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Copyright © 2014 CLEAN via Diodato Lioy 19, 80134 Napoli tel. 0815524419 www.cleanedizioni.it [email protected] Tutti i diritti riservati È vietata ogni riproduzione ISBN 978-88-8497-361-0 Editing Anna Maria Cafiero Cosenza Grafica Costanzo Marciano Referenze fotografiche Foto private dall’Archivio Elvira Romano Gravagnuolo, pp. 7, 92, copertina. Roberto Schezen, pp. 33-48, in B. Gravagnuolo, Adolf Loos. Teoria e opere, Idea Books, Milano 1981. Si ringrazia Inge Podbrecky per l’immagine di p. 59a. Collana Theoria, Architettura, Città Una collana sulla Teoria dell’architettura fondata su basi razionali e non transitorie che riflette sui fondamenti della disciplina, sulle sue regole, sui suoi principî, sulla dialettica tradizione/ innovazione contenuta nell’insegnamento dei maestri in un rapporto ineludibile con le opere. Teoria intesa come “osservazione” e riflessione sui principia e sugli exempla, quali depositi di conoscenze e strumento di verifica e congiunzione tra theoria e praxis nel progetto dell’architettura e della città. Un punto di vista orientato e “realista” che, assumendola come dato di fatto, non registra o constata la realtà ma vuole produrre, criticamente, degli effetti su di essa, nel solco della scuola italiana che ha avuto in Aldo Rossi la sua guida e riferimento. Una ricognizione sui caratteri specifici dell’architettura intesa come “arte civile” volta alla costruzione e modificazione del reale, sedimentata nella più “alta costruzione umana” che è la città da contrapporre alla liquidità informe della infondata architettura dell’immagine e alla post-metropoli globalizzata di questi anni. Riflessioni e studi attorno all’architettura, capaci di rendersi intellegibili, di dichiarare con chiarezza i loro presupposti e di contribuire alla ricostruzione di un corpus non dogmatico ma continuamente alimentato dalla dialettica con l’“inerzia del reale”. Direttore Fritz Neumeyer Professore emerito di Teoria dell’Architettura, è stato direttore del Dipartimento di Storia e Teoria dell’Architettura alla Technische Universität di Berlino. Comitato Scientifico Gino Malacarne Professore ordinario di Composizione Architettonica e Urbana alla Facoltà di Architettura “Aldo Rossi” di Cesena dell’Alma Mater Studiorum di Bologna. Daniele Vitale Professore ordinario di Composizione Architettonica e Urbana alla Facoltà di Architettura civile del Politecnico di Milano, è coordinatore del Dottorato in Composizione Architettonica del Politecnico di Milano. Francesco Collotti Professore associato di Composizione Architettonica presso l’Università degli Studi di Firenze. è attualmente redattore di “Firenze Architettura”, membro del Comitato Scientifico di “Archi” e corrispondente dall’Italia di “Werk”. Ha insegnato al Politecnico Federale di Zurigo e presso la Facoltà di Architettura di Dortmund. Antonio Diaz Del Bo (Tony Díaz) Architetto, ha insegnato progettazione nella Facoltà di Architettura di Buenos Aires e nella Escuela Técnica Superior de Arquitectura de la Universidad Politécnica de Madrid. È stato inoltre visiting professor ad Harvard e in numerose università, anche italiane. Coordinamento scientifico ed editoriale Federica Visconti Professore associato di Composizione Architettonica e Urbana alla Facoltà di Architettura dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”. Renato Capozzi Ricercatore in Composizione Architettonica e Urbana alla Facoltà di Architettura dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”. in copertina Benedetto Gravagnuolo, Napoli 2012 con il patrocinio di Associazione Culturale Benedetto Gravagnuolo Indice 7 A Benedetto Antonio Monestiroli 8 Nel nome della semplice ragione Mario Losasso 10 Nota dei curatori Riccardo de Martino, Giovanni Menna 11 La lezione di Adolf Loos Valeria Pezza 16 Ornamento e pensiero in Adolf Loos Benedetto Gravagnuolo Saggi 64 L’attualità dei maestri. Schinkel dann Loos und Mies Renato Capozzi 68 La ricezione di Loos in Italia. 1930-1950 Testimonianza, critica, storiografia Giovanni Menna 74 “Adolf Loos. Teoria e opere”: la monografia di Benedetto Gravagnuolo del 1981 Riccardo de Martino 78 La lezione dei maestri Camillo Orfeo Apparati 83 Profilo biografico di Benedetto Gravagnuolo Orlando Di Marino 84 Elenco degli scritti di Benedetto Gravagnuolo Colomba Sapio 94 Indice dei nomi 7 A Benedetto Antonio Monestiroli è difficile togliersi dalla mente l’aspetto fisico di Benedetto Gravagnuolo, il suo portamento, il suo sorriso gentile, la sua eleganza, nei movimenti e nel vestire. E come spesso accade, pensando a lui ci si rende conto che tante delle cose che ha fatto hanno un rapporto stretto con questa sua eleganza, ne godono, in qualche modo, il riflesso. Penso in particolare a due delle sue opere. Una è il libro su Adolf Loos (1981), la prima monografia italiana su questo grande maestro che ha fatto dell’eleganza un imperativo morale. Che Gravagnuolo, anche se molto giovane, dovesse scrivere su Loos sembrava naturale. Sembrava che le cose che Benedetto dice di Loos le sapesse ancora prima di conoscerlo, che facessero parte di lui e che le avesse riconosciute in Adolf Loos. In fondo solo così si può parlare di un autore rendendosi credibile, solo partecipando totalmente al suo pensiero. Quel che lega Benedetto al suo maestro è la convinzione che l’architettura sia espressione di civiltà, che non possa esistere al di fuori di una idea di civiltà. Confermando la sua appartenenza a questo pensiero, dieci anni più tardi Gravagnuolo scrive il suo secondo libro sul periodo della storia della architettura in cui questo rapporto fra architettura e civiltà si manifesta pienamente: l’Illuminismo. Il