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Tutti i diritti riservati
È vietata ogni riproduzione
ISBN 978-88-8497-361-0
Editing
Anna Maria Cafiero Cosenza
Grafica
Costanzo Marciano
Referenze fotografiche
Foto private dall’Archivio
Elvira Romano Gravagnuolo,
pp. 7, 92, copertina.
Roberto Schezen, pp. 33-48,
in B. Gravagnuolo,
Adolf Loos. Teoria e opere,
Idea Books, Milano 1981.
Si ringrazia Inge Podbrecky
per l’immagine di p. 59a.
Collana Theoria, Architettura, Città
Una collana sulla Teoria dell’architettura fondata su basi razionali
e non transitorie che riflette sui fondamenti della disciplina, sulle
sue regole, sui suoi principî, sulla dialettica tradizione/ innovazione
contenuta nell’insegnamento dei maestri in un rapporto ineludibile
con le opere. Teoria intesa come “osservazione” e riflessione sui
principia e sugli exempla, quali depositi di conoscenze e strumento
di verifica e congiunzione tra theoria e praxis nel progetto
dell’architettura e della città. Un punto di vista orientato e “realista”
che, assumendola come dato di fatto, non registra o constata la realtà
ma vuole produrre, criticamente, degli effetti su di essa, nel solco della
scuola italiana che ha avuto in Aldo Rossi la sua guida e riferimento.
Una ricognizione sui caratteri specifici dell’architettura intesa
come “arte civile” volta alla costruzione e modificazione del reale,
sedimentata nella più “alta costruzione umana” che è la città da
contrapporre alla liquidità informe della infondata architettura
dell’immagine e alla post-metropoli globalizzata di questi anni.
Riflessioni e studi attorno all’architettura, capaci di rendersi
intellegibili, di dichiarare con chiarezza i loro presupposti e di
contribuire alla ricostruzione di un corpus non dogmatico ma
continuamente alimentato dalla dialettica con l’“inerzia del reale”.
Direttore
Fritz Neumeyer
Professore emerito di Teoria dell’Architettura, è stato direttore del Dipartimento
di Storia e Teoria dell’Architettura alla Technische Universität di Berlino.
Comitato Scientifico
Gino Malacarne
Professore ordinario di Composizione Architettonica e Urbana alla Facoltà di
Architettura “Aldo Rossi” di Cesena dell’Alma Mater Studiorum di Bologna.
Daniele Vitale
Professore ordinario di Composizione Architettonica e Urbana alla Facoltà di
Architettura civile del Politecnico di Milano, è coordinatore del Dottorato in
Composizione Architettonica del Politecnico di Milano.
Francesco Collotti
Professore associato di Composizione Architettonica presso l’Università degli
Studi di Firenze. è attualmente redattore di “Firenze Architettura”, membro
del Comitato Scientifico di “Archi” e corrispondente dall’Italia di “Werk”. Ha
insegnato al Politecnico Federale di Zurigo e presso la Facoltà di Architettura di
Dortmund.
Antonio Diaz Del Bo (Tony Díaz)
Architetto, ha insegnato progettazione nella Facoltà di Architettura di Buenos
Aires e nella Escuela Técnica Superior de Arquitectura de la Universidad
Politécnica de Madrid. È stato inoltre visiting professor ad Harvard e in
numerose università, anche italiane.
Coordinamento scientifico ed editoriale
Federica Visconti
Professore associato di Composizione Architettonica e Urbana alla Facoltà di
Architettura dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”.
Renato Capozzi
Ricercatore in Composizione Architettonica e Urbana alla Facoltà di Architettura
dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”.
in copertina
Benedetto Gravagnuolo,
Napoli 2012
con il patrocinio di
Associazione Culturale
Benedetto Gravagnuolo
Indice
7
A Benedetto Antonio Monestiroli
8
Nel nome della semplice ragione Mario Losasso
10 Nota dei curatori Riccardo de Martino, Giovanni Menna
11
La lezione di Adolf Loos Valeria Pezza
16
Ornamento e pensiero in Adolf Loos
Benedetto Gravagnuolo
Saggi
64 L’attualità dei maestri. Schinkel dann Loos und Mies Renato Capozzi
68
La ricezione di Loos in Italia. 1930-1950
Testimonianza, critica, storiografia Giovanni Menna
74
“Adolf Loos. Teoria e opere”:
la monografia di Benedetto Gravagnuolo del 1981 Riccardo de Martino
78
La lezione dei maestri Camillo Orfeo
Apparati
83
Profilo biografico di Benedetto Gravagnuolo Orlando Di Marino
84
Elenco degli scritti di Benedetto Gravagnuolo Colomba Sapio
94
Indice dei nomi
7
A Benedetto
Antonio Monestiroli
è difficile togliersi dalla mente l’aspetto fisico di Benedetto Gravagnuolo, il suo portamento,
il suo sorriso gentile, la sua eleganza, nei movimenti e nel vestire. E come spesso accade,
pensando a lui ci si rende conto che tante delle cose che ha fatto hanno un rapporto stretto con
questa sua eleganza, ne godono, in qualche modo, il riflesso.
Penso in particolare a due delle sue opere. Una è il libro su Adolf Loos (1981), la prima
monografia italiana su questo grande maestro che ha fatto dell’eleganza un imperativo morale.
Che Gravagnuolo, anche se molto giovane, dovesse scrivere su Loos sembrava naturale.
Sembrava che le cose che Benedetto dice di Loos le sapesse ancora prima di conoscerlo, che
facessero parte di lui e che le avesse riconosciute in Adolf Loos.
In fondo solo così si può parlare di un autore rendendosi credibile, solo partecipando totalmente
al suo pensiero.
Quel che lega Benedetto al suo maestro è la convinzione che l’architettura sia espressione di
civiltà, che non possa esistere al di fuori di una idea di civiltà.
Confermando la sua appartenenza a questo pensiero, dieci anni più tardi Gravagnuolo scrive
il suo secondo libro sul periodo della storia della architettura in cui questo rapporto fra
architettura e civiltà si manifesta pienamente: l’Illuminismo.
