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Estratto da
Shulamit Lapid
Dalla nostra corrispondente
Titolo originale dell’opera:
‫( מקומון‬Mekomon)
Traduzione dall’ebraico
di Elena Loewenthal e Sarah Kaminski
© 1989 by Shulamit Lapid
Published by arrangement with
The Institute for the Translation of Hebrew Literature
© 2014 astoria srl, Milano
Prima edizione: gennaio 2014
ISBN 978-88-96919-75-0
Progetto grafico: zevilhéritier
www.astoriaedizioni.it
Nessuno sapeva quando Lisi Badichi fosse arrivata alla festa
degli Orenstick, e nemmeno con chi. In fondo a chi interessava?
Non era uno di quei tipi che si notano subito, benché non la si
potesse nemmeno definire una persona che lascia indifferenti;
certo che no, con quei suoi piedoni piatti che sembravano pinne
di foca, con quel suo petto voluminoso e compresso che, per chi
l’avesse dimenticata, faceva tornare in mente l’esistenza della forza di gravità, e con le parole che biascicava tra un “tesoro” e un
“eh?”, infilandole come perle difettose in una vecchia catenina.
In redazione la chiamavano “Lisi la svitata”, lei lo sapeva e
sosteneva che non le faceva né caldo né freddo, a patto che la
si lasciasse lavorare in pace e non si ficcasse il naso in quel che
scriveva. Ufficialmente era “la nostra corrispondente” de “La
Gazzetta del Sud”, ma in realtà faceva lei tutto il giornale. Quando ce n’era bisogno partiva in piena notte, si inumidiva le tempie
per tenersi sveglia, si spalmava un rossetto unticcio sulle labbra, si
metteva giganteschi orecchini di plastica, infilava il cercapersone
nella cintura e trascinava le sue fette per il marciapiede desolato,
sperando che il motorino di avviamento della macchina non creasse problemi, che l’informatore si trovasse al posto prestabilito
e soprattutto, soprattutto, che la notizia venisse pubblicata sull’edizione nazionale, così la sua costanza sarebbe stata premiata.
Sapeva, e del resto a Be’er Sheva lo sapevano tutti, che lei era
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“La Gazzetta” in persona, il che le faceva risparmiare tempo e
smancerie d’ogni genere.
Quando c’era bisogno d’intervistare la madre della vittima o
la moglie del cantante che aveva stuprato una puttana facendole
saltare quattro denti, o invece il valoroso soldato, orgoglio del
quartiere, Lisi era lì, lei e i suoi giganteschi piedi. Sapeva che
Dahan, il direttore della pubblicità de “La Gazzetta del Sud”,
aveva telefonato all’ufficio di Tel Aviv comunicando che “Lisi
la svitata è partita per andare da quel drogato cui hanno cavato
un occhio”, ma questo non le dava fastidio, perché sapeva anche
che avrebbe concluso la frase con “lei riuscirà a tirargli fuori una
storia”.
Lisi non andava particolarmente fiera di quel che faceva, ma
non era nemmeno eccessivamente modesta. Era il suo lavoro,
sapeva di essere una professionista e la cosa l’appagava. Se avesse
lavorato alla manifattura di tessuti, come sua madre, o fatto iniezioni all’ospedale Soroka, come le sue sorelle Georgette e Chavazelet, anche in questo caso sarebbe stata una professionista,
e la cosa l’avrebbe appagata comunque. Invece era la “nostra
Gazzetta del Sud”. Bell’affare. Fra due mesi avrebbe compiuto
trent’anni, cosa che faceva davvero impressione a sua madre e
a Georgette e Chavazelet. A volte le sue sorelle andavano da lei
a sviolinare, ma Lisi sapeva che alla fine le avrebbero chiesto un
prestito e lei lo avrebbe concesso, ripromettendosi che all’occasione successiva avrebbe risparmiato a quelle due i salamelecchi.
Ma la volta dopo le lasciava di nuovo esclamare estasiate quanto
lei fosse brava e importante e quanto fossero fiere che una così
venisse dalla famiglia Badichi, che non aveva prodotto niente di
buono tranne lei, lasciando loro la sensazione di averla messa nel
sacco: almeno questa soddisfazione poteva concedergliela, dopo
l’umiliazione di aver chiesto un prestito. Avevano dei figli da nutrire, vestire e mandare a scuola, e questo era più importante del
suo orgoglio.
