Il ragazzo dei seni di gomma

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Il ragazzo dei seni di gomma
Sylvia Iparraguirre
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Sylvia Iparraguirre
Il ragazzo dei seni di gomma
Traduzione di Gina Maneri
Titolo originale:
El muchaco de los senos de goma
Alfaguara, Buenos Aires 2007
© Sylvia Iparraguirre, 2007
Published by arrangement with
Literarische Agentur Mertin Inh. Nicole Witt e. K.,
Frankfurt am Main, Germany
© 2011 L’Asino d’oro edizioni s.r.l.
Via Saturnia 14, 00183 Roma
www.lasinodoroedizioni.it
e-mail: [email protected]
ISBN 978-88-6443-065-2
ISBN ePub 978-88-6443-092-8
ISBN pdf 978-88-6443-093-5
Per Abelardo
Ogni finestra illuminata nel cuore della notte
è una storia che non è ancora stata scritta.
Roberto Arlt
C’è una meta ma non una via;
ciò che chiamiamo via è un indugiare.
Franz Kafka
MARGINI
1
Com’era la città vista da lassù? Mentasti, nel suo letto, si
chiese ancora che cosa aveva visto: una scacchiera luminosa,
una griglia dai margini indefiniti, un estuario d’oro venato di
notte che si riversava nel fiume, il più ampio del mondo. Nucleo da cui si irradiavano diagonali dorate e autostrade blu
sulla linea nera dell’orizzonte. Galassia reticolare incastonata
nella superficie curva della Terra che si perdeva laggiù, il cui
vertiginoso moto nello spazio, con tutto quello che si muove
con lei, saldo sulla superficie o in volo al di sopra (come poche
ore prima il Boeing 747 della Lloyd Aéreo Boliviano), era felicemente indistinguibile dai poveri sensi umani che la percepivano immobile. Ai confini, la città sfumava in falde nebulose, che riusciva a vedere se si chinava sul corridoio o se
guardava sopra la spalla del vicino di posto (per qualche secondo – era rimasto senza fiato – la città aveva illuminato tutti
i finestrini). In quelle frontiere di oscurità, i fili spezzati di stradine che finivano nel nulla si dipanavano in una scintillante
polvere di stelle e, proprio dove avresti creduto che le tenebre
avrebbero vinto la battaglia, il fulgore inatteso di una luce di
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intensità incongrua rispetto al centro risplendeva come un’ultima ostentazione prima che la notte vincesse e Buenos Aires,
per chi avesse voluto pensarla dallo spazio, abbandonava le
dimensioni stellari, il vuoto nero e si posava sulla terra, su
quella distesa smisurata di pampa o di pianura o comunque
la si chiami, che da sempre la stringeva contro il limite del fiume. La pioggerella dava alle luci uno splendore siderale, azzurrognolo, distante e malinconico, e a lui, che guardava (aveva guardato alcune ore prima) sfinito e insonne dal finestrino,
un senso di ripiegamento e nostalgia per qualcosa di impreciso
e perduto nel tempo, simultaneo al ruggito delle turbine, la
cui ultima eco di tremore e sconquasso gli vibrava nel plesso
solare. Una cosa per cui forse era valsa la pena di decollare,
volare e atterrare: la città notturna, dall’alto. Senza aprire gli
occhi, nel letto del suo appartamento di Almagro, Mentasti
intuì che mancava poco all’alba. L’ombra di un’idea si profilò
e subito dopo svanì: le città del mondo illuminate nella notte
come segnali (per chi?) che il genere umano aveva realizzato
qualcosa sulla vecchia Terra. ‘Com’eri?’. Navi perdute nella
mitica corrente, rumore di galoppo alle spalle e in mezzo sporcizia e sudore, conglomerato di ore di punta, di gente dislocata
secondo il reddito, triste strada deserta, sordido pascolo di
morte accanto a un passaggio a livello, stazioni abbandonate,
hotel sfarzosi, quartieri segreti, notturne sale da biliardo piene
di fumo. Dai tempi degli intrallazzi e degli ombrelli, la perla
dell’America del Sud ammassa in modo caotico la propria storia (perorava Mentasti, gli occhi chiusi, ancora aggrappato a
una sfuggente ombra di sonno); dorme pacifica, le spalle al
fiume (l’hai già detto), sì, questa femmina ignuda ha la schiena
curva, è in posizione fetale, le gambe raccolte, i piedi scalzi si
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perdono indifesi nell’oscurità di laggiù. A volte, in mezzo all’agitazione e alla minaccia, tra la delazione e la paura, le sirene
ululanti perforavano la notte. Altre volte, divinità indifferente,
guardava assorta gli uomini, le donne e i bambini che si affannavano nelle sue strade. Nessuno guardava lei. Rotta allo scorrere dei decenni, testa amorfa e magniloquente, bella di notte.