Il suo libro su La progettazione urbana in Europa dal 1750 al 1960 mette in evidenza il rapporto
necessario fra progetto urbano e idea di civiltà proprio dell’Illuminismo.
Benedetto Gravagnuolo ha condotto questa sua ricerca con naturalezza, cercando nella storia
le origini di un pensiero che lo accompagnava in tutte le sue attività: di architetto, di storico
della architettura, di insegnante e infine, non ultima per importanza, di Preside della Facoltà di
Architettura di Napoli.
Ho frequentato molto Benedetto durante il periodo della sua presidenza e ricordo che ogni
suo intervento sui modi di organizzare una scuola di architettura, in uno dei suoi tanti “nuovi
ordinamenti”, partiva sempre dalle ragioni costitutive di quella scuola, un atteggiamento questo
ancora una volta legato al pensiero illuminista.
Tutto il resto era, ed è tuttora, secondario.
Questa sua capacità di andare all’origine dei problemi gli consentiva di esporre il suo punto di
vista sempre con grande semplicità. Quella semplicità che praticava, come diceva Loos,
“solo perché gli veniva naturale”.
Quella semplicità con la quale Benedetto viveva la sua vita quotidiana. In profondità.
marzo 2014.
8
Nel nome della semplice ragione
Mario Losasso
In un mio recente viaggio a Vienna ho visitato i luoghi di Adolf Loos, luoghi della memoria,
quei luoghi e quelle opere sui quali, per una parte sostanziale, è impostata l’ultima lezione
di Benedetto Gravagnuolo così come viene proposta in questo volume. Dalla casa sulla
Michaelerplatz all’American Bar, confesso che il mio pensiero è andato per un attimo a
Benedetto, quasi uno sfiorare l’anima intellettuale di un amico e collega che, di quelle architetture
e delle idee del loro grande autore, ne aveva fatto a più riprese oggetto di studio.
Esse erano state un punto di riferimento per un percorso di ricerca mai interrotto, continuamente
ripreso e basato - sono le parole di Benedetto - sul fondamento epistemologico della
«interminabilità» dell’esegesi storiografica.
Il principio che ha mosso il lavoro di Benedetto Gravagnuolo sui tanti piani della sua attività può
essere sintetizzato in quel «nel nome della semplice ragione», titolo emblematico di un paragrafo
della sua ultima monografia1 sul Settecento napoletano. In lui era evidente che l’accostamento tra
la grande epoca dell’Illuminismo e le architetture di grande valore civile delle epoche successive
determinava un rapporto ideale tra architettura ed emancipazione sociale, come tra progetto e
idea di modernità. La sua concezione della storia dell’architettura e dei grandi maestri è stata
sempre caratterizzata da un senso di apertura, evidenziando in molte occasioni i propri dubbi
sulla accezione della storia come mera successione di stili o come diacronica consecutio di
eventi architettonici.
Benedetto Gravagnuolo ha perseguito nel tempo un atteggiamento coerente secondo cui la
cultura poteva essere il patrimonio genetico di scelte di ordine superiore e di indirizzo per
un operare civile nella società. Lo appassionavano i termini come ragione, progresso, etica,
riconoscimento dell’altro, i cui concetti aprivano a orizzonti che tendevano a scavalcare la
contingenza del momento per indirizzarsi verso tensioni ideali. La scelta di campo verso il
‘maestro’ Adolf Loos è una scelta che fa propria la distinzione tra l’idea di modernità e quella di
attualità, sottolineando l’errore di seguire le mode, vera debolezza del pensiero. L’ultima lezione
di Benedetto Gravagnuolo è emblematicamente indirizzata al tema dell’ornamento così come
Aldo Rossi intitola Ornamento e delitto un celebre filmato2 della XV Triennale di Milano nel 1973,
in omaggio a Loos. Nel filmato sono accostati frammenti letterari ed esperienze visive per definire
alcune tesi fondative della teoria dell’architettura aldorossiana a partire da testi di Adolf Loos,
in cui veniva richiamata la nozione di tradizione nel rapporto tra storia e architettura accanto al
rapporto tra realtà e architettura, spingendosi fino al tema dei caratteri desunti dalla tradizione,
riproposti e riformulati nell’architettura moderna.
Nel complesso rapporto fra il progetto e la storia, Benedetto Gravagnuolo non ha mai visto
contraddizioni fra Illuminismo, classicismo e modernità razionalista, rami di un sapere
architettonico unitario a partire dai quali poter fare una scelta di campo fra architetti classici o
anti-classici in cui - come Loos che decisamente è inquadrabile nella prima categoria - investiva
la sua esperienza di studioso secondo una visione tesa a «riportare l’architettura all’autonomia
del suo linguaggio espressivo».
I nostri rapporti con gli altri non hanno che, inevitabilmente, una durata - osserva Marguerite
Yourcenar3 - ma, proprio per questo, hanno un grande valore nel momento in cui si apprende una
lezione. Questo volume si configura, profeticamente o forse consapevolmente, come un denso
Nel nome della semplice ragione
lascito di eredità intellettuale da diffondere e apprendere. Gli aspetti dello spirito e dell’agire
umano di Benedetto erano indissolubilmente legati alle sue tensioni ideali, capaci di far emergere
in lui una passione individuale che ne sottendeva anche una collettiva, nel riconoscimento
del valore civile che attribuiva all’amata architettura investita, come ricordava nel saggio sul
Settecento, dalla «ineludibile e incessante dialettica tra l’occhio alato delle grandi narrazioni e lo
sguardo da talpa delle microstorie»4.
1.
2.
3.
4.
B. Gravagnuolo, Architettura del Settecento a Napoli. Dal barocco al classicismo, Collana “Historia rerum”, Guida, Napoli
2010.
A. Rossi, G. Braghieri, F. Raggi, Ornamento e delitto, film-documentario, regia di L. Durissi, prodotto da Contemporafilm,
XV Triennale di Milano per la Mostra Internazionale di Architettura (a cura di A. Rossi), 1973.
M. Yourcenar, Mémoires d’Hadrien, Plon, Paris 1951, ed. it. Id., Memorie di Adriano, trad. di L. Storoni Mazzolani, Torino,
Einaudi 1988.
