Crescere all`estero: una strada possibile per le PMI

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Crescere all`estero: una strada possibile per le PMI
Crescere all’estero: una strada possibile per le PMI
Markus Venzin (Professore Associato, Università Bocconi)
Gabriella Lojacono (Professore Associato, Università Bocconi)
Federica Foce Massa Saluzzo (Research Assistant, Università Bocconi)
La crescente integrazione dell’economia mondiale è stata favorita da alcuni fattori: l’ICT ha
indubbiamente facilitato le relazioni commerciali internazionali e la gestione delle aziende
con unità geograficamente distaccate; le barriere istituzionali si sono ridotte con conseguente
apertura dei mercati; la logistica è stata interessata da enormi progressi (i costi si sono
notevolmente ridotti, sono emersi imprese logistiche che servono in modo adeguato ed
efficiente tutto il mondo, sono sorti centri logistici avanzati e l’informatizzazione ha
consentito di gestire i processi logistici in modo rapido e senza errori) . Di conseguenza, si
sono affermati colossi multinazionali con più di 500 mila dipendenti che si approvvigionano
laddove è più conveniente per servire consumatori sempre più esigenti ed informati. Le
“regole del gioco” sono mutate così come gli attori di riferimento nell’arena competitiva. La
più grande banca al mondo non è più l’americana Citigroup con una capitalizzazione di oltre
176 miliardi di euro, ma la Industrial & Commercial Bank of China la cui capitalizzazione è
di oltre 200 miliardi di euro. Le indiane Tata Group e ArcelorMittal sono le nuove
protagoniste di un’ondata di acquisizioni con il baricentro in Paesi in via di sviluppo. L’area
dei “BRIC” (Brasile, Russia, India, Cina) diventa, nel contempo, un interessante mercato di
sbocco ma anche un pericoloso concorrente.
Questi ed altri fenomeni costringono le imprese italiane a ripensare il proprio
posizionamento strategico. Soprattutto per le piccole e medie imprese (PMI), questi
cambiamenti rappresentano una sfida importante. Mentre le grandi aziende dispongono più
facilmente di risorse manageriali e finanziarie per rispondere alla concorrenza internazionale,
le PMI spesso affrontano l’internazionalizzazione in un modo destrutturato ed opportunistico.
Il presente articolo ha dunque l’obiettivo di illustrare come le PMI, nonostante la loro
dimensione, possano investire consapevolmente in un processo di internazionalizzazione. Per
la stragrande maggioranza delle PMI questa è una strada obbligata per assicurare continuità ed
autonomia. Dopo una breve sintesi della effettiva performance delle aziende Italiane
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all’estero, viene presentato un modello a dieci fasi che supporta gli imprenditori nel loro
processo decisionale durante un percorso di internazionalizzazione.
Panorama economico internazionale: i cambiamenti in corso
Osservando le statistiche relative ai flussi commerciali internazionali si nota come se è
modificato il paniere dei mercati di approvvigionamento così come i settori in crescita. Da
tempo, i mercati di approvvigionamento si sono spostati verso l’estremo Oriente, la Russia e i
nuovi membri della UE. Gradualmente, questi mercati sono diventati anche interessanti
mercati di sbocco. I settori in Italia che avanzano più rapidamente nel contesto internazionale
non sono più il tessile e l’alimentare bensì quello degli apparecchi meccanici, dei mezzi di
trasporto, dei metalli, dei prodotti chimici, delle fibre sintetiche e artificiali, degli apparecchi
per uso domestico e di vetro e ceramica.
Ad incrementare il peso delle esportazioni di questi settori non sono le PMI, entità
caratterizzanti il contesto italiano bensì aziende di dimensioni medio/grandi che hanno
registrato un aumento delle esportazioni del 10% tra il 2000 ed il 2005 grazie ad
un’organizzazione strutturata e capacità di investimento superiori. Le aziende fino a 9
dipendenti hanno visto diminuire le esportazioni in modo piuttosto consistente nello stesso
periodo in esame (fonte: Ice 2006, Imprese).