‘Com’eri?’. Celebrata e oltraggiata, in un modo o nell’altro,
amata, sembra opportuno segnalare (più dottorale, ora, Mentasti si rivolgeva a una platea) che i suoi figli la abitano cullati
da miti intramontabili: la regina del Plata, l’europea, l’insonne
e cosmopolita. La grande capitale del Sud sulle sponde del
fiume color del deserto, del fiume color leone1, del fiume immobile. Opulenta in centro e misera in periferia, a volte si svegliava con la vita a favore e la meravigliosa trasparenza di un
cielo incomparabile; altre volte, bisognava guardarla con gli
occhi della tristezza: mercato delle pulci, ammucchiava squallidi alberghetti, materni covi di suicidi, lussi sfrenati, treni suburbani dalla luce malata e i finestrini rotti, come quello su
cui, molto tempo fa, si uccise Erdosain2. Quartieri per milionari e case popolari piene di anarchici. Grandezza architettonica fondata sulle vacche, mare di allevamenti quotati in borsa
a Parigi. Metafisica e cabalistica, hai sognato svolte del cammino con angoli rosa e olimpiche verduraie. Accogliente e vorace, corrotta o innocente nelle piazze piene di scivoli e di stupratori avviati al loro tristo destino, troppo giovane per essere
definitivamente malvagia con le tue albe dall’aria limpida e il
metallico luccichio dei viali vuoti. Nei tuoi momenti più bui
1
Dalla poesia A Buenos Aires di Leopoldo Lugones [NdT].
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Protagonista del romanzo Los siete locos di Roberto Arlt [NdT].
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non sei stata capace di proteggere uomini strappati dal letto a
calci e hai sacrificato madri e future madri in un mattatoio che
ha fatto onore al modello e ha saputo emularlo. Condannati
ad amarti o a odiarti, solo nella contraddizione si trova la tua
forma. ‘Com’eri?’.
Stava per sorgere il sole.
Mentasti discorreva, divagava, qualunque cosa pur di non
pensare al viaggio, pur di non analizzare. Cortine di fumo.
Ormai era tardi per riaddormentarsi. Poche ore prima volava
maestoso in una poltrona del Boeing 747 della Lloyd Aéreo
Boliviano. Arrivo previsto: nove di sera. Claudia all’aeroporto
di Ezeiza. Piovigginava e lui tornava con il cuore gelato. Tornava dal suo primo viaggio all’estero, se non si contava Montevideo (in catamarano). Trentanove anni, primo viaggio all’estero: Bolivia. Avrebbe rimandato a più tardi le risonanze
di quel nome, tra un po’ di tempo, quando si fosse ripreso dal
buco nero che il viaggio gli aveva – irreparabilmente? – scavato dentro. Il volo d’andata, la difficoltà dell’atterraggio a
La Paz di cui si parlava tanto. Al ritorno, Buenos Aires di notte e, scendendo ancora un poco, il fulgido fungo atomico che
milioni di luci prefiguravano nelle nubi basse, in quel tetto
denso, scuro e piovoso; e poi lui nel suo letto, nel suo appartamento del quartiere di Almagro, ancora senza aprire gli occhi, ancorato a quell’immagine, incagliato in quell’immagine
dalla quale cominciava lentamente a uscire. Il secchio al pianterreno, sotto il rubinetto, suono familiare che saliva sette piani di aria e luce come dentro un tubo, lo scroscio sonoro dell’acqua, prima grave e poi acuto, con una notevole acustica.