suo libro su La progettazione urbana in Europa dal 1750 al 1960 mette in evidenza il rapporto necessario fra progetto urbano e idea di civiltà proprio dell’Illuminismo. Benedetto Gravagnuolo ha condotto questa sua ricerca con naturalezza, cercando nella storia le origini di un pensiero che lo accompagnava in tutte le sue attività: di architetto, di storico della architettura, di insegnante e infine, non ultima per importanza, di Preside della Facoltà di Architettura di Napoli. Ho frequentato molto Benedetto durante il periodo della sua presidenza e ricordo che ogni suo intervento sui modi di organizzare una scuola di architettura, in uno dei suoi tanti “nuovi ordinamenti”, partiva sempre dalle ragioni costitutive di quella scuola, un atteggiamento questo ancora una volta legato al pensiero illuminista. Tutto il resto era, ed è tuttora, secondario. Questa sua capacità di andare all’origine dei problemi gli consentiva di esporre il suo punto di vista sempre con grande semplicità. Quella semplicità che praticava, come diceva Loos, “solo perché gli veniva naturale”. Quella semplicità con la quale Benedetto viveva la sua vita quotidiana. In profondità. marzo 2014. 8 Nel nome della semplice ragione Mario Losasso In un mio recente viaggio a Vienna ho visitato i luoghi di Adolf Loos, luoghi della memoria, quei luoghi e quelle opere sui quali, per una parte sostanziale, è impostata l’ultima lezione di Benedetto Gravagnuolo così come viene proposta in questo volume. Dalla casa sulla Michaelerplatz all’American Bar, confesso che il mio pensiero è andato per un attimo a Benedetto, quasi uno sfiorare l’anima intellettuale di un amico e collega che, di quelle architetture e delle idee del loro grande autore, ne aveva fatto a più riprese oggetto di studio. Esse erano state un punto di riferimento per un percorso di ricerca mai interrotto, continuamente ripreso e basato - sono le parole di Benedetto - sul fondamento epistemologico della «interminabilità» dell’esegesi storiografica. Il principio che ha mosso il lavoro di Benedetto Gravagnuolo sui tanti piani della sua attività può essere sintetizzato in quel «nel nome della semplice ragione», titolo emblematico di un paragrafo della sua ultima monografia1 sul Settecento napoletano. In lui era evidente che l’accostamento tra la grande epoca dell’Illuminismo e le architetture di grande valore civile delle epoche successive determinava un rapporto ideale tra architettura ed emancipazione sociale, come tra progetto e idea di modernità. La sua concezione della storia dell’architettura e dei grandi maestri è stata sempre caratterizzata da un senso di apertura, evidenziando in molte occasioni i propri dubbi sulla accezione della storia come mera successione di stili o come diacronica consecutio di eventi architettonici. Benedetto Gravagnuolo ha perseguito nel tempo un atteggiamento coerente secondo cui la cultura poteva essere il patrimonio genetico di scelte di ordine superiore e di indirizzo per un operare civile nella società. Lo appassionavano i termini come ragione, progresso, etica, riconoscimento dell’altro, i cui concetti aprivano a orizzonti che tendevano a scavalcare la contingenza del momento per indirizzarsi verso tensioni ideali. La scelta di campo verso il ‘maestro’ Adolf Loos è una scelta che fa propria la distinzione tra l’idea di modernità e quella di attualità, sottolineando l’errore di seguire le mode, vera debolezza del pensiero. L’ultima lezione di Benedetto Gravagnuolo è emblematicamente indirizzata al tema dell’ornamento così come Aldo Rossi intitola Ornamento e delitto un celebre filmato2 della XV Triennale di Milano nel 1973, in omaggio a Loos. Nel filmato sono accostati frammenti letterari ed esperienze visive per definire alcune tesi fondative della teoria dell’architettura aldorossiana a partire da testi di Adolf Loos, in cui veniva richiamata la nozione di tradizione nel rapporto tra storia e architettura accanto al rapporto tra realtà e architettura, spingendosi fino al tema dei caratteri desunti dalla tradizione, riproposti e riformulati nell’architettura moderna. Nel complesso rapporto fra il progetto e la storia, Benedetto Gravagnuolo non ha mai visto contraddizioni fra Illuminismo, classicismo e modernità razionalista, rami di un sapere architettonico unitario a partire dai quali poter fare una scelta di campo fra architetti classici o anti-classici in cui - come Loos che decisamente è inquadrabile nella prima categoria - investiva la sua esperienza di studioso secondo una visione tesa a «riportare l’architettura all’autonomia del suo linguaggio espressivo». I nostri rapporti con gli altri non hanno che, inevitabilmente, una durata - osserva Marguerite Yourcenar3 - ma, proprio per questo, hanno un grande valore nel momento in cui si apprende una lezione. Questo volume si configura, profeticamente o forse consapevolmente, come un denso Nel nome della semplice ragione lascito di eredità intellettuale da diffondere e apprendere. Gli aspetti dello spirito e dell’agire umano di Benedetto erano indissolubilmente legati alle sue tensioni ideali, capaci di far emergere in lui una passione individuale che ne sottendeva anche una collettiva, nel riconoscimento del valore civile che attribuiva all’amata architettura investita, come ricordava nel saggio sul Settecento, dalla «ineludibile e incessante dialettica tra l’occhio alato delle grandi narrazioni e lo sguardo da talpa delle microstorie»4. 1. 2. 3. 