Questi dati confermano che la competitività internazionale delle PMI in settori
tradizionalmente primari come quello del cuoio, dei mobili e dei prodotti tessili, sta
gradualmente riducendosi. A convalidare il dato della perdita di competitività internazionale
delle PMI Italiane sono anche studi condotti sul ruolo della struttura aziendale nel processo di
internazionalizzazione delle aziende familiari.1 Esse evidenziano come le limitazioni
strutturali in termini di disponibilità di risorse, di assetto proprietario, indipendenza della
gestione rispetto alla proprietà e stili manageriali,2 possono portare le aziende a controllo
familiare a scelte strategiche molto differenti, rispetto alle grandi imprese a controllo
manageriale, durante i processi di espansione internazionale.3
Alla luce di quanto detto, sembra delinearsi una scarsa propensione delle PMI ad
entrare in mercati esteri in modo strutturato. In particolare manca l’intenzione di impegnarsi
strategicamente nella attività di internazionalizzazione e perseguire profitti attraverso una
gestione occasionale dei rapporti con gli altri paesi, in modo opportunistico, cogliendo cioè le
opportunità di vendita/acquisto all’estero nel momento in cui esse si presentano.
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Per avere un ulteriore punto di vista su queste dinamiche e definire più chiaramente le
linee guida per la gestione del processo di internazionalizzazione illustriamo di seguito alcuni
dei risultati più significativi emersi dalle risposte al questionario somministrato alle aziende
appartenenti alla Camera di Commercio di Como in occasione dell’evento “Laboratorio
Como” tenutosi il 19 Giugno 2007. L’obiettivo del questionario era quello di individuare,
qualora esistesse, un archetipo del comportamento delle PMI nella gestione delle scelte di
internazionalizzazione. Il questionario online è stato inviato a più di 900 aziende e, sebbene
soltanto 20 di queste abbiano risposto, sono emersi alcuni utili spunti di riflessione: tutte le
aziende che hanno risposto esportano da più di dieci anni attraverso agenti diretti o
indipendenti; il 40% dei rispondenti afferma che le strategie di investimento nei Paesi esteri
non sono specifiche, ma possono essere utilizzate in altri mercati; per il 60% delle aziende il
fatturato estero ricopre una quota superiore al 50% del fatturato totale; l’80% delle aziende ha
visto aumentare il proprio fatturato estero negli ultimi 3 anni, ma la soddisfazione
complessiva sulla strategia di vendita all’estero non è soddisfacente.
Le aziende che hanno risposto, nonostante l’importanza relativa delle loro vendite all’estero,
non hanno ritenuto necessario modificare il tipo di esportazione né modificare le strategie di
investimento a seconda dei paesi. Questo comportamento sottende un’attitudine a “subire”
l’internazionalizzazione piuttosto che guidarla. Un cambiamento organizzativo organico, che
garantisca la sopravvivenza e favorisca la crescita delle PMI è un’esigenza ormai
imprescindibile. L’apertura verso nuovi paesi, non è più solo una opzione da cogliere in caso
di contingenze favorevoli ma una scelta obbligata, da coordinare in ottica di lungo periodo.
Si cerca ora di comprendere quindi quali sono le variabili da prendere in considerazione per
affrontare in modo strutturato il processo di internazionalizzazione e come gestirle.
Un approccio strategico all’internazionalizzazione
Nel contesto internazionale, i mercati dei singoli Paesi diventano sempre più integrati. Ciò
porta alla creazione di entità organizzative sempre più grandi, sistemi ICT sempre più
efficienti e all’esigenza, per le PMI, di interagire con interlocutori sempre più potenti
contrattualmente. Dati questi presupposti, a lungo termine, sarà difficile per molte PMI
sostenere una posizione competitiva con un modello di business puramente nazionale. Gli
imprenditori Italiani dovranno quindi considerare la leva internazionale prima che il mercato
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nazionale sia troppo saturo. Ciò non significa automaticamente che tutte le aziende siano
obbligate ad essere presenti all’estero cosi come non è detto che ne abbiano le capacità e
risorse.
L’internazionalizzazione, infatti, è in molti casi una strategia di crescita premiante, che
va condotta con attenzione, commitment e con metodologie specifiche a seconda del contesto
in cui si opera. Per avere successo all’estero bisogna necessariamente essere aziende del
calibro di Tod’s, Prada o Brembo? No. L’espansione internazionale è una opzione strategica
che tutte le aziende possono perseguire con buoni risultati indipendentemente dalla loro
dimensione. Ovviamente, le modalità cambiano a seconda dei settori e delle dimensioni
aziendali. La Geox di Mario Moretti Polegato, per esempio, nel 1992 presentava un fatturato
di 4,6 mio Euro. Con una crescita media annuale del 42%, l’azienda ha raggiunto nel 2006 un
valore del fatturato di 612,3 mio Euro.