La scopa della portinaia sulle mattonelle, un lieve sciacquettio, quindi le sei. Rumore di tacchi in corridoio, quella che va
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al lavoro presto; il latrato del cane come tutti i giorni; un autobus, lo stridio delle gomme sull’asfalto. Era a Iquitos? Indios morti a migliaia per lo sfruttamento della gomma, fortune latino-americane smisurate, playboy dalla faccia meticcia
e lo smoking bianco. L’argento di Potosí. Ora conosceva
quelle facce, aveva visto la faccia di una donna, una chola, una
meticcia, con un bambino legato sulla schiena, riflessa nel vetro accanto a VISA-MASTERCARD, l’espressione gentile che non
voleva dire nulla, ma avrebbe pensato dopo alla chola e al
bambino, si diceva senza dirselo Mentasti, una fitta come di
dolore al fianco, la fitta che senti quando al risveglio vieni assalito da ricordi dolorosi e vuoi dimenticare, passare ad altro,
sotterrare. La porta dell’ascensore, qualcosa di simile a una
sega sul metallo (il cantiere all’angolo) e martellate discontinue. La continuità era una questione importante (ormai era
irrimediabilmente sveglio): la fonte d’ansia e quindi di insonnia era il non sapere quando sarebbe arrivata la martellata seguente. La città dormiva e si svegliava e si metteva in moto e
sbuffava e martellava, crepitava, urlava e si acquietava. Almagro, Corrientes lì vicino, troppo vicino (decise di non aprire
gli occhi, non ancora). Fitzcarraldo, quel personaggio interpretato da Kinski; l’epoca d’oro della gomma dovuta alla massificazione dell’automobile era lontana; la visione futurista di
Ford, però, non era tramontata. La giungla e i templi moderni
della cultura, teatri dell’opera a Manaus che precipitavano
nella decadenza di un mondo in disfacimento; liane che sfondavano il velluto rosso delle poltrone, le dorature francesi che
diventavano nere, famiglie di scimmie che parlottavano nei
palchi, i suoni variegati della foresta, l’accordo sostenuto, opaco e grave, degli insetti, senza cadute, perforato dal grido fol-
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gorante dell’ara dove un tempo si alzava purissima la voce
delle primedonne (si lasciava cullare da immagini barocche,
cose che qui, in questa terra immensa e vuota, non si erano
mai viste). Furbescamente, sotto le immagini caotiche che gli
si affollavano nella mente e l’accumulo di parole, qualcosa voleva dirsi e si diceva: categorie moderne per pensare il premoderno e persino l’arcaico, ecco la sintesi generale; ecco cosa non funzionava, il difetto, lo sfasamento. Subcontinente
periferico pensato dal centro. Le parole insidiose, filtrate attraverso una crepa non otturata, gli suonarono blasfeme.
‘Merda!’, gridò in silenzio Mentasti. Desiderò intensamente,
con tutto il cuore, il rombo del tuono (quando era sceso dall’aereo pioveva, Claudia con un ombrello viola), un tuono che
con il suo fragore cosmico spegnesse i suoni sussurranti di
quaggiù, irrisori e miseri, soprattutto il cicaleccio nella sua testa. Un frastuono assordante irrompe, cresce, occupa tutto lo
spazio ed esaudisce, proprio in quel momento, il suo desiderio: un aereo decolla dall’Aeroparque e si libra nell’aria, la cosa più simile a un tuono che si possa chiedere. ‘Coincidenze
o piccoli miracoli di cui siamo solitari testimoni’, rifletté stancamente Mentasti. Lassù, un altro uomo qualunque, come lui,
un rappresentante di saponette diretto a Santiago del Estero.
La Repubblica argentina si risveglia. Nelle strade, come un
fiume incontenibile, si riversa la moltitudine (metropoli). In
questa città è arrivata di colpo la moltitudine, dal villaggio al
diluvio, giusto il tempo perché prendesse forma chimerica
per scomparire subito dopo il solitario flâneur, il bighellone
urbano, appannaggio di altre città, quelle che erano cresciute
pigramente al fuoco lento dei secoli, al riparo del castello feudale (retrogusto della lettura in aereo, resti diurni vorticosi).
