Numero Luglio/Agosto `09

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Numero Luglio/Agosto `09
Luglio/Agosto '09
a cura di Federico Guglielmi e Aurelio Pasini
Numero Luglio/Agosto '09
Numero Luglio/Agosto '09
EDITORIALE
Con l’arrivo dell’estate anche “Fuori dal Mucchio”, come sempre, si appresta ad andare in
vacanza. E, visto che il numero di luglio deve servire anche per agosto, ecco che vi abbiamo
preparato un sommario ancora più ricco del solito: trenta recensioni (più una nello spazio
“Dal basso”), dieci interviste e tre report. In particolare è su questi ultimi che vorremmo
attirare la vostra attenzione, visto che riguardano tre festival, diversi tra loro ma accomunati
dall’entusiasmo degli organizzatori e dalla qualità della proposta. E se, come si dice, tre
indizi fanno una prova, le manifestazioni in questione – e altre simili, di cui non abbiamo
potuto occuparci – ci forniscono l’immagine di una scena rock tricolore non soltanto
estremamente prolifica, ma anche vivace e creativa più che mai.
È con questa (bella) immagine negli occhi che ci congediamo in vista del meritato riposo,
per poi ritrovarci tutti qui, a settembre, pronti ad affrontare insieme una nuova stagione
all’insegna del rock – in senso lato, naturalmente – italiano.
Buone letture, allora, buoni ascolti e buone vacanze.
Aurelio Pasini
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Fuori Dal Mucchio è a cura di Federico Guglielmi e Aurelio Pasini - online at http://www.ilmucchio.it
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Francesco Forni
Francesco Forni, 36enne di nascita napoletano, romano d’elezione, esperienze nel teatro e
nelle colonne sonore e nel Collettivo Angelo Mai, ha dato da poco alle stampe il suo esordio
discografico “Tempi meravigliosi” (Blue Venom/Self). Un lavoro pregevole intriso di blues,
folk, cantautorato a metà strada tra la scuola romana, Jeff Buckley e Jimi Hendrix, del quale
viene riproposta una versione unplugged di “Voodoo Child“.
Chi è Francesco Forni? E cos’ha fatto prima di “Tempi meravigliosi”?
Sono da molto tempo chitarrista e compositore. Ho partecipato a tanti progetti, e sempre
portato avanti la mia musica. Lavoro con il teatro, il cinema e attualmente scrivo e realizzo la
colonna sonora per uno show televisivo canadese. È un ruolo che amo, l'ho sempre amato
anche prima quando ero dalla parte dell'ascoltatore.
So che hai iniziato a cantare molto più tardi di aver scoperto la passione per la
musica. Come mai? E com’è avvenuto?
Pudore, sfiducia e una brutta voce. Il primo l'ho vinto con il teatro, la seconda con la
caparbietà, la terza con un'operazione al setto nasale che mi ha liberato il respiro e dato la
possibilità di educare la voce.
Sebbene tu sia napoletano, c’è tutta una scena romana che ruota attorno al tuo
esordio. Mi riferisco a Roberto Angelini, Andrea Pesce, Massimo Giangrande, Rodrigo
D’Erasmo, collettivo Angelo Mai, Acustimantico. Cosa individui di peculiare in questa
scena?
Essendomi trasferito a Roma per me era importante capire chi c'era, cosa proponeva e
cosa potevamo scambiarci. Quelli che hai citato sono tutti punti di riferimento per me qui a
Roma. Devo aggiungere Filippo Gatti e Pino Marino che sono tra i miei preferiti della scena
nazionale.
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A chi ti senti più vicino dei nuovi cantautori?
Non so se c'entra la vicinanza, dirò chi mi piace, oltre i nomi che dicevo prima: Cesare
Basile, Francesco Di Bella, Giorgio Canali... mi rendo conto che non sono la nuova scena...
ma oggi è difficile venire a conoscenza di nuovi cantautori, è già difficile avere notizie e
riuscire ad ascoltare quelli di cui ho parlato fin ora.
Il tono prevalente del tuo album mi pare il blues, sia come genere che come – diciamo
così – mood. La scommessa è quella di fare blues italiano, in lingua italiana. Hai
seguito in questo le orme di qualcuno in particolare?
Con “Tempi meravigliosi” ho voluto lavorare sulla canzone partendo dai testi. il blues è
passato da là, dalle parole, e in certi casi si è preso anche l'andamento e i suoni della
canzone. Credo che il motivo per cui io suoni la chitarra sia il blues... In questo senso le mie
influenze vengono tutte da fuori, e il connubio con l'italiano è stata una strada che ho
cercato, anche faticosamente, da solo.
Viviamo “tempi meravigliosi”, o “tempi di errori e complicazioni”? Che tempi canti?
Canto il tempo prima del temporale, ma anche prima del ritorno del sole. Tempi di quando
sta per succedere qualcosa e tu sei estremamente più sensibile, tutto ciò che vivi è più
intenso.
Ci parli delle tue fonti di ispirazione? Si intuisce facilmente il tuo amore per Hendrix...
Nel disco c'è “Blue Venom Bar”, un omaggio al chitarrista gitano Django Reinhardt, alla sua
musica e al potere in generale della musica di prenderti e spedirti in altri luoghi. c'è “Un
giorno qualunque”, una ballad che mi riporta al periodo di Tenco e dei cantautori della scena
genovese, “Tre metri sotto terra”, una storia che mi ricorda la scrittura di Vecchioni... Per
quanto riguarda le musiche e le sonorità, in “Tempi meravigliosi” credo di avere avuto
soprattutto influenze dal mondo anglosassone con venature sud americane e mediterranee.
Ma oltre a Hendrix, quali sono stati (e sono) i tuoi ascolti principali?
La lista è infinita... ma ai primi posti quelli che sono stati i classici per molte persone: Led
Zeppelin (ci ha rubato la prossima domanda, Ndr), Tom Waits, Pixies, Johnny Cash, Jeff
Buckley, Ry Cooder, Paul Simon, Nina Simone, Dylan, Bowie, Sylvian, Zappa, Gilmour,
Lennon...
Dopo essere giunto al fatidico debutto, che sapore provi? Sei soddisfatto, sia del
risultato che dei riscontri ottenuti?
Mi reputo un artista da performance live. Non c'è concerto o replica teatrale che non mi
emozioni e non mi dia brividi e gratifiche, così come spunti su cui lavorare meglio. Non
posso dire di provare lo stesso per l'uscita di un disco o di un film. Per me è un mezzo
“concreto” per farmi ascoltare anche quando non ci sono. non è così fredda la cosa, ma il
disco, le vendite, la distribuzione... Sono cose che non controllo e sulle quali non posso
intervenire. Dal vivo me la gioco, a fine serata so sempre se ho fatto un buon lavoro, se sono
stato insieme con il pubblico, se l'ho conquistato, se ci siamo emozionati, divertiti. Queste
cose non me le dicono le cifre delle vendite o i passaggi in TV, altrimenti dovrei cambiare
mestiere. Però del risultato artistico del disco, che devo anche a tutti i collaboratori, sono
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contento.
Come porti dal vivo il tuo album? Quali cover esegui in concerto?
Lo spettacolo live cambia sempre, resta vivo. Decido di volta in volta la formazione, i
musicisti, gli strumenti. Per quanto riguarda la scaletta, che decido pochi minuti prima di
salire sul palco, segno sempre l'inizio e l'impronta che voglio dare alla serata, poi mi
suggerisco delle canzoni e vado a braccio. Inserisco anche canzoni di colonne sonore o
inediti o canzoni appena scritte. Ho un repertorio enorme di cover con brani di tutti gli artisti
che ho citato prima e molti altri che amo interpretare. In un paio di compilation ho un brano di
Marley e uno di Drake che a volte propongo. Se sono da solo e la gente non vuole farmi
scendere posso andare avanti per ore... capita anche che il bis sia più lungo del concerto!
Contatti: www.francescoforni.it
Gianluca Veltri
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33 Ore
Marcello Petruzzi ha fatto parte dei Caboto e dei Franklin Delano prima di dedicarsi
all'attività di autore di canzoni: un cantautore curioso e aperto ad una gran varietà di
soluzioni, con uno stile ricco di deviazioni e riferimenti trasversali che fa di “Quando vieni?”
(Garrincha Dischi), disco di debutto dopo l'EP dell'anno scorso, un lavoro fresco e ispirato.
Ecco l'intervista.
Provieni da esperienze musicali in qualche modo lontane dalla forma cantautorale
classica. Come ti sei scoperto cantautore, seppur sui generis? La scelta dell' italiano
inoltre, a quando mi sembra di capire, non è stata immediata ma è arrivata dopo un
po' di riflessioni...
Il tempo che ho impiegato a scegliere di cantare in italiano non misura alcuna difficoltà
strettamente legata alla lingua. Molti testi li coltivavo da anni, ho accumulato tante pagine
scritte tra racconti, canzoni o versi liberi: interesse emerso nella prima gioventù magari da
una nota esigenza terapeutica e poi progressivamente estratto dall'emotività con l'intento di
pubblicare questo materiale senza limiti di forma. Il problema era piuttosto nel mio
background, costruito sulla musica estera e comune a tantissimi musicisti italiani di oggi, che
ha bloccato per la sua natura talvolta diffidente l'uscita in lingua madre. Anche con qualche
motivo ragionevole, per esempio le sonorità più avanzate di tante realtà provenienti da oltre
il confine. La musica italiana mi sembrava impastata nei propri standard melodici e nel
rigetto a prescindere di qualsiasi possibilità sperimentale. Naturalmente avevo molto da
scoprire nel panorama nostrano e poi non immaginavo di trovare la chiave di una mia
musica italiana possibile partendo dal fatto che la via della continuità e della rottura con una
tradizione avvengono tanto sull'onestà del testo quanto sulla libertà della composizione. E'
un concetto molto semplice. Oggi mi rende perplesso l'idea, ancora così diffusa in Italia, di
esprimersi meglio in inglese con parole ricalcate o ridondanti, allontanando una lingua che
reputano morta e anti-musicale, come se fosse un problema eventualmente ricalcare o
essere ridondanti con la propria lingua. Per parte loro comprendo che ci sia un approccio
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alla musica più incline alla natura evocativa o alla carica erotica di una voce, al di là dei
significati ma – anche se può sembrare improbabile – io credo di muovermi anche in quella
direzione.
Immagino che il tuo background e le tue collaborazioni abbiano portato elementi
costruttivi e dialettici importanti nella tua idea di canzone, soprattutto nella tuo
approccio alla composizione. È così, oppure volevi in qualche modo liberarti, molto
semplicemente, di sovrastrutture musicali già abbondantemente esplorate?
Quando ho cominciato seriamente a lavorare su 33 Ore ero già consapevole di essere in
qualche modo vittima dei miei modelli musicali. Il bagaglio riempito di tutte le esperienze
fatte è notevole a cominciare dai Caboto, al cui interno nulla veniva negato ed ogni influenza
accolta con interesse, dato il disinteresse verso la struttura scritta prima dell'esecuzione; e
poi con i Franklin Delano, con i quali mi sono ricongiunto alla via che tiene lo stile al centro a
scapito del mero virtuosismo. Ma è da solo che ho potuto sviluppare senza perplessità di
gruppo le sfaccettature della musica che avevo imparato anche nei larghi ascolti senza limiti
di genere, perché fatte le dovute retribuzioni, nei Caboto la situazione cominciò a mostrarsi
sterile (come spesso accade, forse proprio nel momento più "alto" dell'ensemble) e l'aria di
progressive che speravo di tenere a bada si era fatta asfissiante, infatti negli ultimi tempi
premevo molto per una virata alla canzone che non ci fu mai e che avrebbe potuto portarci a
espressioni di originalità tali da dare oggi un po' di rimpianto. I Franklin invece vivevano la
fase calante che li avrebbe sciolti di lì a poco (anche in questo caso devo ammettere che gli
ultimi concerti furono strepitosi, intensi): dopo il disco americano le "menti" della band
sapevano di essere approdate ad una tradizione che li avrebbe privati della propria
originalità; infatti poi nacquero i Blake/e/e/e. Insomma, 33 Ore resta autonomo da queste
esperienze, come lo dimostra già il fatto che componevo alcune canzoni di "Quando vieni" in
parallelo agli impegni con le due band, ma certo era mia intenzione smarcarmi.
C'è un senso di incompiutezza (ma non di incompletezza) nelle tue canzoni, l'idea che
non sia necessario limare troppo, che l'accostamento dei colori rappresenti già in
qualche modo un "senso" complessivo. Ti riconosci in questa dimensione "non
finita"?
Questa musica può scorrere come dialogo per immagini nitide, o sfocate, o spezzate,
decentrate e tagliate male, e rivelare comunque segni inaspettati; non è una comunicazione
di sintesi, di compromessi o di patto stabilito, cioè non è un servizio o un manifesto e i suoi
concetti chiari. Perciò può permettersi di rinviare i chiarimenti, di spiegare bene, di chiudere
un discorso a ridosso di qualche precipizio, e di fare silenzio quando l'idea cessa di dare
impulso. Piuttosto una mentalità pittorica, non documentarista. Ecco appunto che a volte
vacilla il senso compiuto eppure rimane aria, evocativa, anche in lingua italiana.
Su disco ti diverti a suonare buona parte degli strumenti da solo, con l'intervento di
qualche ospite. Come "funziona", invece, 33 Ore in concerto?
Il lavoro in studio può essere intrapreso con una moltitudine di filosofie diverse, due correnti
però le riducono: una spinge sull'essenzialità e la fedeltà di una musica già di per sé
ripetibile in live, l'altra investe sull'arricchimento di arrangiamenti, cori, espedienti per creare
il mondo compiuto della canzone, quello in cui "dovrebbe stare" (e naturalmente potrebbe
stare anche in un mondo scarno se quelle sono le intenzioni). A me vanno bene entrambi gli
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approcci ma non ho voluto negarmi nulla nel caso di questo disco perché avevo interesse a
misurarmi con la realizzazione di scenari completi, registrando tutto ciò che mi veniva in
mente, chitarre, ritmiche, anche linee melodiche in MIDI nel caso di strumenti non in mio
possesso, per quindi assegnare ai musicisti coinvolti le parti scritte o registrate: violini, fiati...
È ciò che continuo a fare anche adesso che sono al lavoro sul materiale nuovo. Una volta
usciti dallo studio c'è effettivamente un problema di esportazione ma non mi preoccupa,
anzi, lo trovo piuttosto stimolante, intanto perché ho la garanzia che la canzone per sua
natura sia autosufficiente e sempre vincolata al suo comunicare, come un'ombra: il suo
essere non si stacca mai da ciò che la produce; e poi perché si reinterpreta e si segue ben
volentieri la genialità del momento, le condizioni di un set. Suonare con altri è comunque un
pregio, anche se non tutto il registrato è ripetibile, e soprattutto è spesso un'esigenza dello
spettacolo. Per questo mi ritrovo in realtà dal vivo sia da solo, con la chitarra e qualche
effetto, che in duo (con un efficace sax baritono), e con una band di quattro elementi.
Contatti: www.33ore.it
Alessandro Besselva Averame
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Black Smokers
Un album uscito per la Pravda Records di Chicago, “Used”, all’insegna di un blues’n’roll
essenziale e viscerale. Questo l’efficacissimo biglietto da visita con cui si presentano i Black
Smokers, duo di stanza fra Alessandria e Bologna. Un nome, il loro, che gli amanti della
musica più “vera” e priva di fronzoli farebbero bene a seguire con attenzione, perché da
queste parti di band così ce ne sono davvero poche. Non a caso, almeno per ora, è negli
States che hanno raccolto le maggiori soddisfazioni. Ne abbiamo parlato con Marcello
Milanese, voce e chitarra di un sodalizio completato dal batterista Ivano Zanotti.
Partiamo dall’inizio: dove, come, quando e perché nascono i Black Smokers?
Ho sempre suonato rock-blues di stampo classico componendo io stesso le canzoni, e ho
registrato tre dischi con Marcello & The Machine e con i Blues Maphia per delle piccole
etichette locali. Anni fa avevo incontrato “Jimbo” Mathus, il chitarrista degli Squirrel Nut
Zippers, e avevamo fatto qualcosa insieme; un giorno, parlandogli, mi ero lamentato del fatto
che mi mancasse un bassista per fare una serata, e lui mi ha guardato stupito, chiedendomi
a cosa mi servisse. Da lì ho iniziato a sperimentare con un organico sempre più ridotto,
tenendo a mente l’insegnamento di Miles Davis per cui togliere è sempre meglio che
aggiungere. Così, poco alla volta, siamo arrivati alla nascita dei Black Smokers, più o meno
tre anni fa. Il dove, invece, è nel Nord Italia più provinciale; siamo molto orgogliosi di venire
dalla provincia, perché rispetto alle grandi città devi metterci il doppio dell’impegno per farti
conoscere. Non ci sono né il pubblico né i posti per fare qualcosa di originale: qui la maggior
parte dei gruppi suonano in tribute band o cover band, dopodiché appena trovano la prima
morosa lasciano tutto e si sposano; per chi invece ci crede è davvero difficile. È come
essere lasciati in mezzo al deserto: se sopravvivi diventi anche più forte. Nello specifico, io
sono di Alessandria, mentre Ivano è delle colline bolognesi.
Come vi siete conosciuti?
Quando ci fecero la prima proposta per fare un tour in America, siccome c’era stato qualche
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problema con quello che allora era l’altra metà del duo, che aveva fatto scelte di vita diverse,
decisi di contattare il miglior batterista che avessi sentito in vita mia, ovvero Ivano. Ci siamo
trovati subito a meraviglia, basti dire che il giorno stesso che ci siamo visti abbiamo
registrato il primo demo. E poi, sai, io credo molto nell’emozione del momento, quindi le
registrazioni devono essere delle fotografie; ecco perché mi piace molto registrare live anche
in studio, è una questione di onestà.
Quante volte siete stati a suonare negli States?
Abbiamo fatto due tour: il primo di tre settimane e due giorni; il secondo di un mese e una
settimana, durante il quale abbiamo superato i diecimila chilometri. Sono stati veramente
tanti concerti, in tutti i tipi di locali, da quello da redneck in mezzo al nulla fino alla House of
Blues di Chicago, che fortunatamente ci ha chiamato anche per il secondo tour e
successivamente ci ha riconfermato ancora, cosa di cui sono molto orgoglioso. Non è però
quello il tipo di venue che ti fa paura: è una specie di museo, con un palco che è stato
calcato anche da Ray Charles, e quando me l’hanno detto mi sono veramente emozionato;
però ci sono locali piccolissimi e sperduti, in cui hanno suonato Muddy Waters o R.L.
Burnside e che dall’epoca non sono stati più puliti (ride, Ndr), e quando lo vieni a sapere ti
rendi conto di essere davvero fortunato e pensi che tutta la fatica fatta è valsa qualcosa.
Che differenze ci sono rispetto a suonare in Italia?