Negli anni Novanta il gruppo Geox operava nel settore della calzatura e in quello
dell’abbigliamento portando avanti la propria missione di innovazione, in particolare orientata
ad individuare soluzioni tecnologiche in grado di garantire traspirabilità e impermeabilità.
Oggi Geox crea, produce, promuove e distribuisce prodotti innovativi protetti da brevetti in
tutto il mondo ed opera nel settore delle moda classic, casual, sport e fashion per uomo,
donna e bambino. Negli ultimi anni il gruppo Geox ha registrato una rapida crescita
internazionale e oggi è presente in 68 Paesi del mondo. Il 59% del fatturato è realizzato
all'estero, principalmente in Germania, Francia, Spagna e Stati Uniti.
La vera crescita di Geox (circa 25% ogni anno) si è registrata a partire dal 2000, primo
anno in cui l’azienda ha deciso di aprirsi ai mercati internazionali. Il momento di apertura ai
mercati internazionali non è arrivato improvvisamente bensì quando l’azienda fatturava già 70
milioni di Euro. Questo non significa che per aprirsi ai mercati internazionali siano necessarie
dimensioni molto grandi, quanto piuttosto una profonda conoscenza del mercato interno e la
capacità di saper cogliere il momento adatto all’internazionalizzazione, prima che il mercato
interno sia saturo. Da quella fondamentale decisione, Geox ha esteso la sua presenza in 68
Paesi attraverso 10.000 punti vendita multimarca e 500 negozi monomarca. Nel caso Geox,
una azienda dove l’importanza di progettazione e innovazione sono elevate e dove il design
ed il made in Italy costituiscono un fattore critico di successo, tra le scelte cruciali sono state
effettuate:
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Centralizzazione della funzione R&D;
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Dislocazione di centri produttivi posizionati in Paesi a basso costo di manodopera;
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ƒ
Riporto diretto dei responsabili di funzione estere ai responsabili di funzione italiani;
ƒ
Accurata selezione dei Paesi in cui internazionalizzarsi (per capacità di controllo
dell’immagine, della marca, della qualità e accessibilità del prodotto);
ƒ
Protezione dei brevetti a livello internazionale;
ƒ
Adattamento del prodotto a seconda dei paesi.
Affrontare il processo di internazionalizzazione: un modello a 10 fasi
Per gestire processi di internazionalizzazione come quello di Geox, non esistono ricette
generalizzabili. Tuttavia è possibile delineare un percorso metodologico che aiuti il
management a interrogarsi, di volta in volta, in merito agli snodi critici della crescita
internazionale. Tale percorso prevede dieci aree decisionali che prendono le mosse da alcune
domande strategiche.
Figura 1: Gestire il processo d’internazionalizzazione
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1. Dobbiamo crescere?
La domanda non ha necessariamente risposta affermativa. Gli imprenditori italiani sono soliti
accontentarsi dello status quo perché preferiscono una redditività alta a breve termine
rispetto alla crescita dimensionale che può comportare perdita di autonomia a causa delle
risorse finanziarie necessarie. Nondimeno, esistono circostanze in cui crescere è la scelta più
adeguata. Ad esempio quando le risorse a disposizione dell’azienda aumentano
costantemente e non si è ancora scelta una allocazione nel lungo periodo di tali risorse o
quando il tipo di mercato impone economie di scala tali da dover competere solo su grandi
dimensioni o su nicchie di mercato.
2. La crescita attraverso l’internazionalizzazione è il modo più opportuno?
Le imprese dispongono di diverse opzioni di crescita: 1) la penetrazione del mercato; 2) la
diversificazione di prodotto; 3) la diversificazione geografica; 4) la vendita di nuovi prodotti
in nuovi mercati geografici. Le aziende sono stimolate a crescere internazionalmente quando
i clienti e/o i concorrenti si spostano verso i mercati internazionali, quando si desidera avere
accesso alle stesse risorse dei concorrenti (costo del lavoro, delle materie prime…), quando
si vogliono attrarre talenti internazionali, quando si dispone di un vantaggio di unicità che
permette di superare gli svantaggi di non essere una azienda locale. Per comprendere se
esistono
delle
opportunità
insite
nell’internazionalizzazione,
occorre
raccogliere
informazioni sui mercati esteri attraverso la partecipazione a manifestazioni fieristiche,
l’analisi di ricerche di mercato, il test di prodotto, le interviste ad opinion leader ed
intermediari commerciali.