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‘Sei nata oltremare, da uno schizzo utopistico sulla carta –
Mentasti seguiva docile la propria voce interiore, interpellante –, da linee trasferite sulla terra che il vento cancellava prima
che lo spagnolo con il cappello che volava via riuscisse a piantare il paletto. Il modesto reticolato portato sul terreno fangoso da uomini stanchi, gesticolanti, scrutati da lontano da
esseri invisibili, forse perché dello stesso colore della terra.
Figlia di contrabbandieri e di gauchos, di gente scesa dalle navi con gli occhi rotondi e il volto severo o perplesso, ipnotizzata dalla linea piana’. Era irrimediabilmente sveglio e il suo
discorso scorreva (apprezzò), se anche privo di logica, sicuramente con una certa retorica. ‘Continua’, si incoraggiò
Mentasti dall’alto di un pulpito o di una sedia: ‘spazio di una
realtà picaresca alimentata da una povertà che aveva fretta di
redimersi, espressa in una lingua temporanea, occasionale,
meticciata (cocoliche, gergo ebraico, arabo erroneamente chiamato turco eccetera) che ha dato forma udibile a quella babele dispersa verso la linea di un orizzonte irraggiungibile, o
che sognava (la babele) di tornare, di fare l’America e tornarsene a casa opulenta su un’altra nave diretta al paesello contadino’. ‘Come sei?’ domandò all’aria Mentasti, aprendo gli
occhi e guardando, ora sì, il ventilatore a pale, immobile. ‘Comunque tu sia, da questo momento mi piace immaginarti di
notte, dall’alto’. Sembrava il finale di un tango. Di notte e
dall’alto formavano qualcosa, una possibile sintesi, una figura,
un disegno. Doveva ricordarsene, quando avesse ripreso il
suo saggio sulla città, continuamente rimandato, il grande
pretesto per dire che stava lavorando.
Si sedette sul letto, il sangue gli pulsò dietro gli occhi e nelle tempie. Milioni di persone che facevano lo stesso gesto, ti-
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rare fuori le gambe dalle lenzuola. Voltò cauto la testa. La felicità di essere solo. Claudia aveva avuto la grande gentilezza
di andarsene verso le due.
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Mezzanotte alle darsene, nei viali deserti, all’obelisco, nelle
luci di qualche automobile frettolosa. Il volo della Lloyd Aéreo Boliviano ha toccato terra a Ezeiza più di tre ore fa. Nello
stesso momento in cui Mentasti, nel suo bilocale di Almagro,
fa un tentativo di giustificare la propria stanchezza a Claudia,
Cristóbal aspetta in un bar della avenida de Mayo che arrivi
l’una e mezzo, ora in cui compirà diciassette anni. Cercando
di non battere le palpebre, guarda immobile l’orologio a muro
in attesa che la lancetta lunga raggiunga il sei.
L’una e mezzo: sua madre gli aveva detto che era nato a
quell’ora. Di fronte alle sue insistenze aveva finito per dirglielo, ricorda Cris, anche se non ricorda il momento esatto di
quella conversazione tra loro. Doveva essere stata una volta
che lui si sentiva pressato dalle richieste di Melisa, ansiosa di
scoprire la sua carta astrale. Un pensiero gli si era insinuato
nel cervello come una biscia e lui non poteva nasconderlo o
fingere che non ci fosse: sua madre poteva anche avere mentito per chiudere in fretta un argomento che la metteva a disagio. Se lei aveva mentito o non ricordava bene l’ora della
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sua nascita, la sua vita era in bilico su un cornicione, perché
quello era il dato attorno al quale ruotava tutto il suo piano
astrale. Il piano astrale era un modo di assecondare Melisa,
perché Melisa, quando parlava del piano astrale, della magia
e del destino, lo guardava fisso, intensamente, facendogli girare la testa con i grandi occhi truccati e le gambe sotto la minigonna in similpelle nera. Sospettava però che sua madre potesse aver detto una cosa qualunque. La dipendenza delle
donne da certe cose era deprimente. Cris prese nota di questo
suo pensiero per la propria filosofia personale. Le donne custodivano sempre i loro segreti, in genere insignificanti. La sirena di un’ambulanza crebbe nella notte e lo distrasse. Con
la coda dell’occhio si accorse che il cameriere lo stava guardando. Finalmente lasciò in pace l’orologio a muro e alcuni
puntini bianchi danzarono nell’aria. Avrebbe dato qualcosa
al vecchio che lo guardava ingrugnato perché doveva servire
il moccioso che si faceva durare un caffè per ore. In quel momento, la lancetta lunga toccò il sei e segnò l’una e mezzo di
notte. Cristóbal alzò di slancio la mano. Il cameriere si svegliò
e mise in moto il meccanismo arrugginito delle gambe: gnic,
gnic, gnic, gnic. Si chinò miope sullo scontrino per comunicare
al cliente quanto doveva, ma Cris disse in tono allegro:
«Mi porti una birra, cameriere». Quello fece una smorfia.