4. B. Gravagnuolo, Architettura del Settecento a Napoli. Dal barocco al classicismo, Collana “Historia rerum”, Guida, Napoli 2010. A. Rossi, G. Braghieri, F. Raggi, Ornamento e delitto, film-documentario, regia di L. Durissi, prodotto da Contemporafilm, XV Triennale di Milano per la Mostra Internazionale di Architettura (a cura di A. Rossi), 1973. M. Yourcenar, Mémoires d’Hadrien, Plon, Paris 1951, ed. it. Id., Memorie di Adriano, trad. di L. Storoni Mazzolani, Torino, Einaudi 1988. B. Gravagnuolo, op.cit., Guida, Napoli 2010. 9 10 Nota dei curatori Riccardo de Martino, Giovanni Menna Nell’estate scorsa, dopo una strenua lotta con il male che lo aveva aggredito da alcuni mesi, Benedetto Gravagnuolo si spegneva nella sua casa napoletana di via dei Mille. Nonostante la malattia, egli era riuscito a portare a termine il suo corso di Storia dell’Architettura contemporanea, tenuto, come aveva fatto per trent’anni, nella Aula Gioffredo di Palazzo Gravina, con le lezioni dedicate ai grandi maestri del Movimento Moderno. A corso finito, nel mese di aprile, accettò tuttavia l’invito di Valeria Pezza e Renato Capozzi per una lezione rivolta agli studenti dei corsi di Composizione. Nessuno dei presenti a quella lezione poteva immaginare che sarebbe stata l’ultima: anche quella volta Benedetto esibì l’energia, la generosità e l’ironia con la quale di norma si esprime una passione autentica per l’oggetto della dissertazione. Quel suo ultimo incontro con gli studenti di architettura era dedicato, come un dono amaro del destino, proprio alla figura con la quale Benedetto aveva iniziato il suo percorso di storico e critico: Adolf Loos. Una figura che egli non solo amava profondamente, ma aveva consapevolmente “scelto” come polo di orientamento culturale per la sua azione di studioso e di docente, e persino come punto di riferimento etico per le sue battaglie civili. Ci sono molti modi di rendere omaggio alla memoria di uno studioso che tanto seppe offrire non solo ai propri allievi diretti, ma alla scuola nella quale insegnò e che a lungo diresse e, più in generale, alla cultura architettonica della propria terra. Abbiamo pensato che trascrivere il testo di quell’incontro e presentarlo in forma di libro, fosse “la cosa giusta”. Conoscendolo da tanti anni, siamo sicuri che anche Benedetto avrebbe preferito essere ricordato in questo modo, al di là delle retoriche e delle commemorazioni. Non foss’altro per ricordare a tutti che, nonostante il suo impegno nelle istituzioni e nella società civile, egli si considerava, ed era, in primo luogo uno storico dell’architettura. Un mestiere, peraltro, mai disgiunto dall’esercizio di una critica che guardava al presente dell’architettura, alle problematiche come agli interrogativi, alle contraddizioni come ai punti fermi del fare architettura. Benedetto ha sempre sottolineato con grande determinazione la necessità di tenere distinte, ma dialetticamente connesse, la storia e la progettazione, e il fatto che la sua ultima lezione si sia svolta proprio nell’ambito di un corso di Composizione, assume anche per questo un significato particolare. Si è pensato così che il testo della lezione avrebbe dovuto essere accompagnato non solo da scritti di storiografia, come quelli presentati da chi scrive questa nota, ma anche dalle considerazioni critiche svolte dai colleghi docenti di Composizione. È per questo che il commosso ricordo di Antonio Monestiroli, che apre questo piccolo libro, introduce le riflessioni di docenti di Progettazione come Valeria Pezza e Renato Capozzi, ai quali si deve, come abbiamo ricordato, sia l’invito a Benedetto che l’ideazione stessa di questo libro. Il testo di Camillo Orfeo e ancora i contributi di Colomba Sapio e Orlando Di Marino che hanno invece curato gli apparati con un breve profilo biografico e l’elenco pressoché completo degli scritti di Gravagnuolo, chiudono il libro. Non si può mancare di ringraziare, in questa sede, gli studenti che hanno collaborato a questa iniziativa: Leopoldo Casertano, Chiara de Martino, Mattia Di Palma, Dalila Fermezza, Antonella Guerriero, appena iscritti ai corsi di architettura che hanno offerto il proprio contributo con entusiasmo. Del resto è soprattutto agli studenti di Architettura che questa iniziativa è dedicata. Il cuore del libro è naturalmente il testo della lezione di Gravagnuolo. È a lui che si è voluto lasciare la parola. La parola di uno studioso che sapeva analizzare con profondità di pensiero il passato, ma con i piedi ben piantati nel presente e con gli occhi aperti, disincantati e appassionati a un tempo, rivolti al futuro. 11 La lezione di Adolf Loos Valeria Pezza Benedetto Gravagnuolo ha tenuto il 15 aprile 2013 una lezione su Aldof Loos per gli studenti dei corsi di Laboratorio di progettazione del primo anno, tenuti da Renato Capozzi e da me. È stata la sua ultima lezione, ma nessuno di noi lo sapeva, ed è stata una lezione particolare, per molte ragioni. Faceva molto caldo e lo vedevamo progressivamente aggredito dalla calura, eppure continuava concentrato e teso a svolgere il filo dei suoi ragionamenti che, voglio pensare, per una certa forzatura da me impiegata nell’introdurre la sua lezione, si svolgevano senza quella distanza da storico che mi capitava di rimproverargli e che, a mio avviso, finivano talvolta col gettare un velo di stereotipo e di appannamento sulla sua trattazione di Loos. Finalmente e di nuovo, quel giorno, non eravamo di fronte a una lezione su Loos, ma alla lezione di Loos. Suo vecchio maestro, trattato di nuovo da maestro. D’altra parte per questo, fin dal mio ritorno a Napoli nel 1991, dopo un decennio alla Facoltà di Architettura di Pescara, chiamavo ogni anno Benedetto a parlare di Adolf Loos e il nostro era diventato un appuntamento fisso. Nel contesto napoletano lui era uno dei pochi studiosi competenti e disponibili verso il campo di interessi in cui mi ero andata formando - quello dell’architettura della città, della