Leggi il saggio di Fernando Mazzocca

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Fernando Mazzocca
1800 – 1860. Da Napoleone all’Unità
“… il passato: il glorioso, l’immenso passato della Pittura Italiana, affascina, assorbe
coloro che senza una fede ben profonda nell’avvenire vorrebbero studiare il presente.
Tre secoli di Titani proiettano l’ombra loro su tutto ciò che oggi si fa. Tre secoli di
una Pittura magnifica per concetto, per esecuzione, per l’innumerevole serie di
capolavori da essa creati, si drizzano minacciosi tra gli studi negletti, modesti,
sparpagliati, dei pittori moderni, e i viaggiatori stranieri: troppo spesso tra di loro e
gli stessi giovani italiani. Chi può pensare a sostare nello studio dell’Hayez o del
Podesti in un paese che vi offre fin da principi la Sistina, la Sala della Segnatura, il
Camposanto, le Gallerie di Firenze e di Roma?” (Giuseppe Mazzini, Pittura italiana
moderna, 1841)
I. 1802 – 1822. La gloria di Canova e di Appiani tra il primato della scultura e le
sperimentazioni dei pittori
“Canova vive di Roma e per Roma, e qui vince nella gara l’invidioso danese, che
in essa dimorò tutta la vita per tentare di rapire la palma al veneziano” (Giuseppe
Rovani, Cento anni romanzo ciclico, 1857-1858).
“Ma di pittori voi state male in Italia- disse Napoleone- mentre in Francia noi ne
abbiamo di migliori dei vostri”. Risposi essere già anni dacché io non avea vedute le
opere dei pittori francesi, e che non poteva fare confronti ma che pertanto anche noi
avevamo degli uomini valenti. A Roma Camuccini e Landi; a Firenze Benvenuti; a
Milano Appiani e Bossi. Disse che i Francesi mancavano un poco nel colorito ma che
nel disegno erano superiori di molto ai nostri. Non lasciai di riflettere che anche i
nostri disegnavano bene, che Bossi avea fatto dei cartoni divini (…) e che Appiani
avea dipinto affresco le sale del palazzo di Sua Maestà a Milano in modo che non
avrei saputo ritrovare un altro che avesse potuto fare altrettanto. “Dite bene, affresco
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–ei rispose- ma non a oglio”.”. (Conversazione tra Antonio Canova e Napoleone,
1810)1.
Antonio Canova veniva nominato nel 1802 Ispettore generale delle Antichità e
Belle Arti dello Stato della Chiesa, un ruolo che aveva ricoperto ai suoi tempi
Raffaello e che consentirà allo scultore nel 1815 di recuperare a Parigi i capolavori
requisiti dalle armate francesi in seguito al Trattato di Tolentino del 1797. La sua
fama universale (“l’Europa –il Mondo- non ha che un solo Canova”, scriveva Byron)
aveva restituito all’Italia e a Roma l’antico primato artistico. Così la sua morte,
avvenuta a Venezia nel 1822 e celebrata ovunque come un lutto nazionale, segnava
davvero –come avvertì con immenso dolore Giacomo Leopardi che fuggito da
Recanati avrebbe voluto incontrarlo fiducioso
di diventargli amico- la fine di
un’epoca.
Il successo di Canova aveva certamente restituito all’Italia il primo posto come
terra della scultura,
un’arte “quasi fatto
italiana” dichiarerà
Pietro Giordani
collaborando con l’amico Leopoldo Cicognara alla complessa stesura della Stroria
della scultura2, dove, per la prima volta, utilizzando il
investigazione
nuovo metodo di
basato sull’analisi dello stile introdotto da Winckelmann, veniva
ricostruita la continuità tra gli antichi, i riscoperti maestri del Medioevo e del
Rinascimento, e il più grande di tutti Canova. Celebrato, sempre da Giordani, come l’
“uomo singolare e verissimamente divino”, “da una provvidenza pietosa di natura
collocato sul doppio confine della memoria e della immaginazione umana; a
congiungere due spazi infiniti: richiamando a noi i passati secoli; e de’ nostri tempi
facendo ritratto all’avvenire”. Così la sua presenza a Roma, rilanciata come luogo di
formazione per gli artisti provenienti da ogni parte del mondo, diventava un punto
1
A. Canova, Scritti, a cura di H. Honour e P. Mariuz, Roma 2007, p. 434. Questo importante volume si inserice nell’
“Edizione nazionale delle opere di Antonio Canova”, una monumentale impresa destinata a pubblicare il vastissimo
epistolario canoviano, fonte primaria per lo studio dell’arte del primo ventennio dell’Ottocento.
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La Storia della scultura dal suo risorgimento in Italia fino al secolo di Canova (…) per servire di continuazione
all’opere di Wickelmann e di d’Agincourt, nella seconda edizione del 1824 riveduta ed ampliata dall’autore, è ora
disponibile nella fondamentale ristampa anastatica, pubblicata a Bassano nel 2007, a cura di Francesco Leone, Barbara
Steindl e Gianni Venturi.
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fermo rispetto a anni di drammatici, ma anche esaltanti, mutamenti che, dopo le due
campagne d’Italia prima nel 1796 e poi nel 1800, avevano visto, sotto la regia del
potere napoleonico, un decisivo mutamento della geografia politica della penisola.
Alla frammentazione in tanti stati di lunga tradizione che aveva caratterizzato l’antico
regime si era sostituita una sorta di nazione unitaria, pur tripartita tra il Regno Italico
al Nord, il Piemonte e gli ex stati della Chiesa annessi alla Francia e il Regno di
Napoli che riuniva il meridione nel segno di una sovranità familiare, prima affidata al
fratello di Napoleone Giuseppe e poi all’ avventuroso cognato Murat. Mutava di
conseguenza, rispetto all’Italia dei sovrani riformisti3, anche la geografia artistica,
dove al sistema basato sui modelli cosmopoliti dell’arte di corte
ne subentra uno
diverso che potremmo definire dell’arte di stato. Così in conformità della tendenza
unitaria, si va spegnendo la capacità ed irrimediabilmente perdendo anche l’identità
dei tanti centri di antica tradizione, come in particolare Torino, Genova, Parma,
Venezia, Firenze, Napoli, sostituita dal ruolo egemonico di
Milano, moderna
metropoli europea in inarrestabile ascesa4, e di Roma che cerca di rilanciare la sua
vocazione di presidio universale della civiltà dove i valori della classicità si
coniugano con quelli dell’arte cristiana5. Le due città, divenute anche nella
percezione dei contemporanei6 i due grandi laboratori dell’arte in Italia vedono il
3
S. Pinto, La promozione delle arti negli Stati italiani dal’età delle riforme all’Unità. Parte prima. L’età delle riforme,
in Storia dell’arte italiana, Torino, vol. II, 1982, pp. 793-916; Il Neoclassicismo in Italia da Tiepolo a Canova, catalogo
della mostra a cura di F. Mazzocca, E. Colle, A. Morandotti e S. Susinno, Milano 2002.
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F. Mazzocca, La pittura in Lombardia, in La pittura in Italia. L’Ottocento, a cura di E. Castelnuovo, Milano 1991, I,
pp. 87-99; F. Mazzocca, L’ideale classico. Arte in Italia tra Neoclassicismo e Romanticismo, Vicenza 2002, pp. 141254; Napoleone e la Repubblica Italiana (1802-1805), catalogo della mostra a cura di C. Capra, F. Della Peruta e F.
Mazzocca, Milano 2002; F. Mazzocca, A. Morandotti e E. Colle (con la collaborazione di E. Bianchi), Milano
neoclassica, Milano 2001; F. Mazzocca, L’età neoclassica 1775 – 1814, in AA.VV., Ottocento lombardo. Arti e
decorazione, a cura di F. Mazzocca, Milano 2006, pp. 9-47.
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S. Susinno, La pittura a Roma nella prima metà dell’Ottocento in La pittura in Italia cit., pp. 399-430; S. Susinno, La
scuola, il mercato, il cantiere: occasioni di far pittura nella Roma del primo Ottocento, in Il primo Ottocento italiano.
La pittura tra passato e futuro, catalogo della mostra a cura di R. Barilli, Milano 1992, pp. 93 – 106; S. Susinno, Napoli
e Roma: la formazione artistica nella “capitale universale delle arti”, in Civiltà dell’Ottocento. Le arti a Napoli dai
Borbone ai Savoia. Volume: Cultura e Società, catalogo della mostra, Napoli 1997, pp. 83-91. Ma in particolare sui
vari aspetti, la dimensione e l’estensione nell’Ottocento del fenomeno si rimanda al fondamentale Maestà di Roma da
Napoleone all’Unità d’Italia. Universale ed Eterna Capitale delle Arti, catalogo su progetto di S. Susinno a cura di S.
Pinto, L. Barroero e F. Mazzocca, Roma 2003.
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Come danno conto per Milano Leopoldo Cicognara, incaricato di un indagine dal Ministero della Pubblica Istruzione
del Regno Italico (G. Nicodemi, Il “Rapporto” del Cicognara sulle Belle Arti in Italia durante il Regno Italico, in
“Archivio Storico Lombardo”, XLVIII, 1-2, 1921, pp. 215-225; parzialmente riedito in P. Barocchi, Storia moderna
dell’arte in Italia. Manifesti, polemiche, documenti. I. Dai neoclassici ai puristi, 1780-1861, Torino 1998, pp. 105 111 e
in Scritti d’arte del primo Ottocento, a cura di F. Mazzocca, Milano – Napoli 1998, pp. 45-49) e per Roma, in due
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concorso di pittori e scultori da ogni parte della penisola, che cercano novità e
occasioni a Milano, o si ritrovano a Roma per formarsi a contatto con l’antico, pur
avendo il Museo Pio-Clementino perduto i suoi capolavori, e per confrontarsi
soprattutto con il genio di Canova. Non solo le sue opere si sostituiscono a quelle
classiche come modelli di perfezione, ma la sua stessa vita, la sua concezione del
bello e dell’operare modificano profondamente la figura e il ruolo dell’artista nei
confronti della società, del mondo. Si consolida, grazie alla straordinaria qualità
raggiunta dai suoi marmi, il principio nato con l’estetica moderna –quella kantianadell’autonomia dell’arte. Mentre, di conseguenza, le qualità morali dell’ “uomo
buono” e la sua indipendenza nei confronti del potere alimentano il convincimento
dell’artista libero disposto a battersi
all’inizio
o al sacrificio per rimanere tale.