Senza dire una parola, girò sui tacchi. Aveva già guadagnato
quattro tavoli quando Cris gridò a squarciagola, come se fosse
a un isolato di distanza: «Cameriere!». Il vecchio sobbalzò, si
era spaventato davvero, e anche il cassiere si scosse. «E un
piattino di noccioline» aggiunse Cris in tono normale.
Il cameriere lo guardò con espressione d’odio.
«È il mio compleanno».
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Cris se la spassava. Il vecchio era quasi schizzato fuori dalle
scarpe, per poco non si spiaccicava contro il soffitto. Poteva
anche venirgli un infarto. Guardò l’orologio: da dieci minuti
aveva diciassette anni. Per fare qualcosa di teatrale, alzò il
boccale di birra, come per brindare con un amico invisibile,
e lo buttò giù d’un fiato; 31 luglio 1995, faceva un freddo cane
nel bar deserto, tavoli di formica marrone e tovagliolini di carta appallottolati sul pavimento, una pioggerella che sembrava
acqua sporca e scendeva sui vetri. Per strada non c’era anima
viva. Sul muro di fronte IWANNA ROCK THE POLICE LA RENGA,
avrebbe aggiunto LOS REDONDOS; le bombolette spray costavano care, il flaco Pereda le rubava sotto il naso del ferramenta. No lo soñé... ibas corriendo a la deriva, no lo soñé... los ojos
ciegos bien abiertos... Si mise a battere un ritmo scatenato sul
piano di formica, il boccale e il piattino tremarono. Aveva bisogno del walkman. Cris si calmò. Gli piaceva il luccichio
dell’asfalto bagnato d’inverno, sotto la luce dei lampioni. La
sudestada1, diceva la vecchia. La pioggia era stata la causa di
tutto. Si agitò sulla sedia, di nuovo infastidito dall’immagine
disgraziata dei biglietti di Natale. Se non ci fosse piovuto sopra dalla perdita nel soffitto, i biglietti musicali non si sarebbero messi a suonare, sua madre non avrebbe fatto il diavolo
a quattro e lui ora sarebbe stato a letto a dormire. Invece no,
sua madre aveva dovuto mettere dentro la solita faccia con
cui veniva a svegliarlo per andare a scuola, la faccia coperta
di crema giallognola che puzzava di zolfo. Le ultime parole
che le aveva rivolto prima di sbattere la porta erano state per
1
Fenomeno meteorologico tipico della regione del Rio della Plata, che porta
temperature basse e precipitazioni [NdT].
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quell’unguento ripugnante. Se però c’era una persona al mondo che non capiva l’ironia era proprio sua madre. Aveva camminato lungo la avenida Warnes senza pensare a niente, tutto
il giorno a camminare per Villa Crespo finché era arrivato in
centro ed era finito in questo bar. Tra poco sarebbe andato a
dormire alla stazione di Retiro. In mattinata sarebbe passato
a prendere le sue cose. Se credevano che avrebbe provato a
tornare in quella stanza schifosa si sbagliavano di grosso.