progettazione razionale, del fondamento scientifico dell’architettura - che viceversa suscitava perlopiù solo polemiche e pregiudiziali guerre di campanile. Raramente si riusciva a sviluppare un confronto e una riflessione su temi e questioni che mi apparivano cruciali e, tranne che per Benedetto e pochissimi altri, quello napoletano sembrava un ambiente poco incline ad affrontare i nodi delle questioni, chiuso in schieramenti accademici precostituiti, immobilizzato in un’incredulità pregiudiziale, in una sterile paralisi tra professionismo spiccio, aristocrazia da vecchio salotto e finto vitalismo, vestito dei panni della moda e della libera creatività artistica. Sembrava trovare conferma la convinzione di Gerardo Marotta della tragica mancanza, a Napoli, di una società civile e, a maggior ragione, di un’architettura civile, perché priva non solo di un mandato sociale ma anche di una capacità autonoma di approfondimento e rielaborazione dei propri strumenti disciplinari. Loos, sottratto dunque alle categorie della storiografia e trattato per quel che ha fatto e sostenuto, provocava sistematicamente la riaccensione degli interrogativi, la riapertura del ragionamento, la revisione dei fatti: per questo, ogni anno ci vedevamo per discuterne. Ma rispetto all’appuntamento fisso che avevamo con Loos, quello dell’aprile del 2013 ha finito per assumere un carattere particolare, per la mia insofferenza alla signorile distanza di Benedetto, e per il suo modo signorile e profondo di rispondere alla mia richiesta di riprendere posizione. Quella che segue è la trascrizione, rivista, della presentazione di quel giorno. 12 Benedetto Gravagnuolo. L’ultima lezione. Ornamento e pensiero in Adolf Loos Grazie al professor Gravagnuolo per la sua disponibilità a tenere una lezione su Adolf Loos. A parte un’antica amicizia, ci lega anche la consuetudine di questi incontri, a cadenza annuale, dedicati a quest’architetto che, come sanno gli studenti dei nostri corsi, consideriamo una figura decisiva, una figura capace di assolvere il compito di guida, il ruolo di maestro: una figura che spesso interroghiamo nei momenti d’incertezza, per chiarire la strada. Ci lega dunque anche l’ammirazione per Loos, a cui Benedetto Gravagnuolo nel 1981 ha dedicato un volume molto importante, il primo volume in italiano che raccoglieva in modo sistematico notizie, documenti, grafici e immagini sull’opera di Loos. Perché questo libro è importante? Intanto si apre con una bella prefazione di Aldo Rossi, che già nel 1959 aveva scritto per “Casabella-Continuità”, diretta da Rogers, un saggio illuminante su Adolf Loos, tagliato secondo quell’interesse particolare che ha un architetto progettista rispetto alle opere e agli autori, trattati non per allargare il campo di erudizione accademica, ma per il loro modo di affrontare la realtà e cercare le soluzioni dei problemi, modo utile al lavoro del progettista. Da quel 1959 Loos rimarrà per Aldo Rossi un maestro sempre presente intorno al quale continuerà a svolgere la sua riflessione e cui si rivolgerà di continuo per capire come si fa; a dimostrazione di questo andamento circolare intorno alle cose, volto ad approfondirle e non accumularle in una addizione lineare, quattordici anni dopo, nel 1973, Rossi deciderà di usare le parole di Loos per il video girato per la Mostra internazionale di Architettura della XV Triennale di Milano, che titolerà, in modo inequivocabile: Ornamento e delitto. Quindi che in quel volume che Gravagnuolo dedica a Loos sia proprio Aldo Rossi a scrivere l’introduzione è un indizio importante: Rossi è architetto, progettista e teorico, non certo storico dell’architettura. Ma ci sono anche altri indizi, resi più rilevanti dalla generale attenzione che in quegli anni era andata nascendo nei confronti di Loos, che fino a quel momento era stato trattato con un certo imbarazzo dalla storiografia, che, quando non lo ignorava del tutto ne parlava marginalmente come l’inventore del Raumplan - giusto a marcare quanto fosse ormai insolito il pensare in tre dimensioni di Loos rispetto alle ricerche degli altri architetti - o lo definiva proto-razionalista. In quegli anni erano invece stati pubblicati altri importanti volumi: nel 1972 Parole nel vuoto, con gli scritti di Adolf Loos, e, nello stesso 1981, il Das Andere a cura di Massimo Cacciari. Ma è con il volume di Benedetto Gravagnuolo che si ricostituisce nella nostra lingua un quadro chiaro di fatti relativi a Loos. Innanzitutto, appunto, raccogliendo e descrivendo i fatti, le opere. Troppo spesso, infatti, la storiografia ci racconta l’architettura utilizzando maglie, categorie, periodizzazioni, cronologie, ideologie…talmente strette e prevaricanti, da sopraffare le opere, fino a sostituire l’architettura con la sua narrazione storiografica; compiendo un occultamento, più o meno intenzionale e consapevole, dei fatti, che scompaiono, per essere sostituiti, direbbe Gutkind, dalla loro narrazione. Spesso nei testi degli storici abbondano le parole per un edificio di cui, a malapena, c’è un’immagine, spesso soltanto una foto, più spesso ancora, solo di un esterno. Come sia fatto quell’edificio, cosa abbia dentro, sembra cosa secondaria. Mancano i grafici: niente piante, prospetti o sezioni. I disegni sembrano spesso conquistare un posto in questi manuali solo se hanno un certo interesse pittorico ed espressivo, non come strumento tecnico di descrizione del manufatto, di cui impariamo progressivamente a ignorare i dati, ma sui quali si costruiscono complessi castelli d’idee e giudizi. Questa difficoltà ad assumere i fatti dell’architettura come principale materia da studiare, come base ineludibile per maturare un modo di guardare le cose, è