Aveva incominciato a lavorare come impiegata di Dahan.
Tappava i buchi quando non c’era nessuno da mandare in Co-
mune a informarsi sul perché avessero bloccato l’erogazione
d’acqua al quartiere tre o su quando avrebbero finito la strada al
quattro, imparando così che ogni informazione ha il suo prezzo.
La gente pian piano si era abituata a quella ragazzona con quelle
fette che lambivano il marciapiede, le sopracciglia addormentate
su quegli occhi che nulla riusciva a sorprendere né a risvegliare.
Chiedere a qualcuno di Be’er Sheva se Lisi masticava chewinggum significava sentirsi rispondere, cento volte su cento, “certo
che sì”, anche se in vita sua lei non aveva mai messo in bocca
una gomma, perché così era stata educata. Una brava ragazza,
anche se povera in canna, deve rispettare le buone maniere. Lei
ormai povera non lo era più, e non masticava chewing-gum, però
aveva l’aria un po’ così, di un ruminante, e lo sapeva, eccome,
se lo sapeva.
Non parlava con nessuno del fatto di essere vergine, non sono
cose di cui si parla. Ma indubbiamente le pesava, e da anni ormai
aveva deciso che alla prima occasione avrebbe rimediato, però
con l’andare del tempo la prima occasione era sfumata sempre
di più, e ora Lisi si trovava in una situazione in cui non poteva
più permettersi di andare a letto con uno qualsiasi, perché cosa
avrebbe mai detto a quel qualcuno se avesse scoperto di essere il
primo? Magari avrebbe pensato che aveva aspettato proprio lui
per tutti quegli anni e, dopo, vai a spiegare come stavano le cose
senza offenderlo o rimanere ferita. D’accordo, se avesse avuto
diciassette anni avrebbero detto che era un po’ tonta e l’avrebbero dimenticata in fretta, ma a trent’anni meno due mesi era
un po’ come andare per la prima volta all’opera, e vai a spiegare
che non si trattava di un colpo di fulmine. Con quella sua aria un
po’ addormentata seguiva le trattative di Dahan che ogni tanto
tagliava la corda diretto al Country Club, o a quell’albergo davanti all’ambulatorio, con la proprietaria di una nuova boutique
o una liceale in calore, dicendo “se mi cercano, torno nel pomeriggio”, e tornava davvero nel pomeriggio, seguito da un sentore
di avventura, gli occhi vispi come al solito, sotto i quali ancora
stagnava un avanzo di calore ardente.
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È vero che non capitava tutti i giorni che un cittadino di Be’er
Sheva, una città confinata ai bordi del deserto del Negev, diventasse giudice distrettuale, ma ai fini del giornale non è che la
festa dagli Orenstick avesse valore di notizia, al massimo poteva
guadagnare due o tre righe nella rubrica “In società”. Ma Dahan
era riuscito a ottenere un’inserzione pubblicitaria dagli strumenti
musicali Israha, e aveva detto a Lisi di fare la brava e di andare
alla festa a casa del giudice Orenstick, mettere qualche parola
buona su Jackie Danzig, il pianista, e per la solenne occasione
anche sul pianoforte che avrebbe suonato durante la festa, benché sapesse che alle quattro del mattino successivo Lisi doveva
essere al blocco stradale vicino a Gaza. Lisi non era al corrente
di cosa avesse ricevuto Jackie Danzig per averla introdotta alla
festa degli Orenstick, ma qualcosa doveva avere ricevuto, ne era
sicura, perché non le era mai capitato di imbattersi in una cosa
che non avesse il suo prezzo.
La casa stava sulla collina di Omer, nel quartiere residenziale
di Be’er Sheva; tamerici e piccoli cespugli argentei dicevano da
quanto tempo i proprietari abitavano la villa. Piante di buganvillea ricoprivano il muro di cinta in pietra grigia e rosa e due tortuosi sentieri abbracciavano la porta d’ingresso per scomparire
chissà dove in fondo al giardino.