La curiosità del pubblico, anzitutto. Se tu fai qualcosa di personale la gente rimane, ed è
esattamente ciò che vuole. Qui, invece, se non fai cose che, tra virgolette, possono cantare
tutti come in spiaggia, rischi di avere un sacco di problemi. Loro preferiscono non sentire ciò
che hanno già in casa, qui invece succede il contrario; e in questo senso là c’è una grande
vittoria della fantasia. La cosa che ci ha portato più fortuna è stata cercare di dare
un’interpretazione personale alla musica che ascoltano: voglio dire, là tutti sanno chi è
Johnny Cash o Robert Johnson, qui invece questo non funziona.
Immagino che le primissime volte ci fosse un po’ di timore da parte vostra
nell’andare, da italiani, a suonare musica americana in America.
Certamente. Ti faccio un esempio: nelle nostre scalette, e nel disco, c’è una versione tutta
particolare di “Folsom Prison Blues” di Johnny Cash – pezzo che ho sempre amato
moltissimo –, e le prime volte avevo un po’ paura a suonarla, è come se un americano
venisse in Italia a suonare “‘O sole mio”. In realtà è stata apprezzata tantissimo, proprio
perché la rifacevamo in maniera personale e vera. Questo mi ha insegnato che, ovunque tu
sia, se fai uno spettacolo di musica onesta non sbagli mai; là però il pubblico apprezza un
po’ di più. Un’altra differenza è che tra musicisti c’è un rapporto bellissimo, qui invece ci si fa
la guerra tra poveri. Dalle mie parti vi sono musicisti meravigliosi che vengono ascoltati
pochissimo e non vengono aiutati dai colleghi, e le collaborazioni scarseggiano, mentre negli
Stati Uniti si aiutano molto di più, forse perché sono più consapevoli che alla fine siamo sulla
stessa barca, e c’è spazio per tutti.
Come si sono svolte le registrazioni del disco?
Volevamo un posto grande, perché l’idea era quella di fare le cose in diretta e col suono
migliore possibile. E, grazie a Luca Turatti dei “G di Giallo Studios” di Cesena ce l’abbiamo
fatta. A dire il vero, non è che avessi particolari idee in testa a livello sonoro: quando mi
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hanno chiesto dei riferimenti specifici ho portato un disco di James Brown e uno degli
AC/DC. Più che altro, forse, cercavamo il tecnico giusto, e Luca è stato eccezionale. Ci sono
solo un paio di sovraincisioni nel disco, niente di più.
Come è nato, invece, il contatto con la Pravda?
Li conoscevo soprattutto per il lavoro fatto con Andre Williams. La Pravda è un’etichetta
varia e realmente indipendente, la cui discografia va dal punk rock al soul più “bastardo”, e
ho pensato che potessero avere la mente più aperta per instaurare una collaborazione.
Abbiamo iniziato a parlarne, poi una volta sentitici dal vivo hanno accettato l’offerta.
Cosa mi puoi dire della traccia registrata dal vivo che chiude “Used”?
La nostra esperienza americana nasce grazie a MySpace: tramite quello siamo stati
contattati dagli organizzatori del “Deep Blues Festival” di Lake Elmo, Minnesota, che ci
hanno chiesto se fossimo disponibili ad andare a suonare da loro. Appena mi è arrivata la
loro mail sono rimasto per mezz’ora a fissarla, senza parole, anche perché è l’unico vero
festival del cosiddetto alt.blues. Basti dire che abbiamo suonato lo stesso giorno di Bob Log
III. È davvero un festival della fantasia. La traccia live del nostro disco viene proprio da una
delle nostre esibizioni lì. In Italia c’è un grosso problema con il blues e la musica
afroamericana, e cioè che molti non si rendono conto che i Blues Brothers non erano altro
che una cover band. E la colpa è anzitutto dei musicisti, che non fanno niente per diffondere
un minimo di cultura. Purtroppo pare che la fantasia non venda, quando in realtà si può
essere felici suonando ciò che si vuole e al contempo dando al pubblico qualcosa di nuovo,
o per meglio dire di personale.
Ecco, a mio parere il limite dei festival blues italiani è proprio nella scarsa apertura
verso le novità, specie dal punto di vista formale.
Il blues canonico è bellissimo da suonare, ma limitandosi a quello si dà una versione
sbagliata della storia. D’altra parte i ragazzi che organizzano i festival blues non possono
neanche permettersi di rischiare e chiamare Bob Log, perché poi dovrebbero fronteggiare le
proteste dei detrattori elegantissimi che invece non vogliono altro che la solita minestra. Non
c’è niente di peggio degli oltranzisti, quelli secondo cui il suono deve essere ancora quello
degli anni 50, quando invece la storia è andata avanti. Il blues e il rock’n’roll raccontano
semplicemente le storie di ognuno, e nel momento in cui uno lo fa in maniera onesta ha già
creato qualcosa di diverso dagli altri, perché è del suo vissuto che parla.
A proposito: abbiamo parlato tanto dell’America: come stanno andando le cose qui
da noi invece?
Al momento l’etichetta sta cercando una distribuzione italiana per il nostro disco; fatto
questo, entro la fine dell’estate partiremo in tour per la presentazione. In Italia, ma anche in
Olanda e Spagna, il che ci rende molto felici, perché più chilometri si fanno e più siamo
contenti!
Contatti: www.blacksmokers.org
Aurelio Pasini
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Ratti della Sabina
Dopo due anni di lavoro e di intensa attività live arriva “Va tutto bene” (Rds/Universal), il
nuovo disco dei Ratti della Sabina che, traendo ispirazione dal folk delle origini, strizza
l’occhio al rock e alle sue svariate declinazioni. Il lavoro si regge su una matrice stilistica
cangiante ma comunque incentrata sulla vena poetica dei testi, che rappresenta da sempre
il tratto distintivo del gruppo. Ha risposto alle nostre domande Stefano Fiori, una delle due
storiche voci dei Ratti.
“Va tutto bene” è un disco che segna la “svolta rock” dei Ratti della Sabina,
nonostante si avverta ancora in sottofondo la matrice folk originaria. Che legame
rimane con gli album precedenti e cosa c’è di effettivamente nuovo?
La cosiddetta “svolta rock” non è stata cercata, ma è venuta da sé, si è sviluppata in modo
naturale probabilmente dalla necessità di inserire sonorità nuove e diverse all’interno delle
nostre canzoni. La matrice folk del gruppo ovviamente emerge in molte parti del disco, in
alcuni brani non c’è, in altri è più evidente, ma la questione è soprattutto relativa agli
strumenti utilizzati: ad esempio la fisarmonica, che è la regina della musica popolare, ha
notoriamente una risonanza folk, ma noi ci siamo divertiti a sperimentare accostamenti
nuovi, facendo sì che anche gli strumenti “tradizionali” potessero esprimere sonorità
particolari.
Alcuni elementi presenti nel disco sembrano quasi “spiazzanti” perché si avvicinano
con disinvoltura a certe sperimentazioni rock estremo, tendenti in alcune parti al
progressive. Mi riferisco in particolare al brano “Qualcosa di interessante”, che parte
con un riff di chitarra elettrica decisamente inusuale per il vostro stile...
Il brano a cui ti riferisci contiene effettivamente echi progressive provenienti dagli anni
Settanta e riproduce senza dubbio atmosfere che non avevamo mai sperimentato. Non sono
io l’autore di questo brano ma ovviamente ho assistito alle varie fasi di costruzione e
arrangiamento del pezzo, che ha attraversato vari momenti creativi e subito nel tempo
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numerose modifiche. Anche qui la scelta è stata del tutto naturale: semplicemente quel tipo
di atmosfera è quella che ha convinto di più i componenti del gruppo. Dopo varie prove e
tentativi siamo arrivati a questa versione, che ci è sembrata quella più adatta...
L’album sembra reggersi in equilibrio sullo sperimentalismo sonoro, da una parte, e
poesia dei testi dall’altra. Mentre la musica sembra voler esplorare nuovi territori, i
testi mantengono quella semplicità e immediatezza di sempre. È proprio la poesia il
tratto distintivo dei Ratti?
Le canzoni dei Ratti nascono per tradizione da me a da Roberto, e personalmente ti posso
dire che i miei testi e le mie musiche si sviluppano in modo molto immediato: chitarra e voce
in camera mia. Non so se effettivamente si possa parlare di sperimentalismo sonoro, ma
ovviamente lo studio delle melodie e delle sonorità ha un ruolo molto importante nel nostro
lavoro. È certo però che alla base di una buona canzone, per me, c’è la cura del testo, la
creazione di un testo che sia evocativo e di facile ricezione e che sia capace di richiamare
immagini chiare e concrete ma allo stesso tempo potenzialmente emozionanti.
Personalmente sono molto scrupoloso per quanto riguarda i testi, che per me rappresentano
la parte embrionale della canzone, anche se non so se questo arriva effettivamente al
pubblico. Per quanto riguarda il discorso sonoro, invece, le scelte avvengono in maniera più
corale e penso che sia anche la scelta più giusta, visto che spesso la singola persona non
riesce a vedere elementi o caratteristiche che invece altri considerano, e che magari
possono arricchire il discorso musicale.
A dire il vero alcuni testi tendono leggermente al malinconico, penso ad esempio a
“Qualcosa di interessante” o “Eccomi qua”. C’è stata un’evoluzione in questo senso?
Magari una maggiore maturità nella scrittura dei testi?
Sì, diciamo che grossomodo si può parlare di un percorso di maturazione: è ovvio che
crescendo siamo diventati sempre più riflessivi, è proprio una questione biologica: quando
nella quotidianità ti ritrovi a vivere determinate esperienze, acquisisci sempre più maturità, è
un percorso di crescita progressiva e di miglioramento, perché di fatto la vita ti porta a
cambiare e ad assumere nuovi punti di vista. Per riassumere, più esperienza acquisisci più
diventi maturo, e questa tua maturità ovviamente tendi a riproporla attraverso le canzoni.
Sempre a proposito dei testi: il classico duo compositivo Fiori-Billi si apre a nuovi
componenti. In questo disco anche gli altri Ratti contribuiscono alla creazione dei
testi, pensiamo a “Piccolo Principe” e “Oggi io”. Come è avvenuto questo processo?
Che criterio avete usato per l’inserimento dei pezzi nel disco?
Diciamo che si è trattato più che altro di una scommessa, proprio per dare un cambiamento
a quello che abbiamo prodotto fino ad oggi. Il fatto che alcuni componenti del gruppo, come
Paolo Masci, scrivessero, non era una novità, ma visto che da sempre io e Roberto siamo
stati considerati i “compositori” del gruppo, gli altri stentavano a fare proposte. Il punto è che,
al sesto disco, la voglia di fare qualcosa di nuovo si sente, per cui abbiamo coinvolto Paolo e
Alessandro, il violinista, allargando quindi l’invito a proporre pezzi nuovi. Questo è quello che
si è verificato ad esempio con i brani “Oggi io” e “Quante volte”. Ovviamente poi tutti i brani
sono stati rivisti insieme, proprio per il discorso corale che ti ho accennato prima, perché se
una canzone abbraccia il contributo degli altri acquista sicuramente un valore aggiunto.
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I Ratti della Sabina si distinguono per la loro forte e riconoscibile identità e per la
formazione, sempre uguale da più di dieci anni. In un gruppo così numeroso, con per
di più due cantanti, in che modo vengono prese le decisioni? Dopo dieci anni i
rapporti sono sempre gli stessi?
Quando abbiamo iniziato a suonare eravamo otto estranei. Io e Roberto ci siamo conosciuti
tramite amici in comune e poi abbiamo iniziato a cercare insieme i componenti del gruppo.
Partendo come semplici estranei, una volta partito il progetto, si è sviluppato il discorso
dell’amicizia e si è creato quell’ “humus” che ha contribuito a tenere insieme il gruppo. Le
scelte si prendono solitamente secondo una via molto democratica e c’è molta condivisione,
anche se per alcune decisioni una supervisione può essere presa da me o da Roberto.
Prima dell’uscita di “Va tutto bene” avete firmato un contratto con l’etichetta On The
Road. Cosa significa per voi questo passo? Pensate che in qualche modo il vostro
lavoro verrà condizionato da questo nuovo rapporto?
Per quanto riguarda la On The Road, il rapporto si è sviluppato sottoforma di
interessamento reciproco. In realtà non si tratta di un contratto discografico vero e proprio,
ma un accordo relativo al booking e alle attività di ufficio stampa. Tramite On The Road
abbiamo avuto poi accesso alla distribuzione Universal. Il contratto è stato stipulato quando
il disco era già pronto, per cui non c’è stato alcun tipo di intromissione da parte loro e
abbiamo mantenuto al nostra tradizionale autonomia. Ora speriamo (e crediamo) che la On
The Road prenda atto di questa nostra autonomia e che continui a fidarsi delle nostre scelte
artistiche.
Per quanto riguarda i progetti futuri: immagino che al primo posto, come sempre
nella storia dei Ratti della Sabina, ci sarà l’attività live. E poi? Che altro?
Con l’estate si avvicina anche il tour quindi, come dicevi, al primo posto c’è l’attività live.
Anche se in forma embrionale c’è in ballo un progetto di collaborazione con un’orchestra
sinfonica, che fa capo ai fratelli Allegrini (uno dei quali è considerato il primo corno al mondo)
che vengono proprio dalla nostra zona. Sfruttando questo contatto pensavamo di
organizzare un concerto con un’orchestra sinfonica. Ma è ancora tutto in via di definizione...
Contatti: www.rattidellasabina.it
Federica Cardia
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Maisie
Sembravano non uscire più con questo doppio CD “Balera metropolitana”
(Snowdonia/Audioglobe) annunciato da tempo e invece eccoli di ritorno, i Maisie da
Messina, in formazione allargata a sette elementi e con quarantaquattro ospiti. Un lavoro
che vuole essere leggero, ma allo stesso tempo raccontare dei mali del mondo e dell’Italia in
genere, giocando anche sull’itineranza delle collaborazioni raccolte in giro per la penisola nel
corso di quattro anni e poi rimesse insieme dai due co- fondatori del gruppo Cinzia La Fauci
(con cui ne parliamo) e Alberto Scotti.
Come avete fatto a mettere insieme tutti questi musicisti e cantanti?
All’inizio Alberto componeva le canzoni, dopodichè io partivo con il microfono e la nostra
fida 001 a registrare a casa dei musicisti in giro per l’Italia. Il primo volume doveva chiamarsi
“Balera metropolitana” e il secondo “Festa in casa”, poi in realtà mi sono resa conto che
quasi mai andavo nelle case delle persone a registrare, quasi tutti ci hanno portato
comunque in studio, in posti molto belli dove siamo stati accolti meravigliosamente, per circa
undici mesi e mezzo e quindi registrando cantando facendo cantare, editando, mixando e
così via. Avevamo in mente comunque un suono preciso e trovarlo ci ha richiesto il tempo
necessario.
Come mai ogni disco, la formazione dei Maisie cambia tutta o in parte? È una scelta o
è la vita degli altri che li porta altrove?
All’inizio i Maisie eravamo io Alberto e mio fratello. Poi mio fratello, per ragioni sue di vita ha
abbandonato il progetto. Per cui restavamo sempre io e Alberto; poi con “Morte a 33 giri”
abbiamo avuto il piacere di conoscere Carmen D’Onofrio e anche Paolo Messere, prima
nostro fonico poi chitarrista ufficiale del gruppo. Successivamente negli anni di preparazione
di “Balera metropolitana” Paolo era sempre più impegnato con il suo progetto e quindi si è
allontanato dal nostro ma nel frattempo abbiamo incontrato tante belle persone ovvero Luigi,
Michele, Serena e Donato che oggi completano i Maisie. Per quanto mi riguarda, amo e
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adoro questa formazione e penso che faremo tante belle cose insieme perché ci divertiamo
molto.
Ho notato che in questo disco ti sei un po’ messa da parte per la composizione che è
affidata quasi per intero ad Alberto Scotti, mentre prima firmavate insieme i pezzi.
In realtà la musica e i testi sono sempre stati di Alberto Scotti, semplicemente questa volta è
uscito di più. Alberto è una delle persone più riservate dell’universo, poi è anche un super
democratico comunista per cui non gli piaceva scrivere ogni volta chitarra di, flauto di, però
se una persona fa il 95% del lavoro è giusto che sia lui a firmare le cose.
Questo disco, di sicuro vi ha spinto ad andare in tour! Già l’anno scorso avevate fatto
qualche data e a giorni ne iniziate altre.
Sì abbiamo ceduto alle lusinghe dello show business, dopo anni di vita casalinga ritirata, ci
concediamo ai migliori palchi italiani. In realtà noi facciamo tutto quello che fanno i gruppi
normalmente però al contrario. Prima facciamo sei dischi recensiti meravigliosamente, con
accoglienza eccellente da parte della stampa per dodici anni, poi andiamo a suonare dal
vivo. Io adesso mi chiudo in garage come tutti i gruppi per provare il live ed è una cosa che
mi stimola tantissimo e sono contenta come se avessi quindici anni.
Come sarà strutturato il live? Andrete in giro tutti e sette?
No, abbiamo una formazione leggermente diversa dal disco ma solo perché le persone che
ci accompagneranno adesso, saranno quelli del disco successivo per il quale stravolgeremo
delle bosse nove. L’idea nostra è di produrre un live acustico psichedelico, un po’ folk anni
60 e questo perché se anche io volessi portare “Balera metropolitana” in giro così com’è
stato suonato mi servirebbe l’orchestra filarmonica di Vienna più una corale, ma poi perché
mi piace portare qualcosa di diverso dal disco.
Venendo agli ospiti c’è la grande Amy Denio che ha scritto anche due testi.
Amy Denio la conosciamo dal 2000 da quando partecipò ad una compilation della
Snowdonia. Un po’ di anni dopo, nel 2004, ci chiamò perché aveva una data in provincia di
Messina. Allora a quel punto sono andata al concerto e le ho portato le olive fatte da mia
mamma, la mostarda con la cioccolata, ma soprattutto un pacchetto di DVD dove avevo
masterizzato tutti i pezzi che ci sono su “Balera metropolitana” e tanti altri che non sono stati
inclusi. E ho avuto la faccia di suola di invitarla a comporre insieme tre quarti di disco. La
cosa magnifica è stata che Amy è una persona veramente bella, una strumentista eccellente
e cantante magnifica che vive la musica con passione e amore assoluto e anche i rapporti
umani, per cui quando le ho portato queste cose invece di guardarmi schifata, mi ha
risposto:”dai ,che bello, dai” e quindi mi ha mandato per risposta quello che aveva registrato.
Dopodichè noi siamo entrati in studio a Napoli per registrare e quando le ho detto che
sarebbe stato bello averla in Italia a quel punto delle registrazioni, ha risposto direttamente
“no, dai, io vengo, dai”. Per cui si è fatta questo viaggio incredibile dall’America per venire a
registrare con noi e ti giuro il disco ha veramente cambiato faccia dal punto di vista degli
arrangiamenti vocali, dopo il mio incontro con Amy, perché all’inizio avevamo solo qualche
corettino, o armonizzazione o controcanto, ma dopo che sono stata in studio con lei
dieci/quindici giorni è cambiato tutto perché a quel punto ho cominciato ad osare fino a farci
sembrare il Quartetto Cetra.