ricorrente; si dimentica che teoria viene dal greco θεωρέω theoréo “guardo, osservo”, e in una circolarità profonda di relazioni e di senso fissa il formarsi di una nostra idea di mondo, attraverso la nostra capacità di osservarlo. Di guardare il mondo, i suoi fatti e il loro rapporto con la nostra vita reale e i nostri bisogni, anche pratici; invece, paradossalmente, ciò che sembra ineluttabilmente spinto fuori dal nostro sguardo è proprio il mondo e la nostra capacità di autoconoscenza, di riflessione su noi stessi La lezione di Adolf Loos nel mondo; come se lo statuto teorico, necessario alla dimensione scientifica, trasmissibile, del sapere, dovesse riscattarsi dalle dure contingenze della realtà e svilupparsi come un fatto a sé stante, autosufficiente, un mondo parallelo a quello reale, in cui, finalmente, tutto torni; un’idea del mondo fuori dal mondo, un sapere astratto dalla realtà, non estratto più da essa, anzi, definitivamente riscattato dall’infinito disordine delle cose e della fragilità umana. Tranne poi, enfatizzare la natura artistica del mestiere e la sua profonda e oscura vitalità, ammiccando di continuo con quella parte della storia che ritiene il disordine molto più vivo, affascinante e vero dell’ordine. Ma questo è un vizio ricorrente, un pregiudizio, una menzogna che continua a camminare al nostro fianco, rimuovendo i fatti e la loro verità, vecchia di secoli. Non a caso, negli anni recenti la linea di pensiero dominante, nata in ambito filosofico e allegramente diffusa in architettura, ha potuto sostenere che non esistono fatti ma solo interpretazioni. Una linea che ha accompagnato, sostenuto e assecondato forse più che interpretato, la nostra realtà sociale, politica, economica, culturale, con effetti assolutamente devastanti anche in architettura: una linea che si è mossa in sintonia con i fenomeni di disgregazione che avvenivano a tanti livelli, conferendo loro la dignità di uno statuto intellettuale, culturale e scientifico. Il che per l’architettura è un paradosso particolarmente scottante, giacché si è finito per considerare il caos e la disgregazione non il problema del nostro mestiere - come è sempre stato - bensì la sua soluzione, l’orizzonte figurativo e di senso per il quale lavorare. In questi anni difficili, di cui solo ora sembra si avvertano le conseguenze, la critica e la storiografia architettonica si sono spesso trovati a trattare e a elevare a rango di visione teorica semplici fenomeni da gossip, brillanti e scoppiettanti contrapposizioni personali che prescindevano del tutto dall’architettura, dai suoi antichi compiti civili e dalla capacità di interpretarli e dare loro risposta: in maniera complice con la parallela devastazione delle nostre città e dei nostri territori. Benedetto Gravagnuolo con questo suo lavoro su Adolf Loos si decentra con chiarezza da questo scenario, si pone con uno sguardo diverso dallo storico convenzionale, ed entra nel vivo del lavoro di Adolf Loos e, con “avvertita scientificità”, come osserva il suo maestro De Fusco nella breve nota all’edizione italiana, ne ordina l’opera e gli esempi: raccoglie in maniera quasi manualistica tutti i dati e le notizie, dal punto di vista cronologico, che da quello descrittivo - cos’è, dove sta e come è fatto - e da quello della committenza. In questo modo, nel corso del libro, le sue riflessioni critiche sono sempre riferite alle architetture, al manufatto, reso intellegibile dal nesso tra i disegni, le notizie, l’apparato critico. Non so se, come afferma De Fusco volesse “andare «oltre l’architettura»”. Sicuramente voleva raggiungerla, conoscerla, descriverla. Di questo, credo, che la cultura architettonica gli sia stata grata e riconoscente. In quegli anni in cui non si era ancora affermata la fortuna di Loos, disporre di una conoscenza fondata delle sue opere consentiva a tutti noi di distinguere quelli che si riferivano a Loos perché diventava di moda e faceva chic, da quelli interessati a indagarne e svilupparne la lezione. Non posso dimenticare la conferenza di un importante architetto austriaco che, invitato con tutti gli onori qui, a Napoli, nella bella aula di S. Demetrio e Bonifacio, esordì nella sua esposizione con due immagini di Schinkel e di Loos - come per dichiarare i riferimenti del suo lavoro e dei suoi progetti - e con imperturbabile disinvoltura proseguì descrivendo la facciata di un suo edificio, nei pressi di un fiume, solcata da segni, a rilievo, semicircolari che ricordavano le onde del vicino fiume e le squame dei pesci che vi nuotavano. Un modo certamente singolare di interpretare non solo il luogo ma soprattutto la lezione di Loos. Troppo spesso si compie un’appropriazione indebita di architetti, di opere o di citazioni: li si convoca a sproposito, a prescindere, come per dire: dichiaro che i miei maestri sono questi, vorrei fare a modo loro e vorrei essere erede della loro lezione; ma poi si va in tutt’altra direzione 13 14 Benedetto Gravagnuolo. L’ultima lezione. Ornamento e pensiero in Adolf Loos e quelle figure si trovano vistosamente fuori luogo; garanti loro malgrado, protettori involontari e ignari di quello che vai sostenendo; araldica improvvisata, medagliere posticcio attaccato alla divisa, acquistato al mercato della storia, senza nulla a pretendere. Succede così perché siamo poco allenati a considerare i fatti, le architetture, a pensare per forme, e ci muoviamo solo sulle dichiarazioni, le parole, le intenzioni. Invece in questo importante lavoro di Benedetto Gravagnuolo sono poste con chiarezza dei punti fermi: cosa ha fatto Loos, come, dove e perché l’ha fatto, e che rapporto ha quest’opera, con le sue affermazioni, quelle singolari riflessioni, geniali e