Siamo
dell’idea romantica dell’artista, passata per sempre nella mentalità
moderna, allora preannunciata da una serie di intensi autoritratti, come quello di
Bossi con i suoi amici intellettuali, tutti bruciati dall’impegno, già noto come la
Cameretta portiana, o del faentino Tommaso Minardi, che verso il 1813 si raffigura
nella sua soffitta a Roma, “sentimentale e dolente (…) alla deriva sul materasso”
(Ottani Cavina), o ancora del bresciano Domenico Vantini, appoggiato ad un cippo
antico che non è più una memoria d’Arcadia ma la conferma di un giuramento
tributato, attraverso la dedica “Soli Deo Respubl” , alla patria rappresentata dalle
“urne dei forti” che occupano lo sfondo, e alla propria coscienza di uomo libero. Se a
Roma si seguiva l’esempio di Canova, qui a Milano, o nella Lombardia giacobina, i
modelli saranno il Foscolo dei Sepolcri e il suo editore bresciano Nicolò Bettoni che
continuerà a perseguire, nella sua avventurosa carriera, il culto degli uomini illustri
che sarà un pilastro del nostro Risorgimento.
Chi si muoveva tra Milano e Roma poteva mettere a confronto due diversi modelli
didattici. Quello dell’Accademia di Brera era stato favorito dalla dote di una grande
Pinacoteca Nazionale, avviata a diventare quasi pareggiando il prestigio Gallerie
momenti successivi, Giovanni Antonio Guattani e Giuseppe Tambroni (G. A. Guattani, Sullo Stato attuale delle Belle
Arti in Italia e particolarmente in Roma, in “Atti dell’Accademia Italiana di Scienze, Lettere ed Arti”, tomo I, parte II,
Livorno 1810 e S. Rudolph, Giuseppe Tambroni e lo stato delle Belle Arti in Roma nel 1814, Roma 1982).
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fiorentine la maggiore raccolta di dipinti d’Italia, e rivitalizzato da un nuovo sistema
di Concorsi come dall’elaborazione di un modello espositivo che, definitivamente
decollato negli anni della Restaurazione, farà di Milano il centro del mercato e del
collezionismo dell’arte contemporanea con infinite possibilità di aggiornamento e
confronto per gli artisti7. Mentre a Roma la creazione, presso la prestigiosa sede del
Palazzo di Venezia già ambasciata della gloriosa Repubblica, di un’ Accademia
Nazionale, fortemente incoraggiata da Canova e diretta in modo esemplare da
Giuseppe Tambroni, mise a confronto, favorendo la nascita di nuovi talenti come
quelli di Francesco Hayez e Giuseppe De Min, i giovani che provenivano dalle tre
grandi Accademie riformate del Regno Italico, allora guidate dai protagonisti del
dibattito teorico e della critica d’arte, non casualmente fraterni di Canova e
diversamente officianti del suo culto, Giuseppe Bossi a Milano, Leopoldo Cicognara
a Venezia e Pietro Giordani a Bologna. Ma la presenza a Roma di altre antiche e
prestigiose istituzioni, dall’Accademia di San Luca a quella di Francia, o quelle
aperte da altri stati stranieri, rendeva straordinario e mutevole il panorama didattico
della città eterna. Mentre la pur memorabile mostra allestita nel 1809 in Campidoglio
per l’arrivo del generale Murat –quelle di Torino e Milano del 1805 erano state
organizzate per la discesa di Napoleone e la sua consacrazione con la Corona ferrea
di re d’Italia- rimarrà un’occasione di aggiornamento davvero unica, non destinata a
creare un modello stabile per il futuro come a Milano.
Se le Accademie dovevano preparare gli artisti a inserirsi nel mercato e nel giro dei
collezionisti, messo in crisi dagli eventi storici e dalle difficoltà del Grand Tour, le
occasioni migliori rimanevano quelle legate alle iniziative pubbliche, all’attività dei
grandi cantieri, anch’essi molto diversi tra Milano, dove la decorazione del Palazzo di
Corte (diventato Reale) subisce decisive modifiche8, mentre gli scultori, alcuni
7
M.C. Gozzoli, Contributi alle esposizioni di Brera (1805-1859) e F. Mazzocca, Le Esposizioni d’Arte e Industria a
Venezia (1805-1848), in AA.VV., Istituzioni e struture espositive in Italia. Secolo XIX: Milano, Torino. Quaderni del
Seminario di Soria della Critica d’Arte della Scuola Normale Superiore di Pisa, 1, Pisa 1981, pp. 1-229; F. Mazzocca,
Mercato dell’arte e collezionismo in Italia nell’età neoclassica, in Ottocento Italiano. Opere e mercato di pittori e
scultori, a cura di M. Agnellini, Milano 1994, pp. 43-63, poi in F. Mazzocca, L’ideale classico cit., pp. 525-564.
8
E. Colle e F. Mazzocca, Il Palazzo Reale di Milano, Milano 2001.
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formati o provenienti da Roma, trovavano impiego tra il Duomo e l’Arco del
Sempione (poi della Pace)9, destinati a proseguire l’uno per tutto il secolo e l’altro
sino alla conclusione nel 1838; e Roma, dove la trasformazione in residenza
Imperiale della reggia dei papi rende il Quirinale, nella breve ma intensa stagione
della Roma napoleonica tra il 1809 e i 1814, uno straordinario luogo di incontro tra
professionalità diverse, pittori, decoratori, scultori, artefici, e degli italiani con gli
stranieri10. Più che all’esperienza resa unica dal ruolo di protagonista svolto da
Appiani della reggia milanese, sembrano confrontarsi con il modello del Quirinale,
pur in realizzazioni certamente più modeste, l’allestimento del Palazzo Reale di
Venezia e le trasformazioni di Caserta negli ultimi anni del regno di Murat11. Ma
rispetto a questi percorsi della pittura ufficiale, vincolati dalla propaganda o dalla
celebrazione, ci riservano risultati inattesi e straordinari le rotte più eretiche ed
estrose dei decoratori che ritrovarono nel particolare humus culturale della provincia,
tra la Faenza giacobina di Felice Giani12, la Bergamo visionaria di Bonomini13, la
stralunata archeologia bresciana di Teosa e Manfredini14, magnifiche opportunità di
sperimentazione ancora possibili in ambienti che, nell’innesto tra la nobiltà convertita
ai nuovi ideali e i personaggi emergenti, avevano conservato disponibilità mentale
e curiosità intellettuali.
Figlio di questa cultura, si imporrà tra la Brescia delle
antiche famiglie, come i Lechi, passate nelle file napoleoniche, e la Milano della più
9
S. Bosi, L’Ottocento del Duomo di Milano. Riflessioni sui cantieri di architettura, scultura e arti applicate; Il cantiere
di scultura dell’Arco della Pace: ultimo baluardo dell’estetica classicista il Lombardia, in AA.VV., Ottocento
lombardo cit., pp. 102-131.
10
AA.VV., Il Palazzo del Quirinale. Il mondo artistico a Roma nel periodo napoleonico, a cura di M. Natoli e M.A.
Scarpati, 2 voll. Roma 1989; M. Lafranconi, Il programma cesareo del Quirinale, in La maestà di Roma cit., pp. 151166.
11
Venezia nell’età di Canova 1780-1830, catalogo della mostra a cura di E. Bassi, A. Dorigato, G. Mariacher, G.
Pavanello e G. Romanelli, Venezia 1978, pp. 169-195; O. Scognamiglio, Dal “palais de l’Elysée” alla reggia di
Caserta: persistenze e trasformazioni del gusto artistico di Gioacchino e Carolina Murat, in Casa di Re. Un secolo di
storia alla Reggia di Caserta 1752-1860, catalogo della mostra a cura di R. Cioffi e AA.VV, Milano 2004, pp. 163-215.
12
Va ben al di là della semplice monografia la coinvolgente ricostruzione di un Neoclassicismo alternativo e umbratile
in A. Ottani Cavina, Felice Giani 1758-1823 e la cultura di fine secolo, 2 voll., Milano 1999.
13
Vincenzo Bonomini. I disegni, i Macabri, l’ambiente, catalogo della mostra a cura di R. Mangili, Bergamo 1981; R.
Mangili, Vincenzo Bonomini (estratto da “I Pittori Bergamaschi” raccolta di studi a cura della Banca popolare di
Bergamo), Bergamo 1996.
14
Dopo le fondamentali aperture di Marco Tanzi (Problemi di neoclassicismo bresciano: Giuseppe Teosa tra
committenza religiosa e privata, in “Itinerari. Contributi alla Storia dell’Arte in memoria di Maria Luisa Ferrari”, III,
Firenze 1984, pp. 87-104; Aspetti dlla pittura neoclassica in Lombardia tra rivoluzione e restaurazione: Giuseppe
7
esclusiva aristocrazia intellettuale, rappresentata ora da Gian Giacomo Trivulzio,
Giambattista Gigola15 il solo, con Giani, tra gli artisti italiani di quegli anni a poter
entrare, grazie ai suoi magnifici ritratti su avorio, irripetibili per tecnica e estro
iconografico, e alle sue illustrazioni miniate su pergamena, davvero ineusaribili
nell’invenzione e nel varcare i confini della visione,
nella schiera dei “pittori
dell’immaginario”.