B. Gravagnuolo, op.cit., Guida, Napoli 2010.
9
10
Nota dei curatori
Riccardo de Martino, Giovanni Menna
Nell’estate scorsa, dopo una strenua lotta con il male che lo aveva aggredito da alcuni mesi,
Benedetto Gravagnuolo si spegneva nella sua casa napoletana di via dei Mille. Nonostante la
malattia, egli era riuscito a portare a termine il suo corso di Storia dell’Architettura contemporanea,
tenuto, come aveva fatto per trent’anni, nella Aula Gioffredo di Palazzo Gravina, con le lezioni
dedicate ai grandi maestri del Movimento Moderno. A corso finito, nel mese di aprile, accettò
tuttavia l’invito di Valeria Pezza e Renato Capozzi per una lezione rivolta agli studenti dei corsi di
Composizione. Nessuno dei presenti a quella lezione poteva immaginare che sarebbe stata l’ultima:
anche quella volta Benedetto esibì l’energia, la generosità e l’ironia con la quale di norma si esprime
una passione autentica per l’oggetto della dissertazione. Quel suo ultimo incontro con gli studenti di
architettura era dedicato, come un dono amaro del destino, proprio alla figura con la quale Benedetto
aveva iniziato il suo percorso di storico e critico: Adolf Loos. Una figura che egli non solo amava
profondamente, ma aveva consapevolmente “scelto” come polo di orientamento culturale per la sua
azione di studioso e di docente, e persino come punto di riferimento etico per le sue battaglie civili.
Ci sono molti modi di rendere omaggio alla memoria di uno studioso che tanto seppe offrire non solo
ai propri allievi diretti, ma alla scuola nella quale insegnò e che a lungo diresse e, più in generale, alla
cultura architettonica della propria terra. Abbiamo pensato che trascrivere il testo di quell’incontro
e presentarlo in forma di libro, fosse “la cosa giusta”. Conoscendolo da tanti anni, siamo sicuri
che anche Benedetto avrebbe preferito essere ricordato in questo modo, al di là delle retoriche e
delle commemorazioni. Non foss’altro per ricordare a tutti che, nonostante il suo impegno nelle
istituzioni e nella società civile, egli si considerava, ed era, in primo luogo uno storico dell’architettura.
Un mestiere, peraltro, mai disgiunto dall’esercizio di una critica che guardava al presente
dell’architettura, alle problematiche come agli interrogativi, alle contraddizioni come ai punti fermi
del fare architettura.
Benedetto ha sempre sottolineato con grande determinazione la necessità di tenere distinte, ma
dialetticamente connesse, la storia e la progettazione, e il fatto che la sua ultima lezione si sia svolta
proprio nell’ambito di un corso di Composizione, assume anche per questo un significato particolare.
Si è pensato così che il testo della lezione avrebbe dovuto essere accompagnato non solo da scritti
di storiografia, come quelli presentati da chi scrive questa nota, ma anche dalle considerazioni
critiche svolte dai colleghi docenti di Composizione. È per questo che il commosso ricordo di Antonio
Monestiroli, che apre questo piccolo libro, introduce le riflessioni di docenti di Progettazione come
Valeria Pezza e Renato Capozzi, ai quali si deve, come abbiamo ricordato, sia l’invito a Benedetto
che l’ideazione stessa di questo libro. Il testo di Camillo Orfeo e ancora i contributi di Colomba Sapio
e Orlando Di Marino che hanno invece curato gli apparati con un breve profilo biografico e l’elenco
pressoché completo degli scritti di Gravagnuolo, chiudono il libro. Non si può mancare di ringraziare,
in questa sede, gli studenti che hanno collaborato a questa iniziativa: Leopoldo Casertano, Chiara de
Martino, Mattia Di Palma, Dalila Fermezza, Antonella Guerriero, appena iscritti ai corsi di architettura
che hanno offerto il proprio contributo con entusiasmo. Del resto è soprattutto agli studenti di
Architettura che questa iniziativa è dedicata. Il cuore del libro è naturalmente il testo della lezione di
Gravagnuolo. È a lui che si è voluto lasciare la parola. La parola di uno studioso che sapeva analizzare
con profondità di pensiero il passato, ma con i piedi ben piantati nel presente e con gli occhi aperti,
disincantati e appassionati a un tempo, rivolti al futuro.
11
La lezione di Adolf Loos
Valeria Pezza
Benedetto Gravagnuolo ha tenuto il 15 aprile 2013 una lezione su Aldof Loos per gli studenti dei
corsi di Laboratorio di progettazione del primo anno, tenuti da Renato Capozzi e da me. È stata
la sua ultima lezione, ma nessuno di noi lo sapeva, ed è stata una lezione particolare, per molte
ragioni.
Faceva molto caldo e lo vedevamo progressivamente aggredito dalla calura, eppure continuava
concentrato e teso a svolgere il filo dei suoi ragionamenti che, voglio pensare, per una certa
forzatura da me impiegata nell’introdurre la sua lezione, si svolgevano senza quella distanza
da storico che mi capitava di rimproverargli e che, a mio avviso, finivano talvolta col gettare un
velo di stereotipo e di appannamento sulla sua trattazione di Loos.
Finalmente e di nuovo, quel giorno, non eravamo di fronte a una lezione su Loos, ma alla lezione
di Loos. Suo vecchio maestro, trattato di nuovo da maestro.