3. Se si, quando è il momento opportuno per iniziare questo processo?
Un’azienda che valuta l’esigenza di espandersi verso nuovi mercati deve comprendere che
questa decisione ha un orizzonte temporale di medio periodo e che esistono fattori interni ed
esterni all’azienda che possono rallentare o accelerare tale scelta. Per nominarne alcuni: tra i
fattori interni riscontriamo le competenze specifiche per gestire l’internazionalizzazione (so
dove andare, con che business model..), la eventuale protezione dei brevetti, la capacità di
investimento e/o il supporto del management; tra i fattori esterni, il livello di saturazione del
mercato, l’esistenza o meno di fornitori già identificati, l’esistenza di un network capace di
innescare il processo di crescita internazionale e l’esistenza di pressioni competitive.
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Natuzzi, ad esempio, ha scelto ha scelto di entrare nel Far East per la necessità di competere
con prezzi più contenuti. Nel 1999 Natuzzi realizzava l’88% dei ricavi all’estero, ma con
alcune minacce all’orizzonte. Ormai, si stavano diffondendo prodotti realizzati in Cina
giudicati soddisfacenti dai distributori americani. I prezzi bassi rispetto alla stessa
produzione di Natuzzi erano legati al costo dei materiali e, soprattutto, del lavoro, tipico dei
Paesi in via di sviluppo. Gli stessi produttori americani avevano delocalizzato alcune fasi in
Cina o avevano fatto delle joint venture con aziende cinesi. Per sfruttare tali vantaggi, un
imprenditore italiano aveva fondato un’azienda in Cina, DeCoro per servire la fascia bassa
del mercato americano con prodotti di “Italian Design” a prezzi bassi. Natuzzi capì che era il
momento di fare degli investimenti diretti all’estero per affrontare la concorrenza sul prezzo
dei produttori del Far East sui principali mercati di sbocco. Nel 2001, vengono inaugurate le
fabbriche in Cina, Brasile e Romania la cui produzione (progettata in Italia) è
commercializzata in 85 Paesi con marchio Italsofa (40% della produzione del gruppo).
4. Quali sono i mercati più attrattivi?
Gli imprenditori italiani non sono soliti assegnare delle priorità ai vari mercati esteri e, di
conseguenza,
allocare
in
ordine
di
importanza
il
budget
disponibile
per
l’internazionalizzazione. L’attrattività dei mercati target dipende da alcuni fattori tra cui la
rischiosità
del
Paese,
la
vicinanza/distanza
culturale,
l’adattabilità
del
proprio
prodotto/servizio, la propria forza competitiva, la dimensione della domanda e la redditività
media. Esistono strumenti istituzionali che aiutano l’imprenditore nella scelta dei Paesi più
sicuri; il sito SACE,4 ad esempio, offre una panoramica sulla rischiosità dei diversi paesi,
attraverso una mappa globale specifica e molto dettagliata e rappresenta un valido aiuto nella
raccolta di informazioni propedeutiche all’ingresso in un nuovo Paese.
5.
Qual è la modalità di ingresso più opportuna?
Le modalità operative con cui l’azienda fa ingresso ed è presente all’estero possono essere
l’export indiretto, il licensing, investimenti diretti (produttivi) e filiali commerciali (export
diretto) ed il franchising. Le PMI frequentemente preferiscono l’export rispetto
all’effettuazione di investimenti diretti (acquisizioni, joint venture, crescita organica). La
scelta di come entrare in un Paese non risponde ad una regola generale; non è necessario
iniziare con le esportazioni dirette per poi seguire obbligatoriamente un flusso di
intensificazione di investimenti e scambi. Come nelle altre circostanze, la decisione dipende
7
dalla struttura aziendale, dal tipo di prodotto/servizio offerto e dal mercato di sbocco. Spesso
però si può notare che le PMI hanno un atteggiamento opportunistico e non pianificano una
presenza strutturata nel territorio. Di conseguenza, la strategia di internazionalizzazione
dominante in tanti settori è l’export con un basso impegno: presenza in troppi mercati, con
una limitata conoscenza della struttura di ciascuno di essi, senza adattare il sistema di offerta,
con una presenza locale debole e una centralizzazione delle attività in Italia.
6.