Jackie e Lisi rimasero un istante sulla soglia, stringendo la
mano al giudice Orenstick, lisciando il pavimento di marmo nero
con qualche passo esitante, per permettere agli occhi di abituarsi
alla luce abbagliante dei grandi lampadari. Jackie poi si girò e
corse verso il pianoforte bianco accostato a una parete, e Lisi,
dopo aver lanciato alle sue spalle avvolte in una camicia di seta
nera un “non fare lo scemo”, andò in giardino. Come se avessi la
lebbra, pensò mentre stava accanto al banco del bar, osservando
da fuori il grande salotto e ascoltando la musica che Jackie Danzig emetteva dall’Israha bianco. La luce del lampadario brillava
sul suo farfallino rosa; stava suonando qualcosa di romantico che
suscitava il sorriso degli astanti e faceva venire voglia di ballare.
Lisi si ricordò che dicevano fosse l’amante di qualcuno ma non
rammentava chi. Venivano entrambi, Jackie e Lisi, dal quartiere
tre e avevano più o meno la stessa età. La sua espressione inebetita contrastava con il ritmo della dolce melodia che gli fioriva fra
le dita. O forse no. Due che ce l’avevano fatta e ora giocavano
fuori casa, ecco quel che erano. Qualcosa le solleticò la memoria,
fece per affiorare, lei lasciò che gli occhi vagassero dal salotto
verso il giardino e poi di nuovo verso la porta d’ingresso.
Qualche coppia stava ballando sul terrazzo, molte altre erano
già in giardino, in parte sedute ai tavolini rotondi sotto il baldacchino di lampadine colorate e in parte in movimento fra le pozze
di luce e ombra. Riconobbe qualcuno, qualcuno la riconobbe e
si chiese cosa mai ci facesse lì. Lisi era fuori posto, luogo, circostanza. La casa di un giudice distrettuale non era esattamente
l’ambiente adatto per una come Lisi la svitata, regina del gior-
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Fra lei e Dahan c’era un rapporto di mutuo rispetto. Avevano
cominciato insieme in un bugigattolo d’ufficio dietro il supermercato, saltellando fra cassette di cavoli e furgoncini del pane,
e insieme si erano trasferiti al complesso di uffici riattato sopra
la stamperia di Prosper Parpar, scambiandosi una muta pacca
sulle spalle. Lui apprezzava il fatto che Lisi non avesse mai detto
“missione impossibile”, che non mancasse una conferenza stampa, che verificasse ogni brandello di notizia orecchiata, e non
meno apprezzava la certezza che lei non avrebbe mai rivelato a
sua moglie o a nessun altro le avventurette che si concedeva di
tanto in tanto. E Lisi ammirava la sua avidità, questo suo correre dietro al denaro e alle donne, questa sua disinibita passione
per i soldi e il successo. Sentendosi come a cavallo di un siluro,
qualche granello di polvere di meteorite sarebbe arrivato pure
a lei. Era Dahan l’uomo che aveva deciso che Lisi doveva prendere la patente, che era giunto il momento di lasciare la casa di
sua madre e che l’aveva aiutata a ottenere un mutuo; lui aveva
anche convinto la direzione che Lisi, quella Lisi con l’aria di
un cammello, era una gran risorsa per il giornale e conveniva
fornirla di automobile.
nalaccio locale. E Orenstick… in fondo lo sapevano tutti che
se Orenstick l’avesse voluto, sarebbe stato da tempo sistemato a
Gerusalemme o a Tel Aviv, e se la sua carriera andava a rilento
era proprio perché lui aveva scelto – sì, aveva scelto – di abitare
lì. Non che soffrisse più di tanto dell’esilio che si era imposto. Era
l’intellettuale locale, la giustizia del Sud e la morale del Negev.
Dai tempi di Ben Gurion nessun altro aveva saputo dare all’arido
deserto quella specificità e quel senso che gli aveva dato Orenstick Pinchas, giudice, che ora era lì all’ingresso della sua villa ad
accogliere gli invitati. Teneva con la mano sinistra un fascio di
candelotti per i fuochi d’artificio e con la destra ne consegnava
uno ciascuno agli ospiti, dicendo “la festa è in giardino” e sfoderando un sorriso placido e sbiadito come una persiana scarrucolata, ansioso di liberare i suoi ospiti da ogni indugio di cui potesse
essere responsabile.
Dove sono i suoi amici, i suoi parenti, si chiese Lisi, perché lo
lasciano in quella ridicola postazione vicino alla porta, invece di
farlo entrare in casa? Forse è proprio quella distanza la fonte della sua energia? E poi che razza di energia? Benefica o malefica?