D’altra parte per questo, fin dal mio ritorno a Napoli nel 1991, dopo un decennio alla Facoltà
di Architettura di Pescara, chiamavo ogni anno Benedetto a parlare di Adolf Loos e il nostro
era diventato un appuntamento fisso. Nel contesto napoletano lui era uno dei pochi studiosi
competenti e disponibili verso il campo di interessi in cui mi ero andata formando - quello
dell’architettura della città, della progettazione razionale, del fondamento scientifico
dell’architettura - che viceversa suscitava perlopiù solo polemiche e pregiudiziali guerre di
campanile. Raramente si riusciva a sviluppare un confronto e una riflessione su temi e questioni
che mi apparivano cruciali e, tranne che per Benedetto e pochissimi altri, quello napoletano
sembrava un ambiente poco incline ad affrontare i nodi delle questioni, chiuso in schieramenti
accademici precostituiti, immobilizzato in un’incredulità pregiudiziale, in una sterile paralisi
tra professionismo spiccio, aristocrazia da vecchio salotto e finto vitalismo, vestito dei panni
della moda e della libera creatività artistica. Sembrava trovare conferma la convinzione di
Gerardo Marotta della tragica mancanza, a Napoli, di una società civile e, a maggior ragione, di
un’architettura civile, perché priva non solo di un mandato sociale ma anche di una capacità
autonoma di approfondimento e rielaborazione dei propri strumenti disciplinari.
Loos, sottratto dunque alle categorie della storiografia e trattato per quel che ha fatto e
sostenuto, provocava sistematicamente la riaccensione degli interrogativi, la riapertura del
ragionamento, la revisione dei fatti: per questo, ogni anno ci vedevamo per discuterne.
Ma rispetto all’appuntamento fisso che avevamo con Loos, quello dell’aprile del 2013 ha
finito per assumere un carattere particolare, per la mia insofferenza alla signorile distanza di
Benedetto, e per il suo modo signorile e profondo di rispondere alla mia richiesta di riprendere
posizione.
Quella che segue è la trascrizione, rivista, della presentazione di quel giorno.
12
Benedetto Gravagnuolo. L’ultima lezione. Ornamento e pensiero in Adolf Loos
Grazie al professor Gravagnuolo per la sua disponibilità a tenere una lezione su Adolf Loos.
A parte un’antica amicizia, ci lega anche la consuetudine di questi incontri, a cadenza annuale,
dedicati a quest’architetto che, come sanno gli studenti dei nostri corsi, consideriamo una
figura decisiva, una figura capace di assolvere il compito di guida, il ruolo di maestro: una figura
che spesso interroghiamo nei momenti d’incertezza, per chiarire la strada. Ci lega dunque
anche l’ammirazione per Loos, a cui Benedetto Gravagnuolo nel 1981 ha dedicato un volume
molto importante, il primo volume in italiano che raccoglieva in modo sistematico notizie,
documenti, grafici e immagini sull’opera di Loos.
Perché questo libro è importante? Intanto si apre con una bella prefazione di Aldo Rossi, che
già nel 1959 aveva scritto per “Casabella-Continuità”, diretta da Rogers, un saggio illuminante
su Adolf Loos, tagliato secondo quell’interesse particolare che ha un architetto progettista
rispetto alle opere e agli autori, trattati non per allargare il campo di erudizione accademica, ma
per il loro modo di affrontare la realtà e cercare le soluzioni dei problemi, modo utile al lavoro
del progettista. Da quel 1959 Loos rimarrà per Aldo Rossi un maestro sempre presente intorno
al quale continuerà a svolgere la sua riflessione e cui si rivolgerà di continuo per capire come
si fa; a dimostrazione di questo andamento circolare intorno alle cose, volto ad approfondirle
e non accumularle in una addizione lineare, quattordici anni dopo, nel 1973, Rossi deciderà di
usare le parole di Loos per il video girato per la Mostra internazionale di Architettura della XV
Triennale di Milano, che titolerà, in modo inequivocabile: Ornamento e delitto.
Quindi che in quel volume che Gravagnuolo dedica a Loos sia proprio Aldo Rossi a scrivere
l’introduzione è un indizio importante: Rossi è architetto, progettista e teorico, non certo storico
dell’architettura. Ma ci sono anche altri indizi, resi più rilevanti dalla generale attenzione che
in quegli anni era andata nascendo nei confronti di Loos, che fino a quel momento era stato
trattato con un certo imbarazzo dalla storiografia, che, quando non lo ignorava del tutto ne
parlava marginalmente come l’inventore del Raumplan - giusto a marcare quanto fosse ormai
insolito il pensare in tre dimensioni di Loos rispetto alle ricerche degli altri architetti - o lo
definiva proto-razionalista. In quegli anni erano invece stati pubblicati altri importanti volumi:
nel 1972 Parole nel vuoto, con gli scritti di Adolf Loos, e, nello stesso 1981, il Das Andere a cura
di Massimo Cacciari.
Ma è con il volume di Benedetto Gravagnuolo che si ricostituisce nella nostra lingua un quadro
chiaro di fatti relativi a Loos.
Innanzitutto, appunto, raccogliendo e descrivendo i fatti, le opere.
Troppo spesso, infatti, la storiografia ci racconta l’architettura utilizzando maglie, categorie,
periodizzazioni, cronologie, ideologie…talmente strette e prevaricanti, da sopraffare le opere,
fino a sostituire l’architettura con la sua narrazione storiografica; compiendo un occultamento,
più o meno intenzionale e consapevole, dei fatti, che scompaiono, per essere sostituiti, direbbe
Gutkind, dalla loro narrazione. Spesso nei testi degli storici abbondano le parole per un edificio
di cui, a malapena, c’è un’immagine, spesso soltanto una foto, più spesso ancora, solo di un
esterno. Come sia fatto quell’edificio, cosa abbia dentro, sembra cosa secondaria. Mancano i
grafici: niente piante, prospetti o sezioni. I disegni sembrano spesso conquistare un posto in
questi manuali solo se hanno un certo interesse pittorico ed espressivo, non come strumento
tecnico di descrizione del manufatto, di cui impariamo progressivamente a ignorare i dati, ma
sui quali si costruiscono complessi castelli d’idee e giudizi.
Questa difficoltà ad assumere i fatti dell’architettura come principale materia da studiare, come
base ineludibile per maturare un modo di guardare le cose, è ricorrente; si dimentica che teoria
viene dal greco θεωρέω theoréo “guardo, osservo”, e in una circolarità profonda di relazioni e
di senso fissa il formarsi di una nostra idea di mondo, attraverso la nostra capacità di osservarlo.
