,9) e della distinzione tra giudei e gentili: «Gloria, onore e pace a chiunque opera il bene, giudeo in primo luogo e greco, poiché Dio non fa distinzione di persona» (Rm 2,10-11). Pietro rammenta ai cristiani che essi «invocano come Padre colui che giudica senza favoritismi personali secondo l’operato di ciascuno» (1Pt 1,17). L’espressione caratterizza anzitutto l’imparzialità che ci si attende da un giudice. 2Cr 19,7 ricorda ai giudici che essi devono temere il Signore, perché «nel Signore, nostro Dio, non c’è malvagità né accettazione di persone né accettazione di doni». L’espressione è metaforica in ebraico; essa descrive il gesto di colui che «solleva la faccia» di qualcuno, che guarda al volto, all’apparenza, alla condizione esteriore. Samuele posto di fronte ad Eliab, il figlio maggiore di Iesse, riceve questo avvertimento: «Non badare al suo aspetto e all’altezza della sua statura, poiché l’ho respinto, perché l’uomo non vede quello che vede Dio: l’uomo infatti guarda all’apparenza, ma il Signore guarda al cuore» (1Sam 16,7). Il termine astratto «persona» rende male il senso concreto di prosopon, che indica il volto. Pietro, dopo aver detto a proposito di Cornelio che «Dio non fa differenza di persone», riprende la stessa idea in 15,8 precisando: «Dio che scruta i cuori». Pagina 1 di 2 Lectio divina mensile al Centro Antonianum 2008 - 2009 8° incontro (17.05.2009) Ecco perché Dio giudica imparzialmente: egli non si ferma alle apparenze, ma vede il fondo del cuore. La giustizia imparziale non è neutralità egualitaria. Dovendo assicurare il proprio buon diritto a ognuno, essa ha il dovere di proteggere in modo tutto particolare i deboli, il cui buon diritto è sempre minacciato. E’ quanto ricorda Dt 10,17-18, il testo a cui Pietro forse si riferisce più direttamente: «Il Signore vostro Dio è ... il Dio grande, forte e terribile che non fa accettazione di persona né prende regali, che fa giustizia all’orfano e alla vedova, ama il forestiero e gli dà pane e vestito». Notiamo questa situazione privilegiata del forestiero, del gér (prosélytos). Dimorante nella terra di Israele senza appartenere al popolo ebraico, egli non ha protettori naturali. Il Dio d’Israele si incarica perciò della sua protezione. Da parte sua quest’uomo si assocerà generalmente, in misura variabile, al culto del Dio di cui è ospite. Alla fine del periodo giudaico i termini subiranno un cambiamento di senso molto significativo: si riserverà l’appellativo di gér o «proselito» ai forestieri che si sono convertiti al giudaismo accettando la circoncisione e le osservanze legali. Secondo questa nuova accezione, Cornelio non è più un «forestiero» favorito dalla protezione divina garantita dal Deuteronomio. La prospettiva in cui Pietro si colloca nel discorso di Cesarea gli fa ritrovare l’atteggiamento del legislatore preesilico, che è anche l’atteggiamento dei profeti. Chi è accetto a Dio (v. 35)? L’originalità del v. 35 deriva dal suo impiego dell’aggettivo «accetto», «gradito» (dektos ). Le sue risonanze sono tipicamente cultuali, diciamo pure rituali. Alla questione di sapere come uno può rendersi accetto a Dio, il Levitico risponde: offrendo in sacrificio un animale che non abbia alcun difetto (cf 1,3; 19,5; 22,18-29). Solo una vittima irreprensibile può piacere a Dio e rendergli gradito colui che offre. A poco a poco i profeti han fatto capire a Israele che ci si rende accetti a Dio non con dei sacrifici, ma con l’obbedienza alla sua volontà, con una condotta conforme alla giustizia (cf Prv 11,20; 15,8; 16,7). Questa spiritualizzazione non impedisce affatto che si rimanga sensibili alle risonanze cultuali dell’aggettivo. Così, per esempio, Paolo si dice incaricato di «prestare il suo culto per quanto riguarda il vangelo di Dio, affinché l’offerta sacrificale rappresentata dai pagani divenga accetta, santificata com’è per mezzo dello Spirito Santo» (Rm 15,16) e considera i doni dei Filippesi come un «profumo soave, sacrificio gradito, che piace a Dio» (Fil 4,18), mentre Pietro parla dei cristiani come di «un organismo sacerdotale santo, che offre sacrifici spirituali bene accetti a Dio per mezzo di Gesù Cristo» (1Pt 2,5). In At 10,35 l’aggettivo ha lo stesso valore, come risulta dall’espressione parallela, evidentemente desunta dal vocabolario sacrificale, che il v.4 mette in bocca all’angelo: «Le tue preghiere e le tue elemosine sono salite in memoriale davanti a Dio». Meglio della variante del v. 31: «La tua preghiera è stata esaudita e le tue elemosine sono state ricordate davanti a Dio», la formulazione del v. 4 evoca il sacrificio di «memoriale» (cf Lv 2,2.9.16; 5,12; 6,15; Sir 35,6; 38,11; 45,16) a cui la preghiera è già stata assimilata in Tb 12,12. Si confronti anche Lc 1,75, dove l’impiego del verbo latreuo è significativo: «Affinché celebriamo il suo culto in santità e giustizia davanti a lui per tutti i nostri giorni». La pietà e le buone opere (10,2.4.22.31.35), che rendono Cornelio simile ai genitori di Giovanni Battista e al vecchio Simeone (Lc 1,6; 2,25), lo rendono «accetto» a Dio così come avrebbe potuto fare, in una prospettiva più rituale, un sacrificio irreprensibile. Il vero senso del versetto può ora assumere tutto il suo rilievo. Il presupposto di un culto gradito a Dio è che esso sia celebrato da uomini appartenenti al popolo sacerdotale (cf 1Pt 2,5.9). La sorpresa di Pietro deriva precisamente dal fatto che tale presupposto non si verifica più. Nella sua dichiarazione l’accento è posto sulle prime parole: «In ogni nazione ». Non è necessario appartenere a Israele per poter rendere a Dio un culto gradito! L’idea sarà ripresa nel versetto seguente : «Egli è il Signore di tutti », non solo dei giudei, ma anche dei gentili, e ritornerà ancora nella finale del discorso: «Tutti coloro che credono in lui riceveranno la remissione dei peccati». (v. 43). Non è dunque necessario essere giudeo o farsi giudeo per essere accetto a Dio, così come del resto non basta essere giudeo, se non si teme Dio e non si pratica la giustizia. Ultima precisazione: il problema qui sollevato non è quello delle condizioni da soddisfare per essere salvi. Pietro non dice che la pietà e la giustizia bastano a garantire la salvezza, indipendentemente da ogni altra considerazione. Il problema sarebbe piuttosto quello dei presupposti della fede: vi sono delle disposizioni religiose che, rendendo l’uomo accetto a Dio, attirano in certo modo la grazia della fede, a cui la salvezza rimane collegata (cf v. 43). Pagina 2 di 2