Rispetto ai decoratori, liberi di seguire percorsi iconografici e formali
assolutamente eccentrici, la pittura di storia16, il cui primato tra i generi si ritrova
confermato dagli eventi politici, si consolida nella tradizione della “grande maniera”
e perseguendo i modelli di un linguaggio decisamente omologato. Il suo valore civile
e pedagogico, legato alla scelta di temi esemplari –gli exempla virtutis- , trova nuovo
slancio nel proselitismo dei segretari impegnati nelle maggiori Accademie, come
Bossi a Milano17 , Giambattista Niccolini a Firenze18 e in particolare Pietro Giordani
a Bologna che nel 1806 incitava i giovani artisti a farsi “censori de’ costumi,
premiatori della virtù, dispensatori di fama” e, seguendo la “civile sapienza degli
antichi”, ad abbandonare definitivamente “l’antica e moderna mitologia”, per la quale
“la fantasia s’ingombra, e rimane il cuore di affetti alla patria utili voto e freddo”19.
Ad infiammare il cuore degli italiani e dei pittori storici furono soprattutto le opere di
Vittorio Alfieri, diventate una fonte privilegiata dai pittori storici 20, e l’esempio di
David, del quale restava indelebile nella memoria la grandezza degli Orazi
Manfredini (1789-1815), in “Ricerche di Storia dell’Arte”, n. 26, 1985, pp. 74-93) si veda ora B. Falconi, Brescia.
L’estro della decorazione neoclassica e romantica (1780 – 1862), in AA.VV., Ottocento lombardo cit., pp. 181-205.
15
La sua riscoperta e restituzione in ambito europeo si deve a Neoclassico e troubadour nelle miniature di Giambattista
Gigola, catalogo della mostra (Milano e Brescia) a cura di F. Mazzocca, Firenze 1978.
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Per seguire l’evoluzione del genere nel corso del secolo si rimanda a F. Mazzocca, Il modello accademico e la pittura
di storia, in La pittura in Italia cit., pp. 602-628 e ai saggi di A. Villari nei volumi (tre già usciti dei quattro previsti)
della collana L’Ottocento in Italia. Le arti sorelle , a cura di C. Sisi, Milano 200-2007 (imprescindibili per seguire le
vicende artistiche del secolo in un’ottica non più regionale, ma attraverso la storia dei generi, e sul terreno del
confronto tra le arti come tra l’ambito figurativo, quello letterario, dela musica e dello spettacolo). Un bilancio
fondamentale sulla ripresa e lo stato degli studi sulla pittura, con una imprescindibile bibliografia, è AA.VV., Pittura
italiana nell’Ottocento, a cura di M. Hansmann e M. Seidel, Venezia 2005.
17
Si vedano le sue prolusioni ufficiali, come il celebre Discorso sull’utilità politica delle atri del disegno del 1805
(ripubblicato, come gli altri discorsi, in G.Bossi, Scritti sulle arti, a cura di R.P. Ciardi, 2 voll., Firenze 1982.
18
G. Niccolini, Opere, edizione ordinata e rivista dall’autore, 3 voll., Firenze 1847-1858.
19
Per questo, come per gli altri discorsi accademici e scritti di Giordani, si rimanda a P. Giordani, Scritti editi e
postumi, pubblicati da A. Gussalli, 6 voll.; Milano 1856-1858.
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potentemente rilanciata dai capolavori di cui si diffondeva subito la conoscenza,
alimentata del resto dalla presenza di due suoi potenti e fedeli “legionari”, FrançoisXavier fabre a Firenze e Jean-Baptiste Wicar a Roma. Ad Alfieri e a David rimanda
una delle commissioni più importanti e singolari per il suo meccanismo, i
momumentali dipinti con La morte di Cesare e La morte di Virginia ordinati a
Camuccini21 da August Hervey, vescovo di Derry e quarto conte di Bristol, che, non
più richiesti dal committente, saranno portati a termine, inserendoli proprio per la
loro monumentale severità nell’ambito della promozione di un’arte di stato, per
volere di Murat. Alla serie apparteneva, sempre voluto in origine dal nobile irlandese,
anche la Giuditta mostra la testa di Oloferne di Pietro Benvenuti22 che, nella Firenze
dominata dalle suggestioni del sublime alfieriano gestito da Fabre e rilanciato in
termini più eruditi da Niccolini, si proponeva come il David italiano, in gara con
Appiani nella celebrazione napoleonica affidata al registro epico della storia
contemporanea nello sterminato Giuramento dei generali sassoni a Napoleone dopo
la battaglia di Jena del 1812 (Firenze, Gallleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti), e
come pittore della corte familiare di Elisa Baciocchi rappresentata, nel monumentale
ritratto di gruppo oggi a Versailles, insieme agli artisti e agli intellettuali (tra cui
Canova, Fabre, Benvenuti stesso, Morghen, Santarelli, Lasinio) da lei efficacemente
coinvolti nel rilancio culturale della città.
Il modello davidiano, naturalmente da ognuno interpretato secondo la propria
indole e gli umori locali, lo si ritrova con maggior slancio e originalità in Giuseppe
Bossi che, in occasione del grande concorso da lui vinto sul tema della
“Riconoscenza della Repubblica Italiana a Napoleone”23, proponeva, confrontandosi
senza problemi con le prove assolutamente inadeguate rese dagli altri partecipanti
convenuti a Milano dai diversi distretti del Nord, un nuovo e convincente linguaggio
20
F. Mazzocca, I grandi tempi tragici, in Vittorio Alfieri aristocratico e ribelle (1749-1803), catalogo della mostra
(Torino) a cura di R. Maggio Serra, F. Mazzocca, C. Sisi, C. Spantigati, Milano 2003, pp. 49-64.
21
Camuccini 1771-1844, catalolgo della mostra a cura di G. Piantoni, Roma 1978.
22
E. Spalletti, La pittura dell’Ottocento in Toscana, in La pittura in Italia cit., 292-300; L. Fornasari, Pietro Benvenuti,
Firenze 2004.
9
celebrativo, ben aggiornato sulla pittura allegorica di propaganda fiorita in Francia
negli anni tra la Rivoluzione e il Consolato, che non avrà però alcun seguito riciclato,
e perduto, nei dipinti effimeri realizzati con la collaborazione degli straordinari pittori
di scene che dal palcoscenico scaligero conquistavano fama europea. Comunque le
due successive prove di Bossi, tenuto troppo spesso lontano dal pennello dalla furia
degli studi e dall’incontentabilità del genio, lo confermano il leader indiscusso nel
genere storico, dove, come nella Sepoltura delle ceneri di Temistocle in terra Attica,
il commovente tema plutarchiano eseguito nel 1805 per Giovanni Battista
Sommariva24 e da quel gran collezionista inviato a Brera e al Salon parigino, o nel
monumentale Incontro di Edipo cieco con le figlie (Trezzo, Biblioteca Comunale)
ispirato alla tragedia di Sofocle, reinventa le convenzioni davidiane, congelate in
Camuccini e Benvenuti, attraverso un serrato confronto con le privilegiate tematiche
leonardesche e la grande tradizione di Raffaello e del classicismo, ma anche con la
dimensione eroica dei bassorilievi e dei monumenti funerari dell’amico Canova.
I giovani in quegli anni a Milano potevano confrontarsi con diverse dimensioni del
sublime e di un’invenzione che privilegiava la forza concettuale del disegno,
cogliendo le magnifiche, anche se ardue, opportunità loro offerte dalla presenza del
fiorentino Luigi Sabatelli, titolare della cattedra di pittura dell’Accademia di Brera, e
dalla “Scuola teoretica di pittura” aperta da Bossi nel 1810, dopo le sue polemiche
dimissioni da segretario, e vissuta come una sorta di anti Accademia. Il grandi
concorsi annuali di pittura25, arrivati a un prestigio pari a quello che nella seconda
metà del secolo precedente avevano goduto quelli di Parma, fecero della stessa Brera
il luogo di confronto ideale per le ambizioni degli allievi di Bossi e Sabatelli, tra cui
svettava Carlo Prayer, come dei giovani emergenti che, differenti per estrazione
23
Il grande dipinto è conservato all’Accademia di Brera (F. Mazzocca, La Riconoscenza di Giuseppe Bossi.
Identificazione di un capolavoro della pittura rivoluzionaria, in Milano, Brera e Giuseppe Bossi nella Repubblica
Cisalpina, Atti dell’incontro di studio (Milano, Istituto Lombardo di Scienze e Lettere), Milano, pp. 63-86.
24
F. Haskell, Un mecenate italiano dell’arte neoclassica francese (1972), in Arte e linguaggio della politica, Firenze
1978, pp. 103-122; F. Mazzocca, G. B. Sommariva ol il borghese mecenate: il “cabinet” neoclassico di Parigi, la
galleria romantica di Tremezzo, in “Itinerari. Contributi alla Storia dell’Arte in memoria di Maria Luisa Ferrari”, I,
Firenze 1981, pp. 145-293; F. Mazzocca, L’ideale classico cit., pp. 587-610.
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geografica e formazione, videro riconosciuta la loro originalità, come nel 1806 il
savoiardo Giacomo Berger (presto catapultato da Roma alla corte di Murat), nel
1809 il toscano Francesco Nenci e nel 1812 il veneziano Hayez quando seppe dare
nuovo slancio ad un tema abusato come il Laocoonte, rivelandosi subito molto di più
che una promessa.