dolenti, che avevamo potuto leggere in Parole nel vuoto; con una capacità di osservazione della vasta gamma dei punti di vista e dei piani di lettura, e dell’assoluta padronanza con cui Loos li riusciva a riportare nella costruzione. Dal dettaglio al controllo raffinatissimo dei materiali la capacità di Loos di convocare nell’opera i più diversi piani tematici ha molti esempi: come dimostra la immagine riportata in copertina del libro di Gravagnuolo, con l’ingresso di Villa Karma in cui si vede il dettaglio della maniglia che, riprendendo il simbolo dello Yin e dello Yang della cultura orientale, rispondeva alla visione olistica del suo facoltoso committente. Fino a tutti quegli aspetti del lavoro di Loos che hanno a che fare con la sua attenzione alla modernizzazione delle tecnologie, che non sono mai confuse con la modernizzazione della forma architettonica, o alla sua attenzione per la Vienna d’inizio Novecento, la sua architettura e il suo assetto. Un contesto inteso non in senso geografico, ma in senso tematico, riprendendo un insegnamento dell’architettura della storia. Anche Palladio del Redentore è fuori dal contesto della Giudecca, è addirittura smisurato: ma il Redentore non vuole confrontarsi con quel contesto specifico, bensì con l’intera Venezia, i suoi canali e col tema della chiesa per la cui facciata Palladio continua a sperimentare la sua soluzione. E le risposte le cerca nella rielaborazione di materiali della storia, nei templi dell’antichità, immaginando che l’articolazione per navate delle chiese possa proiettarsi nel fronte e imprimersi come sovrapposizione delle facciate di due templi, di dimensioni diverse. Spesso si cede a un’idea chiusa dell’architettura e delle sue forme: come se il moderno fosse un linguaggio chiuso, il classicismo fosse un linguaggio chiuso, il razionalismo un linguaggio chiuso. Non si tratta di un sistema chiuso di risposte, ma un modo di guardare il mondo, di riaprire gli interrogativi e i problemi a cui l’architettura della storia ha provato a dare soluzioni, ristabilendo il nesso tra le domande e le risposte: comprendendo la ragione di quelle risposte. Ringrazio quindi Benedetto veramente di cuore per questa sua disponibilità e gli lascio la parola. Adolf Loos e la razionalità duttile Ornamento e pensiero in Adolf Loos 15 16 Ornamento e pensiero in Adolf Loos Benedetto Gravagnuolo Adolf Loos (Brno 1870-Vienna 1933), ritratto davanti al camino del proprio appartamento viennese. Copertina del volume di Benedetto Gravagnuolo Adolf Loos. Teoria e opere del 1981. Innanzitutto un grazie di cuore a Valeria Pezza e a Renato Capozzi per avermi invitato a tenere questa lezione su un tema a me particolarmente caro. La presentazione di Valeria mi ha riportato alla mente gli anni nei quali ho deciso di scrivere una monografia su Adolf Loos, il mio primo libro, un’opera naturalmente molto importante per me. Quindi mi perdonerete se faccio un po’ di amarcord, che mi dà modo tuttavia di inquadrare le ragioni di quella scelta, cercando di essere molto sintetico perché mi piacerebbe cogliere questa occasione per discutere con i presenti, tra i quali vedo con piacere anche altri colleghi e, soprattutto, molti giovani. Il libro, dunque. L’ho scritto a ventisette anni e pubblicato a trenta, in un’epoca nella quale non c’erano ancora i dottorati di ricerca: quel libro è stato quindi come il mio “dottorato”. È stato, per me, soprattutto l’occasione di esprimere una “scelta” mirata a individuare una figura di riferimento all’interno del grande novero dei maestri del Movimento Moderno. Come è noto, proprio in questi giorni si pubblicano gli atti del convegno dedicato nel 2009 a Ernesto Nathan Rogers1, il quale, per capirci, era più “ecumenico”. Mentre per Rogers continuavano ad andare bene sia Gropius che Wright, prendeva corpo nel nostro paese una linea di pensiero, rappresentata soprattutto da Aldo Rossi e Giorgio Grassi, che intenzionalmente “lasciava” Wright o Gropius, per riferirsi invece a Loos, a Tessenow e ad altri, scegliendo cioè di non essere “d’accordo con tutti” all’interno dello stesso Movimento Moderno. Anche perché non c’è dubbio che dentro quella che noi abbiamo chiamato l’ecumene della modernità, esistono delle linee di pensiero discordanti. Ed è anche per questa Ornamento e pensiero in Adolf Loos ragione che io non ho mai voluto adottare la categoria interpretativa del “protorazionalismo” proposta dal mio Lieber Meister, il caro Renato De Fusco. E, del resto, un allievo proprio perché stima e rispetta il suo maestro deve sforzarsi di non esserne solo un epigono. Non ho voluto adottare il termine protorazionalismo, intanto perché “proto” significa qualcosa di embrionale, empirico, acerbo, e dunque il termine designerebbe un razionalismo non ancora “maturo”; e poi perché questa categoria per De Fusco denotava un razionalismo che non si evolve, e che resta un po’ impigliato in una certa rigidità. Si badi che De Fusco aveva, in ogni caso, desunto questo termine da un altro storico napoletano, Edoardo Persico. E mi piace ricordare a tal proposito che Persico scrisse un memorabile ricordo di Loos, proprio quando morì nel 1933, e ancora che, nonostante Loos fosse austriaco, negli anni di un Fascismo che pure veniva a ridosso di una guerra condotta proprio contro l’Austria, egli era molto amato in Italia in molti ambienti, soprattutto milanesi. Se Giuseppe De Finetti, che era stato un suo allievo, ne alimentava il culto, Persico e Pagano lo consideravano un riferimento. Era, come dire, singolare ma significativo il fatto che negli anni del Fascismo Loos venisse già molto studiato, e che gli venisse dedicata un’attenzione quasi pari a quella rivolta a Le Corbusier, e persino