Chissà cosa ci aveva visto sua madre nel polacco. Una storia
d’amore, roba da farsi venire il vomito. Biondo con gli occhi
azzurri, ecco cosa doveva averla affascinata; i bruni erano in
ribasso, mentre i biondi potevano essere delle bestie ma avevano già un punto a favore. Forse era un suo complesso: lei
era bruna, figlia di italiani. Anche se le cose si erano fatte difficili da un pezzo, ammise Cris, la goccia che aveva fatto traboccare il vaso era stata la faccenda dei biglietti musicali. Un
investimento consigliato dall’armeno, importatore all’ingrosso: «Compri ora e sotto le feste li vendi al triplo» gli diceva,
mentre con le mani pelose apriva un biglietto su cui erano raffigurate caracollanti slitte di Babbo Natale in un paesaggio
innevato, dal quale scaturiva Ding dong bell, ding dong bell.
Una musichetta con tutte le sue note, che sembrava suonata
da un’orchestra di formiche. Tin tin tin... tin tin tin... Tin tin
tin tin tiiin... «Qualcosa di diverso» diceva l’armeno, «ci farai
un po’ di soldi per cominciare». Tutti i suoi risparmi erano in
quello scatolone che, come un idiota, aveva comprato in aprile in attesa del prossimo Natale. «I cinesi sfornano manufatti
e sono bravissimi a copiare» diceva Margosián. Diceva: «Fai
sentire un tango a un cinese, e quello subito te lo suona uguale. D’Arienzo? D’Arienzo. Baffa-Berlingieri? Baffa-Berlingie-
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ri». E lui, Cris, faceva finta di ascoltare i patetici monologhi
dell’importatore, incastrato, grasso e unto com’era, dietro il
bancone traboccante di cavatappi luminosi, seghetti pieghevoli, carillon, posacenere per smettere di fumare, il cellulare
incollato all’orecchio. «È il non plus ultra dei prodotti di importazione cinesi, ragazzo mio, non lo sapevi?». Cris si frugò
nella tasca del giubbotto e riversò un mucchio di volantini
sul tavolo: “Morfax tavola calda pizza empanadas”; “Motel
Discret Eroticsuite Watersuite...”; “La Chiesa Universale del
Regno di Dio TI CHIAMA al Monumental di Núñez”; “L’appartamentino di Maipú – dee in reggicalze, servizio bar gratuito...”; “La tua pelle si merita una nuova vita!!!”; “MODEL
STAR, sogni di diventare modella? Casting gratuito...”. Sollevato, lo trovò: ecco il numero di telefono dell’armeno. Quella
mattina, cinquecento biglietti natalizi fuori controllo, forse
attivati dall’umidità della perdita sul soffitto, avevano cominciato a suonare, prima uno e poi un altro e poi tutti insieme,
finché Ding dong bell e Astro del ciel si erano mischiate in uno
squittio di topo agonizzante accompagnato da campane e
flauti stonati per lillipuziani. Proprio in quel momento era arrivata sua madre che veniva a svegliarlo, in camicia da notte,
un cappotto sulle spalle e il viso lustro di crema antirughe
preparata dalla farmacista giù all’angolo, lustro e allarmato.
Cos’è questo rumore? Lui si era gettato con una coperta sullo
scatolone e lei dietro per vedere che cosa nascondeva, perché
doveva nascondere qualcosa di strano, questo era scontato.
In quel momento aveva sentito lo scricchiolio della plastica
spezzata e anche senza guardare aveva capito che sua madre
gli aveva calpestato il walkman. Non aveva fatto in tempo a
protestare perché lei, dopo aver studiato il walkman distrutto
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e aver detto: «Ma ti sembra il caso di lasciarlo per terra!», si
era concentrata sul contenuto dello scatolone bagnato e dopo
un secondo di sorpresa (era una di quelle persone che non
aveva mai mandato un biglietto d’auguri in vita sua) aveva cominciato a dire che ci mancava solo questa, che di sicuro aveva buttato via i pochi soldi che aveva in quella robaccia (aveva
detto robaccia), e perché non si cercava un lavoro vero, che
erano stufi (aveva detto stufi) delle sue pazzie e doveva fare
qualcosa con quello scatolone o sarebbe arrivato Poteki (sua
madre chiamava il secondo marito per cognome, mai per nome; anche casa sua, non la chiamava mai casa mia ma Warnes,
«mandatemelo a Warnes» diceva) e gli avrebbe buttato tutto
dalla finestra. Tra le invettive materne si infiltravano i penosi
lamenti di qualche arpeggio natalizio. Alla fine se n’era andata, ma prima aveva detto in tono amareggiato: «E per questa
robaccia non vuoi dare una mano in negozio». Cris si era vestito, aveva portato lo scatolone in terrazzo e gli aveva dato
fuoco. Non era stato facile dargli fuoco. Guardando il fumo
nero che si portava via il suo investimento, quella mattina sul
terrazzo, Cris si era detto che non poteva andare avanti così.