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È un disco in generale sull’ipocrisia, sul prendersi troppo sul serio...
La nostra idea era di rappresentare dei personaggi che vivono nella metropoli e appunto
come dicevi tu: l’ipocrisia, la falsità, oppure il falso moralismo e i rapporti umani fasulli. Il
matrimonio come morte civile, morte dell’amore, erano tantissimi i personaggi che volevamo
descrivere in questa balera e poi man mano ho notato anche altri percorsi che mi si sono
presentati perché erano stati notati da altre persone. Ritorna anche qua il tema della morte,
però non era stato progettato. In realtà per noi è come se fosse un giro che fai in città, entri
nei negozi, vai nelle case spii nelle intimità e racconti le storie che hai raccolto, senza
sognarci di fare però moralismi vari.
La versione primordiale delle vostre canzoni come la registrate, con quale supporto?
Alberto quando ha un’idea prende la webcam! Prima scendevamo di sotto, attaccavamo la
famosa 001 anche per fare il provino più rozzo, essenziale e scarno, ora invece con la
webcam, Alberto schiaccia il bottoncino e parte. Certe volte, mentre sono in studio e sto
provando delle armonizzazioni, mi manda messaggi video: “Cinzia prova
quell’armonizzazione, ma fatta così!” e la canta. Ho un archivio dei suoi filmini dove canta
tutto “Balera metropolitana”.
Contatti: www.snowdonia.it
Francesca Ognibene
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Mamamicarburo
Mamamicarburo. Un nome una garanzia. Quasi due decenni di storia, cinque album
all’attivo, con tanto di live celebrativo ed oggi di nuovo in pista con “Barçelona” (4T Records),
un’autentica esplosione di rock ironico e tagliente, con il ritorno del cantante Teo Morgotti
che garantisce quella dose di follia ed imprevedibilità, tipica del loro suono. Oltre a Teo, la
formazione comprende Jonathan Gasparini alla chitarra, Lele Borghi alla batteria e Cristiano
Incerti al basso. Ed è proprio quest’ultimo che ci racconta fatti, misfatti e sogni
“meditabbondanti” dei Mamamicarburo.
Vorremmo sapere la verità. Il perché della dipartita e del rientro di Teo Morgotti, il
vostro carismatico cantante, che non ha fatto parte della band per il precedente album
“Electro”.
Non c’è stato nessun litigio o fatto “cruento”. Teo voleva fare altre cose e lavorare ad altri
progetti che in parte ha realizzato e che in parte sta ancora portando avanti, molto diversi da
quello Mamamicarburo. Il suo ritorno è avvenuto con uguale semplicità. L’ho chiamato, gli ho
chiesto di tornare e lui ha detto di sì.
Sinceramente un pensiero va anche al cantante che l’ha preceduto, immagino
sommerso di attese e confronti. Come se l’è cavata Luca ferro in quel vortice di
paragoni?
E’ dovuto crescere in fretta. “Electro” del 2003 il terzo album, è il frutto del suo impegno con
noi. Il ritorno di Teo voluto e inevitabile essendo il cantante naturale dei Mamamicarburo.
Avete pubblicato nel 1995 un album che portava il vostro nome per una major come
la BMG, le cose sembravamo mettersi bene. Nel secondo, pur perdendo il contratto,
avete piazzato il singolo “Sposa” in tantissime radio. Poi cosa è successo che vi ha
frenato?
In realtà firmammo con Ricordi, acquisita da BMG nell’agosto dello stesso anno e il disco
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uscì per BMG/Ricordi. Voglio sottolinearlo perché fu per noi un episodio molto sfavorevole.
Il Cd venne letteralmente “buttato fuori” nell’autunno seguente da persone che non ci
avevano scelto. Nel 1995 eravamo esordienti in una casa discografica importante, presi per
fare del rock’n’roll, poi le cose cambiarono improvvisamente e non fu facile rimanere
insieme. Credo che “Supervirus”, uscito nel 1999 e che contiene “Sposa”, sia il nostro “disco
perfetto”. Peccato fossimo ancora troppo giovani, troppo folli e probabilmente poco protetti,
anche da noi stessi, per rendercene pienamente conto.
Siete da tanti anni nel giro rock italiano, avete visto nascere e morire centinaia di
gruppi che sembravano destinati ad un futuro radioso. Ora le domande sono due: la
prima è perché in Italia non siamo mai riusciti a creare una vera scena rock
(Germania, Svezia, Spagna, Svizzera, ) e perché, a parte qualche nome legato più ad
un personaggio che ad un gruppo (penso Afterhours/Agnelli, Marlene Kuntz/Godano,
Litfiba/Pelù) non è mai emerso nessuno in grado di fare da traino ad una scena che
pure esiste, ed è vastissima, a livello underground?
Ironia e tante chitarre sono gli ingredienti fondamentali. Temo e lo dico con preoccupazione
che il “sistema in Italia” non lo permetta. I Negrita avevano le qualità per emergere e
rivolgersi ad un pubblico vastissimo ma hanno dovuto cedere e diventare pop. Non capisco
poi le pretese di popolarità di certe formazioni che vorrebbero essere sulla bocca di tutti
mantenendo un atteggiamento spiccatamente underground. A metà degli anni 90 si parlò di
ondata, vennero prodotti tantissimi gruppi anche rock ma solamente i Negrita possedevano
le qualità giuste. Forse sono troppo formazione. Il rock in Italia ha ceduto ad alcuni
personaggi il compito di fare sì che le chitarre possano continuare a esserci ma senza
vederle e soprattutto sentire troppo, nascoste ad introspezione e liriche nella tradizione. Non
so dire se i Mamamicarburo avrebbero potuto essere un traino, non siamo mai stati
sufficientemente promozionati per poterti rispondere. Ti posso dire però che ironia e chitarre
nei nostri dischi si sentono e ai nostri concerti si vedono.
Dal vivo siete una band trascinante, divertente e piena di risorse, capace di
coinvolgere il pubblico anche nelle situazioni più difficili. Questa è una caratteristica
che possiedono solo le grandi rock band. Non ti sembra strano che oggi molti gruppi
arrivino all’album, prima di essersi costruiti una reputazione ed un’esperienza sul
palco? Cosa sta succedendo?
È cambiato tutto rispetto agli anni novanta. Noi abbiamo sempre fatto musica nostra.
Jonathan a vent’anni suonava già la chitarra a un livello altissimo e Teo si lanciava
veramente “contro i muri per divertimento” Questo ci ha permesso di fare esperienza senza
necessariamente dover avere delle canzoni in radio. La gente si divertiva perché vedeva un
gruppo di squilibrati suonare con il piglio delle rock band americane e si divertivano anche i
gestori dei locali che così ci tornavano a chiamare. Questo sistema non permetteva a tutti di
suonare ma richiedeva qualità a chi saliva su di un palco. Le tribute band hanno aggirato
l’ostacolo. Tutti suonano. Chi ha delle idee è schiacciato dai programmi dei locali stracolmi di
imitatori di altri e allora sfinito sta in casa a registrarsi le cose su di un computer. Quando si
sente pronto va in discografica e se per caso dovesse avere qualche qualità viene in ogni
caso stravolto e gettato sul mercato a farsi un po’ di esperienza!! Poi l’immagine collettiva
del discografico che ti viene ad ascoltare e ti propone un contratto non esiste più. I
Mamamicarburo vennero visti suonare al Vox di Nonantola da Rick Hutton, allora deejay di
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Videomusic e segnalati a Lucio Salvini, figura storica della discografia italiana che ha poi
prodotto il loro primo disco senza cambiarlo di una virgola per la Ricordi. Non credo che oggi
questo sia più possibile.
“Barçelona” è il vostro quarto album di studio. In cosa si differisce dagli altri e quali
sono invece gli elementi di continuità con il passato?
Il gruppo di lavoro è tornato ad essere quello di sempre con il ritorno di Teo. Fabio
Ferraboschi alla regia artistica ma la spinta decisiva credo che sia stata la voglia di Luca
Santini, produttore del Cd, di investire su di un quarto disco fino a quel momento solamente
sulla carta. In “Barçelona” ci sono delle canzoni che i Mamamicarburo non avevano mai
scritto prima come “Sesto senso”, “In-sensibile” e brani che contengono le caratteristiche
migliori delle precedenti produzioni. La vera forza del disco sta nei brani più
“meditabbondanti” come li ha definiti un nostro fan ma “Barçelona” rimane una corsa
forsennata e autodistruttiva su di una strada che si stringe pericolosamente.
Mi ha sorpreso vedervi dal vivo eseguire “Ace Of Spades” dei Motörhead. Che altre
sorprese ci aspettano? E i Mamamicarburo da quale background artistico
provengono, ascoltando gli esordi si poteva parlare di Van Halen, poi quasi di
Soundgarden e oggi dove guardate?
I Motorhead sono un mito e “Ace Of Spades” un brano formidabile poi Teo riesce a calarsi
nella parte di Lemmy Kilmister con straordinaria ironia, a tutti gli effetti la consideriamo “una
nostra canzone”. In quanto a sorprese vorrei conoscerle anch’io, Teo si lancia sul palco in
attacchi frontali e indiscriminati contro di noi, più di una volta è stato difficile poi
addormentarsi la notte..!! Le nostre influenze i Van Halen certo, Soundgarden, ma potrei dire
anche Extreme. Nell’album “Electro”, Depeche Mode e Limp Bizkit più di recente Foo
Fighters, Motörhead e perché no anche Nine Inch Nails. Jonathan ha una conoscenza
enciclopedica del rock mondiale e la band negli ultimi anni ha guardato anche all’Inghilterra
tanto che mi piace definire il nostro genere “rock anglo-americano cantato in italiano”.
Ho l’impressone che l’Italia si prenda musicalmente troppo sul serio e non sia capace
di apprezzare una rock band che pensi anche al divertimento, come elemento di
traino, supportato naturalmente dalla qualità. Elio e le Storie Tese rappresentano un
caso anomalo, ma hanno avuto un supporto notevole dalla televisione e dai videoclip,
quando ancora servivano a qualcosa. Onestamente cosa servirebbe ai
Mamamicarburo per compiere il meritato salto di qualità?
Un certo tipo di tendenza musicale riesce a imporsi grazie a chi ha i mezzi per poterla
spingere. E’ una imposizione e come tale porta a delle conseguenze. Quello che sostieni,
cioè che la musica italiana esprime poco rock e poca ironia ad un certo livello è un fatto
evidente. Ai Mamamicarburo servirebbe soprattutto continuare a stare insieme divertendosi
e una buona agenzia di booking che abbia voglia di divertirsi con loro.
Più le delusioni o le soddisfazioni in più di venti anni di carriera? E ci racconti
qualche episodio divertente dei vostri movimentati concerti?
Tra le tante soddisfazioni poter annoverare tra i nostri fan, un grande artista italiano come
Freak Antoni che quando capita non perde l’occasione di mostrarci tutta la sua stima. C’è da
dire che le delusioni con il trascorre del tempo si sono trasformate grazie al filtro dell’ironia in
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storie divertenti, tipo l’avere visto discografici scappare dai nostri concerti spaventati a morte
da Teo, tirati in ballo e sputtanati pubblicamente. Capitò in particolare con una signora di
prima grandezza della discografia italiana, roba da “tagliarsi le vene” anche subito!! Anche a
distanza di dieci anni. Ma noi siamo fatti così, ”prendere..”!!
Contatti: www.myspace.com/mamamicarburo
Gianni Della Cioppa
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Paolo Spaccamonti
“Undici pezzi facili” (Bosco Rec.) è il titolo dell’album di debutto del torinese Paolo
Spaccamonti. Un musicista che ha subito dimostrato di avere gusto per la melodia, tecnica e
poliedricità, passando da diversivi delle stesse poche note a trame più complesse ma non
per questo meno incisive. Un disco capace di colmare momenti che a volte sembrano infiniti
e invece con questo lavoro nelle orecchie potrebbero diventare preziosi minuti di gioia
dell’anima.
Con questo cognome potresti avere tutto dalla vita.
Sì, ne vado abbastanza fiero prima me ne vergognavo un po’ e invece adesso è quasi
diventato il mio punto di forza.
“Undici pezzi facili” è il tuo esordio, ma hai avuto altri progetti prima di questo?
Sì, beh, ho collaborato con diverse persone. Prima con diversi amici tra cui DJ Ezda che ha
suonato anche con i Casinò Royale, vari cantautori di Torino come Vittorio Cane, Stefano
Amen e Daniele Brusaschetto, e poi con Cletus che era un progetto di musica elettronica
minimale suonata; però si può dire che questo è il mio primo lavoro completamente solista.
Come hai conosciuto Daniele Brusaschetto che poi ha prodotto il disco tramite la sua
etichetta la Bosco Rec.?
Daniele Brusalchetto inizialmente l’ho visto in concerto diventando subito un suo fan perché
mi ha esaltato, dopodiché gli ho chiesto semplicemente se aveva voglia di registrarmi dei
pezzi e da lì in poi siamo diventati amici e si è deciso di fare uscire il lavoro per la sua
etichetta. Tra l’altro Daniele abita dietro casa mia quindi è stato anche facile farlo. E l’ho
registrato quasi tutto da lui a parte tre pezzi che invece sono andato a registrare nello studio
di Ezra.
Raccontami della prima volta che hai preso in mano uno strumento, quando è stato e
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che cosa hai preso in mano?
Ho sempre suonato la chitarra non ho mai suonato nient’altro. Ho cominciato a suonare a
sedici anni ed ero in pieno periodo metal: avevo infatti subito deciso di suonare la chitarra
elettrica e infatti credo che anche se non lo ascolto più e non lo pratico come genere, un
minimo si possa percepire dalle cose che faccio quando sono da solo; mi è rimasto un po’ il
marchio del metallaro.
Non andresti comunque al Gods of Metal?
No, no. Sono stato a vedere i Black Sabbath quando si sono riformati, ma solo perché lì ho
dovuto fare un’eccezione. Oggi ascolto tutt’altro dal cantautorato anni 60 all’elettronica.
Ultimamente mi hanno folgorato gli Animal Collective e i TV On The Radio, veramente di
tutto e di più. Non ho limiti.
Le tue composizioni sono più evocative di mille parole, ma come mai la scelta dello
strumentale?
Sai non credo sia stata una scelta. Mi sono semplicemente seduto lì e mi è venuto fuori
quello. Come dicevo prima, apprezzo molto la scena cantautoriale sia vecchia che nuova, e
spesso amo i gruppi con una voce, ma non mi veniva altro, mi è venuto facile fare quello e
mi sono assecondato tutto qui.
Ci sono dei musicisti che secondo te, ti hanno portato verso questa direzione?
In realtà non lo so ho apprezzato molto Daniele Brusaschetto per l’uso del loop che ha fatto
con i suoi effetti. Lui è stato fondamentale in quel senso, però di gruppi strumentali in realtà
ascoltavo i Mogwai anni fa ma li ho persi un po’ di vista. Mi sono semplicemente lasciato
andare. Non credo di essere stato influenzato da chissà chi. Ho cercato di esprimere quello
che mi veniva.
Tu da cosa parti quando componi, i tuoi brani rappresentano comunque delle storie?
Come fai ad immaginarli a metterli in musica?
Mi metto in camera e semplicemente mi metto a suonare e se quello che sento mi sembra
accettabile lo registro è così che è venuto fuori il disco. A parte tre pezzi del disco che sono
stati composti dal mio amico e ottimo contrabbassista Marco Piccirillo. Comunque anche in
quel caso era uguale: s’improvvisava in due e se quello che veniva fuori ci sembrava buono,
veniva successivamente ripreso e risuonato. Sono quindi nate così “Tex”, “Minos” e
“Lamento” provando e riprovando da un primo breve riff o giro di contrabbasso.
Ma questi duetti col contrabbassista sono stati composti in un periodo diverso dagli
altri?
No tutti i brani appartengono allo stesso periodo. Inizialmente dovevano essere due dischi:
uno chitarra e contrabbasso e l’altro da solo, poi per una serie di vicende ho fuso le due
attitudini e ne è venuto fuori solo uno. È nato tutto due anni fa, quando ho deciso di suonare
e di fare una cosa tutta mia.
Ci sono diversi ospiti come accennavi prima, vuoi ricordarli?
Sì c’è appunto Daniele che ha curato gran parte delle registrazioni che sono state
completate da Ezra. Poi Marco il contrabbassista. Si è cercato di tirare dentro amici
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sostanzialmente. Ci sono due batteristi: Simone Sanna e Francesco Cocola. E non posso
dimenticare le violoncelliste Paola Secci e Beatrice Zanin. Sono tutti amici, quindi è stato
facile sceglierli. Meglio specificare forse che non suonano tutti insieme negli stessi brani.
È molto brava poi la ragazza che ti ha fatto il ritratto che possiamo notare dentro al
CD. Ma è davvero questa la chiave del disco un uomo solo con la testa china che sta
seduto su una panchina?
Quella era una foto che avevo sul computer e ho deciso di farmela ridisegnare da una mia
amica. Non so, credo si addica abbastanza al mood del disco. È un sound credo abbastanza
intimo cupo. Inizialmente volevo mettere quella foto in copertina, poi ho preferito relegarla
all’interno, proprio per la sua natura intima. Spero sia venuta bene, a me piace molto.
Tecnicamente come hai registrato il disco?
Il disco come ti dicevo è stato registrato in gran parte da Daniele con un computer,
l’amplificatore e il microfono – a parte le parti di batteria che sono state registrate in sale
varie, l’altra parte, quella legata a Ezra è stata mixata al No.Mad Studio e qui abbiamo
potuto sfruttare altri microfoni con una situazione più “professionale”. Sono contento di quello
che è stato il risultato finale, sostanzialmente tra il minimale e casalingo. Se dovessi farne un
altro mi piacerebbe sfruttare i mezzi che potrebbe mettermi a disposizione uno studio.
Dal vivo ti presenterai da solo o ti farai accompagnare da qualche musicista presente
anche sul disco?
Dipende perchè la dimensione live è sempre aperta, nel senso che alcuni brani li faccio da
solo con la mia pedaliera e chitarra, per cui in base anche alla disponibilità dei musicisti,
cambio. La presentazione l’ho fatta per dire con Beatrice Zanin, la violoncellista, con Marco
Piccirillo al contrabbasso e Daniele Brusaschetto che mi ha accompagnato su un brano.
Dipende un po’ dalla situazione. È abbastanza elastica nel senso che quando si può si fa in
più persone se no anche da solo ho la possibilità di farlo.
Contatti: www.myspace.com/paolospaccamonti
Francesca Ognibene
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Petrina
È un genio. Di elevatissimo spessore artistico, il suo destabilizzante album “In doma”
(DBR/Egea) riesce a combinare con spirito giocoso pop-rock e avanguardia. Tanta
esperienza alle spalle, un sacco di idee a illuminare il presente e il futuro. Vi presentiamo
l’eclettica Debora Petrina.