Ma il più interessante e vivace cantiere della decorazione ufficiale e della pittura
in quegli anni, in uno stimolante confronto tra le arti, rimane, pur nella sua breve
storia interrotta, quello del Quirinale napoleonico dove, oltre alle maestranze più
qualificate si cimentarono i più celebri pittori storici del momento italiani e stranieri,
coinvolti in un grandioso, quanto complesso, progetto iconografico articolato tra la
celebrazione dei meriti di Pericle, Harun el Rashid e Lorenzo de’ Medici,
naturalmente allusivi a quelli del Bonaparte, ma con una predilezione per il mondo
antico e l’epopea virgiliana, dove “les fastes d’une religion toute terrestre ne
pouvaient qu’etre historiques” (Bonstetten). Dominati dal monumentale fregio di
Thorbaldsen con l’emblematico Trionfo di Alessandro in Babilonia26, dove il danese
ormai sostenuto da uno schieramento critico a lui favorevole lanciava la sua sfida
definitiva a Canova
conseguendo in questo settore della scultura collegata
all’architettura la superiorità, gli appartamenti napoleonici del Quirinale furono il
terreno di verifica delle diverse declinazioni del genere storico, comunque riferibili
ad un’officina romana, dove ritroviamo tutti i vecchi e nuovi talenti, come Tommaso
Conca, Agostino Tofanelli, Bernardino Nocchi, Filippo Agricola, Paul Duqueylar,
Felice Giani e, con un ruolo decisivo, gli emergenti Camuccini, Gaspare Landi27 e
Pelagio Palagi28. Ma saranno soprattutto i tre straordinari dipinti di Ingres, il
virgiliano
25
Tu Marcellus eris (Tolosa, Musée des Augustins) per il salone
Maestri di Brera (1776-1859), catalogo della mostra a cura di A.M. Brizio, M. Rosci e AA.VV., Milano 1975; F.
Mazzocca, C. Ferri in AA.VV., Le raccolte storiche dell’Accademia di Brera, a cura di G. Agosti e M. Ceriana,
Firenze 1997, pp. 9-23.
26
Sulla fortuna dello scultore a Roma e le diverse versioni del fregio si rimanda a Bertel Thorvaldsen 1770-1844
scultore danese a Roma, catalogo della mostra a cura di E. di Majo, B. Jornaes, S. Susinno, Roma 1989.
27
S. Grandesso, La vicenda esemplare di un pittore “neoclassico”: Gaspare Landi, Canova e l’ambiente erudito
romano, in “Roma moderna e contemporanea”, X, n. 1-2, gennaio-agosto 2002, pp. 179-203; Gaspare Landi, catalogo
della mostra (Piacenza-Roma) a cura di V. Sgarbi, Milano 2004.
11
dell’imperatrice, il visionario Sogno di Ossian (Montauban, Musée Ingres) per la
camera da letto dell’imperatore e,
con la scena ritmata
come un “trionfo” di
Mantegna, il Romolo vincitore di Acrone (Parigi, Ecole Nationale Supérieure des
Beaux-arts) destinato agli appartamenti dell’imperatrice, a fare intravedere un
diverso, ma quanto praticabile, futuro della pittura di storia oltre le convenzioni
dell’ormai troppo codificato linguaggio davidiano.
Altre, ma quanto differenti, suggestioni in questo senso caratterizzano il magnifico
apparato decorativo con cui Appiani creava la nuova immagine del Palazzo Reale di
Milano dove, al di là dei vincoli celebrativi, rilanciava il fascino della mitologia e
dell’allegoria come l’irrinunciabile sistema di simboli preposti a ridare un senso
all’umana esistenza e tutelare, dall’ingiuria dei tempi, i valori della bellezza. Un’
opera diventata subito leggendaria come l’ Apoteosi di Napoleone e gli altri interventi
del pittore “cesareo” (in un ruolo speculare dunque a quello dell’amico il poeta
Vincenzo Monti apologeta del Bonaparte) nella “Reale abitazione di una corte piena
di genio e di gusto per lo splendore e la magnificenza” autorizzavano l’impegnativo
giudizio di Cicognara -precedente di un anno a quello su cui concorderanno Canova e
lo stesso imperatore- per il quale “è indubitato che l’Europa non ha tra i viventi un
artista che meglio riesca nella pittura a fresco del signor cav. Andrea Appiani”, il
“pittore della grazia” identificato come il moderno Correggio per la “vaghezza del
suo colorito, il succoso della sua tinta, l’accordo mirabile, l’impasto e la fusione
oleosa” tali da produrre un vero “effetto di magia”. Perduti quegli affreschi queste
qualità tutte pittoriche le ritroviamo nel Parnaso che, eseguito nel 1811 nella Villa
ora Reale edificata alla fine del Settecento da Leopoldo Pollack per Ludovico di
Belgiojoso, assegnava definitivamente ad Appiani, anche per il collegamento
iconografico all’omonimo affresco manifesto di Villa Albani, il seggio lasciato
vacante da Mengs. Lo stesso poteva valere per i suoi ritratti davvero insuperabili nel
riuscire a condensare in un volto la vita e catturare l’anima dei protagonisti della
28
L’ombra di Core. Disegni del fondo Palagi della biblioteca dell’Archiginnasio, catalogo della mostra a cura di C.
Poppi, Bologna 1989; Pelagio Palagi pittore, catalogo della mostra (Bologna) a cura di C. Poppi, Bologna 1996.
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frenetica storia di quegli anni. Immagini indimenticabili, percorse come ancora ci
appaiono fa furori ideali, intellettuali ed esistenziali, fermati da pennellate rapide e
luminose come colpi di pastello in stupefacenti risoluzioni di non finito che proprio
David saputo apprezzare. La stessa sprezzatura “moderna” la ritrova nel perduto
capolavoro dove Appiani dava conferma della sua straordinaria libertà espressiva.
Nei Fasti di Napoleone, la lunga fascia monocroma appesa lungo il ballatoio della
monumentale Sala delle Cariatidi in Palazzo Reale a Milano per ricordare le gesta
militari e i fasti civili dei francesi “liberatori” (o “conquistatori”) dalla prima
Campagna d’Italia alla incoronazione del Bonaparte, egli recuperava, anche
attraverso le fonti incise, territori figurativi poco esplorati ma tra loro coerenti, dalle
colonne istoriate della Roma antica ai chiaroscuri di Polidoro da Caravaggio ai fregi
di Giulio Romano in Palazzo Tè a Mantova, rappresentando la stroria contemporanea
con un furore espressionistico congeniale a quella scapigliatura insubre di cui il
Bonomini delle decorazioni di Palazzo Maffei a Bergamo e soprattutto dei celebri
Macabri sarà un altro eccentrico campione.
Il ritorno alla tenica dell’affresco
assumeva invece
a Roma un significato
programmatico e una dimensione “nazionale” determinati, come precisò Giuseppe
Tambroni che incoraggiò tali imprese come la decorazione della galleria con le Storie
di Teseo realizzata nel 1813 da Palagi con la collaborazione di Hayez a Palazzo
Torlonia29, dal fatto che “se un modo di dipingere tanto sublime e durevole quanto lo
è il fresco si venisse in Italia resuscitando , si vedrebbero rivivere que’ bei tempi ne’
quali la nostra gloria oscurò anche nella Pittura quella delle altre nazioni”. Tali
ambizioni furono assecondate da Canova quando nel tra il 1816 e il 1817 ideò e
finanziò la prima grande impresa artistica del restaurato governo pontificio, affidando
ad una équipe mista di giovani pittori italiani e tedeschi, per incoraggiare un salutare
confronto tra le rispettive inclinazioni nazionali, la decorazione appunto ad affresco
delle lunette del corridoio Chiaramonti nei Musei Vaticani con la celebrazione dei
29
S. Susinno, Hayez in Palazzo Torlonia e al Vaticano: il recupero della tecnica dell’affresco. L’intervento al
Qurinale, in Hayez, catalogo della mostra a cura di M.C. Gozzoli e F. Mazzocca, Milano 1983, pp. 32-36.
13
meriti di Pio VII nel campo delle arti e della loro promozione30. E’ significativo il
comportamento di Hayez in questo circostanza, quando venne fortemente coinvolto
dal suo sostenitore Canova in questa impresa nella convinzione condivisa con l’amico
Cicognara ed espressa qualche anno prima in una sua lettera: “Oh per Dio che
avremo anche noi un pittore: ma bisogna tenerlo a Roma ancora qualche anno, e io
farò di tutto perché vi rimanga”. Ma, il giovane artista irrequieto e a questo punto
incerto su quale fosse la strada da prendere che lo avrebbe portato alla gloria, non
trovò congeniale questa pratica artistica che nel ciclo di affreschi realizzati dai
Nazareni tedeschi al Casino Massimo31 darà negli anni della Restaurazione una delle
più alte interpretazioni dello spirito nazionale romantico.
L’esito mediocre delle tre lunette da lui eseguite e le scarse prospettive offerte
dall’ambiente romano dopo la chiusura del grande cantiere del Quirinale, determinerà
il ritorno di Hayez in patria, impegnato tra Venezia e Padova, dal 1818 al 1821, in
una febbrile e assai lucrosa attività di decoratore non tanto a buon fresco, ma a
tempera svolta prevalentemente per i privati e manifestatasi in un’abile routine dove
certe formule di moda, basate sul revival pompeiano e sulla grottesca, si andavano
esaurendo in “un’eleganza fine a se stessa”32. Ma ormai gli era chiaro che il proprio
futuro d’artista non era più in commissioni pubbliche poco qualificate o in una
pratica decorativa che aveva perso lo slancio originale degli anni precedenti, ma nel
coraggio di sperimentare dipinti che, proponendo nuovi contenuti rappresentati con
soluzioni formali inedite, sappessero interpretare le tensioni ideali dei tempi. Si
profilava quindi l’affermazione di una pittura più libera ed impegnata garantita dal
collezionismo delle classi emergenti e dalla veloce dinamica del mercato artistico.
Sarà la Milano della battaglia tra i classicisti e i romantici, combattuta sulle pagine
30
U. Hiesinger, Canova and the frescoes of the Galleria Chiaramonti, in “The Burlington Magazine”, 9, 1978, pp. 656659.
31
S. Susinno, Gli affreschi del Casino Massimo in Roma. Appunti per un quadro di riferimento nell’ambiente romano,
in I Nazareni a Roma, catalogo della mostra a cura di G. Piantoni e S. Susinno, Roma 1981, pp. 369-373.
32
G. Pavanello, Hayez decoratore a Venezia e a Padova, in Hayez cit., p. 46 e tra gli altri interventi sul tema sempre G.
Pavanello, La decorazione dei palazzi veneziani negli anni del dominio austriaco (1814-1866), in Il Veneto e l’Austria.
Vita e cultura artistica nelle città venete 1814-1866, catalogo della mostra (Verona) a cura di S. Marinelli, G. Mazzariol
e F. Mazzocca, Milano 1989, pp. 259-274.