Quali sono i modelli di business e le strategie funzionali locali appropriati?
Un business model descrive le scelte relative al mercato di riferimento, al sistema di prodotto
e ai processi operativi. Con specifico riferimento alle strategie di internazionalizzazione,
queste scelte vengono declinate in termini delle aree in cui operare all’interno dei Paesi
prescelti, di clientela da servire (ad esempio, business vs retail), grado di adattamento del
sistema di prodotto e delle strategie funzionali (ad esempio, branding, packaging,
approvvigionamento, gestione del personale ecc.).
Valga l’esempio di Poltrona Frau oggi considerata un’azienda leader nell’allestimento di
teatri, showroom, hotel e aeroporti, anche grazie alla cura con cui vengono effettuate le
attività di prototipazione ed il post-vendita. Il suo business model è offrire sedute comode e di
design a clienti di fascia medio-alta. Tale modello all’estero è stato adattato alle peculiarità
del canale di riferimento (ossia le grandi “commesse chiavi in mano”), tenendo conto che
l’azienda non disponeva di una notorietà del marchio analoga a quella in Italia. Per tale
motivo, Poltrona Frau ha creato un rapporto di fiducia con alcuni tra i più grandi architetti a
livello internazionale (Calatrava, Foster, Meier), grazie al quale viene coinvolta in importanti
progetti dove la comodità e la linea delle sedute è fondamentale. Nel 2007, nel Middle East,
Poltrona Frau ha definito una joint-venture paritetica chiamata PFEmirates con Mubadala,
società di Real Estate posseduta al 100% dal Governo dell’Emirato di Abu Dahbi.
7.
A quale velocità è opportuno penetrare il mercato?
Stabilita una presenza nel mercato, l’azienda può seguire diversi modelli evolutivi in termini di
quote di mercato e, di conseguenza, di modello di presidio e di commitment. Un’azienda può
porsi come obiettivo quello di raggiungere una quota di mercato del 20% entro tre anni in certi
Paesi; mentre altre aziende possono accontentarsi del 10% in cinque anni, ma entrare in più
mercati simultaneamente. Esiste una filosofia sottostante la prima scelta: l’importanza
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attribuita a first mover advantage, alle economie di scala, all’esistenza di risorse disponibili
all’interno dell’azienda e la disponibilità di modalità di crescita (ad esempio, acquisizione) che
permettono di acquisire velocemente quota di mercato.
Natuzzi e Snaidero hanno scelto di investire molti anni fa in modo deciso in alcuni mercati
come gli Stati Uniti e questo gli ha permesso di creare rapporti duraturi con gli intermediari
commerciali e la distribuzione americana e di costruire un’immagine di marca migliore a
quella di cui le aziende vantano nel mercato italiano. Quindi, non solo sono entrate
rapidamente in un mercato enorme, ma hanno dimostrato subito elevato commitment con
l’obiettivo di raggiungere velocemente un’elevata quota di mercato.
8. Quando è opportuno affrontare il mercato estero successivo?
Come per la scelta del primo Paese in cui andare ad operare, le scelte incrementali dipendono
da un’analisi ponderata di variabili quali il livello di saturazione dei mercati in cui già si
opera, il livello di conoscenza del nuovo mercato e la possibilità strutturale dell’azienda di
affrontare una nuova arena competitiva. Poiché difficilmente esistono due mercati
completamente uguali tra loro, per ogni nuovo mercato che si intende penetrare l’azienda
deve effettuare un nuovo business plan. Tuttavia, un’azienda che opera all’estero ha acquisito
delle competenze generali nel processo di internazionalizzazione che possono essere utilizzate
indipendentemente da specifici contesti geografici. Per molte aziende, quindi, la decisione di
entrare in un altro mercato dipende dalla disponibilità dei top manager di seguire un altro
progetto di espansione. Spesso, un approccio più prudente è più fruttuoso. All’estremo, è il
caso di Le Fablier nel settore del mobile, che ha deciso di puntare su un solo mercato (la
Spagna) dove raggiungere una quota di mercato simile a quella italiana prima di rivolgere
l’attenzione altrove.