“In doma” può essere considerato il tuo esordio nel campo della forma-canzone,
lasciando da parte il disco di musica contemporanea “Early And Unknown Piano
Works” in omaggio a Morton Feldman.
In precedenza avevo registrato dei demo, ma non a livello di un disco vero e proprio,
prodotto in studio, mixato e masterizzato. Anche se c’era del materiale appartenente al
passato che non ho inserito, “In doma” in tal senso è il primo album “serio” e rappresenta la
chiusura di un cerchio, anche perché adesso sto avviando un nuovo ciclo di canzoni.
Compositrice, songwriter, arrangiatrice, multistrumentista, ballerina, insegnante di
musica: come si combinano i tuoi numerosi talenti/impegni?
Quella di riuscire a svolgere tante attività simultaneamente e tenere le padelle su tutti i
fornelli è una caratteristica molto femminile. Ci vogliono forza d’animo e tenacia, e a volte si
sacrifica qualcosa. Quando si parla di ballerina di solito si intende quella classica, ma io ho
frequentato palcoscenici di danza contemporanea, che poi sono vicini al teatro, alla
sperimentazione e quindi anche al tipo di musica che faccio. La musica e la sperimentazione
corporea nel teatro vanno spesso assieme. C’è stato un periodo in cui lasciavo più spazio
alle performance teatrali di danza, mentre adesso pratico soltanto nei ritagli di tempo perché
la musica è l’interesse principale. L’insegnamento è quello che dà da vivere e che faccio
comunque con passione, cercando di essere me stessa e facendovi confluire la creatività.
Sono un’insegnante sui generis, che fa suonare il pianoforte all’interno - non solo fuori,
tramite i tasti - e spinge anche i bambini più piccoli a comporre.
Il titolo dell’album strizza l’occhio all’ambiente casalingo dove hanno preso vita i
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brani e all’indomabilità di musiche imprevedibili: cura artigianale delle composizioni e
ricerca di soluzioni atipiche sono due presupposti fondamentali?
Hai assolutamente colto nel segno. La “casalinghicità” dell’album non significa aver
registrato con il microfonino a casa - anzi, la produzione è stata accurata dal punto di vista
tecnico - bensì si riferisce alla nascita dei brani, ai miei arrangiamenti privi dell’interferenza di
produttori esterni. “In doma” come in casa, da sola. “In doma” perché non seguo le leggi del
mercato, in una ricerca che mi porta per indole e background a scelte che a volte possono
sembrare indomite proprio perché fuori dai generi, dai canoni. C’è anche il rovescio della
medaglia, perché qualcuno potrebbe chiedersi in che scaffale posizionare il disco e a quale
pubblico destinarlo. Il problema della classificazione è soprattutto italiano.
In “Sounds-Like” ti prendi non a caso gioco delle classificazioni di genere, ma nel
disco troviamo di tutto: reminiscenze classiche, jazz, cabaret, sperimentazione e
avanguardia così come pop, rock, drum&bass e blues. Un obiettivo che ti eri prefissa,
quello di mettere in luce la tua notevole duttilità?
Non ci ho pensato prima di comporre i pezzi ma mi viene naturale, forse perché i vari generi
sono quelli che ho attraversato in tante situazioni diverse. Sono nata come pianista classica
e mi sono avvicinata alla musica contemporanea, al jazz, alla vocalità teatrale, alla
sperimentazione. L’impronta che stavolta sento più mia si rifà al rock che ascoltavo sin da
bambina, al progressive degli anni 70. Un’impronta che è venuta abbastanza fuori in questo
disco, anche per via della presenza massiccia di tastiere e pianoforti.
Alla luce della tua particolare formazione, cosa reputi interessante nella musica di
oggi?
Riscontro un appiattimento nell’originalità, un piegarsi in se stessi - che forse è il segno dei
tempi, oltre che del mercato discografico - distante dalle scelte che si facevano negli anni 70
o nei primi anni 80, intraprese da gruppi del calibro di Who o Led Zeppelin. La Tori Amos
degli inizi non la ritrovo più, oppure penso ad artiste per me straordinarie come PJ Harvey:
confrontandolo con ciò che aveva fatto prima, ho trovato “White Chalk” un disco confortevole
e rassicurante, anche nel modo di utilizzare la voce. I Radiohead rimangono un esempio di
grande coraggio per le loro scelte anticommerciali.
Tornando alla duttilità, non si può non pensare al tuo utilizzo della voce.
Il lavoro con la voce è tecnico e basato sugli esercizi, ma anche emotivo perché risente
degli stati d’animo e della situazione psicologica. La voce si modifica ed è in continua
evoluzione, come il corpo che cambia: me ne accorgo con la danza. Questo succede anche
con la voce, quando la usi o non la usi, quando stai bene o male. È una parte di me che sto
ancora esplorando, sia per quanto riguarda le capacità tecniche - ovvero salti, registri, alti o
bassi - sia per quanto riguarda le modalità espressive, da quelle tipicamente
cantate/melodiche a quelle più teatrali, espressive, del gridare, del sussurrare, dell’usare il
diaframma. Sperimento giorno per giorno, lavorando da sola o con la band e modificando i
brani del disco che sto già arrangiando in modi diversi. Quella vocale per me è una sfida, un
confronto continuo con me stessa. Una me stessa indomabile perché la voce mi sorprende,
come un dialogo con un’altra persona.
Sei una musicista dal notevole tasso tecnico, come non è frequente trovarne in
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ambito pop-rock. Pensi che sia importante bilanciare ricerca di un certo spessore e
soluzioni più fruibili?
Quello che è tecnico spesso è poco fruibile. Lo avverto ascoltando il progressive puro, che
non mi piace neanche tanto perché si nota troppo il lato tecnico, della bravura, che spesso
va a discapito dell’espressività: un effetto che cerco di evitare, vivendo i suoni che produco
con tutta me stessa, non solo razionalmente. Negli Stati Uniti quello che è pop-rock si sposa
con un notevole background culturale e ho avuto la fortuna di conoscere tre artiste che
segnalo: Amy Kohn, Emily Bezar e Amy X Neuburg. Cercare di fare tutto da sola
corrisponde alla mia indole, anche se difficilmente in Italia - per via degli stereotipi di
seduttrice, musa, sirena... - una donna può dirsi musicista e il più delle volte è soltanto la
diva che canta, apre la bocca.
Rimanendo in campo pop-rock, non sono in effetti tante le donne in Italia capaci di
gestire tutte le questioni artistiche senza aiuti esterni. Le difficoltà nel guadagnarsi
rispetto sono tuttora maggiori?
Di solito la diva del caso figura come autrice, ma in realtà non sa suonare nemmeno due
note alla chitarra e ha bisogno di supporto in fase di arrangiamento e composizione: si tratta
di mercato, di immagine. La musica rimane un luogo molto maschile, sia nel rock che nel
jazz: generi dove prevale il lato tecnico. Nella classica il fenomeno è minore perché ci sono
parecchie direttrici e pianiste.
Premesso che la tua personalità è fortissima, i paragoni che ricorrono più spesso
sono quelli con Beatrice Antolini e Cristina Donà.
Siamo delle persone diversissime, con la propria individualità. I confronti ricorrono perché
mancano altri termini di paragone. Mi si accosta a Beatrice Antolini perché in Italia non
esistono o non sono venute allo scoperto delle donne che al contempo cantino e suonino
una tastiera - tra l’altro, utilizziamo lo stesso modello - anche se all’estero ce ne sono
parecchie: ho ascoltato le sue musiche e la stimo molto, ma facciamo cose diverse a livello
stilistico. Cristina Donà è una cantante che mi piace tanto perché ha un mondo tutto suo,
vocalmente parlando ma anche come costruzione delle canzoni, e ho visto dei video di
alcuni suoi concerti da sola con la chitarra dal notevole impatto scenico. Non ho mai seguito
granché la musica italiana, ho avuto riferimenti di altro tipo e solo negli ultimi anni ho
cominciato a capire ciò che mi circonda.
Passiamo ai testi, che vedono l’utilizzo di varie lingue e sono efficaci sia nel toccare
con ironia argomenti d’impatto sociale sia nel proporre immagini suggestive/surreali.
Con le parole ci gioco fin da piccola e la lingua è sempre stata una fonte di scoperta. Mio
padre era professore di Lettere ed era solito tenere in mano una penna, con cui correggeva
anche i giornali. La mia educazione linguistica è stata precoce: ho cominciato a scrivere a
quattro anni e i giochetti riguardavano i sinonimi e i contrari. Nel disco ci sono vari giochi di
parole e in “She-Shoe” ho lavorato sui doppi sensi e le rime in inglese, mentre ci sono
canzoni in cui cerco appositamente degli scioglilingua velocissimi, come nella spagnola
“Asteróide 482”. Da una parte c’è un aspetto ludico, dall’altra pensato perché non
riesco mai a buttare giù la prima cosa banale che mi viene in mente. Sono una forte lettrice,
ho in mente dei modelli di scrittura e poesia. Un testo poetico a volte rischia di risultare
ermetico, proprio perché ricerco delle parole o dei significati non immediati.
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Prima parlavi di Amy Kohn, che è una degli ospiti del tuo album. Ecco, da una parte ti
occupi di tutto in prima persona ma dall’altra sei aperta alle collaborazioni.
Non è stato difficile ottenere l’apporto del musicisti coinvolti nel disco. Nonostante la sua
celebrità, Ascanio Celestini è una persona di una disponibilità disarmante: ci siamo incontrati
alla premiazione del “Ciampi” 2007 e abbiamo registrato il suo intervento in un sottoscala di
teatro. Chitarrista a trecentosessanta gradi, Elliott Sharp ha inciso nel suo studio di New
York con la massima disinvoltura. Di solito è così: i musicisti più grandi sono i più umili e
disposti a collaborare, senza tirarsela. Poi c’è appunto Amy Kohn, un talento spontaneo e
una carissima amica, la mia sorella d’oltreoceano che ho scoperto simile per inclinazione e
modo di comporre estroso e fuori dai canoni. Emir Bijukic, invece, è un compositore
serbo-svizzero che ha contribuito alla componente elettronica e ha elaborato i suoni reali di
rane di “SMS”. Patrizia Laquidara, con la quale fino a un paio di anni fa portavo avanti un
progetto sulle canzoni venete rielaborato con voci e pianoforte, è infine co-autrice del testo di
“Fuori stagione”: mi aveva dedicato uno scritto in forma prosaica che mi aveva colpita, per
cui ho pensato di farlo diventare una canzone sistemandolo, aggiungendo delle parole e
mettendoci la musica.
Mi hai accennato ai nuovi arrangiamenti delle canzoni di “In doma”: un lavoro che,
immagino, andrà a riversarsi nei prossimi concerti.
Adesso ho un nuovo gruppo con origini nel rock sperimentale, gli East Rodeo: due ragazzi
croati e uno romano. Saremo io al pianoforte, tastiere e voce più chitarra, basso e batteria.
Oltre a riarrangiare le canzoni e a portarle verso altri lidi, ne stiamo imbastendo di nuove.
Continuerai a proporti anche all’estero?
Quest’anno sono stata molto impegnata, tra l’uscita del disco e l’insegnamento. Non ho
avuto ancora la possibilità, come altre volte, di uscire all’estero, ma spero di riuscirci entro la
fine dell’estate.
Mi pare comunque di capire che la tua volontà sia ormai quella di proseguire sul
binario, seppur inclassificabile, della canzone propriamente detta. Giusto?
Sì. Come dicevo all’inizio della nostra conversazione, “In doma” ha segnato la fine di un’era:
per la gente che lo compra si tratta di canzoni nuove, ma per me sono vecchie. Sto già
andando in un’altra direzione, sperimentando ulteriori strade che in questo momento sento
particolarmente mie e che avranno esito nel prossimo disco, che vorrei venisse fuori in meno
di un anno.
Contatti: www.debora-petrina.com
Elena Raugei
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Sunglasses After Dark
Un vinile esplosivo e recensioni in giro per il mondo che ne tessono le lodi. Non male come
biglietto da visita per i Sunglasses After Dark, certamente quanto basta per incuriosirci e,
speriamo, incuriosirvi. Domande e risposte che guardano si al passato, ma poi tornano
subito a fissare un futuro tutto da sentire.
Che effetto fa, se ancora ne fa qualcuno nell'era dei miliardi di blog, essere la prima
scelta nella top ten dei recensori di “Maximun Rock n’Roll”? Un tempo questo aveva
ancora qualche risonanza... a voi è servito a qualcosa? Più in generale: come avete
preso le recensioni (quasi tutte positive) che sono arrivate con questo esordio?
Il numero di “MRR” che ospita la nostra recensione è intitolato appunto “Print Media Is
Dead”, e indaga sulle sorti delle fanzine autoprodotte in epoca digitale. Abbiamo ricevuto
ottime recensioni anche sulle web-zine più oscure e remote, per noi hanno significato tanto,
ma per gli addetti ai lavori, distributori soprattutto, se resti nei blog non esisti. Essere
consigliati da MRR e recensiti positivamente su tutte le maggiori testate musicali italiane
nello stesso periodo accresce notevolmente la nostra credibilità, certifica il valore del disco,
anche se noi lo conoscevamo già!
Come mai la scelta della stampa in solo vinile? Volete una sorta di "selezione
naturale" degli ascoltatori o semplicemente un LP è più bello?
Il CD come supporto ormai è un veicolo di dati sorpassato, dovendo scegliere abbiamo
preferito il monolite vinilico per ragioni di stile e resa sonora. Nessuna selezione, abbiamo
fatto anche il CD mastering, ne regaliamo una copia su CD-R a chi acquista il disco, e un
sacco di gente vuole solo il vinile! Se qualcuno volesse stampare il nostro album anche su
CD, saremmo comunque disponibili.
Siete in giro dal 2004 ma discograficamente siete esordienti. Col senno di poi è stato
un bene non far uscire niente prima oppure è stato solo il caso a farvi attendere
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quattro anni?
In passato abbiamo inciso un paio di demo per farci conoscere, siamo un gruppo live,
abbiamo rodato il nostro suono sui palchi, con artisti e pubblico di ogni genere. Per anni
abbiamo scritto canzoni, formulato uno stile d'impatto suonando dal vivo; quando è stato il
momento, è arrivata l'occasione del disco e la collaborazione con UFO Hi-Fi, la nostra
etichetta. L'album è stato un nuovo punto di partenza, qualcosa da superare: adesso siamo
una band migliore, i nostri standard si sono elevati, e continuiamo a scrivere, suonare ed
evolverci.
Etichettare il suono di una band non è mai facile, ma nel vostro caso è
particolarmente difficile. Rock? Punk? Blues? Cosa rispondereste alla più classica
delle domande: "cosa suonate?" Siete partiti già su questi schemi oppure la vostra
formula si è affinata sui palchi che avete calcato?
Ai concerti ci presentiamo dicendo “Siamo i Sunglasses After Dark, suoniamo rock‘n’roll!”, è
la definizione più sintetica che si possa dare al nostro suono. In alternativa, potremmo dire
che siamo un trio hard blues che ama la Motown e suona glam rock con attitudine punk ai
concerti hardcore! Qualcuno, più semplicemente dice “tipo Motörhead ma più glam”, o
nomina AC/DC, Dead Boys e New York Dolls... Abbiamo molteplici influenze, un'unica
matrice blues, e non ci interessa assomigliare a nessuno: in un genere come il rock n' roll,
l'originalità diventa una questione di stile. Il nostro pubblico comunque, è particolarmente
eterogeneo.
Ho apprezzato molto la registrazione "sferragliante"... potresti spiegare come si è
svolta ed il perché di questa decisione quasi "lo-fi"?
Abbiamo registrato le basi in diretta, batteria microfonata in sala, amplificatori di basso e
chitarra in stanze diverse per evitare rientri, poi chitarra ritmica doppiata all'unisono, chitarra
solista e voci: abbiamo inciso solo ciò che potevamo riprodurre dal vivo. Il resto è stato il
magistrale mixing su banco analogico di Marco e Danilo UFO Hi-Fi, e il mastering presso
Saffmastering di Chicago. Il suono è volutamente rudimentale, ma il lo-fi è un'altra cosa.
Avete presente la leggenda secondo cui al primo concerto dei Ramones al CBGB
c'erano solo una quindicina di persone ma dopo averli visti ognuno dei presenti ha
messo su una band? Ecco, c'è stato un momento di cui dopo aver sentito qualcuno vi
siete decisi a mettervi a suonare?
Di momenti ce ne sarebbero tanti: da qualche disco anni 70 trovato in casa, un parente che
suona la chitarra, i vinili dei Mötley Crüe che in epoca grunge costavano poco, la
scoperta di Bo Diddley, “The Spaghetti Incident?”, gli Hellacopters che nascono dagli
Entombed... Decisiva è stata poi la scena hardcore punk romana anni 90, gruppi come
Concrete, Il Sangue, Evidence, Bresci 1900, visti in centri sociali occupati il sabato
pomeriggio dopo scuola, musicisti con cui in seguito abbiamo avuto il piacere di dividere
palco e sala prove. In generale abbiamo background diversi, ma la stessa attitudine
indiscussa, e l'idea di suonare insieme ci è venuta naturale.
Contatti: www.myspace.com/sunglassesad
Giorgio Sala
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Unòrsominòre
Non è un novellino, ma veste i panni dell’esordiente. Kappa, in arte Unòrsominòre, è stato il
cantante dei Lecrevisse, una band che per un breve attimo, a cavallo tra fine e inizio
millennio, è stata la nuova sensazione dell’indie rock italiano. Poi, come spesso accade,
senza una vera ragione tutto si dissolve. Da quel coagulo di emozioni il cantante e
polistrumentista di quella band, in compagnia di Ted al basso e Manuel alla batteria,
alimentando nuove emozioni e inediti stimoli creativi, ha impresso il marchio ad uno nuovo
progetto, gli Unòrsominòre appunto, il cui debutto omonimo è da poco uscito per I Dischi de
Minollo.
Visto che hai una storia da raccontare, facciamo un passo indietro. Perché i
Lecrevisse, che sembravano incamminati a raccogliere quanto seminato in anni di
underground, si sciolgono? E quanto hai imparato da quell’esperienza?
Lo scioglimento dei Lecrevisse è stato necessario, per quanto doloroso. Semplicemente,
non riuscivamo più a divertirci suonando insieme, perché gli attriti fra alcuni di noi erano
diventati troppo aspri. Credo che divergenze di opinioni artistiche a parte (quelle ci sono
sempre), la causa di tutto sia state l’inesperienza, unita a una certa ambizione che spingeva
noi tutti a non essere mai soddisfatti di noi stessi e di quello che avevamo. Sono convinto
che adesso, con la maturità arrivata con l’età, sapremmo gestire diversamente le cose, ma
allora, mi pare, non c’era davvero altra via che separarci. E di questo mi rammarico molto,
perché come Lecrevisse avremmo probabilmente avuto ancora qualcosa da dire, mentre
come dici tu tutto è andato a rotoli appena prima di iniziare a raccogliere quello che avevamo
seminato. In qualche modo questo mio disco è una specie di punto e a capo, per raccogliere
l’eredità di quell’esperienza e darle una conclusione, almeno dal mio punto di vista
ovviamente. In ogni caso quella nei Lecrevisse resta un’esperienza indimenticabile,
fondamentale, e comunque meravigliosa.