La casa era orribile, sopra il negozio di autoricambi con il
bancone nero di grasso da motore, così come la sua stanza, al
piano di sopra, con la portafinestra che dava su quel minuscolo terrazzo dal quale negli ultimi anni, tutti quelli delle superiori, aveva visto gli stessi tetti cadenti e le stesse antenne
ritorte sullo sfondo di un cielo plumbeo. Come aveva fatto
sua madre ad abituarcisi? Come faceva a sopportare un uomo
come il suo patrigno? Per quanto lo riguardava, erano questioni che lo interessavano solo quando era depresso. «Ehi,
tu, passami quella cassa» gli aveva ordinato Poteki davanti ad
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alcuni clienti. Sentiva ancora le orecchie in fiamme al ricordo
di quel tono di superiorità. All’inizio dell’anno la madre l’aveva costretto ad aiutarlo in negozio dopo la scuola e Cris sospettava che quello sarebbe stato il suo destino al termine delle superiori. Due mesi prima la scuola aveva scritto a casa
congratulandosi perché Cristóbal – lui – aveva preso il voto
più alto della classe in una specie di concorso indetto dal professor Mentasti, il suo insegnante di storia e filosofia. Se c’era
una cosa che ai suoi compagni non interessava era ciò che
Mentasti si ostinava a trasmettergli, ma a lui era andata bene.
Come tema aveva scelto Cartesio e il dubbio metodico. Tipo
tosto, Renato, lui sì che era sincero. Ma sua madre non aveva
risposto, non aveva fatto commenti sulla lettera che le aveva
scritto il professore, in cui diceva di incoraggiarlo a proseguire
gli studi: non aveva detto niente. In quel momento aveva preso
una decisione e acquisito un’abitudine: la decisione di cercarsi
un lavoro che togliesse dalla testa ai suoi l’idea di prenderlo a
lavorare in negozio, e l’abitudine di immaginare il delitto perfetto. Era un buon passatempo di tante nottate nella sua stanza: i mille modi di liquidare il maledetto polacco. Aveva escogitato piani completi di alibi rifiniti nei minimi dettagli e
risposte astute alla polizia. ‘La sera della morte? Stavo studiando a casa di un compagno. Che cosa studiavate? Leggevamo Cartesio, conosce il dubbio metodico, agente? Glielo
consiglio’. Per il suo piano aveva proceduto con metodo, con
filosofia. Un mese dopo aveva accantonato l’idea, perché il
polacco gli sembrava ormai un poveraccio che poteva stendere in qualsiasi momento con un cazzotto lasciandolo incosciente sul pavimento. E poi, grazie a Mariano aveva conosciuto l’armeno, il grossista, e lavorava per conto proprio.
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Nel piattino restavano quattro noccioline: spalancò la bocca e se le lasciò cadere dentro da sempre più in alto. Era capace di aprire le mandibole in un modo piuttosto impressionante, oppure di fare un sorriso da pazzo, schiacciandosi i
capelli sulla fronte, stringendo i denti e stirando le labbra da
un orecchio all’altro. A volte lo faceva. Fece un cenno al cameriere, che cominciò a far cigolare le giunture arrugginite.
«Sa una cosa, cameriere, lei è troppo rock. Troppo, per
me».
Non riuscì del tutto a soffocare una risata proprio in faccia
al vecchio. Pagò senza guardarlo, si alzò e uscì.
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