Di guardare il mondo, i suoi fatti e il loro rapporto con la nostra vita reale e i nostri bisogni,
anche pratici; invece, paradossalmente, ciò che sembra ineluttabilmente spinto fuori dal nostro
sguardo è proprio il mondo e la nostra capacità di autoconoscenza, di riflessione su noi stessi
La lezione di Adolf Loos
nel mondo; come se lo statuto teorico, necessario alla dimensione scientifica, trasmissibile, del
sapere, dovesse riscattarsi dalle dure contingenze della realtà e svilupparsi come un fatto a sé
stante, autosufficiente, un mondo parallelo a quello reale, in cui, finalmente, tutto torni; un’idea
del mondo fuori dal mondo, un sapere astratto dalla realtà, non estratto più da essa, anzi,
definitivamente riscattato dall’infinito disordine delle cose e della fragilità umana.
Tranne poi, enfatizzare la natura artistica del mestiere e la sua profonda e oscura vitalità,
ammiccando di continuo con quella parte della storia che ritiene il disordine molto più vivo,
affascinante e vero dell’ordine. Ma questo è un vizio ricorrente, un pregiudizio, una menzogna
che continua a camminare al nostro fianco, rimuovendo i fatti e la loro verità, vecchia di secoli.
Non a caso, negli anni recenti la linea di pensiero dominante, nata in ambito filosofico e
allegramente diffusa in architettura, ha potuto sostenere che non esistono fatti ma solo
interpretazioni. Una linea che ha accompagnato, sostenuto e assecondato forse più che
interpretato, la nostra realtà sociale, politica, economica, culturale, con effetti assolutamente
devastanti anche in architettura: una linea che si è mossa in sintonia con i fenomeni di
disgregazione che avvenivano a tanti livelli, conferendo loro la dignità di uno statuto
intellettuale, culturale e scientifico. Il che per l’architettura è un paradosso particolarmente
scottante, giacché si è finito per considerare il caos e la disgregazione non il problema del
nostro mestiere - come è sempre stato - bensì la sua soluzione, l’orizzonte figurativo e di senso
per il quale lavorare.
In questi anni difficili, di cui solo ora sembra si avvertano le conseguenze, la critica e la
storiografia architettonica si sono spesso trovati a trattare e a elevare a rango di visione
teorica semplici fenomeni da gossip, brillanti e scoppiettanti contrapposizioni personali che
prescindevano del tutto dall’architettura, dai suoi antichi compiti civili e dalla capacità di
interpretarli e dare loro risposta: in maniera complice con la parallela devastazione delle nostre
città e dei nostri territori.
Benedetto Gravagnuolo con questo suo lavoro su Adolf Loos si decentra con chiarezza da
questo scenario, si pone con uno sguardo diverso dallo storico convenzionale, ed entra nel vivo
del lavoro di Adolf Loos e, con “avvertita scientificità”, come osserva il suo maestro
De Fusco nella breve nota all’edizione italiana, ne ordina l’opera e gli esempi: raccoglie in
maniera quasi manualistica tutti i dati e le notizie, dal punto di vista cronologico, che da quello
descrittivo - cos’è, dove sta e come è fatto - e da quello della committenza.
In questo modo, nel corso del libro, le sue riflessioni critiche sono sempre riferite alle
architetture, al manufatto, reso intellegibile dal nesso tra i disegni, le notizie, l’apparato critico.
Non so se, come afferma De Fusco volesse “andare «oltre l’architettura»”. Sicuramente voleva
raggiungerla, conoscerla, descriverla.
Di questo, credo, che la cultura architettonica gli sia stata grata e riconoscente.
In quegli anni in cui non si era ancora affermata la fortuna di Loos, disporre di una conoscenza
fondata delle sue opere consentiva a tutti noi di distinguere quelli che si riferivano a Loos
perché diventava di moda e faceva chic, da quelli interessati a indagarne e svilupparne la
lezione.
Non posso dimenticare la conferenza di un importante architetto austriaco che, invitato
con tutti gli onori qui, a Napoli, nella bella aula di S. Demetrio e Bonifacio, esordì nella sua
esposizione con due immagini di Schinkel e di Loos - come per dichiarare i riferimenti del suo
lavoro e dei suoi progetti - e con imperturbabile disinvoltura proseguì descrivendo la facciata di
un suo edificio, nei pressi di un fiume, solcata da segni, a rilievo, semicircolari che ricordavano
le onde del vicino fiume e le squame dei pesci che vi nuotavano. Un modo certamente singolare
di interpretare non solo il luogo ma soprattutto la lezione di Loos.
Troppo spesso si compie un’appropriazione indebita di architetti, di opere o di citazioni: li si
convoca a sproposito, a prescindere, come per dire: dichiaro che i miei maestri sono questi,
vorrei fare a modo loro e vorrei essere erede della loro lezione; ma poi si va in tutt’altra direzione
13
14
Benedetto Gravagnuolo. L’ultima lezione. Ornamento e pensiero in Adolf Loos
e quelle figure si trovano vistosamente fuori luogo; garanti loro malgrado, protettori involontari
e ignari di quello che vai sostenendo; araldica improvvisata, medagliere posticcio attaccato alla
divisa, acquistato al mercato della storia, senza nulla a pretendere.
Succede così perché siamo poco allenati a considerare i fatti, le architetture, a pensare per
forme, e ci muoviamo solo sulle dichiarazioni, le parole, le intenzioni.
Invece in questo importante lavoro di Benedetto Gravagnuolo sono poste con chiarezza dei
punti fermi: cosa ha fatto Loos, come, dove e perché l’ha fatto, e che rapporto ha quest’opera,
con le sue affermazioni, quelle singolari riflessioni, geniali e dolenti, che avevamo potuto leggere
in Parole nel vuoto; con una capacità di osservazione della vasta gamma dei punti di vista e dei
piani di lettura, e dell’assoluta padronanza con cui Loos li riusciva a riportare nella costruzione.