maggiore di quella riservata a Wright, o ad altri. Poi, nel dopoguerra, nel novembre del 1959, Aldo Rossi pubblicò un memorabile numero di “Casabella” che per me ha costituito a lungo un riferimento obbligato, insieme agli studi che, negli anni in cui ho iniziato a studiare Loos, Massimo Cacciari stava alimentando su un altro versante: quello del rapporto tra Adolf Loos e il clima culturale viennese, in relazione al pensiero di Wittgenstein innanzitutto, ma anche all’opera di Freud. Il figlio di Sigmund Freud, Ernst, frequentava quella singolare “scuola di architettura” che Loos, che non è mai stato un accademico, teneva nei caffè viennesi, dove di sera si tenevano degli incontri di architettura. Tra i “fedelissimi” di Loos c’erano, oltre ai citati De Finetti e Ernst Freud, anche Richard Neutra e Copertina di “Casabella“, ottobre 1933. Copertina di “CasabellaContinuità”, n. 233 del 1959. 17 18 Benedetto Gravagnuolo. L’ultima lezione. Ornamento e pensiero in Adolf Loos Adolf Loos, Casa Moller, Vienna, 1927-28. Veduta dalla strada. Otto Wagner, Ingresso della Sala dei telegrafi del quotidiano “Die Zeit”, Vienna, 1902 (ricostruzione). Rudolf Schindler, due architetti diventati poi molto importanti in America, soprattutto in California. Lo sforzo che ho tentato di fare con questo libro è stato soprattutto quello di tenere l’opera e il pensiero di Loos rigidamente all’interno delle loro coordinate epocali di riferimento, senza cercare attualizzazioni, per così dire, “modaiole”. Uno dei difetti, a volte, della storia dell’architettura è proprio il volere attualizzare esperienze passate, come si fa quando, ad esempio, si parla di piani “urbanistici” a proposito di Ippodamo da Mileto, riferendosi quindi a un’epoca nella quale l’urbanistica come disciplina di certo non esisteva ancora; o, ancora, come faceva Bruno Zevi, il quale vedeva in Brunelleschi un eroe “anticlassico”, portatore di idee organiche, operando francamente delle evidenti forzature. E tuttavia, pur tenendo il racconto rigidamente all’interno di quelle coordinate temporali, il taglio che tentai di dare al libro - come peraltro enunciato nello stesso titolo Teoria e opere - fu quello di estrarre, o meglio “distillare”, il nucleo concettuale del pensiero di Loos, non solo analizzandone gli scritti, ma mettendo quegli scritti in relazione con le opere costruite, perché l’architettura parla, con muta eloquenza, ma con un suo linguaggio, e non sempre si registra una precisa coincidenza tra le teorie e le opere. A tal proposito potrei citare - ma ci dilungheremmo tanti grandi teorici del classicismo del Settecento che erano autori di testi che sembravano molto rigorosi e che poi, nei fatti, progettavano invece nei modi del Barocco. Un po’ come si comporta, ad esempio, oggi Boris Podrecca, il quale studia e cita molto Loos, ma poi pratica un’architettura che certo non è loosiana. Loos, infatti, è altra cosa. Terminate queste mie riflessioni introduttive legate al mio libro, vorrei iniziare questo nostro incontro - proprio perché avviene nell’ambito di un corso di progettazione - esponendo sinteticamente i principi che caratterizzano, secondo la mia interpretazione, il pensiero di Loos anche in rapporto al suo tempo, considerando che Loos ha scritto e agito negli anni in cui a Vienna trionfava il Sezessionstil, l’Art Nouveau austriaco. Ornamento e pensiero in Adolf Loos La sua presa di distanza da Josef Hoffmann, Joseph Maria Olbrich e Otto Wagner non è cosa di poco conto, anche perché Olbrich e Wagner erano protagonisti assoluti dell’architettura a Vienna, come lo stesso Hoffmann, l’amico-rivale che gli permetterà poi di pubblicare paradossalmente proprio su Ver Sacrum l’attacco più duro alla Sezession: lo scritto Die Potëmkinsche stadt. In questo saggio Loos fa l’apologo di Grigorij Aleksandrovi Potëmkin, il generale russo che appagava il desiderio di città di nuova fondazione della zarina Caterina la Grande, sua amante, portandola a vedere delle città in tela di cartone: ovvero delle semplici immagini costruite in cartapesta in grado di ingannare gli occhi, offrendole la sensazione della novità. In questo attacco Loos tuttavia - e qui iniziamo a entrare nel merito - pone una questione di fondo, fissando la netta distinzione tra l’idea della modernità e quella dell’attualità, cioè quello che per gli inglesi è l’up-to-date e per i francesi è la nouvelle vague, la nuova moda, la nuova tendenza. Seguire le mode, per Loos, è più di un errore: è la dimostrazione di una debolezza di pensiero, che è la stessa - e qui lui fa esercizio di quel sarcasmo che ha contribuito al successo dei suoi scritti, sempre molto taglienti - del gagà, che è un individuo in genere poco intelligente, il quale crede di essere un uomo elegante solo perché veste secondo quella che le riviste di moda indicano come l’“ultima tendenza”, ma che, in realtà, non ha una vera idea dell’eleganza poiché, semplicemente, non fa altro che seguire le riviste. Così un architetto che non ha un’idea precisa di cosa fare in architettura può passare tranquillamente a imitare Gehry e Zaha Hadid e poi, perché no, Giorgio Grassi, e poi ancora, perché no, Álvaro Siza, pur essendo essi portatori di linguaggi diversissimi. Sono convinto, peraltro, che nel nostro campo, quello dell’architettura, non esistano regole assolute, come credeva, ad esempio, Leon Battista Alberti, il quale nella sua visione “teologica” riteneva che le leggi dell’armonia mundi potessero regolare anche l’architettura. Nel nostro tempo, non avendo più fede in queste certezze “teologiche”, ci limitiamo a “scegliere” se essere, come dire, architetti classici Joseph Hoffmann, Palais Stoclet, Bruxelles, 1905-11. Prospettiva dell’atrio. Copertina del primo numero della rivista “Ver Sacrum”, gennaio 1898. 