14
del “Conciliatore” e della “Biblioteca Italiana”33, a comprendere il valore del Pietro
Rossi (Milano, Pinacoteca di Brera), esposto da Hayez con grande successo a Brera
nel 1820, questo acerbo dipinto manifesto dove faceva irruzione e commuoveva un
episodio sconosciuto ai più della storia dell’Italia moderna reso con uno stile nuovo
ed assolutamente personale, perché ispirato “ciecamente –scriveva in corso d’opera a
Canova- alla verità consultando però i capi d’opera del Gio. Bellini, dei Conigliani e
dei Carpacci veri imitatori del vero”.
A Milano, dove si era trasferito già dal 1815 il vecchio amico Palagi sicuro delle
opportunità offerte dalla scomparsa dalla scena artistica di Appiani e di Bossi, Hayez
troverà l’occasione di confermare, sempre a Brera, la svolta romantica esponendovi
nel 1821 il perduto
Conte di Carmagnola mentre sta per essere condotto al
supplizio, anch’esso ispirato come il Pietro Rossi a un episodio della storia di
Venezia, ma ora amplificato dall’attualità dell’omonima tragedia manzoniana e dai
recenti eventi politici che avevano portato alla condanna dopo i moti carbonari di
quegli esponenti della aristocrazia liberale e della borghesia emergente che avevano
sostenuto i nuovi ideali romantici sulle pagine dell’ora soppreso “foglio azzurro” e si
erano contesi i quadri di Hayez sempre più lusingato da questa attenzione in una città
“dove il genio della popolazione mi fa ancora più sperare –scriveva nel 1821 a
Canova- della patria mia”.
II. 1823 – 1840. Dagli inganni della mitologia ai severi moniti della storia. La
verità del ritratto e del paesaggio
“Il n’est bruit en Italie que du tableau de ce jeune Vénitien, exposé à Milan, et qui
représente le Comte de Carmagnola allant à la mort, et recevant les derniers adieux
de sa femme et de ses filles. Il faut convenir que ce sujet intéresse plus que la Mort
d’un brigand, ou q’une Halte de pèlerines dans la campagne de Rome. Toutes les
lettres s’accordent à porter aux nues le tableau du peintre vénitien, et à placer ce
33
Per il vivace dibattito critico sui generi si rimanda alle fonti pubblicate da P. Barocchi, op.cikt.e in Scritti d’arte del
primo Ottocento cit. ; ma anche a F. Mazzocca, L’ideale classico cit.
15
jeune artiste bien au-dessus de Camuccini et de Benvenuti, peintres en grand renom,
qui, chargés d’honneurs à Florence et à Rome, voient les suffrages du public se retirer
de leurs ouvrages, comme certains grands peintres de Paris. La couleur et le clairobscur sont les parties brillantes de l’ouvrages de M. Hayez, qui est déparé par
quelques fautes de dessin choquantes. L’expresssion des personnages est vive et
profonde: on sent que ce peintre a de l’ame.” (Stendhal, Salon de 1824).
“Canova è morto; e tutte le arti si rinnovano. E’ il momento questo di tirare alla
fortuna che passa veloce. Quel diavolo che ha fatto questa musica, ha sfidato il
passato che pareva insuperabile, e ha vinto. Tutta Milano è sottosopra; e le ragazze
singhiozzano e si tormentano se han le guance rubiconde, perché Ildegonda doveva
averle pallidissime; Hayez quest’anno ha trionfato nelle sale di Brera, e lasciando
l’antichità, ha fatto il suo ingresso nel medio evo. Non si parla più d’Appiani, meno
di Bossi. Camuccini è un pedante; Benvenuti è convenzionale, Landi e Serangeli
fanno pietà; Palagi s’arrabatta nel circo per atterrare l’avversario di Venezia; ma non
ci riuscirà…” (Giuseppe Rovani, Cento anni romanzo ciclico, 1857-1858).
Tra il 1823, anno in cui Hayez si trasferiva definitivamente da Milano a Venezia e
il 1840, quando Giuseppe Mazzini lo consacrava nel suo saggio – che resta la sintesi
più illuminante sull’arte della prima metà dell’ Ottocento- sui Modern Italian
Painters34 come il pittore “vate” ponendolo a “capo della scuola di Pitgtura Storica,
che il Pensiero Nazionale reclamava in Italia: l’artista più inoltrato
che noi
conosciamo nel sentimento dell’ideale che è chiamato a governare tuti i lavori
dell’epoca”, la cui “ispirazione emana direttamente dal proprio genio” quando “il
secolo gli dà l’idea e l’idea la forma”, assistiamo ad una trasformazione davvero
epocale del sistema delle arti e della loro fruizione, determinata dalla crisi del
tradizionale modello accademico, per cui gli studi degli artisti emergenti –tanto
pittori che scultori- diventano i veri laboratori della sperimentazione. Mentre la
34
G. Mazzini, Modern Italian Painters, in “London and Westminster Review”, XXXV, 1841, pp. 363-390 (in G.
Mazzini, Scritti editi ed inediti, vol XXI, Imola 1915, pp. 293-313), su cui si rimanda a Romantici e Macchiaioli.
Mazzini e la grande pittura europea, catalogo della mostra (Genova) a cura di F. Mazzocca, Milano 2005.
16
profonda revisione dei generi pittorici, a partire da quello storico, trova destinatari
ogni volta disponibili alle nuove proposte in un collezionismo molto meno elitario
rispetto al passato, dove trovano posto accanto all’aristocrazia che si pone al passo
con i tempi banchieri, imprenditori, commercianti ma anche funzionari pubblici e
intellettuali, radicati nei tessuti urbani, o persino un calzolaio alla moda come a
Milano il celebre Ronchetti “prototipo dell’intelligenza operaja, dell’onestà plebea,
dell’espansione popolana” (Rovani). Ma l’aspetto più innovativo è che l’artista
moderno, cercando di schivare ogni condizionamento (“ dopo tanta fatica di studi
fatti, ad aver qualche merito, sdegna di fare il ciarlatano e per sé e per gli altri”,
scriveva Hayez nel 1823), trova il suo interlocutore privilegiato, ed in qualche modo
anche un garante della propria libertà, nel nuovo pubblico che ora affolla sempre più
numeroso le sale delle esposizioni, in particolar modo quelle delle rassegne annuali
organizzate anche come veri e propri appuntamenti modani ogni anno dopo la fine
dell’estate a Brera. Mentre la critica militante, che invade le riviste specializzate ma
soprattutto i giornali popolari, elabora un linguaggio nuovo svolgendo, in maniera più
o meno responsabile, un indispensabile ruolo di tramite tra l’artista e il pubblico 35.
Una svolta decisiva rispetto al primo Ottocento neoclassico e napoleonico è anche
la chiusura o comunque il progressivo esaurimento dei grandi cantieri pubblici.
Quello che conserva invece una straordinaria vitalità, dimostrando anzi uno slancio
che ne fa il baluardo dell’impegno mecenatizio di uno stato e il presidio della
tradizione classicista messa dappertutto in crisi dall’offensiva romantica, è Palazzo
Pitti. Gli ancora celebrati campioni di un linguaggio pittorico che rilancia, con una
certa potenza visionaria, le severe suggestioni del genere eroico, ripercorrono i
territori epici di un sublime mitologico, reso in maniera più convenzionale da
Benevenuti, ancora onnipotente professore di pittura all’Accademia fiorentina, nelle
sue Storie d’Ercole, ravvivato invece da un vero furore michelangiolesco nelle scene
dell’Iliade affrescate, insieme al figlio Francesco, da Luigi Sabatelli che, pur non
35
Ai diversi aspetti di questo nuovo tipo di letteratura artistica è stato dato grande rilievo nelle due antologie, uscite
insieme nel 1998, di Paola Barocchi (Storia moderna dell’arte in Italia cit.) e di Fernando Mazzocca (Scritti d’arte del
primo Ottocento cit.).
17
abbandonando sino alla morte nel 1850 la prestigiosa cattedra dell’Accademia di
Brera assegnatagli nel lontano 1807, era spesso assente da Milano, lasciandovi come
supplente l’ancor giovane Hayez avviato a dominare sempre più la scena.
Il veneziano riconfermava la sua rivoluzione romantica, passando dal messaggio
civile della prima versione dei Vespri siciliani (Torino, collezione privata) esposto
con grande successo nel 1822, alla passione individuale e tutta contemporanea
espressa nel tema shakespeariano dell’ Ultimo bacio dato a Giulietta da Romeo
(Tremezzo, Villa Carlotta) che, dopo essere transitato con un certo scandalo a Brera
per la troppo realistica e sensuale rappresentazione della protagonista in ciabatte,
faceva irruzione in quel sacrario di Canova e della più eletta pittura neoclassica che
fu la collezione di Giovanni Battista Sommariva a Tremezzo. In un testo che
decifrerà nel 1830 i nuovi percorsi di un “bello di natura tutta nostra”, “il bello che
meglio conviene alla nostra età”, il poligrafo Defendente Sacchi, interprete sul
versante letterario e figurativo di quelle istanze della “filosofia civile” dove il suo
maestro Gian Domenico Romagnosi si era interrogato sull’identità, e le radici,
alternativamente classica e cristiana della nostra cultura, dava alla “Giulietta
d’Hayez” il valore di un simbolo: “(…) non è certamente la Venere, non è la donna
antica o de’ tempi nostri, è bella, ma bella dell’amor suo, dolce ti piove in cuore a
riguardarla una vaghezza che ti annunzia essere l’ideale de’ suoi tempi. Romeo non è
né l’Antinoo, né l’Apollo, eppure è con desio considerato dalla femminile curiosità il
fiore de’ prodi e degli amanti: tale pure ne apparve Tancredi in un quadro in cui è
presentato il battesimo di Clorida, tali le donne che vidimo sì avvenenti al seguito
dell’Eremita Pietro”. Anche se non aveva abbandonato come la pittura la “rancida
mitologia” (Mayer) “caro pascolo agli occhi cisposi de’ nostri bisavoli” (Sacchi), la
scultura, “rigenerata da Canova, prosegue sempre in meglio, e ne abbiamo esempio
nelle opere insigni di Thorwaldsen a Roma, di Marchesi in Lombardia. Vivendo
ancora Canova, ne ricorda avere visto nello studio del Danese una Venere, che da
molti intelligenti poneasi a petto a quelle del maestro, sebbene diversa di forme: ciò
seguiva perché quella Venere avea un carattere di bello non greco, ma quale meglio
18
conveniva a’ tempi nostri. Tale è il bello impresso nel trionfo di Alessandro, e nella
magnifica statua del Salavatore”36.