Dal dettaglio al controllo raffinatissimo dei materiali la capacità di Loos di convocare nell’opera
i più diversi piani tematici ha molti esempi: come dimostra la immagine riportata in copertina
del libro di Gravagnuolo, con l’ingresso di Villa Karma in cui si vede il dettaglio della maniglia
che, riprendendo il simbolo dello Yin e dello Yang della cultura orientale, rispondeva alla visione
olistica del suo facoltoso committente. Fino a tutti quegli aspetti del lavoro di Loos che hanno a
che fare con la sua attenzione alla modernizzazione delle tecnologie, che non sono mai confuse
con la modernizzazione della forma architettonica, o alla sua attenzione per la Vienna d’inizio
Novecento, la sua architettura e il suo assetto.
Un contesto inteso non in senso geografico, ma in senso tematico, riprendendo un
insegnamento dell’architettura della storia. Anche Palladio del Redentore è fuori dal
contesto della Giudecca, è addirittura smisurato: ma il Redentore non vuole confrontarsi
con quel contesto specifico, bensì con l’intera Venezia, i suoi canali e col tema della chiesa
per la cui facciata Palladio continua a sperimentare la sua soluzione. E le risposte le cerca
nella rielaborazione di materiali della storia, nei templi dell’antichità, immaginando che
l’articolazione per navate delle chiese possa proiettarsi nel fronte e imprimersi come
sovrapposizione delle facciate di due templi, di dimensioni diverse. Spesso si cede a un’idea
chiusa dell’architettura e delle sue forme: come se il moderno fosse un linguaggio chiuso, il
classicismo fosse un linguaggio chiuso, il razionalismo un linguaggio chiuso. Non si tratta di
un sistema chiuso di risposte, ma un modo di guardare il mondo, di riaprire gli interrogativi e i
problemi a cui l’architettura della storia ha provato a dare soluzioni, ristabilendo il nesso tra le
domande e le risposte: comprendendo la ragione di quelle risposte.
Ringrazio quindi Benedetto veramente di cuore per questa sua disponibilità e gli lascio la
parola.
Adolf Loos e la razionalità duttile
Ornamento e pensiero
in Adolf Loos
15
16
Ornamento e pensiero in Adolf Loos
Benedetto Gravagnuolo
Adolf Loos (Brno 1870-Vienna
1933), ritratto davanti
al camino del proprio
appartamento viennese.
Copertina del volume di
Benedetto Gravagnuolo
Adolf Loos. Teoria e opere
del 1981.
Innanzitutto un grazie di cuore a Valeria Pezza e a
Renato Capozzi per avermi invitato a tenere questa
lezione su un tema a me particolarmente caro.
La presentazione di Valeria mi ha riportato alla
mente gli anni nei quali ho deciso di scrivere una
monografia su Adolf Loos, il mio primo libro, un’opera
naturalmente molto importante per me. Quindi mi
perdonerete se faccio un po’ di amarcord, che mi
dà modo tuttavia di inquadrare le ragioni di quella
scelta, cercando di essere molto sintetico perché mi
piacerebbe cogliere questa occasione per discutere
con i presenti, tra i quali vedo con piacere anche altri
colleghi e, soprattutto, molti giovani. Il libro, dunque.
L’ho scritto a ventisette anni e pubblicato a trenta, in
un’epoca nella quale non c’erano ancora i dottorati
di ricerca: quel libro è stato quindi come il mio
“dottorato”. È stato, per me, soprattutto l’occasione di
esprimere una “scelta” mirata a individuare una figura
di riferimento all’interno del grande novero dei maestri
del Movimento Moderno.
Come è noto, proprio in questi giorni si pubblicano gli
atti del convegno dedicato nel 2009 a Ernesto Nathan
Rogers1, il quale, per capirci, era più “ecumenico”.
Mentre per Rogers continuavano ad andare
bene sia Gropius che Wright, prendeva corpo nel
nostro paese una linea di pensiero, rappresentata
soprattutto da Aldo Rossi e Giorgio Grassi, che
intenzionalmente “lasciava” Wright o Gropius, per
riferirsi invece a Loos, a Tessenow e ad altri, scegliendo
cioè di non essere “d’accordo con tutti” all’interno
dello stesso Movimento Moderno. Anche perché
non c’è dubbio che dentro quella che noi abbiamo
chiamato l’ecumene della modernità, esistono delle
linee di pensiero discordanti. Ed è anche per questa
Ornamento e pensiero in Adolf Loos
ragione che io non ho mai voluto adottare la categoria
interpretativa del “protorazionalismo” proposta dal mio
Lieber Meister, il caro Renato De Fusco. E, del resto, un
allievo proprio perché stima e rispetta il suo maestro
deve sforzarsi di non esserne solo un epigono. Non ho
voluto adottare il termine protorazionalismo, intanto
perché “proto” significa qualcosa di embrionale,
empirico, acerbo, e dunque il termine designerebbe un
razionalismo non ancora “maturo”; e poi perché questa
categoria per De Fusco denotava un razionalismo
che non si evolve, e che resta un po’ impigliato in una
certa rigidità. Si badi che De Fusco aveva, in ogni caso,
desunto questo termine da un altro storico napoletano,
Edoardo Persico.
E mi piace ricordare a tal proposito che Persico
scrisse un memorabile ricordo di Loos, proprio quando
morì nel 1933, e ancora che, nonostante Loos fosse
austriaco, negli anni di un Fascismo che pure veniva a
ridosso di una guerra condotta proprio contro l’Austria,
egli era molto amato in Italia in molti ambienti,
soprattutto milanesi. Se Giuseppe De Finetti, che era
stato un suo allievo, ne alimentava il culto, Persico e
Pagano lo consideravano un riferimento. Era, come
dire, singolare ma significativo il fatto che negli anni
del Fascismo Loos venisse già molto studiato, e che
gli venisse dedicata un’attenzione quasi pari a quella
rivolta a Le Corbusier, e persino maggiore di quella
riservata a Wright, o ad altri.
Poi, nel dopoguerra, nel novembre del 1959, Aldo Rossi
pubblicò un memorabile numero di “Casabella” che
per me ha costituito a lungo un riferimento obbligato,
insieme agli studi che, negli anni in cui ho iniziato a
studiare Loos, Massimo Cacciari stava alimentando su
un altro versante: quello del rapporto tra Adolf Loos e
il clima culturale viennese, in relazione al pensiero di
Wittgenstein innanzitutto, ma anche all’opera di Freud.