Come e quando nasce in te l’esigenza di dare voce ad un nuovo percorso artistico e
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quali sono i punti fermi che hai individuato nel tuo nuovo progetto? Siamo al cospetto
di una band o di un progetto solista? E che ne dici se ci spieghi il nome e i suoi buffi
accenti?
Beh, la voglia di continuare a scrivere e suonare c’è stata fin da subito, dall’istante stesso in
cui i Lecre hanno cessato di esistere. Ma forse proprio per la scottatura presa con il
fallimento dell’esperienza nel gruppo in cui avevo investito così tanto, ho cercato di dar vita a
un progetto di tipo diverso, sul quale avere controllo e responsabilità totali. Unòrsominòre
sono io al 100%, con tutti i pro e i contro della cosa; scrivo e suono quello che voglio come
voglio, il che ovviamente da un lato può limitare il processo creativo, ma dall’altro mi lascia
totale libertà espressiva, e senza il rischio di creare tensioni o scontenti fra musicisti con
sensibilità diverse. Le mie coordinate restano il rock di matrice indie, e certo pop obliquo che
ho sempre amato, magari un po’ più stemperati rispetto alle ruvidezze e alle svisate
“lecrevitiche”, inquadrati in strutture generalmente più immediate. Poi dal vivo suono fin
dall’inizio con gli stessi compagni musicisti (Ted, Manuel e Mauro); con loro si è creato un
ottimo rapporto di collaborazione e amicizia, molto sereno dato che come dicevo la
responsabilità di tutto resta comunque solo mia. Per quanto riguarda il nome del progetto, è
un gioco che fonde in un’unica parola tre o quattro aspetti fondamentali della mia vita. Fra
questi ci sono certi lati del mio carattere, il pessimismo cosmico che coltivo con ostinazione,
e l’altra mia grande passione oltre alla musica, l’astrofisica, che poi è anche il lavoro che mi
dà da vivere. Per gli accenti invece devi rivolgerti a una mia amica di Roma, io ho solo
eseguito un suo imperativo...
Ho sempre apprezzato, sin dai Lecrevisse, la tua vocalità diretta, melodica e
vagamente drammatica, hai qualche modello da citare, per l’estetica vocale, ma anche
per la stesura delle parole, visto che ai testi dai una valenza importante.
Ti ringrazio per gli apprezzamenti. Domanda interessante. Per quanto riguarda l’espressività
e la timbrica vocale in gioventù ho certamente cercato di ispirarmi a quelli che erano allora i
miei idoli; non so, Eddie Vedder, o Jeff Buckley. Da loro ho cercato di imparare un modo di
comunicare, una via di emissione delle parole che non fosse solo “canto” ma anche e
soprattutto espressione di un’urgenza, di un’emozione. Poi però il canto in italiano è per certi
versi molto più problematico, la lingua italiana è piena di parole sdrucciole, e generalmente
più lunghe e meno dure delle parole inglesi; sicché è molto facile cadere nell’estremo
opposto e risultare eccessivi, troppo melodrammatici, alla Ligabue o alla Renga per capirci –
ottimi cantanti, per carità, ma un po’ lontani dal mio modo di intendere la voce. Allora per
ottenere un buon risultato cantando in italiano si deve lavorare sul togliere anziché
sull’aggiungere, e magari inacidire un po’ il timbro. Poi chiaramente ciascuno ha la voce che
ha, si tratta di trovare la via più giusta per sfruttare le proprie doti riuscendo a esprimersi al
meglio. Per quanto riguarda i testi, credo di aver fatto mio un modo di scrivere ereditato dagli
artisti che ho sempre amato di più. Ivano Fossati su tutti, un esempio perfetto di profondità,
emozione ed equilibrio nella scrittura, reinterpretare la sua “Discanto” è stato un passaggio
necessario per me, qualcosa di catartico.
In “Gagarin” i versi sembrano guardare al passato con un fare nostalgico e
disincantato. Nonostante la tua giovane età, pensi che sia già arrivato il momento del
rimpianto e del disincanto, che in qualche modo affronti anche nel magnifico
rifacimento di “Discanto” di Ivano Fossati?
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Grazie per la “giovane età”! Io mi sento piuttosto vecchiotto invece, soprattutto al confronto
di tanti esordienti d’oro che calcano le scene, ma forse è una mia fissazione personale, in
effetti mi sentivo vecchio anche a vent’anni. Di certo però ormai ho un’età sufficiente per
avere molti ricordi di vita vissuta ed elaborata, e per accorgermi che il mondo in cui sono
cresciuto sta sparendo giorno dopo giorno, lasciando il posto a un paese, e a un pianeta,
che per lo più mi sembrano peggiori. Un po’ sarà dovuto a quell’affezionarsi al proprio
passato che fa sempre sembrare migliori i bei tempi andati, ma credo che non sia solo
questo. In “Gagarin”, ad esempio, racconto di tempi in cui si poteva sognare immaginando
un uomo da solo nello spazio; oggi i sogni sono oggetti da consumare, simboli di potere, la
poesia romantica dell’uomo e della sua epopea non affascinano più, la gente cerca
soddisfazioni più immediate. Paradossalmente, con il dilatarsi degli orizzonti fisici, quelli
emotivi e intellettivi si stanno invece atrofizzando sempre più. Ma poi in generale sono una
persona che si lega indissolubilmente al proprio passato, e tendo sempre a coltivare la
nostalgia e la malinconia anche quando fanno male, forse perché non voglio perdere niente
di quello che mi ha portato qui ed ora, perché voglio avere sempre con me tutto quello che
sono stato. Certo, questo vuol dire confrontarsi con le proprie speranze e illusioni del
passato, e il bilancio per forza di cose raramente è positivo. Il dis(in)canto è sempre dietro
l’angolo, vivere significa anche cercare di scendere a patti con le proprie disillusioni, magari
per farne tesoro e ripartire a testa bassa.
Ascoltando il tuo CD mi assale quel senso di tristezza che provo sempre quando mi
trovo davanti a buona musica che però rischia di restare ad appannaggio di pochi
curiosi. Credo davvero che Unòrsominòre non sia la solita “buon” band, ma qualcosa
di più. Come si può uscire dalle secche di un mercato musicale fatto di reality show e
i soliti venti nomi che ruotano su MTV e nei radio network.
Purtroppo non ho risposte pronte, non so come si fa a diventare famosi, o forse lo immagino
ma preferisco lasciar stare. Ci sono molte band che non hanno la visibilità che meritano, vuoi
perché non si sbattono abbastanza per mettersi in mostra, vuoi perché non arriva il colpo di
fortuna che aiuta altri magari meno meritevoli. Certe volte conta di più essere amici della
persona giusta che suonare bene o scrivere belle canzoni, un po’ come in ogni altro ambito.
Forse anche gli addetti ai lavori hanno una parte di responsabilità in questo, è raro che un
giornale o una webzine si espongano oltre la recensione per promuovere un artista o un
gruppo se non c’è un buon management dietro. Magari se “Il Mucchio” mi mettesse in
copertina il mese prossimo... Ma alla fine è questione di sbattersi, di provarle tutte, se ce la
si sente e se ne hanno le possibilità. Chiaramente più passano gli anni e più è complicato
mettersi in gioco. Non parliamo ovviamente del mercato di massa, quello è un altro pianeta,
è un mostro governato da una strategia nascosta nemmeno troppo complicata da intuire: chi
ha i mezzi investe su qualcuno che può funzionare, e lo pompa fino a farlo funzionare sul
serio, spesso creando mostri che impesteranno la scena artistica per anni con le loro
mediocrità che piacciono alla “ggente” con due “g”. Comunque non so, io non mi aspetto
granché, prendo quello che viene; mi basta che la mia musica “esista”, non solo per me ma
anche per chi la vuole trovare. Poi se ci saranno sviluppi ci penseremo.
Ma perché l’indie-rock ha sempre queste copertine così brutte, confuse? Quante notti
sei stato sveglio per decidere di fare una copertina praticamente bianca?
Non ho ben capito se intendi dire che con questa scelta mi distanzio dallo standard delle
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copertine indie, o se ti sembra “brutta e confusa” anche la mia. In ogni caso, ho sempre
trovato molto affascinante l’idea di “quiete disturbata”, di sfocatura; se vuoi è la
trasfigurazione grafica dell’estetica lo-fi. L’arte contemporanea è piena di esempi di superfici
bianche o grigie in cui un piccolo elemento disturbatore incrina l’apparente equilibrio. Ma
anche in ambito rock, prendi le copertine dei dischi dei Cure dei primi anni 80 ad esempio,
“Faith” o “Seventeen Seconds”. Poi l’interno del booklet è decorato con disegni bellissimi,
opere di un’artista davvero straordinaria, Antonella Prencipe. Magari il bianco non è
perfettamente rappresentativo del mood sonoro del disco, forse avrei visto meglio un blu
notte o un verde scuro, ma io e Antonella abbiamo alla fine optato per la soluzione più
semplice e incisiva a livello visivo. Comunque avrai fatto la stessa domanda anche a Paul
McCartney, spero!
Contatti: www.unorsominore.it
Gianni Della Cioppa
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Agnese Manganaro
Mille petali
Irma
Una lunga gavetta, fatta di Castrocari, di selezioni sanremesi, di premi patrocinati da Mogol;
poi l’attenzione della cricca della club culture intelligente/elegante, l’attenzione di Alessio
Bertallot, l’approdo alla Irma Records. Lì, il mancato decollo, giusto qualche discreto colpo
facendosi luce in mercati non convenzionali (il Giappone, l’Ucraina) per lo spazio di un brano
e di un’apparizione in qualche compilation. Ma la Manganaro non si è scoraggiata, arrivando
finalmente al traguardo del primo album dopo quasi dieci anni di fatiche, avventure e
disavventure. Brava lei e bravo chi ha lavorato attorno a lei: perché “Mille petali” è prodotto e
pensato davvero bene. Certo, non è un disco che sorprende o che osa stilisticamente; ad
ascoltarlo superficialmente, o con orecchie non specializzate, pare una replica del filone
Norah Jones, stop. Al che va detto che prima di tutto ‘sto filone ha una sua dignità, per poi
aggiungere che nella Manganaro questa sembra una linea spontanea, non una scelta
furbetta; poi, in generale le tracce dell’LP scorrono bene e ogni tanto tentano anche soluzioni
personali (ogni tanto, eh, senza esagerare), quindi c’è senz’altro del buono. Anche i testi,
opera della Manganaro stessa, hanno attitudine simile, visto che non osano voli pindarici e
soluzioni atipiche ma viaggiano su una piacevole linearità talora in grado di piazzare qualche
linea sagace. Un’opera di grazioso ingegno, dolce ma non dolciastra, piacevole ma non
stucchevole.
Contatti: www.agnesemanganaro.com
Damir Ivic
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Alberto Styloo
Infective
Discipline/Venus
Attorno alla Discpline, etichetta discografica ricostituita nel 2007 da Garbo insieme allo
stesso Alberto Styloo, sembra ormai gravitare una vera e propria micro-scena di
musicisti/amici dediti al recupero di sonorità prevalentemente Eighties. Tra le uscite degli
ultimi mesi, ricordiamo per esempio il progetto Zerouno di Simone Cattaneo, Luca Urbani dei
Soerba e Lele Battista de La Sintesi oppure l’affine Ottodix (Alessandro Zannier). “Infective”
trae spunto nel titolo e nell’attitudine da artisti “maledetti” come David Bowie o Lou Reed,
proponendosi l’impegnativo obiettivo di rappresentare una specie di “Nuova Scapigliatura” in
opposizione all’attuale mancanza di correnti artistiche di rottura. Le undici canzoni in
programma - cantate in inglese con voce perlopiù profonda, a eccezione dell’avvolgente
semi-strumentale “Neamtz” - si rifanno alla new wave e a certa dance, con preponderanza di
programmazioni, tastiere e piano. Gli ospiti chiamati a contribuire in fase di composizione o
esecuzione sono tantissimi, fra i quali nominiamo almeno i succitati Garbo e Luca Urbani,
Andy, Elisabetta Fadini, Georgeanne Kalweit, A Kid In Trouble e Hellzapop. Pregi: la cura
formale prestata al tutto e qualche episodio di piacevole electro-pop ritmico (“Call My
Name”). Difetti: brani non sempre all’altezza a livello compositivo e soluzioni stilistiche
frequentemente fuori tempo massimo. In conclusione, un album di media fattura che non
può definirsi né contagioso né rigenerante.
Contatti: www.myspace.com/albertostyloo
Elena Raugei
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Barbara De Dominicis
Anti-Gone
WM Recordings
Raccoglitrice di suoni, curiosa di stili e atmosfere, Barbara De Dominicis realizza per una
label olandese il primo disco a proprio nome. Già Cabaret Noir, la musicista napoletana fu
animatrice dell’emsemble Poe-Si, insieme all’ex 99 Posse Marco Messina, Davide Lonardi e
Mirko Signorile, tutti qui presenti in un nutrito stuolo di collaboratori reclutati tra New York,
Berlino, Napoli e Parigi. La De Dominicis non ama le direzioni univoche; preferisce piuttosto
dipanarsi in mille matasse. “Anti Gone” è un piccolo gioiello, capace di farsi fascinosa
narrazione (finto-)epica. Il titolo si presta a un senso più o meno anglofono (“andare contro”)
e/o può essere inserito dentro una classicità declinata in pop, nella quale trovano posto
anche “Calypso”, “Venus Motel” e “Me-dea”, un jazz da club per voce, piano, sax e
programming. I suoni spesso sono ingolfati e spezzettati, lacerti d’elettronica; note
gocciolanti, pulsazioni; ma a volte un violoncello che fa da contro-melodia – in
“Disremembering Echo” – fa venire in mente un Leonard Cohen, e in “Vulnerable Interlude”
costruisce onde sognanti e lievi una chitarra slide suonata da Simon Olivier (del gruppo
australiano Dominique & The Band). Lo stupendo tradizionale partenopeo “Passione” – un
tributo scabro e minimalista – sta in chiusura di scaletta, con accompagnamento al piano di
Mirko Signorile; e il remix di “Calypso”, e per farsi un’idea del progetto stilistico di Barbara De
Dominicis, è affidato a Ursula 1000, della scuderia Thievery Corporation.
Contatti: www.anti-gone.com
Gianluca Veltri
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Devocka
Perché sorridere!?
Nagual/Nomadism
Secondo lavoro dei Devocka, a tre anni dal debutto discografico, “Perché sorridere!?” è da
intendersi come una tappa positiva nel percorso di maturazione del quartetto ferrarese. Le
coordinate principali si confermano: un rock incendiario, alienato, a volte (s)confinante verso
l’hardcore, sorretto da testi colmi di rabbia e malessere. Il “noise drugo” della band è ben
servito, oltre che da una sezione ritmica coi fiocchi ─ basso e batteria a cura
Francesco Bonini e Ivan Mantovani ─ dalla produzione di Giulio Favero (già con One
Dimensional Man e Teatro degli Orrori). “Piero” è una sorta di prologo: sopra un tappeto
acustico di arpeggi chitarristici canta la perdita dell’innocenza di quel che una volta
chiamavamo “borghesia” (antichi!). Ma già la deflagrazione elettrica di “Corri”, ispirata al film
“L’odio” di Kassovitz, si occupa di portarci nei territori adusi, con il chitarrista Matteo
Guandalini a imbastire riff rissosi, abrasivi. In “Pane” la chitarra è campane a morto, in “Lab”
un vagare lamentoso. Rumore e claustrofobia a Ferrara. “Altre 100 volte” e “Umor vitreo”
ripropongono scenari scuri di crudezza pop, in stile fratelli maggiore Marlene. Lo stile vocale
di Igor Tosi si alterna tra parti recitate e narrate, e altre in disperante urlato. L’Emilia
paranoica dei Devocka ha debiti filmico-letterari con l’”Arancia meccanica”, di Burgess prima
e di Kubrick poi. Lì le ragazze vengono definite, in slang anglo-russo, “devotchka”. È a
quell’universo, a quel sistema di sensi, che rimanda la plumbea cappa sonica del gruppo.
Contatti: www.devocka.it
Gianluca Veltri
Pagina 38
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Numero Luglio/Agosto '09
East Rodeo
Dear Violence
Trovarobato/Audioglobe
Di base a Padova, i due fratelli croati Nenad (chitarra, voce) e Alen Sinkauz (basso) danno
vita da alcuni anni agli East Rodeo: dopo alcuni rimaneggiamenti di line up la formazione si è
assestata sull'attuale quartetto, completato dalle tastiere (e live electronics) di Alfonso
Santimone e dalla batteria di Federico Scettri. Musica difficile da definire quella contenuta
nei tre quarti d'ora di questo “Dear Violence”, disco dal titolo piuttosto programmatico, ma noi
ci proviamo: impro-ambient nevrotico, o se preferite un math-rock errabondo che entra ed
esce dai confini del genere , muovendosi tra sfuriate e sospensioni cariche di elettricità,
sfuriate che hanno luogo entro confini solo apparentemente rigidi, una alternanza di
chiaroscuri che riesce nel non facile compito di non allentare mai la tensione, tenendo
sempre teso il filo rosso del conflitto con l'ascoltatore. I momenti più brillanti coincidono con
una “Same Step” che si muove su eteree e contortamente convincenti linee melodiche di
scuola canterburiana, che esplodono in frammenti al limitare dell'hardcore di impronta noise,
e con una “Transiraniana” che ricorda certi esperimenti tra industrial e ambient dei King
Crimson anni 90, mentre l'unico brano in italiano, “Ultima volta che il pesce abbocca”, scritto
in collaborazione con il precedente tastierista Kole Laca, svela una vena surreal-nevrotica
che ben si adatta all'impianto strutturale del brano.
Contatti: www.eastrodeo.net
Alessandro Besselva Averame
Pagina 39
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Numero Luglio/Agosto '09
Eua
Eua Eua et voilà
Aguirre
Bislacco progetto gli Eua: per pigrizia li si potrebbe definire demenziali, ma quello che esce
dall'ascolto del loro debutto, “Eua Eua et voilà”, è sì un bizzarro cabaret che certo non
manca di precursori e modelli, ma anche una coraggiosa messa in pista di una sana e
spontanea follia (leggi, senza paura di scivoloni o di compiacimenti). Se consentite un
paragone impreciso ma non troppo, a chi scrive fanno venire in mente i primi Acid Folk
Alleanza, con il loro oscillare tra spontaneismo ingenuo e citazioni volontarie, tra radici
popolari e riferimenti enogastronomici e territoriali apparentemente gratuiti. Loro, d'altra
parte, si autodefiniscono “sultans of folk-punk-swing”, e quello è un po' lo spirito delle
canzoni, che tuttavia non si piegano a schemi folk sfruttati o ad una certa tradizione
importata da tradizioni come quella irlandese. Goliardia e poesia intuitiva sono gli ingredienti
– è proprio il caso di dirlo – di un pezzo come “Speck”, inno al prosciutto affumicato, mentre
altrove il terzetto sembra fare l'occhiolino, almeno idealmente, al Guccini di “Opera Buffa”. A
convincerci del talento potenziale dei tre (Attilio Poletti, Max Bertoli, tale Ribamar) è la
davvero improponibile (a meno che non si sia particolarmente incoscienti, come in effetti i
nostri sembrano davvero essere) “Barbara”, una strana cosa tra il canto cosacco, la
barzelletta e il repertorio della house band di una immaginaria balera surrealista. In
sostanza? Lo spirito che permea questi brani ci piace molto, al punto da perdonare al trio
alcuni tentativi non del tutto convincenti di strappare sorrisi.