I percorsi dell’ideale classico e dei valori cristiani, espressi nei due capolavori dello
scultore danese, si intrecceranno anche nella straordinaria operatività, richiesta in
tutta Europa, di Pompeo Marchesi, ma soprattutto di Pietro Tenerani destinato ad
essere riconosciuto come il vero erede di Canova e di Thorvaldsen, di cui in realtà era
stato allievo e collaboratore, sino alla consacrazione, in un saggio lui dedicato nel
1846 da Pietro Selvatico, come “luce prima, non forse della italiana soltanto, ma di
tutta la scultura presente”. Come a ribadire quel primato italiano in un’arte che, a
differenza della pittura, continuerà per quasi tutto il secolo a essere esportata, dagli
studi non solo di Roma ma anche della Firenze di Lorenzo Lorenzo Bartolini e
Giovanni Duprè o della Milano di Marchesi e Benedetto Cacciatori, nel mondo. La
Giulietta di Hayez trovava il suo equivalente plastico nella celebre Pische
abbandonata dove Tenerani, pur nel vincolo della figura mitologica, aveva saputo
esprimere il tema universale della fine di un amore, e soprattutto il “dolore (…)
dolore di amori sfortunati” , scriveva nel 1826 Giordani in un testo destinato all’
“Antologia” di Vieusseux che assumeva il valore di un vero manifesto romantico,
“ma non di Arianna disperata, non di Medea furiosa, non di Fedra tiranna: bellezze
arroganti che dalla vita impararono l’offendere, e non il sopportare le offese”. Sotto il
velo mitologico veniva adombrata quella condizione della donna moderna riscattata
dalla sofferenza, come nell’Ermengarda o nella Lucia manzoniane.
Un’altra spia di questa affinità di percorsi tra le arti la ritroviamo ancora nell’
“Antologia” di Vieusseux, ormai divenuta dopo la chiusura del “Conciliatore” la
palestra degli spiriti liberi che vi mandano i loro articoli da Milano o da Venezia. Nel
1825 proprio un lombardo Giuseppe Montani,
che rifugiatosi a Firenze
era
diventato una vera colonna della rivista, recensendo significativamente il Sermone
sulla mitologia di Monti, gloriosa bandiera di quanti non si volevano arrendere al
36
D. Sacchi, Intorno all’indole della letteratura italiana nel secolo XIX, ossia della letteratura civile, con un’Appendice
intorno alla poesia eroica, sacra e alle belle arti, Pavia 1830, cit. in Scriti d’arte cit., pp. 135-136.
19
declino della tradizione classica, affiancava ai “piccoli quadri di Hayez” e ai
“quadretti del Migliara”, cioè ai nuovi esiti della pittura storica, ridimensionata anche
nei formati
rispetto alla magniloquente monumentalità dei dipinti neoclassici
d’impronta davidiana, e della pittura di genere per cui Defendente Sacchi coniava la
formula di “pittura urbana”, il gruppo statuario della Carità Educatrice di Bartolini,
allegoria moderna di una virtù domestica che “dà insieme la vita dell’intelletto, e
pensa visibilmente ad una strada nel cielo, a cui non si pensava. Così i progressi della
ragione si manifestano in rappresentazioni quasi identiche, ma di un genere ben
diverso dall’antico. Questo genere, a cui si ritorna da alcuni pochi per riflessione, era
stato abbracciato dai nostri vecchi artisti come per istinto. Quindi si erano essi aperta
la via a nuove cose, che in un’epoca di gusto perfezionato avrebbero prodotto ben
altro effetto sui nostri animi che le ripetizioni di soggetti mitologici trattati dai
greci”37.
La pittura che aveva bandito “finalmente le Veneri, gli Adoni, gli Amori, le
Minerve, le Psiche, e i Ganimedi, le barbe venerande o spaventose di Giove e di
Plutone, in fine tutte le pazze e laide avventure della mitologia”38 dal “savio” corso
del nuovo genere storico, ne recuperava alcune tematiche in una sorta di pittura
dimostrativa di cui il campione fu Hayez. E’ la stagione che si dilata al di là del terzo
decennio, quando ormai campione riconosciuto della Scuola romantica cui la critica
conservatrice e il pubblico bempensante continuavano a contestare le effrazioni ai
canoni della bellezza ideale, egli utilizzò le tipologie più consuete e richieste da un
collezionismo disimpegnato, temi come Ajace, Maddalena, Venere, Betsabea, Lot e
le figlie, Bagni di Ninfe da cui discenderà tra gli anni trenta e quaranta la superba
routine delle Bagnanti, Harem, Odalische, per ribaltarne le tradizionali associazioni
formali in provocazioni naturalistiche dove i superbi nudi femminili trionfano come
brani di realtà e di splendore formale –il vertice assoluto raggiunto dalla nostra pittura
37
G. Montani, La mitologia, sermone del Cav. Vincenzo Monti. Genova e Milano 1825, in “Antologia”, XX, 1825, cit.
in Scritti d’arte cit., p. 126.
38
D. Sacchi, Esposizione delle Belle Arti al Palazzo di Brera a Milano nel 1829, in “La Minerva Ticinese”, XXXIX,
1829, p. 660 (poi in D. Sacchi, Un provinciale a Milano. Visita allo studio di Hayez, in Miscellanea di lettere ed arti,
Pavia 1830, p. 155 e in Scritti d’arte cit., p. 429).
20
in quegli anni- sotto le insegne degli adorati Tiziano, Giulio Romano, Guido Reni,
Cagnacci. Mentre nei suoi dipinti storici sperimentava un linguaggio figurativo che
si facesse
espressione dell’identità nazionale, come riconoscerà la critica
“democratrica” tra Defendente Sacchi e Mazzini. I capolavori della maturità, tra il
Pietro l’Eremita del 1826-1829 (Milano, collezione privata) e i Profughi di Parga
del 1826-1831 (Brescia, Civici Musei) , vivevano nella nuova dimensione della
cosiddetta “pittura civile”, dove all’eroismo individuale dominante nei quadri
precedenti subentrava una dimensione corale dove veniva data voce al “popol
disperso” identificato, dando ad ognuno la sua identità, nel respiro di ampi spazi
naturali. Dimensione articolata in un’ampia orchestrazione compositiva dove, rispetto
alle asprezze neoquattrocentesche e ai trascinanti richiami tizianeschi dei primi anni
venti subentravano le suggestioni da
Paolo Veronese e Bassano giovane. La
sensazione che una nuova stagione si fosse aperta diventava sempre più diffusa, come
in una lettera del 1828 di Stendhal, cui Hayez sembrava, come già aveva dichiarato
nel Salon de 1824, “rien moins que le premier peintre vivant. Ses couleurs réjouissent
la vue comme celles du Bassan et chacun des personnages montre une nuance de
passion. Quelques pieds, quelques mains sont mal emmanchés. Que m’importe!
Voyez la Prédication de Pierre l’Ermite, que de crédulité sur ces visages! Ce peintre
m’apprend quelque chose de nouveau sur le passion qu’il peint”.
In questa coinvolgente scrittura pittorica, per cui anche lo Schorn aveva sottolineato
che “vi si ravvisa il foco col quale l’artista lo gettò sulla tela, e nell’esecuzione
sembra che ogni colpo di pennello abbia il suo valore, giacché di potrebbe dire che è
più scritto che dipinto”39 e Mazzini ribadirà come egli dipinga “rapido e sicuro
qualche schizzo, che non si cura di conservare, gli basta per mettersi all’opera: non ha
l’abitudine di preparare un impasto generale di colori, per ripassare su di esso con
altri sfumati diversamente; cambia, ad ogni colpo di pennello, le sue tinte sulla
39
L. Schorn, Kunst-Austellung in Mailand im Jahr 1822 (articolo estratto dal n.97 del Gionale delle arti Kunst-Blatt
che si pubblica a Stuttgart, in “Biblioteca Italiana”, XXXVI, p. 174.
21
tavolozza”40, risalta l’originalità dell’artista che appassiona proprio per la sua libertà
rispetto alle regole e alle convenzioni accademiche.
Per sottolineare l’attualità e il valore esemplare dei temi trattati, il pittore storico era
solito prestare ai protagonisti dei suoi quadri le sembianze di amici o dei committenti
o di persone allora note. In Hayez, che vi ha quasi sempre inserito anche la propria
immagine come a sottolineare un forte coinvolgimento personale, questi ritratti in
vesti storiche, che ricordano per certi versi gli attori in scena o i partecipanti ai balli
in maschera per i cui costumi sappiamo che venne spesso richiesta la consulenza,
vanno confrontati con quelli bellissimi, destinati come nel caso della principessa
Belgiojoso o di Manzoni o della ballerina Carlotta Chabert rappresentata nella
provocante nudità di una Venere moderna a diventare emblemi di un’epoca, dove il
genere riprendeva nuovo slancio. Rispetto alla sfortuna della pittura storica
recentemente rivalutata, la reputazione novecentesca di Hayez, come di altri pittori
storici, fu affidata proprio ad una ritrattistica dove poteva reggere il paragone con
Ingres e gli altri maestri europei. Oggi il recupero filologico e la contestualizzazione
di questa produzione41 ci consente di inserirla in un percorso scandito dal confronto
prima con Palagi, contemporaneamente rivale anche sul versante della pittura storica,
e poi con Molteni indiscusso mattatore nella formula da lui introdotta e portata al
successo del “ritratto ambientato” o “istoriato” per cui la sua fama oltrepassò i confini
nazionali, consacrata dall’inviato parigino de “L’Artiste”, ammirato dagli “effets
piquants et neufs” che possono far “ressortir les figures sur un fond de draperies
blanches” o “à reflet presque entièrenent dans l’ombre”42.