O forse semplicemente l’energia bastante per ignorare i giochi di
società che non facevano per lui?
“Puzza di scioldi,” disse la donna che stava accanto a lei,
schiacciando le chiappe contro il banco del bar. Lisi si ficcò una
manciata di arachidi in bocca e masticò, gli occhi sotto le spesse
sopracciglia che vagavano fra la folla degli invitati. I tronchi degli
alberi erano stati dipinti d’oro e festoni di carta sbrilluccicante
penzolavano fra i rami.
“Sci è dimenticata Or… Orensdig sulla porta con i suoi fuochi d’artifiscio,” ghignò la donna sbronza, e Lisi borbottò qualcosa pensando fra sé che schifo, che schifo.
“Chi paga questa bella festa?” chiese alla donna, aggiungendo subito: “Mi chiamo Lisi Badichi, corrispondente de ‘La Gazzetta del Sud’”.
Aveva abbastanza esperienza da sapere di doversi presentare
prima di chiedere un’informazione, perché poi non si dicesse che
prendeva in giro le persone con cui parlava o che estorceva loro
notizie senza che sapessero con chi stavano parlando. Guardò
la sua minuta vicina chiedendosi cosa mai la rodesse. Denaro?
Amore? Dignità?
“Chi finanziaaaaa? Pfui! È Lubitz Vini & Co. che finanzia! Il
padre della moghlie del giudisce distrettuale Oren… Orensdig.
Conosci il negossio di vini viscino alla stassione scentrale? Ricordi
vino mezcolato a ferro che hanno importato dalla Jugozlavia? Eri
una bambina piiiccola. Il padre! Suoscero di Orensdig. Lui. Lui
si è preoccupato che suo genero potesse dedicare la vita al bene
della gente. Guarda i quadri originali, i lampioni, non arrivano
dallo stipendio da giudisce! Ti piace il caviale? Io mangio caviale
perché è caro. Se non fosse caro non ne mangerei. Prendi!”
Lisi notò che la donnina non s’impappinava più. Sporca delatrice, si disse fra sé, prendendo un tramezzino con capperi e
caviale.
“Lubitz è qui?” chiese. “Lei lo conosce?”
“Sceerto che lo conosco,” ghignò la donna, con quel suo alito
acido di alcol, “è mio papà, no?”
Lisi avrebbe voluto chiederle se era la sorella della padrona
di casa. Invece divorò il tramezzino e mormorò qualcosa d’indecifrabile come faceva quando voleva guadagnare tempo. Alex,
la moglie del festeggiato, girava per il giardino, con indosso un
vestito a minuscoli lustrini d’oro che si muovevano e frusciavano
a ogni suo respiro. Affondava i seni nel petto degli ospiti, socchiudendo gli occhi castani truccati d’oro, e Lisi si domandò cosa
volesse dimostrare, cosa volesse ottenere, chi diavolo volesse scandalizzare. E questa storia del vino adulterato, sarà poi vera? E
com’è che non è uscita sui giornali? Si vide il titolo davanti agli
occhi: Il suocero del giudice distrettuale O. ha importato dalla Jugoslavia
una partita di vino adulterato. Per questo avrebbe avuto un premio.
Si sarebbero fatte rivedere le sue sorelle, che Dio le benedica,
rintronandola con le loro lamentele ed estorcendole quel poco
che nel frattempo era riuscita a risparmiare.
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“Per cosa sta Alex?” chiese alla piccola ubriacona.
“Alexandra, vuol dire. Sta per Alexandra degli Asmonei,” rispose questa sorseggiando il whisky, con gli occhi che vagavano
verso il giardino.
Lisi seguì il suo sguardo e giunse a quello che doveva essere il tavolo di famiglia, dove sedevano i genitori di Alex, Lubitz
Vini & Co. e consorte, un bambino e una bambina che con ogni
probabilità erano i figli di Orenstick, e un uomo che li guardava
con un’aria preoccupata e doveva essere il marito dell’ubriacona.
Tutti mangiavano coscienziosamente, seguendo con un’espressione assorta gli ospiti che affollavano il giardino.