Contatti: www.aguirre.it
Alessandro Besselva Averame
Pagina 40
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Numero Luglio/Agosto '09
Fabrizio Coppola
La stupidità
Atelier Sonique/Mousemen
Nuovo EP di quattro brani per Fabrizio Coppola, prodotto come il precedente album di
studio, “Una vita nuova”, insieme a Simone Chivilò e racchiuso in un bel digipack dalla
curata grafica artigianale. La canzone che dà titolo al dischetto, disponibile in download
gratuito tramite il sito ufficiale, è per certi versi un efficace manifesto programmatico: la
musica si fa cantautorale e tendente al blues, mentre le parole sono limitate con attenzione
nel restituire un desolante, veritiero quadro di attualità a base di intolleranza e razzismo.
Così come è programmatico il videoclip che accompagna il singolo, diretto da Angelo
Camba e dedicato alla memoria di Abdul Salam Guibre. Il resto della scaletta, per meno di
un quarto d’ora complessivo di durata, prosegue con la sospesa “L’altalena” (scandita da
eleganti note di pianoforte e vicina alla ballate di Riccardo Sinigallia), la più incalzante “Il
colpevole” (dove le elettriche graffiano in accompagnamento a un ritornello orecchiabile) e
l’intimistica “L’ultima battaglia” (voce e chitarra acustica da storyteller vecchia scuola). Il
songwriter milanese non rappresenta nessuna novità a livello puramente stilistico, ma riesce
comunque a rifinire composizioni solide nonché fedeli a una propria visione artistica e
sociale, ben distante dal circostante appiattimento perlopiù passivo. Le buone intenzioni,
insomma, vanno di pari passo con i buoni risultati. In attesa di ulteriori sviluppi.
Contatti: www.fabrizio-coppola.net
Elena Raugei
Pagina 41
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Numero Luglio/Agosto '09
Farmer Sea
Low Fidelity In Relationship
I Dischi de L’Amico Immaginario/Audioglobe
Allora, i Farmer Sea fanno indie-pop. Aspetta, “indie-pop” a chi? Certe formulette da
generatore automatico di recensioni si portano dietro un codice ormai talmente calcificato –
nei suoi connotati estetici e , diciamo così, sociologici” – da rendere in alcuni casi un
pessimo servizio all’oggetto di tali descrizioni. Quindi, diciamo che da un certo punto di vista
il quartetto torinese fa, ebbene sì, lo stramaledetto indie-pop. Quello che si può ricondurre
agli Yuppie Flu e ai Grandaddy, ai primi Julie’s Haircut e ai Pavement più melodici e “diritti”,
giusto per non far distinzioni tra prodotto nostrano e barbari d’importazione. Dall’altro lato,
vogliamo sperare che i Farmer Sea taglino al più presto i ponti con quel piccolo mondo rosa
fatto di camerette, blogger, assurdi gruppi svedesi, titoli “simpa”, look trendy e immaginario
“giocattoloso”. Qualche detrito di quell’universo alternativo è ancora appiccicato ai Farmer,
ma confidiamo se li scrolleranno di dosso senza problemi. Per due motivi. Uno, perché
questa è gente abituata a procedere per piccoli passi senza montarsi la testa (nonostante la
fighissima citazione come “next big thing” sull’“NME”, a seguito dell’EP “Where People Get
Lost And Stars Collide”: da allora nessuno di loro si è fidanzato con Kate Moss, forse perché
troppo impegnati a suonare in giro, produrre un altro singolo, “Helsinki Under The Great
Snow”/”Neil Young Is Watching Me”, e a mettere assieme i rimanenti pezzi per questo
debutto). Secondo, perché sanno scrivere melodie belle, solide e capaci di farsi ricordare.
Se da un lato le influenze sono trasparenti (le accensioni chitarristiche dei - supponiamo
amatissimi - Broken Social Scene e dei Deerhunter, tanto quanto il pop “casiotronico” dei
Notwist), la personalità lo è altrettanto, e certe piccole trovate – il banjo che interviene in più
di un brano, la tromba lounge alla Belle And Sebastian di “Sedinho”, i ricordi Yo la Tengo
della magnifica e rarefatta “She Dreams Of Airports And Planes” – fanno ben sperare per il
futuro. Per chi scrive, l’album italiano indie-pop (ahem...) più godibile dai tempi in cui i
Perturbazione cantavano in inglese.
Contatti: www.farmersea.it
Carlo Bordone
Pagina 42
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Numero Luglio/Agosto '09
Funky Pushertz
Lunch
SuoniVisioni/Jestrai
Erano magari destinati ai sani (e talora stantii) circuiti hip hop nazionali, i Funky Pushertz;
ne sarebbero stati validi esponenti, originali anche, visto che all’interno del genere lavorano
su un piacevole eclettismo stilistico che incorpora diversi tipi di flow nel rap, diverse soluzioni
negli arrangiamenti (con anche la voglia di salire live su un palco con una band alle spalle),
diversi atteggiamento rispetto ai meri luoghi comuni dell’hip hop nostrano. Però, ecco, alla
fine questa era ed è la loro terra naturale d’appartenenza: b-boy innamorati del funk. È
curioso allora vedere cosa succederà ora che la Jestrai, che finora è stata all’hip hop come
gli americani al soccer, ha deciso di puntare su di loro, offrendo loro una piattaforma
discografica e promozionale che lavora sui sentieri soliti (e solidi?) dell’indie rock italiano.
Non sappiamo dire se questa sarà per i Funky Pushertz una soluzione vincente o meno, non
ci azzardiamo a fare previsioni. Il rischio che non sia la scelta giusta c’è: perdono credibilità
agli occhi del pubblico dei b-boy, sempre attento al richiamo del branco, e quindi se cominci
ad affidarti a circuiti discografici e promozionali altri rischi l’ostracismo, al tempo stesso sono
troppo autenticamente b-boy per sedurre veramente gli indie kids. Staremo a vedere. Nel
frattempo dovrebbe parlare la musica: è quella è buona, è gradevole, anche intelligente in
certi passaggi, è varia. Manca forse l’affondo; c’è qualche incisivo lampo verbale, ci sono
varie soluzioni azzeccate dal punto di vista sonoro, ma non il colpo da k.o. che manda
all’aria il tavolo e riscrive le regole del gioco. Magari arriva, le potenzialità ci sono.
Contatti: www.myspace.com/funkypushertz
Damir Ivic
Pagina 43
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Numero Luglio/Agosto '09
Hellekin Mascara/Angioletti Trio
Il verso del vinile 01
Il Verso del Cinghiale
Interessante questa iniziativa discografica della neonata etichetta Il Verso del Cinghiale, che
esordisce con un 10” nel quale trovano spazio due band lombarde, entrambe interamente
strumentali, diverse ma in qualche modo complementari. Il lato A è appannaggio degli
Hellekin Mascara, che si muovono in bilico tra noise, dissonanze soniche e rock’n’roll; tre le
composizioni per loro, caratterizzate dall’interazione tra una chitarra tagliente e la sezione
ritmica, e scandite da continui cambi di tempo e improvvisi sbalzi dinamici, in una
convincente alternanza di stati d’animo e suggestioni. Sulla seconda facciata trovano invece
posto gli Angioletti Trio, ensemble che sull’asse batteria-chitarra-sax costruisce brani
nervosi, tesi, in continua evoluzione, capaci nel giro di pochi secondi (è il caso dell’iniziale
“Carabinieri dello zodiaco”) di passare dal jazzcore alla no-wave, dal free al jazz più
tradizionalmente detto, fra sferzate di rumore e riusciti squarci di quiete melodica. Una bella
sfida quella tra le due formazioni, senza né vincitori né vinti, perché entrambe si muovono
con sicurezza e inventiva nei rispettivi campi di appartenenza; senza compromessi, ma
neppure senza asperità inavvicinabili. Davvero un buon inizio per la label cremonese.
Contatti: www.ilversodelcinghiale.org
Aurelio Pasini
Pagina 44
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Numero Luglio/Agosto '09
Il Cane
Metodo di danza
La Tempesta/Venus
Apprezziamo il talento di Matteo Dainese, fin dai tempi in cui il musicista percuoteva i
tamburi con impressionante, metronomica e danzante violenza negli Ulan Bator. E ci piace
anche lo spirito imprenditorial-artigianale che lo ha portato a fiondare una etichetta come
Matteite. Ragion per cui, al di là di ogni sospetto di pregiudizio, vogliamo essere del tutto
onesti nel confessare che questo suo nuovo lavoro a nome Il Cane, naturale prosecuzione
del disco pubblicato una manciata di anni fa a nome Dejlight, orientato al songwriting (in quel
caso la lingua scelta era l'inglese) e alla intersezione di colori elettronici, chitarre acustiche e
batterie, non riesce a convincerti fino in fondo. Il tentativo è quello di creare un pop dalle
traiettorie bislacche (ma anche molto immediate), mescolando ritornelli a presa rapida,
riflessioni surreali, beats e strumenti, con il contributo sparso di amici musicisti (tra i nomi,
Ru Catania degli Africa Unite, gli Amari, Enrico Molteni dei Tre Allegri Ragazzi Morti), ma a
tratti il peso specifico dell'insieme è un po' troppo leggero per lasciare tracce durature.
Anche se ci sono importanti eccezioni: l'atmosfera onirica e trasognata di “Dune”, il
pianoforte gonfio di malinconia di “Male al dente”. Metodo di danza non è comunque mai un
lavoro che cerca di assecondare i gusti del pubblico: si sente che c'è dietro un percorso, una
visione assolutamente personale e determinata a costruire la propria cifra stilistica senza
condizionamenti. Solo, questa volta una buona parte delle tracce resta in superficie, non si
imprime fino in fondo nell'immaginario.
Contatti: www.latempesta.org
Alessandro Besselva Averame
Pagina 45
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Numero Luglio/Agosto '09
Illàchime Quartet
I’m Normal, My Heart Still Works
Fratto9 Under The Sky/Lizard
Racchiuso in una splendida confezione digipack, con tanto di mini poster allegato (ma non
aspettatevi cose da rockstar, piuttosto due immagini sfocate e le spiegazione di un paio di
brani), il nuovo album dei napoletani Illàchime Quartet va a colmare uno spazio durato
cinque anni: tanti ne sono trascorsi dall’esordio e sette dalla nascita del gruppo, un
ensemble aperto che ha l’obiettivo colto di far convivere musica elettronica e strumenti
acustici in un insieme sonoro che appare davvero strabiliante per la semplicità con cui viene
elaborato e reso accessibile. Ma il merito maggiore è di aver evitato quell’approccio
intellettualoide che ammanta spesso questi album di frontiera, in bilico tra sperimentazione,
musica da camera e puntate di jazz. Il quartetto partenopeo ha invece dato una forma
concreta a suoni e rumori mutevoli del mondo esterno che, come spiegano nella biografia,
ispirano le loro composizioni. I brani si impreziosiscono di importanti collaborazioni: in
“Discentro” la voce è di Mark Stewart dello storico Pop Group, mentre in “Ballrooms” è
Graham Lewis dei Wire ad offrire il proprio contributo, senza dimenticare Salvatore
Bonafede e Rhys Chatham, musicisti d’avanguardia divisi dalla provenienza, italiano il primo
americano il secondo, ma uniti dalla volontà di spostare i confini del già sentito. Accanto agli
ospiti, i titolari Fabrizio Elvetico (piano, basso), Gianluca Paladino (chitarra), Agostino
Mennella (batteria) e Pasquale Termini (violoncello), tutti alle prese anche con synth e
campionatori, creano il loro viaggio immaginario fatto di musicalità, evitando le secche di una
scrittura algida, come troppo spesso accade nei sentieri della nuova (e vecchia) musica
“contemporanea”. Ascoltando le improvvisazioni che avanzano di pari passo con momenti
più logici, gli Illàchime Quartet svelano il volto umano di certe sonorità innovative o presunte
tali. Un viaggio affascinante che si è rivelato molto meno ostico del previsto, senza mai
perdere però in tensione narrativa e originalità della proposta.
Contatti: www.myspace.com/illachine
Gianni Della Cioppa
Pagina 46
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Numero Luglio/Agosto '09
Kaufman
Interstellar College Radio
Mizar/Audioglobe
Il complimento migliore che posso fare ai Kaufman è che suonano un pop “universale”. Mi
spiego: spesso, soprattutto quando ascolti dischi di area indie-pop italiana, ti rendi conto di
come tutto suoni come ti aspetti, in un modo preciso, per sortire un determinato effetto. È
una musica nata vecchia (quando va bene) che si vuole rifare a modelli definiti e solo citati.
Ascoltando “Interstellar College Radio”, invece, pensi a tutt’altro. Lasciate perdere
l’imbarazzante copertina. Se i Kaufman suonassero al Primavera Sound Festival tra le 17 e
le 18 nessuno avrebbe niente da ridire. Si tratta di una musica che travalica i confini per
diventare, appunto, “universale”. Non suona come un disco di italiani che vogliono fare gli
americani. Suona come un disco pop di ottime canzoni fatto da gente che ha ascoltato e
assimilato per bene le sue influenze (sulla cartella stampa si leggono Lemonheads e
Dinosaur Jr., con me han già vinto anche se nel disco ci sono molte chitarre acustiche,
diversi rumorini alla DCFC e cose varie che fan molto Weezer).
Penso quindi sia il caso di dare più di una chance a questa band. Se non altro è più onesta
di molte altre perché suona quello che vuole suonare e lo fa scrivendo canzoni elementari
ma efficaci. Dura il giusto, trentaquattro minuti, e non puzza di stantio, logoro, tappo.
Contatti: www.myspace.com/kaufmansound
Hamilton Santià
Pagina 47
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Numero Luglio/Agosto '09
Maripensa
Maripensa
Terzo Millennio/Self
A dir poco radiofonico questo esordio dei Maripensa. Con tanto di voce alla Renga a
spingere sul pedale dell'emotività in stile “Amici”, schemi consolidati strofa-ponte-refrain,
suoni patinati da network commerciale, chitarre elettriche innocue e romanticherie spicciole.
Insomma, “Festivalbar” più che “Frequenze Disturbate”, Negramaro più che Radiohead,
Maripensa più che Mariposa. Per un rock da FM che per chi naviga nell'underground
alternativo “di noi altri” ha il viso scorbutico e il portafoglio gonfio di qualche manager major
pre-Napster. Eppure, appurate le aspirazioni e verificato che non siamo parlando
esattamente di materiale nelle nostre corde, non possiamo non rilevare come il gruppo non
se la cavi affatto male nelle tredici tracce in scaletta. Che nel gioco delle metafore significa
avere a che fare con materiale ispirato e decisamente meno “scandaloso” rispetto a certe
supposte opere d'arte in giro per l'airplay dei grandi numeri o le classifiche di vendita ufficiali.
Per di più confezionato con mezzi inferiori. Insomma, melodie e testi al posto giusto e una
superficialità solo supposta, nonostante l'evidente flirt con estetiche di grido e a larga
diffusione.
Contatti: www.myspace.com/maripensaband
Fabrizio Zampighi
Pagina 48
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Numero Luglio/Agosto '09
Martin Devil
Problemi di beat generation
Universo
Martin Devil è il nome d’arte dietro al quale si cela Maurizio Guglielmelli, cantautore della
provincia salernitana alla sua prima prova discografica. Erede di una vena cantautorale che
guarda oltreoceano, Martin è un degregoriano e quindi un dylaniano. “Fuorilegge” è un
country-rock nel perfetto stile dell’autore di “Rimmel”, con il duluthiano Mr. Jones che
compare come personaggio; ma anche “L’amore nel ricordo” e “Spegni la luce” ci riportano
(un po’ troppo, forse) dalle parti del canzoniere di De Gregori, la prima versante
melodia-pura pianoforte & voce; ballad chitarra e batteria spazzolata la seconda. Un’altra
ballata della medesima genìa, di quelle che ti avvolgono come drappi in serie, è il singolo
“Portami le tue poesie”. “Così come dico io” presenta qualche spruzzatina di Rino Gaetano;
“Non lasciarti qui” è un (potenzialmente) ottimo passaggio radiofonico alla Max Gazzè, e
questo è un link che torna anche in “Pensiero nella tua mente”. Circola una bella freschezza
nei solchi di questo esordio on the road. Una fragranza che non ha timore della
gradevolezza, senza diventare mai ruffianeria. La poetica del songwriter di Centola è se
volete anche naif, basata com’è sulla convinzione che “i sentimenti non fanno male”. “Amore
e tempo”, uno dei migliori momenti dolceamari dell’album, pare fatto apposta per essere
cantato dalla Mannoia. L’unico consiglio a Martin, dopo un esordio così, è progressivamente
d’affrancarsi dai modelli, ancora un po’ troppo ingombranti. In questo esordio il giovane
artista campano è assai ben accompagnato: per il disco, masterizzato da Bob Fix, Devil è
coccolato da due bravissimi e esperti musicisti dell’area vesuviana: il bassista Gigi De
Rienzo (anche alle manopole del missaggio) e il chitarrista Franco Giacoia.
Contatti: www.myspace.com/martindevil
Gianluca Veltri
Pagina 49
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Numero Luglio/Agosto '09
Mattia Coletti
Pantagruele
Wallace/Audioglobe
A chi si fosse perso le puntate precedenti di un percorso atipico e abbastanza unico lungo i
margini della scena impro/avant italiana (dalla presenza nel progetto Sedia, alle
collaborazioni con Xabier Iriondo, il giro Wallace e il Damo Suzuki Network), Mattia Coletti
apparirebbe ad una prima occhiata come un volenteroso emulo di John Fahey o un
eccellente fan della scena di Louisville (Gastr Del Sol su tutti). Quello che invece emerge ad
un ascolto attento di questo brevissimo quanto ispirato lavoro (siamo poco sopra i venti
minuti), alla luce delle esperienze citate poco fa, è la volontà di trovare un equilibrio tra
spinte radicali e forma canzone. Le chitarre acustiche sono registrate con impressionante
nitore, le coloriture elettronico-rumoriste di un paio di pezzi non oltrepassano mai la soglia
dell'ostica provocazione, senza per questo arretrare e smussare la personalità, e il risultato –
cui contribuiscono i fiati di Paolo Cantù, il pianoforte di Alberto Morelli e la batteria di Michele
Grassi - è un gran bel coacervo di folk elettroacustico, ambient rurale e minimaliste
ripetizioni. Fortunatamente non se ne accorgeranno in pochi, o perlomeno non i soliti pochi
italiani, visto che il disco è co-prodotto dalla giapponese Towntone, e l'interesse da quelle
parti per la nostra scena ha sempre regalato soddisfazioni.