9. Qual è l’architettura organizzativa più adatta?
L’aumentare della esposizione internazionale obbliga le aziende a modificare gradualmente
la propria struttura organizzativa. E’ dunque probabile che all’inizio del processo di
internazionalizzazione sia sufficiente che le relazioni con l’estero siano intrattenute dalle
stesse persone che gestiscono il mercato italiano. Quando il fatturato estero comincia ad
essere significativo si rende però necessario creare delle unità organizzative ad hoc: per
esempio la direzione commerciale estero oppure il servizio post vendita estero, fino ad
arrivare alla divisione per area geografica. Questa evoluzione può (e spesso deve) essere
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accelerata attraverso investimenti in strutture estere in ottica prospettica. Se l’imprenditore
italiano aspetta che il suo capo vendite italiano cominci a vendere anche all’estero senza le
risorse ed un forte incentivo per farlo, non favorirà l’internazionalizzazione della propria
azienda. In una fase più evoluta l’azienda deve anche affrontare il problema del tipo di
relazione che le unità locali devono avere con la sede centrale.
Molteni è un esempio di una struttura organizzata sulle basi di una buona adattabilità
ai Paesi esteri e una solida rete di vendita. L’azienda presidia le varie aree geografiche
attraverso una divisione export dipendente dal direttore commerciale così strutturata: 5 area
manager (2 per l’Europa occidentale, 1 per l’Europa orientale, 1 per Asia e Far East e 1 per il
Nord America) controllano 15 agenti; la divisione dispone di 6 corrispondenti interni divisi
per mercati che hanno il compito di coordinare le operazioni con gli agenti esteri. Inoltre la
direzione marketing dispone di una persona dedicata alla clientela estera per quanto riguarda
gli allestimenti e destìna una parte consistente delle sue attività a supporto delle operazioni di
export realizzando anche progetti ad hoc per i mercati di esportazione.
10.
Qual è il grado ottimale di internazionalizzazione?
È vero che le imprese che esportano di più sono anche quelle che conseguono i migliori
risultati? La relazione tra il grado d’internazionalizzazione e la performance aziendale è un
argomento chiave della letteratura sulle strategie di internazionalizzazione. Tuttavia gli studi
di International Business, in quarant’anni, non hanno dato una risposta univoca a questo
quesito. Una recente indagine su 193 aziende del settore del mobile conferma che non esiste
alcuna correlazione tra livello di export e redditività (figura 2).
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Figura 2 – Livello di Export e ROE delle aziende del campione (2005)
Esistono però alcuni fattori che possono rendere la gestione della azienda internazionale
particolarmente costosa e limitarne un ulteriore sviluppo. Tra questi si rammentano i costi
associati al controllo delle filiali estere e alla complessità organizzativa. Inoltre, sono da
considerare i limiti derivanti dalla struttura del mercato, quali la regolamentazione nazionale
oppure la difficoltà nell’implementazione di strategie di crescita.
Conclusioni
I mercati nazionali diventano sempre più integrati e a lungo termine sarà difficile per molte
aziende sostenere una posizione competitiva con un modello di business puramente nazionale.
Per questo motivo, gli imprenditori Italiani devono considerare la leva internazionale prima
che il mercato nazionale sia troppo saturo e la loro competitività a livello nazionale ed
internazionale diminuisca. L’internazionalizzazione è una strategia di diversificazione
premiante, che va condotta con attenzione, commitment e con metodologie specifiche a
seconda del contesto in cui si opera. Una presenza più consistente all’estero non garantisce
una profittabilità più alta, ma tanti casi aziendali dimostrano che la leva internazionale è ormai
un fattore che deve essere parte integrante della strategia aziendale. La sfida che oggi le
imprese Italiane devono intraprendere per sfruttare con successo le possibilità offerte dai
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mercati internazionali risiede nel comprendere i driver di profitto peculiari della propria realtà
e di implementare queste strategie con determinazione.
1
(Entrepreneurial Entry Into Foreign Markets: A Transaction Cost Perspective - Zacharakis, Andrew L.,
Entrepreneurship: Theory & Practice, 1997, Vol. 21 Issue 3, p23-39, 17p.)
2
(Internationalisation and the Smaller Firm: A Review of Contemporary Empirical Research - Coviello, Nicole
E., McAuley, Andrew. Management International Review (MIR), 1999, Vol. 39 Issue 3, p223-256)
3
(Specificità e linee guida della crescita internazionale delle aziende familiari - Carlo Alberto Carnevale Maffè,
Markus Venzin, Imparare a crescere, EGEA, 2005)
4
http://www.sace.it/eng/rischi/index.aspx?TRS_ID=1558000, aggiornato al 5 Settembre 2007
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