Il figlio di Sigmund Freud, Ernst, frequentava quella
singolare “scuola di architettura” che Loos, che non
è mai stato un accademico, teneva nei caffè viennesi,
dove di sera si tenevano degli incontri di architettura.
Tra i “fedelissimi” di Loos c’erano, oltre ai citati
De Finetti e Ernst Freud, anche Richard Neutra e
Copertina di “Casabella“,
ottobre 1933.
Copertina di “CasabellaContinuità”, n. 233 del 1959.
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Benedetto Gravagnuolo. L’ultima lezione. Ornamento e pensiero in Adolf Loos
Adolf Loos, Casa Moller,
Vienna, 1927-28.
Veduta dalla strada.
Otto Wagner, Ingresso
della Sala dei telegrafi
del quotidiano “Die Zeit”,
Vienna, 1902 (ricostruzione).
Rudolf Schindler, due architetti diventati poi molto
importanti in America, soprattutto in California.
Lo sforzo che ho tentato di fare con questo libro è
stato soprattutto quello di tenere l’opera e il pensiero
di Loos rigidamente all’interno delle loro coordinate
epocali di riferimento, senza cercare attualizzazioni,
per così dire, “modaiole”. Uno dei difetti, a volte, della
storia dell’architettura è proprio il volere attualizzare
esperienze passate, come si fa quando, ad esempio,
si parla di piani “urbanistici” a proposito di Ippodamo
da Mileto, riferendosi quindi a un’epoca nella quale
l’urbanistica come disciplina di certo non esisteva
ancora; o, ancora, come faceva Bruno Zevi, il quale
vedeva in Brunelleschi un eroe “anticlassico”, portatore
di idee organiche, operando francamente delle
evidenti forzature. E tuttavia, pur tenendo il racconto
rigidamente all’interno di quelle coordinate temporali,
il taglio che tentai di dare al libro - come peraltro
enunciato nello stesso titolo Teoria e opere - fu quello
di estrarre, o meglio “distillare”, il nucleo concettuale
del pensiero di Loos, non solo analizzandone gli
scritti, ma mettendo quegli scritti in relazione con le
opere costruite, perché l’architettura parla, con muta
eloquenza, ma con un suo linguaggio, e non sempre si
registra una precisa coincidenza tra le teorie e le opere.
A tal proposito potrei citare - ma ci dilungheremmo tanti grandi teorici del classicismo del Settecento che
erano autori di testi che sembravano molto rigorosi
e che poi, nei fatti, progettavano invece nei modi del
Barocco. Un po’ come si comporta, ad esempio, oggi
Boris Podrecca, il quale studia e cita molto Loos, ma
poi pratica un’architettura che certo non è loosiana.
Loos, infatti, è altra cosa.
Terminate queste mie riflessioni introduttive legate
al mio libro, vorrei iniziare questo nostro incontro
- proprio perché avviene nell’ambito di un corso di
progettazione - esponendo sinteticamente i principi
che caratterizzano, secondo la mia interpretazione,
il pensiero di Loos anche in rapporto al suo tempo,
considerando che Loos ha scritto e agito negli anni in
cui a Vienna trionfava il Sezessionstil, l’Art Nouveau
austriaco.
Ornamento e pensiero in Adolf Loos
La sua presa di distanza da Josef Hoffmann, Joseph
Maria Olbrich e Otto Wagner non è cosa di poco conto,
anche perché Olbrich e Wagner erano protagonisti
assoluti dell’architettura a Vienna, come lo stesso
Hoffmann, l’amico-rivale che gli permetterà poi di
pubblicare paradossalmente proprio su Ver Sacrum
l’attacco più duro alla Sezession: lo scritto Die
Potëmkinsche stadt. In questo saggio Loos fa l’apologo
di Grigorij Aleksandrovi Potëmkin, il generale russo
che appagava il desiderio di città di nuova fondazione
della zarina Caterina la Grande, sua amante, portandola
a vedere delle città in tela di cartone: ovvero delle
semplici immagini costruite in cartapesta in grado
di ingannare gli occhi, offrendole la sensazione
della novità. In questo attacco Loos tuttavia - e qui
iniziamo a entrare nel merito - pone una questione
di fondo, fissando la netta distinzione tra l’idea della
modernità e quella dell’attualità, cioè quello che per
gli inglesi è l’up-to-date e per i francesi è la nouvelle
vague, la nuova moda, la nuova tendenza. Seguire le
mode, per Loos, è più di un errore: è la dimostrazione
di una debolezza di pensiero, che è la stessa - e qui
lui fa esercizio di quel sarcasmo che ha contribuito al
successo dei suoi scritti, sempre molto taglienti - del
gagà, che è un individuo in genere poco intelligente,
il quale crede di essere un uomo elegante solo perché
veste secondo quella che le riviste di moda indicano
come l’“ultima tendenza”, ma che, in realtà, non ha
una vera idea dell’eleganza poiché, semplicemente,
non fa altro che seguire le riviste. Così un architetto
che non ha un’idea precisa di cosa fare in architettura
può passare tranquillamente a imitare Gehry e Zaha
Hadid e poi, perché no, Giorgio Grassi, e poi ancora,
perché no, Álvaro Siza, pur essendo essi portatori di
linguaggi diversissimi.
Sono convinto, peraltro, che nel nostro campo,
quello dell’architettura, non esistano regole assolute,
come credeva, ad esempio, Leon Battista Alberti, il
quale nella sua visione “teologica” riteneva che le
leggi dell’armonia mundi potessero regolare anche
l’architettura. Nel nostro tempo, non avendo più
fede in queste certezze “teologiche”, ci limitiamo a
“scegliere” se essere, come dire, architetti classici
Joseph Hoffmann, Palais
Stoclet, Bruxelles, 1905-11.
Prospettiva dell’atrio.
Copertina del primo numero
della rivista “Ver Sacrum”,
gennaio 1898.
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Benedetto Gravagnuolo. L’ultima lezione. Ornamento e pensiero in Adolf Loos
Joseph Maria Olbrich, Casa
della Secessione, Vienna 1898
e particolare della cupola.