III. 1841-1859. Dall’ideale al vero nei nuovi percorsi della pittura storica, del
paesaggio e del ritratto.
“”Tutte le parti della Natura, o belle o deformi, hanno la medesima difficoltà per
copiarsi –sì signore! E io non ho mai inteso di prendere un Gobbo per modello di
40
G. Mazzini, Modern Italian Painters cit., p. 300.
F. Mazzocca, Francesco Hayez. Catalogo ragionato, Milano 1994.
42
Italie Moderne. Les Artistes Lombards, in “L’Artiste”, I, 1843, pp. 369-370.
41
22
proporzioni né di regolare bellezza, ma ho voluto assuefare lo scolaro a rendersi
padrone di quello che vede, senza sistemi e senza il pregiudizio dell’Idealismo, onde
possa estrarre dalla Natura le parti adatte al suo soggetto mediante la scelta del bello
naturale, che si acquista con l’esperienza ed esaminando le opere di que’ sublimi
ingegni che più si sono a quella avvicinati: scelta bellissima senza il soccorso
dell’Idealismo che la riduce simili alle convenzioni architettoniche.” ( Lorenzo
Bartolini, lettera sul “Gobbo” al “Giornale di Commercio” del 1841)
“Ma la pittura ha un uffizio più elevato che non è quello di riprodurre materialmente
la natura senza concetto , senza morale significazione. Quel che cercasi nei quadri,
prima ancora dell’esecuzione materiale, è l’espressione, è l’eterno tipo della bellezza
morale, che l’artefice non trova nella tavolozza, ma solo nell’anima e
nell’intelligenza. Se si toglie all’arte questa sua ingenita potenza, l’arte perderà il suo
scopo, la sua efficienza” (Carlo Tenca, Esposizione di Belle Arti nell’ I.R. Palazzo di
Brera, in “Rivista Europea”, 1845)
Tra la celebre polemica del 1841 sul “gobbo” collocato da Bartolini sul pancone
dell’Accademia di Firenze43 e la presentazione a Brera nel 1859 del Bacio in cui
Hayez, chiudendo definitivamente la stagione romantica, si interrogava all’alba
dell’Unità nazionale sui destini della nazione nata dal Risorgimento, se non ad una
vera e propria crisi del genere storico, si verifica
un suo profondo travaglio,
determinato anche dagli eventi politici, come il fallimento dei moti mazziniani nel
1831 e la drammatica sconfitta del 1848-1849 quando tanti giovani artisti provenienti
da ogni parte d’Italia si ritrovarono a difendere la Repubblica Romana, ma soprattutto
dalla sua maggiore difficoltà a rispondere alle istanze del “vero” che ora apparivano
meglio interpretate dai generi, fino ad allora ritenuti subalterni e ora rivalutati
soprattutto alle esposizioni, come il ritratto, il paesaggio e la cosiddetta pittura di
genere. Questo ventennio di sperimentazioni si riflette nell’ampiezza di un dibattito
43
Su quel dibattito si veda la dettagliata documentrazione e le fonti riproposte da E. Spalletti, in Lorenzo Bartolini.
Mostra dell’attività di tutela, catalogo della mostra (Prato) a cura di S. Pinto e E. Spalletti, Firenze 1978, pp. 136-144.
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critico, ora variamente ricostruito44, saldamente impostato nelle linee che seguirà dal
fondamentale volume Sull’educazione del pittore storico odierno italiano pubblicato
a Padova nel 1842 da Pietro Selvatico45 che, capofila dello schieramento cattolico e
purista,
auspicava, in polemica contro le sterili convenzioni dell’insegnamento
accademico, una sorta di ritorno all’apprendimento concreto delle botteghe medievali
e il modello di un’ “arte cristiana” quale emergeva dalle teorie di Alexis-François Rio
divulgate dal lombardo Cesare Cantù. Partendo, come il laico Mazzini, dalla
polemica contro l’individualismo romantico e la dimensione materialista dell’ “arte
per l’arte”, opponeva allo “stile” della tradizione classicista e accademica un “bello
morale” moderno che scaturisse, secondo i principi dell’estetica hegeliana,
dall’identificazione tra l’ “idea” (il concetto) e la “forma”. L’articolata analisi del
Selvatico, che oppone a un disegno convenzionale una sperimentazione che possa
restituire la varietà e la relatività del “bello naturale”, ha un forte spessore figurativo
(in un panorama critico ancora troppo legato ai contenuti), quando sottopone ad una
diagnosi impietosa tutte le regole del chiaroscuro, del colore, della luce, della
composizione “piramidata”, denunciando l’abuso del manichino e la teatralità della
pittura storica romantica unendosi a Niccolò Tommaseo nel “ribrezzo della pittura
pantomimica”. All’ imitazione del “vero esteriore”, delle statue antiche o delle “altrui
maniere” (“A Venezia vedete crescere sempre più gli schiavonisti, a Milano gli
hayezisti,a Roma i podestisti ec. ec.”), contrapponeva un “vero morale”, per cui più
che nuove proposte espressive, a parte la riflessione sui “Primitivi” e i percorsi
possibili di una grande “arte cristiana”, valeva lo “scopo morale nella scelta dei
soggetti”, ispirati soprattutto al Medioevo e alle vite degli uomini illustri.
Ma soprattutto la pittura storica doveva convertirsi alla rappresentazione della “vita
domestica dei nostri padri”, quella “vita intima delle famiglie di cui tacciono molti
storici”. Di qui il passo era breve alla affermazione di una nuova pittura di genere, di
44
Oltre a P. Barocchi, Storia moderna dell’arte cit. e agli Scritti d’arte del primo Ottocento cit., si rimanda a F.
Bernabei, C. Marin, Critica d’arte nelle riviste lombardo-venete, 1820-1860, Treviso 2007. Mentre sui due maggiori
protagonisti: C. Tenca, Scritti d’arte (1838-1859), a cura di A. Cottignoli, Bologna 1998; V. Scrima, Giuseppe Rovani
critico d’arte, Milano 2004.
45
E’ ora disponibile la rispampa anastatica (Pisa 2007) con postfazione e indici a cura di A. Auf der Heyde.
24
cui Selvatico fu fervente sostenitore, ispirata al sentimento religioso, “da cui soltanto
si originava l’impulso di ogni ordinamento civile”, e alla ideologia della famiglia in
opposizione a un “iniquo socialismo, da cui vorrebbero scardinate le base più solide
della società”. Al “volgarissimo vero” del realismo della tradizione fiamminga
contrappone le istanze di un’ “umile poesia didascalica”, dove i piccoli temi tratti
dalla vita domestica si nobilitino ad espressione delle umane sofferenze, valorizzando
le miserie della vita e svelando le ingiustizie sociali. Ritraendo gli esempi della
“insigne cariktà cristiana”, si potrà così creare un repertorio di “avvenimenti che
rivelano quanto v’è di onorevole nello stato morale e nelle pendenze dell’età nostra.
Così i pittori sarebbero sicuri di ridestare nel pubblico l’illanguidito amore per l’arte;
giacché (è vano il negarlo) l’uomo meglio pregia i prodotti di questa, quanto meglio li
vede rappresentare azioni contemporanee poste in accordo co’ sentimenti e co’
desideri suoi”.
Insidiata nell’interesse del pubblico dal successo della pittura di genere, la pittura
storica seguiva, dopo l’esaurimento della “pittura civile” di Hayez ormai lontano e
irraggiungibile nella superba sperimentazione fromale delle mezze figure femminili
che con la serie della Malinconia e della Meditazione finivano con farsi interpreti del
“tedio” di vivere, percorsi diversi tra il prevalere delle preoccupazioni pedagogiche
nella Firenze dove Giuseppe Bezzuoli celebrava in opere di dimensioni monumentali
i fasti della storia patria o illustrava le gesta dei personaggi della Commedia dantesca,
mentre tra il 1834 e il 1837 gli appartamenti granducali della Meridiana di Palazzo
Pitti vedevano un epocale ricambio rispetto alla mitologia e all’epica classica delle
decorazioni precedenti con il ciclo di affreschi di Niccola Cianfanelli dedicati ai
Promessi Sposi46 . Nella Roma pontificia la grande tradizione accademica, che
aveva denunciato da subito i pericoli del Romanticismo lombardo, affiancava ad una
lunga sopravvivenza, tra le pareti del Casino Massimo e quelle delle dimore Torlonia
in particolare la grandiosa villa sulla Nomentana, dell’affresco l’elaborazione
46
F. Mazzocca, Quale Manzoni? Vicende figurative dei Promessi Sposi, Milano 1985, pp. 47-67.
25
soprattuto da parte dell’anconetano Francesco Podesti47 di un modello esportabile tra
la Lombardia, dove tra Milano e Brescia ebbe un certo successo, e la Torino sabauda
dove il cantiere delle nuova reggia allestita da Palagi, promosso al ruolo di artista di
corte, vedrà convergere, negli anni di Carlo Alberto nel corso soprattutto del quinto
decennio, in una importante occasione di confronto con la scuola locale su cui si
imponevano Massimo d’Azeglio, Ferdinando Cavalleri, Pietro Ayres e Francesco
Goni, pittori che si erano affermati tra Roma
(lo stesso Podesti e Francesco
Coghetti), Milano (Hayez, Molteni e Carlo Arienti) e Firenze (Bezzuoli). Ne risultò,
fatte le eccezioni di Hayez e Arienti, un linguaggio omologato, che si proponeva a
modello di una pittura nazionale, e ormai consolidato
nelle sue accademiche
convenzioni denunciate da Selvatico.