19 20 Benedetto Gravagnuolo. L’ultima lezione. Ornamento e pensiero in Adolf Loos Joseph Maria Olbrich, Casa della Secessione, Vienna 1898 e particolare della cupola. Heinrich Tessenow, Casa a Falkenberg, Berlino, 1913 (da H. Tessenow, Hausbau und dergleichen, Berlin 1916). o anti-classici. In tal senso Loos era senz’altro un architetto “classico” considerando soprattutto l’epoca nella quale ha operato, quando la ricerca era invece molto concentrata sull’ornamentazione, come dimostra emblematicamente la stessa Sezession Haus di Olbrich, con la sua cupola d’oro fatta a immagine e somiglianza della chioma di olmo, con le sue maschere e i suoi serpenti. Non a caso, Ludwig Hevesi parlò, a proposito di questi oggetti esuberanti, di “gaia apocalisse”. Ecco io direi che quella apocalisse non fu affatto “gaia”, ma drammatica, e forse tragica, alla Schopenhauer, perché essa tentava, come dimostra significativamente anche l’intreccio di architettura, scultura e pittura, una contaminazione del linguaggio architettonico con quello pittorico e scultoreo che era esattamente l’opposto di quello che invece voleva Loos: e cioè riportare l’architettura all’autonomia del suo linguaggio espressivo. È un punto non irrilevante, questo, che spiega poi perché, ad esempio, nella sua Storia dell’architettura contemporanea scritta con Dal Co, Tafuri parli a proposito di Adolf Loos di “modernità senza avanguardia”, denotando con tale espressione un vero e proprio orientamento nel quale si fa rientrare anche l’opera di Tessenow. D’altra parte Loos ha avuto un rapporto polemico non solo con la Wiener Sezession, ma più in generale anche nei confronti di quell’atteggiamento avanguardistico che si potrebbe riassumere nell’antico motto di Borromini «chi segue altri non gli va mai inanzi», e che consiste nel cercare di essere sempre davanti, alla ricerca ossessiva di quella “novità” che per Loos - e questo è un punto importante - non è così essenziale, poiché la novità, più semplicemente, non è di per sé un bene né un male. Questa è la distanza che separava Loos sia da quelli che lui chiamava i “falsi moderni”, che seguivano le ultime mode, sia dai nostalgici passatisti, come gli heimat kunstler che credevano che il legame con il passato si esprimesse attraverso il recupero del folklore e di tutti gli stereotipi di tradizioni ormai morte. Loos afferma, tra l’altro, di «preferire sempre il meglio al nuovo»: una novità va senz’altro accettata se è un miglioramento, ma perde di significato se invece Ornamento e pensiero in Adolf Loos può costituire un arretramento rispetto a ciò che si è venuto a consolidare nel tempo. È questo il motivo per cui, sostiene Loos, un oggetto come l’amo da pesca è rimasto invariato nella sua forma da millenni. Ci sono cioè oggetti per i quali l’innovazione appare persino ridicola, come senz’altro lo è, per esempio, il voler fare una sedia originale disegnandola senza un piede, così da farci cadere. Non è più una cosa originale: è una stupidaggine. La novità, dunque, va sempre adeguatamente “interpretata” alla luce della sua relazione dialettica con il presente. Ora, da questo punto di vista, la sua idea di razionalità, a mio parere, come peraltro ha sottolineato anche Cacciari, è molto vicina all’atteggiamento filosofico di Ludwig Wittgenstein che, da post-kantiano, aveva nei confronti della ragione una visione né aprioristica, né dogmatica. C’è infatti un razionalismo dogmatico, un razionalismo che potremmo forse definire “deduttivo”, che parte da alcuni principi certi e li “applica”. E c’è anche una razionalità duttile, capace di mettere sempre in discussione le regole del gioco, che è sintetizzabile nella famosa metafora elaborata da Wittgenstein sul gioco degli scacchi. Per Wittgenstein è infatti possibile giocare bene a scacchi anche solo applicando le regole degli scacchi: in questo caso l’intelligenza si misura sulla capacità di muovere il pedone, il cavallo, la torre o l’alfiere secondo degli schemi precostituiti. È tuttavia possibile anche giocare con le regole degli scacchi, e cioè inventare nuove regole. E in questo caso sono le regole stesse degli scacchi - che non possono che essere quelle delle leggi logiche - che diventano le “pedine” con cui giocare. Dunque se devo cambiare non posso che interrogarmi logicamente. Ecco perché Adolf Loos con questo atteggiamento, che non è certo antimoderno, ad esempio, difende il tetto piano. Non era così scontato per tutti. Tessenow, a tal proposito, è, per esempio, assai più “morbido” con la tradizione, ribattendo a quei suoi colleghi che come Gropius si ostinavano ormai a fare solo tetti piani, che la censura contro il tetto a due spioventi era immotivata. In fondo, il tetto inclinato è tecnicamente e razionalmente “perfetto”, in quanto fa defluire l’acqua Ludwig Wittgenstein (1889-1951). Adolf Loos, Casa Moller, Vienna, 1927-28. Veduta del vestibolo all’inizio della scala che conduce al salone. 21 34 Benedetto Gravagnuolo. L’ultima lezione. Ornamento e pensiero in Adolf Loos Casa per Theodor Beer, detta anche “Villa Karma” (ristrutturazione), Montreux (Svizzera), 1904-06. Il vestibolo di ingresso a doppia altezza visto dal ballatoio superiore. Ornamento e pensiero in Adolf Loos Casa per Theodor Beer, detta anche “Villa Karma” (ristrutturazione), Montreux (Svizzera), 1904-06. La biblioteca. 35 36 Benedetto Gravagnuolo. L’ultima lezione. Ornamento e pensiero in Adolf Loos Ornamento e pensiero in Adolf Loos Casa per Theodor Beer, detta anche “Villa Karma” (ristrutturazione), Montreux (Svizzera) 1904-06. La sala da bagno al primo piano. nella pagina accanto Copertura del vestibolo vista dal basso. 37