Lisi decise di lasciare la cognata ostile, di salutare Jackie e di
andarsene a casa. C’era stata, aveva visto, aveva di che imbastire
un duecento parole, di più non c’era bisogno. Entro mezz’ora
sarebbe stata a casa, avrebbe scritto il suo pezzo e, se non ci
fossero stati intoppi, sarebbe riuscita a infilarsi sotto le coperte
prima di mezzanotte. Gli scaldabagni a energia solare erano di
nuovo rotti, per la centesima volta si era detta che in fondo poteva permettersi un riscaldamento autonomo, così l’indomani – sì,
l’indomani – appena tornata dal blocco stradale vicino a Gaza,
ancora prima di scrivere una parola, sarebbe andata a informarsi. Non aveva marito, non aveva figli, non si era mai presa ferie
se non per il festival d’autunno ad Akko, allora una ragazza che
lavora ha ben diritto all’acqua calda in bagno; comunque non
aveva la minima intenzione di sentirsi in colpa.
Andò verso Jackie, facendosi strada fra la gente in sala, e solo
quando fu proprio vicino al pianoforte si accorse che Alex la
stava seguendo.
“Facciamo i fuochi d’artificio a mezzanotte,” disse Alex. “Ha
già bevuto qualcosa? Ha già mangiato? Non se ne va mica?”
Fra una parola e l’altra Alex inghiottiva aria a piccoli sibili, la voce pareva cogliesse al volo le parole come un giocoliere
che lancia le palline, il suo seno faceva venire i nervi con quel
movimento perpetuo dei lustrini d’oro. Lisi ringraziò la signora
Orenstick (“No! No! Chiamami Alex! Tutti mi chiamano Alex!”)
e si scusò di dover andare via, il tutto mentre Jackie continuava
a suonare, con gli occhi sui tasti. La mano di Alex si posò sulla
spalla di lui, e Lisi si ricordò dei pettegolezzi che circolavano su
Jackie, su una tipa di professione ingegnere che si era innamorata
di lui e gli aveva comprato un appartamento. Alex aveva circa
dodici anni più di Jackie, e Lisi si domandò se avesse una passione per le donne più vecchie di lui, ripromettendosi di guardare
con attenzione le sue compagnie.
“Devo dire a suo marito di entrare?” chiese Lisi ad Alex.
“È maggiorenne e vaccinato, entrerà quando vuole,” rispose
Alex, e Lisi pensò che in fondo aveva ragione. Se ha deciso di
festeggiare la sua incoronazione restando in piedi sull’ingresso
con quei futili candelotti in mano, buon per lui, io cosa c’entro?
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“Sua moglie è ingegnere?” chiese a Orenstick poco prima di
salutarlo.
“Sì.”
La sua espressione non cambiò nel risponderle, ma Lisi si accorse che aveva capito perché gli aveva fatto quella domanda.
Si chiese come avesse fatto sua moglie a restare con lui per tutti
quegli anni. Era bella e arrogante, una professionista, la figlia di
Lubitz dei vini, imbottita di soldi. Che cosa la legava a lui? La
condizione sociale? I figli? La cultura? L’abitudine?
I radi capelli gialli, spruzzati di grigio, davano a Orenstick
un aspetto torbido, la pelle pareva carta di giornale spiegazzata,
costellata di vecchie macchie di tè. Non cercava d’impressionare
né lei né tantomeno gli altri ospiti. E, malgrado la festa fosse in
suo onore, quella sua posizione fissa all’ingresso con il fascio di
candelotti in mano aveva un che di protervo e distaccato, irritante non meno della farsa inscenata da sua moglie con quella
profusione d’oro in onor suo.
“Ha bevuto? Ha mangiato?”
“Perché rimane lì in piedi? Perché non entra?”
“Ha ragione. Venga, entriamo.”
“Sto andando a casa.”
“Senza Jackie Danzig?”
“Ho avuto una giornata pesante e mi devo alzare presto.”
“Ha visto la casa? La piscina l’ha vista?”
impolverato. Lisi si chiese che angosce avesse, la piccola filippina,
e se si sentiva sola, così lontana da casa, e pensò che già questo
valeva una storia. Sua eccellenza il giudice si scostò lievemente,
si piegò in avanti, allungò la mano verso lo spazio fra la schiena
e la porta, cercò a tastoni la chiave, e trovatala serrò la porta, gli
occhi incollati su Lisi, pronto a ogni reazione. Nell’aria aleggiava
un odore di muffa, di polvere, di finestre chiuse e spezie esotiche.
Le lenzuola non erano pulite, Lisi provò un certo ribrezzo.