La svolta sperimentale che rinnovava tra la seconda metà degli anni trenta e gli
anni cinquanta il corso della pittura storica venne da un’opera leggendaria, anche per
le dimensioni sterminate e il tema affrontato, accolta nella sua trionfale tournée
europea (prima di Parigi venne esposta nel 1833 a Milano destandovi come e più
d’altrove una enorme impressione) come il manifesto di un secondo Romanticismo.
Nell’ Ultimo giorno di Pompei di Karl Pavlovic Brjullov la storia, che era e
continuava ad essere subordinata alle istanze pedagogiche e documentarie della
pittura civile, riacquistava ora tutti i suoi diritti a rappresentare i lati più oscuri delle
vicende dell’umanità, come in questo caso la fine di una civiltà proiettata, dal punto
di vista visivo, in un violento “panorama emozionale” e affidata a un’audace
sperimentazione formale tra finito e non finto, mai prima tentata se non dalla più
estrema avanguardia romantica francese, tra Géricault e Delacroix. Al seguito del
grande russo, portavoce di questa crisi del Romanticismo storico furoni i lombardi
come Carlo Arienti, Enrico Scuri, Pasquale Massacra, Giacomo Trécourt, Cherubino
Cornienti che si cimentarono in iconografie alternative rispetto ai temi eroici del
primo Romanticismo, rievocate da zone della storia o della memoria colletiva ancora
47
Francesco Podesti, catalogo della mostra (Ancona) a cura di M. Polverari, Milano 1996.
26
inesplorate, rese con una maggiore attenzione agli effetti del naturale e alla possibilità
di ridefinizione luminosa del chiaroscuro.
In questo ambito si affermava, in un percorso solitario fuori del giro delle
esposizioni e del grande collezionismo milanese, il genio irregolare di Giovanni
Carnovali detto il Piccio, esaltato dalla critica tra le due guerre per il suo respiro
europeo, quando sulla scorta di un indocumentabile viaggio a Parigi lo si confrontava
con Delacroix e la scuola di Barbizon, e per il suo anticipo, difficile a provarsi, dei
percorsi eccentrici di Federico Faruffini e della Scapigliatura se non del Divisionismo
e di Previati, il quale in effetti ne riscoprirà la bellezza. In realtà egli arrivò,
maturando una moderna indifferenza al soggetto, nei moltissimi ritratti, nei pochi
paesaggi e in eccezionali composizioni di figura ad una rivoluzione visiva basata
sulla esasperazione dei rapporti tonali e l’intercettazione della luce, avendo “superato
–come scrisse l’amico Trécourt unico a comprenderlo- una delle più grandi difficoltà
che l’arte presenti; quella cioè di far rilevare gli oggetti senza la risorsa delle ombre;
stante che in una scena rappresentata nel mezzo di un’aperta campagna, eccettuate
quelle parti più o meno sfondate in cui la luce viene a essere intercettata o dove possa
ricevere qualche sbattimento, ombre propriamente dette non vi possono essere, bensì
il gioco di una luce prevalente sull’altra”.
Questo brano straordinario, ricordando che Piccio lavorava spesso en plair air
sulle rive dell’Adda, ci rimanda ai percorsi del paesaggio 48 che, in questa prima metà
del secolo, vedono una progressiva fortuna del genere nel mercato, nelle esposizioni e
nel recupero dei clienti del Grand Tour, e la sua trasformazione, attraverso varie
declinazioni, da quello sublime del piemontese Bagetti, alla consapevolezza
topografica e antropologica del territorio in Gozzi e Basiletti, alla straordinaria libertà
atmosferica con cui la Scuola di Posillipo recuperava le più avanzate sperimentazioni
del vedutismo tardosettecentesco, al paesaggio storico di d’Azeglio, formula di gran
48
AA. VV., La pittura di paesaggio in Italia, a cura di C. Sisi, Milano 2003; Paesaggi. Pretesti dell’anima. Visioni ed
interpretazioni della natura nell’arte italiana dell’Ottocento, catalogo della mostra (Pavia) a cura di Carlo Sisi, Milano
2004 .
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moda nella prima metà degli anni trenta49, alla interpretazione del paesaggio come
stato d’animo con cui il vedutismo sentimentale di Giuseppe Canella, formatosi tra la
Spagna, l’Olanda e la Francia nel transito da Carlo X a Luigi Filippo, riusciva a
misurarsi con quell’identità lucida e insieme commossa rivendicata da Manzoni ai
cieli di Lombardia, alle “catene non interrotte di monti”, alle rive scarruffate
dell’Adda. Dalla costola della “pittura urbana” di Migliara e dei panorami parigini di
Canella, dove la vita moderna della metropoli scorreva lungo le rive e i ponti della
Senna, dovevano nascere le straordinarie vedute dei navigli di Angelo Inganni che,
facendovi professione di realismo romantico, contrappose appunto ai fasti della città
monumentale l’aspetto umile e feriale di questa Milano minore dove le vecchie case
si riflettevano nelle acque e la vita scorreva silente, ancora cadenzata da ritmi antichi.
Rispetto alla tradizione prospettica precedente e a Migliara, la sua visione non sembra
seguire una direttrice uniforme lungo l’asse del canocchiale ottico, ma preferisce un
percorso a zigzag, per mettere meglio in evidenza il fascino di ogni singolo angolo ed
infine rivelare le lontananze panoramiche con una intensità atmosferica che ricorda
Bellotto.
L’avanguardia più avanzata del paesaggio romantico trovò un eccezionale
interprete, anche per il suo ruolo di protagonista nelle vicende del Risorgimento, in
Ippolito Caffi che cercò anche in occasioni storiche, dalla resistenza a Roma e
Venezia nel 1849 (quando rappresentò le due città sotto i bombardamenti)al fatale
scontro di Lissa –nelle cui acque troverà la morte-, nuove emozioni. Fu l’insuperabile
maestro, che si confrontò per primo con il mezzo fotografico, delle vedute ad effetto,
sia nelle angolazioni panoramiche che nella predilezione per determinate situazioni
atmosferiche, in particolare i notturni dove al chiaro di luna si contrapponeva la luce
artificiale anche quella della nuova illuminazione a gas. La critica fu subito colpita
dai suoi quadri “arroganti”, “arditi e originali” che “sfidano” le normali abitudini
visive: “(…) egli è impetuoso dell’eseguire come nell’inventare, non dubita mai,
getta i colori come la cosa non lo riguardasse(…)”, dividendo il “suo tempo fra Roma
49
Massimo d’Azeglio e l’invenzione del paesaggio istoriato, catalogo della mostra a cura di V. Bertone, Torino 2002.
28
e Venezia”, ma non “escava tra le rovine di Roma onde pesare la polvere dei secoli
passati; egli non frequenta le vie più deserte, non getta il bastone ne’ nostri canali, per
iscandagliare quanto fango vi sia; invece dipinge le nostre chiese e i nostri palazzi,
come li vede, risuscita le feste, il carnovale e le maschere. E spande allegria a piene
mani”50.
La pittura strorica insidiata dalla fortuna popolare dei generi “minori”, ritrovava,
dopo la crisi ed il travaglio sperimentale degli anni quaranta, un nuovo slancio nel
corso del cosiddetto decennio di preparazione, gli anni cinquanta che videro artisti di
diversa estrazione, ma che avevano saputo confrontarsi tanto a livello nazionale che
sulla ribalta europea viaggiando ed aggiornandosi, sperimentare un linguaggio che
potesse diventare comune e proporsi come interprete di una finalmente conquistata
identità italiana. Le proposte più mature coincidono, e il fatto non sembra casuale,
con l’ Esposizione Universale di Parigi del 1855 divenuta una grandiosa occasione
per confrontare le opere migliori inviate dagli artisti attivi nei diversi stati in cui era
divisa la penisola. In questo giro di boa compaiono, tutti nel 1855, i monumentali
Funerali di Tiziano del torinese Enrico Gamba, dove la celebrazione patriottica degli
uomini illustri viene declinata in un sontuoso linguaggio accademico di gusto
internazionale; Eudoro e Cimodoce del toscano Luigi Mussini, diventato capofila di
quella nuova arte cristiana e nazionale sostenuta dagli sforzi teorici di Selvatico cui
però le componenti ingresiane di questo superbo purismo accademico non piacquero;
ed infine, il dipinto destinato a creare una nuova koinè nell’Italia postunitaria, Gli
Iconoclasti di Domenico Morelli presentati alla mostra borbonica del 1855 e
nuovamente alla prima Esposizione Nazionale di Firenze nel 1861. Il tema della
“persecuzione delle immagini” e del “martirio mortale nella distruzione delle opere
d’arte sotto gli occhi dell’artista” appariva, rispetto all’arcadia cristiana di Mussini e
alla retorica nazionalista di Gamba, di un’attualità sconvolgente che dava a questa
50
Si tratta della precoce testimonianza di Pier Murani su “Il Gondoliere”, cit. da F. Mazocca in Il Veneto e l’Austria cit.,
p. 69
29
potente evocazione allegorica ambientata nel Medioevo bizantino51 un significato
patriottico, ricolllegandola a quella “filosofia della storia, patrimonio tradizionale
della cultura meridionale che troppo di rado fu dato alla Napoli dei Borboni, e ancora
meno dopo, di tradursi in linguaggio figurativo”52.
L’avvertimento rivolto
bruscamente all’artista da re Ferdinando II, quando vide il quadro esposto al
pubblico, di “Nun fa’ a pittura con cierte penziere a dinto!”, sembra sia stato accolto
nella cultura figurativa dell’Italia unita dove il genere storico, riannodati i fili con
l’Accademia, assumeva sempre più finalità celebrative strumentalizzato dalla
propaganda laica della monarchia sabauda.
51
F. Mazzocca, L’immagine del Medioevo nella pittura di storia dell’Ottocento, in AA.VV, Arti e storia nel Medioevo.
Volume quarto: Il Medioevo al passato e al presente, a cura di E. Castelnuovo e G. Sergi, Torino 2004, p. 623.
52
S. Pinto, op.cit, p. 957