Contatti: www.wallacerecords.com
Alessandro Besselva Averame
Pagina 50
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Numero Luglio/Agosto '09
Medusa’s Spite
Morning Doors (The Glass Path)
Antibemusic/Halidon
Non manca l’ambizione, ai Medusa’s Spite, a sentire questo disco. Chissà, forse la storia al
tempo stesso semplice e complessa del gruppo – ancora negli anni 90 erano in fila per
essere la next big thing del pop più avanzato ed elettronico in Italia, ma in un decennio di
vita solo due album e molte fasi d’apparente scomparsa – ha aiutato a prendere scelte di un
certo tipo. Una volta assodato che ti sei perso l’occasione di fare il grande botto, e visto che
nel frattempo riesci comunque a tirare avanti anche al di là dell’attività del gruppo, tanto vale
pensare a qualcosa di grandioso. Questo “Morning Doors (The Glass Path)” è una
continuazione/integrazione di quanto fatto uscire nel 2005. Si spinge molto sul concetto di
concept album, si lavora molto di field recording e di voci cinematografiche negli intermezzi
fra un pezzo e l’altro, insomma, non si lascia nulla d’intentato per far capire che i Medusa’s
Spite se tornano, lo fanno per offrire più di un disco. Ma la musica? Al di là degli elementi
accessori, quanto è valida e consistente la musica? Lo è abbastanza. Non lo è
sufficientemente da evitare che tutto lo sforzo concettuale sembri un po’ eccessivo e un po’
sovradimensionato, non lo è sufficientemente da evitare che qualche suono risulti un po’
datato quando si va nel campo del digitale, ma lo è sufficientemente per farsi ascoltare
comunque con interesse. In certi passi, dei Pink Floyd periodo “The Wall” con molti
sintetizzatori e Billy Corgan alla voce, l’impressione è un po’ questa; poi eclettismo vario,
citazioni che vanno dall’electroclash ai Mogwai; buona proprietà di linguaggio strumentistico.
Lavoro atipico, insomma, e non privo di ispirazione. Non quello che i musicisti avrebbero
voluto che fosse, vero. Ma forse in questo caso è un limite veniale.
Contatti: www.medusasspite.com
Damir Ivic
Pagina 51
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Numero Luglio/Agosto '09
Miranda
Growing Heads Above The Roofs
fromSCRATCH/Audioglobe
I Miranda sono una di quelle band che dal vivo tendono a giocare con i volumi taglienti e
con la modulazione di trigger in una serie smisurata di effetti, rendendo consigliabile
l'avvicinamento stretto alle casse soltanto a chi abbia un cervello sano con pulsioni
autodistruttive. Giacché siamo in umore di anniversari, potremmo azzardare definendo il
suono del loro terzo album come neofuturismo irrequieto: decostruzione, sintesi e
ricostruzione della realtà alla ricerca della rappresentazione del movimento. I Miranda si
nutrono di Oneida e LCD Soundsystem, melodia bastarda e Liars per metabolizzarne il piglio
e rumoreggiare con synth, loop e drum-machine, mentre chitarra e batteria sono relegate al
ruolo di guarnizione o poco più. “Growing Heads Above The Roofs”, terzo album ufficiale del
gruppo, non è un disco col quale adagiarsi tra le coperte e chiudere gli occhi in cerca di
sogni ristoratori. Dieci tracce in una quarantina di minuti uniscono rielaborazioni di lavori
precedentemente rilasciati (come lo split con i canadesi Creeping Nobodies del 2007),
rivisitazioni continue dello stesso brano, e no-wave nostalgica misto punk-funk deviato senza
soluzione di continuità; “Head Growing”, quarta traccia, sembra decisamente un pezzo di
James Murphy sotto l'effetto di una sbronza colossale. Il tutto fa parte di una corrente
musicale che negli ultimi tempi prende piede soprattutto nei sottoboschi newyorkesi e
nostrani. Una corrente che potremmo definire, azzardando, neofuturismo irrequieto. Per
cervelli sani con pulsioni autodistruttive, anche.
Contatti: www.mirandamiranda.it
Marco Manicardi
Pagina 52
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Numero Luglio/Agosto '09
Mistonocivo
Zerougualeinfinito
Ostile/Halidon
Da promessa a realtà consolidata; da giovani speranze a rocker esperti. Questo il percorso
intrapreso dai Mistonocivo che, dopo qualche anno di silenzio, si ripropongono in una veste
matura e, perché no, ambiziosa. “Zerougualeinfinito” si presenta infatti come una sorta di
concept album, o per lo meno come un disco in cui tutte le canzoni sono legate da un
argomento di fondo comune, nello specifico”l’ipotesi di una fine, quella di un pianeta
prossimo al collasso fisico e mentale”. Un tema svolto lungo traiettorie che svariano dal rock
chitarristico alle contaminazioni elettroniche, dalle ballate acustiche alle tempeste elettriche,
tra una citazione di “M – Il mostro di Düsseldorf” e una di Astor Piazzolla, e con archi e
fisarmonica a fare la loro comparsa abbellendo il tutto. Un lavoro estremamente curato,
senza alcun dubbio; suonato e prodotto senza sbavature alcune, e cantato con trasporto e
buona capacità di trasmettere sfumature e stati d’animo dei più diversi. A voler trovare un
paio di difetti al CD, c’è da dire che nel complesso manca di veri picchi compositivi, pur
mantenendosi sempre su livelli apprezzabili, e qua e là affiora qualche “maledettismo” di
troppo nelle liriche; ciò premesso, con “Zerougualeinfinito” i Mistonocivo riescono
discretamente bene nel tentativo di dar vita un rock moderno e capace di mantenere la
propria umanità anche dopo l’incontro con la tecnologia; senza esaltarsi troppo, ma neppure
senza mai scendere sotto il livello qualitativo di guardia.
Contatti: www.mistonocivo.com
Aurelio Pasini
Pagina 53
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Numero Luglio/Agosto '09
Morose
La vedova d’un uomo vivo
Ribes/Shyrec/Travelling Music/Boring Machines
“La vedova d’un uomo vivo” è la quarta prova per i Morose, che così aprono una strada
nuova per loro, ovvero il cantato dall’inglese passa all’italiano. Non posso negare di non aver
apprezzato i ragazzi di Sarzana anche per i dischi precedenti, ma l’italiano ha dato loro una
movenza sublime. Il timbro forte e sicuro di Davide Landini diventa un magma di poesia che
solleva prima gli spiriti assieme a Valerio Sartori e Pier Grigio Storti e poi li cosparge di
parole mai scontate, raccontando storie ma anche visioni, immaginazioni, speranze che
l’amore perduto per sempre torni sotto forma di sognanti occhi che finalmente sono per lui
per poi fargli sollevare i ponti levatoi perché lei è arrivata, parafrasando “Intorno a una donna
dai molti mariti”. Questo disco è pieno d’amore, e quindi strugge. Quando non riuscite a
lasciare andare lei e quello che bramate è “Ancora una parola” prima di non vederla più e si
susseguono i ricordi, o il ritratto di un uomo: “Un uomo perduto” dove la ripetizione delle
stesse frasi sembra sbattere contro una roccia la testa e sanguinare sempre di più, per
rimarcare il dolore. “Il campo ha occhi, la foresta orecchi” è nel cuore del disco e qui si erge
l’anima oscura del gruppo, che s’insinua in territori terrificanti che fanno gelare la pelle e si
spinge tra vocalizzi amplificati, spettri tra le dita delle chitarre e voci sussurrate, quando la
voce di Davide arriva accompagnata da un movimento svelto del pianoforte e dalla tromba, e
di colpo scende la notte.
Contatti: www.moroseismoroseismorose.com
Francesca Ognibene
Pagina 54
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Numero Luglio/Agosto '09
Orient Express
Illusion
My Kingodom Music
L’Orient Express corre su binari sicuri; nel nostro caso, una rock band con stazione di
partenza pugliese, Barletta per l’esattezza, anno 2002. Poi il viaggio ha sedimentato
strategie stilistiche, portando lontano, verso lidi anglo-psichedelici. Un trip dunque, come si
suol dire, sancito adeguatamente dal debutto ufficiale “Illusion” pubblicato dall’eccellente
avant-metal (e non solo) label romana My Kingdom Music, impregnato di un mirabile
magnetismo elettrico. Impressionano positivamente le ipnotiche, tese slow-song come
l’iniziale “Eternal Child”, “Illusion”, “Prison Head” e “Rats Know”, fluttuanti in un mare di
arpeggi ed atmosfere malinconiche, anche quando fanno posto ai solidi riff di “Madness”. La
voce di Wito (anche bassista) traccia linee melodiche ed interpretative rassicuranti, efficaci
tra le pieghe più introspettive, ma anche nel seguire l’intensificarsi delle tensioni
chitarristiche (pregevole anche il lavoro alle sei corde del fantomatico GG). Un indubbio,
importante punto a favore, epicentro espressivo in un collaudato impianto rock. Crepuscolari
movenze psichedeliche che sfociano i deflagrazioni controllate, ovvero la connotazione più
evidente nonché formula vincente del quartetto barese, che pare aver raccolto anche dei
riscontri positivi oltre confine. Forse un’ennesima trita storia di italici tentativi di
sprovincializzazione, laddove il titolo del disco pare fotografare un ovvio frustrante pedaggio.
Ma la partenza discografica è buona davvero, matura e consapevole dei propri mezzi, e
spontanei vengono gli auguri per tante nuove soddisfacenti stazioni.
Contatti: www.officialorientexpress.it
Loris Furlan
Pagina 55
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Numero Luglio/Agosto '09
Quasiviri
The Mutant Affair
Wallace/Audioglobe
I Quasiviri sono Roberto Rizzo dei mai abbastanza lodati R.U.N.I. (voce, synth), Chet
Martino (basso a 8 corde, in curriculum Pin Pin Sugar e Ronin) e il batterista canadese
André Arraiz-Rivas, proveniente dal jazz di confine e dalla scena improvvisativa: il loro
incontro ha dato vita ad una delle situazioni più divertenti che siano state trasformate in
disco quest'anno. Immaginate la new wave corrotta e demente, con punte di ossessioni
ritmiche kraute, dei già citati R.U.N.I. inserita in un contesto appena più lineare e avrete
un'idea di quello che vi aspetta immergendovi nell'ascolto di “The Mutant Affair”: “Italia
forza” rievoca la infantile follia del Confusional Quartet, la successiva “Superlando” vi
aggiunge una squadrata progressione sintetico-rumorista di scuola Trans Am e un naufragio
verso spiagge melodiche che ricordano gli Abba. Ma l'incontro impossibile tra Eurofestival e
math-rock non è l'unico risultato che impressiona e convince, visto che il gioco degli
accostamenti ingloba anche i Devo (“Dito indipendente”) e i primi Tortoise nella splendida
“Thanks For Giving”, mentre “L'ultima foresta pluviale” è un sublime cincischiare che si
sviluppa in crescendo incalzanti e spirali geometriche di suono. Si mantiene però sempre, a
prescindere dalle influenze, una fortissima impronta personale. Non sappiamo se Quasiviri
sia un capriccio estemporaneo, oppure se si tratti di una realtà destinata a maturare
ulteriormente, in ogni caso un elemento è particolarmente evidente: il trio si è divertito un
mondo a registrare “The Mutant Affair”, e buona parte di quello spirito è arrivata intatta fino a
noi.
Contatti: www.quasiviri.it
Alessandro Besselva Averame
Pagina 56
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Numero Luglio/Agosto '09
Ranj
Ranj_2009 01
Freecom/Jestrai
Senz’altro interessante il progetto Ranj: quattro musicisti veneti che, uniti dalla passione per
gli strumenti e le sonorità indiane (che hanno studiato al conservatorio di Vicenza), hanno
deciso di farli incontrare con il rock, e nello specifico con distorsioni e soluzioni tipicamente
grunge. A differenza di altre esperienze simili, però, la particolarità del quartetto è che le
strutture compositive non sono quelle tipicamente occidentali, bensì quelle dei raga. Il
risultato di tale processo è una raccolta di brani – sei canzoni autografe, uno strumentale e
tre riletture di canti tradizionali dell’India – che ammalia grazie a una riuscita
compenetrazione di fascinose architetture acustiche e pesanti saturazioni elettriche.
Spiritualità orientale e tensione urbana (non soltanto) anglo-americana si incontrano tra
queste tracce, e anziché respingersi si attraggono e si compenetrano dando vita a qualcosa
di originale e assolutamente degno di nota. Certo, per il pubblico rock tradizionale certe
soluzioni suoneranno un poco strane, così come il cantato di Eli – così distante dai canoni a
cui solitamente siamo abituati – potrebbe sembrare non facilissimo da assimilare: ciò detto,
le melodie tratteggiate dalla voce e, ancora di più, gli arabeschi disegnati dagli strumenti
(chitarra, basso, batteria, sitar e cornamusa) hanno tutte le carte in regola per convincere
anche i più scettici.
Contatti: www.myspace.com/theranj
Aurelio Pasini
Pagina 57
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Numero Luglio/Agosto '09
Runaway Totem
Manu Menes
Runaway Totem Records/Lizard
“Runaway totem non appartiene ad una sola Era. Runaway Totem è formata da Essere
Cosmici”. Questa è la frase che chiude la biografia dei Runaway Totem sul loro sito. Niente
di più normale, visto che siamo al cospetto di una delle band più enigmatiche e affascinanti
del panorama musicale non solo italiano. Avvinghiati nel loro mondo, anzi nei loro mondi, i
Runaway Totem, la cui collocazione geografica terrena è il Trentino Alto Adige, non
conoscono mode, non sprecano tempo a definire quanto scrivono e compongono,
preferiscono seguire e poi musicare le visioni che appaiono e forse scompaiono, frutto di
studi cabalistici, di approfondimenti che sanno di alchimia e dottrine dimenticate, ma che in
realtà, se lette con le giuste conoscenze, vivono e tornano sempre nella storia dell’umanità.
Da oltre due decenni il gruppo, che ha subito modifiche continue (ed è transitato anche con
la Black Widow e la Musea), è imperniato attorno a Châl De Bêtêl (chitarra,
tastiere e voce) e sviluppa la propria storia in cicli e fasi (Analisi, Sintesi, Crono, Kalpa,
Nous), avendo sempre come riferimento una delle band simbolo dell’esoterismo musicale, i
francesi Magma, ma riletti con una soggettività straripante. E così, anche in questa settima
creatura dei Runaway Totem emerge una personalità artistica di dimensioni universali,
attraverso tastiere, strumenti a fiato, pianoforti, cori antichi, voci profonde e senza tempo, si
avviluppano su stesure strumentali lunghe e piene di fantasia, con la voce leggiadra della
nuova arrivata Issirias Moira che fa da contrasto alla timbrica ossianica del leader storico.
Tre lunghe composizioni per un totale di oltre settanta minuti, roba che solo gli adepti a
questo tipo di sonorità, che vi prego di non includere nel progressive, sapranno apprezzare.
Ma per chi conosce i mondi dei Runaway Totem non c’è nessun rischio, se non quello di
perdersi e farsi avvolgere dai tanti sentieri di questa misteriosa e straordinaria band.
Contatti: www.runawaytotem.com
Gianni Della Cioppa
Pagina 58
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Numero Luglio/Agosto '09
Sarah Schuster
Rain From Mars
Sarah Schuster/A Buzz Supreme
Un esordio autoprodotto a sintetizzare tre anni di attività, dopo l’EP di presentazione “Thus
Spoke Sarah Schuster” del 2007. Registrato in presa diretta e rigorosamente in analogico,
“Rain From Mars” fotografa così un gruppo in ottima forma, capace di parlare un linguaggio
indie-rock al contempo nervoso e melodico. Si sarà già capito che agli inutili orpelli si
preferiscono composizioni secche ed essenziali, ma non per questo prive di inattese
sterzate: da una parte vi sono cupi rimandi blues, dall’altra proiettili sparati a gran velocità.
Non mancano nemmeno episodi più riflessivi, per quanto contraddistinti da un lodevole
approccio obliquo (“Riverbank”). I punti di riferimento, tra l’altro dichiarati, sono quindi sia
personaggi carismatici quali PJ Harvey o Nick Cave sia band “a tutto pepe” come le
Sleater-Kinney (si ascolti la frizzantissima “Walk Through The City” oppure le energiche
“More” e “Let’s Dance”). A ricordare ulteriormente queste ultime provvede una formazione
priva di basso, costituita da Lisa Albanese (voce), Daniela Dal Zotto (chitarra, voce e
pianoforte elettrico), Eleonora Dal Zotto (chitarra, cori e shaker) e Matteo Mosele (batteria,
cori e glockenspiel). Sono proprio gli intrecci fra le chitarre e le due voci femminili a intrigare
maggiormente, sebbene non manchino vari diversivi: si pensi alla presenza di Amy Denio, al
sax contralto in “Music Beyond Me” e alla fisarmonica nell’intrigante “Tarà tarà”. Lavoro
davvero godibile, ben superiore a tante proposte di provenienza internazionale. Complimenti
al quartetto veneto.
Contatti: www.sarahschuster.it
Elena Raugei
Pagina 59
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Numero Luglio/Agosto '09
Serpenti
Sottoterra
Godz/Halidon
Caspita se suona bene questo disco, pensi già dopo la prima traccia, e allora corri subito al
booklet: album masterizzato all’Exchange a Londra (eh!) dal signor Mike Marsh (doppio eh!).
Sforzo notevole, segno che si vogliono fare le cose per bene e, soprattutto, si crede nel
proprio potenziale. Già: perché per quanto si flirti con l’elettronica e/o con suoni ruvidi, i
Serpenti nella scrittura vanno nella direzione del più tipico pop-rock italiano. Spogliano i
pezzi degli arrangiamenti molto carici e adrenalinici, quel che resta è, sì, pop, è il giro facile,
logico, ricordabile. Cosa che di per sé non è un male, ma se siete lettori del Mucchio (e lo
siete) allora il pop va declinato solamente in modi interessanti e non convenzionali, o per lo
meno stranianti. “Sottoterra” invece è fatto per andare dritto allo scopo, vuole essere la
colonna sonora perfetta per generazioni di ventenni cresciuti ascoltando i brani più mossi dei
Subsonica o dei Bluvertigo e che ora come punta estrema di sperimentazione hanno i
Justice, ma gli possono andare bene pure i Negrita. In questo, “Sottoterra” è fatto a modo, è
un prodotto di vaglia, è roba buona. Ma noi, che siamo un po’ rompiscatole e leggiamo e
scriviamo il Mucchio, vorremmo un po’ di più. Vorremmo più sfumature, più colpi di scena,
financo più errori ed imprecisioni, meno sistematica adrenalina melodica e più intoppi
sorprendentemente sinistri.