Heinrich Tessenow, Casa a
Falkenberg, Berlino, 1913
(da H. Tessenow, Hausbau
und dergleichen, Berlin 1916).
o anti-classici. In tal senso Loos era senz’altro un
architetto “classico” considerando soprattutto l’epoca
nella quale ha operato, quando la ricerca era invece
molto concentrata sull’ornamentazione, come dimostra
emblematicamente la stessa Sezession Haus di
Olbrich, con la sua cupola d’oro fatta a immagine e
somiglianza della chioma di olmo, con le sue maschere
e i suoi serpenti. Non a caso, Ludwig Hevesi parlò,
a proposito di questi oggetti esuberanti, di “gaia
apocalisse”. Ecco io direi che quella apocalisse non
fu affatto “gaia”, ma drammatica, e forse tragica, alla
Schopenhauer, perché essa tentava, come dimostra
significativamente anche l’intreccio di architettura,
scultura e pittura, una contaminazione del linguaggio
architettonico con quello pittorico e scultoreo che era
esattamente l’opposto di quello che invece voleva
Loos: e cioè riportare l’architettura all’autonomia del
suo linguaggio espressivo.
È un punto non irrilevante, questo, che spiega poi
perché, ad esempio, nella sua Storia dell’architettura
contemporanea scritta con Dal Co, Tafuri parli
a proposito di Adolf Loos di “modernità senza
avanguardia”, denotando con tale espressione un
vero e proprio orientamento nel quale si fa rientrare
anche l’opera di Tessenow. D’altra parte Loos ha
avuto un rapporto polemico non solo con la Wiener
Sezession, ma più in generale anche nei confronti di
quell’atteggiamento avanguardistico che si potrebbe
riassumere nell’antico motto di Borromini «chi segue
altri non gli va mai inanzi», e che consiste nel cercare
di essere sempre davanti, alla ricerca ossessiva di
quella “novità” che per Loos - e questo è un punto
importante - non è così essenziale, poiché la novità, più
semplicemente, non è di per sé un bene né un male.
Questa è la distanza che separava Loos sia da quelli
che lui chiamava i “falsi moderni”, che seguivano le
ultime mode, sia dai nostalgici passatisti, come gli
heimat kunstler che credevano che il legame con il
passato si esprimesse attraverso il recupero del folklore
e di tutti gli stereotipi di tradizioni ormai morte.
Loos afferma, tra l’altro, di «preferire sempre il meglio
al nuovo»: una novità va senz’altro accettata se è
un miglioramento, ma perde di significato se invece
Ornamento e pensiero in Adolf Loos
può costituire un arretramento rispetto a ciò che si è
venuto a consolidare nel tempo. È questo il motivo per
cui, sostiene Loos, un oggetto come l’amo da pesca è
rimasto invariato nella sua forma da millenni. Ci sono
cioè oggetti per i quali l’innovazione appare persino
ridicola, come senz’altro lo è, per esempio, il voler
fare una sedia originale disegnandola senza un piede,
così da farci cadere. Non è più una cosa originale:
è una stupidaggine. La novità, dunque, va sempre
adeguatamente “interpretata” alla luce della sua
relazione dialettica con il presente.
Ora, da questo punto di vista, la sua idea di razionalità,
a mio parere, come peraltro ha sottolineato anche
Cacciari, è molto vicina all’atteggiamento filosofico di
Ludwig Wittgenstein che, da post-kantiano, aveva nei
confronti della ragione una visione né aprioristica, né
dogmatica. C’è infatti un razionalismo dogmatico, un
razionalismo che potremmo forse definire “deduttivo”,
che parte da alcuni principi certi e li “applica”.
E c’è anche una razionalità duttile, capace di mettere
sempre in discussione le regole del gioco, che è
sintetizzabile nella famosa metafora elaborata da
Wittgenstein sul gioco degli scacchi. Per Wittgenstein
è infatti possibile giocare bene a scacchi anche solo
applicando le regole degli scacchi: in questo caso
l’intelligenza si misura sulla capacità di muovere il
pedone, il cavallo, la torre o l’alfiere secondo degli
schemi precostituiti. È tuttavia possibile anche
giocare con le regole degli scacchi, e cioè inventare
nuove regole. E in questo caso sono le regole stesse
degli scacchi - che non possono che essere quelle
delle leggi logiche - che diventano le “pedine” con
cui giocare. Dunque se devo cambiare non posso che
interrogarmi logicamente. Ecco perché Adolf Loos con
questo atteggiamento, che non è certo antimoderno,
ad esempio, difende il tetto piano.
Non era così scontato per tutti. Tessenow, a tal
proposito, è, per esempio, assai più “morbido” con la
tradizione, ribattendo a quei suoi colleghi che come
Gropius si ostinavano ormai a fare solo tetti piani,
che la censura contro il tetto a due spioventi era
immotivata. In fondo, il tetto inclinato è tecnicamente
e razionalmente “perfetto”, in quanto fa defluire l’acqua
Ludwig Wittgenstein
(1889-1951).
Adolf Loos, Casa Moller,
Vienna, 1927-28. Veduta del
vestibolo all’inizio della scala
che conduce al salone.
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Benedetto Gravagnuolo. L’ultima lezione. Ornamento e pensiero in Adolf Loos
Casa per Theodor Beer, detta anche “Villa Karma”
(ristrutturazione), Montreux (Svizzera), 1904-06.
Il vestibolo di ingresso a doppia altezza visto
dal ballatoio superiore.
Ornamento e pensiero in Adolf Loos
Casa per Theodor Beer, detta anche “Villa Karma”
(ristrutturazione), Montreux (Svizzera), 1904-06.
La biblioteca.
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Benedetto Gravagnuolo. L’ultima lezione. Ornamento e pensiero in Adolf Loos
Ornamento e pensiero in Adolf Loos
Casa per Theodor Beer, detta anche “Villa Karma”
(ristrutturazione), Montreux (Svizzera) 1904-06.
La sala da bagno al primo piano.
nella pagina accanto
Copertura del vestibolo vista dal basso.
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