Contatti: www.serpentimusic.com
Damir Ivic
Pagina 60
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Numero Luglio/Agosto '09
Tecnosospiri
I lupi
Cinico Disincanto/CNI
Giunti al terzo album, i Tecnosospiri si affidano alle maieutiche qualità produttive di Amerigo
Verardi, e la scelta non poteva essere più azzeccata: il musicista brindisino arricchisce
l'impianto delle canzoni con la propria sensibilità vintage e psichedelica, mettendo in
evidenza il suono delle chitarre e contribuendo alla maturazione del pop sofisticato e un po'
retrò della band laziale. Se volessimo collocare queste canzoni in un'area musicale,
diremmo che ci si muove tra le ballate alla Benvegnù e quel trasognato cinismo che abbiamo
imparato ad apprezzare nei Baustelle. Senza dimenticare qualche incisiva gita in territori
wave, si veda la trascinante e cupa Varsavia, che evoca ovvi quanto appropriati scenari fine
'70, mettendo in contatto certi spunti à la Battiato (linguistici, le incursioni in un immaginario
vago eppure plausibile soprattutto) con i già citati Baustelle, una spruzzata di decadenza
incorniciata da eleganti archi che compaiono decisi a sottolineare i momenti giusti. In altre
occasioni, le luci si abbassano e le tessiture si fanno più tenui, come nella prevalentemente
acustica ballata che dà il titolo al disco, anche qui una rievocazione perfettamente bilanciata
tra creazione estetico-letteraria e reale memoria da condividere: l'essenza del pop secondo
alcuni, che qui ci pare rappresentata in modo convincente, dando l'impressione di poter
promettere ulteriori sviluppi.
Contatti: www.tecnosospiri.com
Alessandro Besselva Averame
Pagina 61
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Numero Luglio/Agosto '09
The Forty Moostachy
Three Rooms. Some Songs. The Show And A Suitcase Full Of Bones
Black Nutria
Avete presente quando andate a vedere un film molto lungo – ben oltre le due ore e mezza
dei film catastrofici di Roland Emmerich – e uscite stremati e rispondete al vostro amico che
vi chiede un parere dicendo una cosa tipo: “Eh, ma l’ultima mezz’ora cresce”. Ecco, questa è
esattamente la sensazione che mi ha lasciato il disco dei Forty Moostachy. Uscito per la
Black Nutria – etichetta dedita alla promozione di buoni dischi di italiani che ancora si
ricordano come si fa il rock’n’roll – “Three Rooms. Some Songs. The Show And A Suitcase
Full Of Bones” affossa tutti i suoi buoni propositi (onestà, schiettezza, voglia di fare) con due
difetti difficilmente superabili: la musica, di fondo, è abbastanza banale (un blues rock veloce
che ti fa dire: “Sì, ok, ma poi?” mancando appunto quello scarto che ti fa apprezzare anche
certe cose apparentemente molto banali) e il disco dura cinquanta minuti. Ma a che serve
fare dischi di quasi un’ora al giorno d’oggi? C’è troppa roba. Troppa dispersione. Troppe
cose inutili. Ma ho scritto che alla fine il disco cresce. Ecco. “Pink Little Toffee” è un gran
pezzo. Riff roccioso, andamento hard-psichedelico, pestone il giusto. Insomma, forse
bisognava farlo tutto così.
Contatti: www.thefortymoostachy.com
Hamilton Santià
Pagina 62
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Numero Luglio/Agosto '09
The Lonely Rat
The Lonely Rat
Ghost/Audioglobe
Prima, le faccende burocratiche: The Lonely Rat è il progetto solista di Matteo Griziotti, voce
e chitarra dei milanesi Merci Miss Monroe. Per questo omonimo debutto, il Topo Solitario si
è affidato ad una ricetta semplice quanto efficace: una chitarra acustica, una manciata di
effetti per cui ringraziare l’amico Enrico Mangione (aka Mr. Henry) e la propria voce, quella
voce poco rigorosa e molto sanguigna. Consci di aver già abbandonato la burocrazia
introducendo questioni meramente artistiche, ci arrendiamo di fronte ad un lavoro così ben
riuscito e rompiamo le righe. I 13 brani in scaletta sembrano colare lungo il mento come
freschi ghiaccioli salvo lasciare chiazze sul colletto e poi appena un po’ più giù, a tracciare
linee sul cuore, di quelle che non vanno via con un colpo di spugna. In tal senso, “The
Lonely Rat”, è un dolcissimo inganno, fatto di specchi e continui “think-twice”. Se la sua
musica è facilmente etichettabile come folk con suggestioni pop, è altresì vero che manca
quell’aura soporifera che caratterizza buona parte del genere. D’impulso si pensa a Elliot
Smith, ma è un paragone scomodo e al tempo stesso un bersaglio troppo ovvio. Restiamo in
Europa, piuttosto, che l’ombra di certa musica d’oltralpe (Red e su tutti, i Noir Desir più
intimisti) pare essersi posata sul pentagramma in un paio di occasioni. Pare che questo
disco sia nato nei ritagli di tempo. Una piccola magia a cui vogliamo credere, ma che
rinsalda l’impressione di aver gustato un ottimo antipasto. A quando il piatto principale?
Contatti: www.myspace.com/thelonelyrat
Giovanni Linke
Pagina 63
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Numero Luglio/Agosto '09
Veracrash
11:11
Go Down/Audioglobe
Nel flusso di nuove uscite discografiche, che sembra alimentato da un demone che si
diverte a generare confusione in modo tale da evitare anche solo di provare a conoscere ciò
che succede in un singolo genere, capita di rado di soffermarsi e scoprirsi sorpresi.
Perlomeno, a me succede sempre più raramente. Colpa dell’età, della noia, forse del caldo.
Però quando accade che dalle casse del nostro stereo (sì, stereo!) esca qualcosa che ci
meraviglia, che ci costringe all’attenzione forzata, è uno stupore che compensa le tante ore
spese inutilmente a cercare, se non il talento, almeno una stilla di emozione. I milanesi
Veracrash, quattro ragazzi autori qualche anno fa di “The Ghost EP”, sono riusciti
nell’impresa di obbligarmi all’attenzione, a prendere il booklet, misero invero, per provare a
capire qualcosa di più di cosa c’è dietro queste otto canzoni più intro che alimentano
l’esordio sulla lunga distanza. “11:11” (prossimo titolo per un film horror?) è un concentrato e
allo stesso tempo un’estensione di certo rock vulcanico che ha irrorato gli ultimi tre lustri. I
riferimenti sono evidenti: Kyuss, Queens Of The Stone Age, ma anche il feedback cupo dei
Sonic Youth, per non dire di alcune successioni di accordi figlie dello shoegazer e frammenti
di Isis e Neurosis (la copertina è frutto di Seldon Hunt, che ha lavorato con queste band); su
tutto, però, eccelle la qualità dei pezzi, sempre viziosi e corrotti, scritti con percorsi ampi ma
racchiusi in una logica compositiva fatta di melodie, alternanze e persino parti cantate – a
opera del chitarrista e leader Francesco Menghi – melodiche e convincenti, scelta non così
scontata in questo territorio stilistico. Leggendo la biografia della band si capisce il perché di
tanta sicurezza: a differenza di tanti altri colleghi, i Veracrash hanno costruito il loro percorso
partendo dai concerti, un’infinità di concerti, misurandosi in svariate situazioni e ricavandone
l’esperienza necessaria per confrontarsi con la stesura di brani inediti. Alcuni di questi sono
davvero notevoli, come “Beyond The Grave” e “Broken Teeth, Golden Mouth”, anche se uno
dei pezzi più significativi è la cantilena di “Russian Roulette”, vocalizzata dall’ospite Johann
Merrich, un’artista che vanta un suo lavoro solista come sperimentatrice elettronica e che qui
si diverte anche a usare il synth nell’ipnotica apertura di “Spoon”. Veracrash, una band...
vera.
Contatti: www.myspace.com/veracrash
Gianni Della Cioppa
Pagina 64
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Numero Luglio/Agosto '09
Artivive Festival
Soliera (MO), 12-14 giugno 2009
Musica e teatro. Teatro e musica. Soliera rinvigorisce almeno una volta l’anno grazie
all’estro di Stefano Cenci, deus ex machina di “Artivive”, in una settimana pregna di eventi
d'ogni specie che invadono il paese da mattina a notte fonda. Le ultime tre serate, dal 12 al
14 giugno, sono dedicate principalmente alla musica. Di quelle parleremo, ché il teatro non è
strettamente affar nostro.
Aprono le danze i Motel Connection e lo fanno in modo letterale, portando in piazza
Lusvardi il progetto audiovisivo “H.E.R.O.I.N”. L’impianto di luci davanti a DJ Pisti è
impressionate: un grande reticolo metallico di neon e led cangianti che stordisce. Samuel si
ingrazia le prime file con una chitarra suonata un po’ per gioco, mentre il basso è un groove
non indifferente sotto i battiti pesanti di Pisti. Senza lode ma nemmeno infamia. Tra l’estetico
e il tamarro, viene spontaneamente da muovere collo, bacino e natiche. Non ci si può far
nulla.
La seconda giornata è quella “alternativa” da programma. In piazza F.lli Sassi troviamo i Pip
Carter Lighter Maker che saturano l’atmosfera di psichedelia texana a tratti barrettiana,
peccato che il ruolo della band sia diventato quello di opener per ogni festival emiliano e il
pubblico presente è ancora misero. I Mariposa seguono poco dopo sullo stesso palco con un
pizzico di teatralità e con piacevole sorpresa dei molti che godono per la prima volta del loro
art-pop ironico e avvincente. In piazza Lusvardi i Diaframma – francamente sottotono e a
tratti imbarazzanti come in una versione pedissequa di “Anarchy In The UK” – richiamano
uno zoccolo di ultras recalcitranti davanti allo stage che copre di urla la voce fiacca di
Fiumani. Ma poi arrivano gli Zen Circus – qualche dio li benedica – che sparano un set
furibondo stile Iggy & The Stooges: batteria suonata à la Violent Femmes, basso rovesciato
e distorto, chitarra dal volume oltraggioso e tanto di arrampicata sui tralicci del palco.
Deliranti e sorprendenti, gli Zen Circus regalano la migliore esibizione del festival e
chiamano addirittura sul palco Federico Fiumani per una esilarante “I Wanna Be Sedated”.
Pisani scaltri e scatenati, geniali. Dopo di loro, il concerto conclusivo dei Meganoidi
nell’odierna metamorfosi “seria” è uno scioglimuscoli defaticante. La nottata è ancora lunga;
moriremo alle prime luci dell’alba sul dancefloor del circolo Arci “Dude”.
Il gran finale di “Artivive”, la parte più intellettuale del festival, vede in cartellone Carla
Bozulich e Ascanio Celestini. Musica e teatro si mischiano e si celebrano vicendevolmente.
L’americana, con un set chitarra-voce-violoncello, è teatrale nel suo scendere tra il pubblico
durante alcune tirate d’ugola emozionanti. Ascanio Celestini – alle sue spalle un ensemble
superlativo di fisarmonica, violoncello, batteria e chitarra – sale sul palco e accenna le prime
strofe di “A quel omm” di Ivan Della Mea con i peli delle braccia di metà della platea che si
rizzano e fremono nel lutto recente. Poi è tutto “Parole sante”, il disco omonimo e le
performance parlate già viste nelle notti della Dandini.
Musica e Teatro. Teatro e Musica. Nell’ultimo colpo di reni di Artivive, nell’Emilia un tempo
rossa e oggi realmente sbiadita dall'avanzare delle destre, il clamore unanime della folla per
lo show di Celestini è una sorpresa gradita e quasi un sospiro di sollievo. E alla fine abbiamo
goduto e parlato, almeno un poco, anche di teatro, sebbene – come dicevamo in apertura –
non fosse strettamente affar nostro.
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Numero Luglio/Agosto '09
Marco Manicardi
La Musica nelle Aie – Castel Raniero Folk Festival
Castel Raniero (RA), 8-10 maggio
Anno dopo anno “La Musica nelle Aie – Castel Raniero Folk Festival” cresce: non così tanto
da snaturarsi, abbastanza da fare in modo che sempre più curiosi ne siano attratti e sempre
più artisti partecipino alle selezioni. L'idea di fondo è sempre la stessa: coinvolgere i più di
venti selezionati - tra solisti e gruppi – lungo un percorso di cinque chilometri sulle colline
faentine, invitando giurati e pubblico ad un ascolto itinerante e partecipativo. Il tema di fondo
è, ovviamente, il folk, ma come ogni anno si tratta di un criterio di valutazione di massima, di
una questione di attitudine, così che non suona strano vedere tra i gruppi segnalati Musica
Spiccia, orchestra di quaranta elementi che vede adulti e bambini fianco a fianco (qualcuno
si ricorda della Portsmouth Sinfonia), così come i forlivesi Tziganotcha, con repertorio tra
Balcani, klezmer e Sud Italia. Quello dei Balcani e dell'attigua mitteleuropa pare essere il leit
motiv di questa edizione, con buona pace della dilagante xenofobia da fazzoletto verde, visto
che ad aggiudicarsi la vittoria sono Roberto Durkovic e i fantasisti del Metrò (gruppo nato
dall'incontro tra il cantautore di origine praghese e alcuni musicisti rom nella metropolitana di
Milano), eclettici e “paraculi” nel miglior senso possibile. Chiudono la parata dei gruppi
segnalati Francesco Sossio Sacchetti, il cui sax mediterraneo ben si sposa agli strumenti
della tradizione pugliese, e i Geneviève, con il loro agile jazz folk, mentre la celebrazione
della chiusura della manifestazione è affidata Alexian Santino Spinelli, autorità della musica
rom in Italia, il cui show coinvolgente ci ha fatto credere che la Lega fosse semplicemente un
brutto sogno.
Alessandro Besselva Averame
Rottura del silenzio XII
Ekidna Habitat, San Martino Secchia (Carpi – MO), 19-21 giugno 2009
Intorno al solstizio d'estate da dodici anni a questa parte, prima itinerante, poi a Migliarina
nella vecchia sede e ora nell'aere bucolico di una ex colonia elioterapica rimessa a nuovo in
quel di San Martino Secchia, l'associazione Ekidna organizza tre giorni di musica
ultraindipendente che per un abitante della bassa modenese, anche solo minimamente
interessato al suono o all'impegno sociale, è immancabile a prescindere dai gruppi in
cartellone. Si deve andare persino a scatola chiusa: la “Rottura del Silenzio” è una specie di
obbligo morale e un rituale collettivo.
Più di venti formazioni si susseguono con ritmo serrato sul palco esterno dell'Habitat tra gli
alberi e la frescura di una campagna quasi incontaminata. Etichette, distro, banchetti et(n)ici
e cibarie d'ogni sorta circondano lo stabile dallo stile littorio abbarbicato all'argine del
Secchia. Quest'anno gli headliner stranieri sono due e nemmeno impeccabili, quindi meno
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Numero Luglio/Agosto '09
esterofilia e più spazio per le realtà nostrane. L'olandese Harry Merry chiude la serata dark
di venerdì con un cabaret fin troppo scontato, e gli americani Constants nella mezzanotte di
sabato alzano un muro sonoro quasi perfetto, ma che diventa pedante con l'andare del
concerto. Entrambi verranno schiacciati dalla frenesia incontenibile dell'emo-screamo de La
Quiete alla fine del festival. In mezzo, una serie di nomi più o meno noti: il consueto delirio
garage Sixties dei The Tunas, lo struggersi distorto degli ex Laghetto ora Marnero, il noise
lancinante dei Lleroy, la schizofrenia punk'n'roll velocissima di Laser Geyser. E poi ancora,
in ordine sparso e mnemonico, Inferno, Oltretomba, Stardom, The Doggs, Summer Camp
Disease, At The Saunddawn, Forty Feet Container e Argetti. Menzione d'onore per
l'ovazione unanime riservata ai local heroes: il combat folk raffazzonato degli Italiana
Filastrocca e il funky acido dei Chancla nel primo pomeriggio del sabato; il crossover a tinte
metal e Biohazard degli ottimi Dead Are Walking (con una batteria incontenibile) e l'hc
vecchia scuola degli Headed Nowhere, un pezzo di storia modenese, nella serata di
domenica. Medaglia d'oro per il Drumudio. Un'orgia ritmica dalle batterie contemporanee di
Fede dei Three In One Gentleman Suit e Adri dei The Death Of Anna Karina accompagnati
– ma è solo un accessorio – da Davide “il pazzo” (sempre TDOAK) alla tastiera. L'esibizione
del Drumudio viene relegata nel sotterraneo dell'Ekinda, nella vecchia sala mensa dei
bambini in colonia elioterapica, come ultima polluzione della notte di sabato. Le pareti
scricchiolano e i timpani lanciano segnali di cedimento, mentre i corpi vengono investiti da
un ritmo sfrenato. Fede è un maestro di tecnica e ingegno, Adri una furia di potenza e
precisione. Insieme creano un'atmosfera mistica, un sabba delirante di bacchette, pelli, piatti
e carne umana sudata. Sogni convulsi e secchiate di adrenalina per tutti nella nottata che
segue.
Il resto è ordinaria amministrazione come da dodici anni l'Ekidna ci ha abituati. Quindi
autogestione e autoproduzione, compravendite e baratti ai banchetti, chiacchiere disinvolte e
alcoliche per un intero weekend, pizze nel forno a legna, cibi carnivori, vegetariani e vegani
cucinati in loco, verde e svacco a volontà. Resta ancora il modo migliore per riempire le
giornate più lunghe dell'anno e saltare dalla primavera all'estate con un balzo
ultraindipendente. Anche quest'anno.
Marco Manicardi
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Numero Luglio/Agosto '09
Eleven Fingers
Cinque trentenni dalla bassa modenese, componenti di Fourire, Duner e Fragil Vida e
collaboratori di Aquaragia e Fooltribe, si mettono in gruppo e fondano gli Eleven Fingers. Ne
esce “We Lost Everything Just To Find Ourselves”, EP con cinque tracce di spiccata radice
indie-chitarristica dagli anni 80 ai giorni nostri; cinque ballate soavi come ombre cinesi
disegnate sul muro da mani abili. La tromba elegante di Enrico Pasini (già Like A Shadow? e
ora parte del collettivo di Beatrice Antolini) fa capolino nella “White Boots” iniziale e nelle
“The Big Door” e “One Day” finali. In mezzo troviamo il collage tra Police e Sprinzi di
“Everything Is Far Away”, la dolcezza pianistica di “We Fall In The Sea” e le punte soul di
“One Day” come una versione lo-fi delle parrucche afgane. David Merighi, voce e pianoforte,
sfoggia un inglese splendidamente maccheronico che d’acchito può apparire straniante, ma
che si rivela un valore aggiunto con l'andare degli ascolti. La manciata di tracce in questione
e qualche fugace live emiliano sono tutto ciò che la band ha prodotto finora. Attendiamo con
ansia le prossime ombre proiettate sul muro... con undici dita, chiaramente.
Contatti: www.myspace.com/elevenfingersband
Marco Manicardi
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Fuori Dal Mucchio è a cura di Federico Guglielmi e Aurelio Pasini - online at http://www.ilmucchio.it