Non aveva termini di paragone, ma sapeva che lui era arrabbiato. Arrabbiato per gli amanti di sua moglie e arrabbiato
perché lo sapevano tutti, persino Lisi Badichi meglio nota come
“Lisi la svitata”, lo straccio del giornalaccio locale, dunque avrebbe scaricato su di lei la sua rabbia. Il dolore fu forte, fendette il
suo corpo grande e pesante, e lei pensò: mi sono presa questa
misera cosa come le altre donne prendono lo scontrino al supermercato. Aveva le gambe bagnate e aspettava che Orenstick
si voltasse per asciugarle con il lenzuolo della filippina, solo che
le stava schiacciato addosso, coprendosi gli occhi con le mani, e
i suoni che gli sgorgavano dalla gola non erano quelli che lei si
aspettava di sentire, cioè non come aveva visto al cinema. Il lenzuolo mandava odore di muffa, Lisi pensò che di sicuro andava
a letto anche con la filippina, era entrato qui come fosse stato il
padrone di casa. Anche Or… Orensdig aveva i suoi segretucci,
non solo la moglie.
La afferrò per il gomito e lei si lasciò condurre verso il piccolo
corridoio accanto all’entrata, confidando nei suoi dieci anni a
“La Gazzetta”, nel suo intuito, quel suo istinto particolare che
le intimava “chiudi il becco tesoro e smuovi quei tuoi piedi da
papera, magari te ne escono fuori quattrocento parole in prima
pagina”. Dopo il guardaroba e la stanza della televisione e due
salotti e la stanza del figlio che andava al liceo e la stanza della
figlia che faceva le medie, giunsero al seminterrato che conduceva alla piscina. Un tavolo da ping-pong smontato, un tubo di
gomma arrotolato, qualche paio di ciabatte da piscina di varie
misure, e sul lato sinistro la porta della stanza della filippina, che
ora si aggirava fra gli ospiti con un grembiulino di pizzo bianco
a forma di cuore legato alla vita. Orenstick si chiuse la porta alle
spalle e vi si appoggiò; Lisi scorse minuscole gocce di sudore sulla
fronte e capì che costui aveva deciso di farsi un regalo, ma dopo
un primo attimo di spavento rimase lì a specchiarsi negli occhi
di lui: un cammello con orecchini di pessimo gusto, l’amica del
pianista che si scopa mia moglie, ora gli rendo la pariglia. Lisi
valutò se mettersi a urlare. La musica di Jackie arrivava debole
e attutita, una specie di coperta che il soffitto aveva rimboccato
sopra le loro teste, e lei sapeva che se anche avesse gridato la sua
voce non sarebbe mai arrivata fino al giardino e se avesse detto:
“Sua eccellenza giudice distrettuale, sono vergine,” lui sarebbe
morto dal ridere.
Si guardarono a vicenda, due persone abbruttite e stanche,
che avevano visto più di quanto uno sia tenuto a vedere nella vita
per conservare quel briciolo di innocenza cui ha diritto. Dei jeans
quasi da bambina stavano posati sullo schienale di una vecchia
poltrona e sul sedile era poggiata una cintura marrone con una
fibbia di metallo ornata da un drago. Sul tavolo c’erano una scatola di aspirine e degli orecchini di perle dentro un portacenere
“Perché non me l’hai detto?” chiese.
Ha paura, pensò lei meravigliata, ha paura di me. Giudice distrettuale violenta giornalista. Sì, c’era del potenziale. Persino per un
premio. Si sentì grande e buona e forte. Se lo scrostò dal seno,
gli levò la mano dagli occhi e guardò le sue sopracciglia chiare e
le palpebre rugose, le lentiggini giallastre sulle spalle e le chiazze
sulla pelle opaca, fissandosi nella memoria ogni particolare del
viso dell’uomo che l’aveva finalmente affrancata dalla verginità.
Gli sorrise, gli accarezzò i capelli radi e bagnati, poi sussurrò:
“Devi tornare dai tuoi ospiti”.
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“E tu?”
“Io sto bene.”
Lui la guardò e lei si accorse che solo in quel momento la
vedeva davvero, la guardò come nessuno mai l’aveva guardata;
Lisi lo lasciò rimirare la pelle candida e gli occhi castani, un po’
a mandorla, la corta chioma stopposa e i giganteschi orecchini
di plastica ancora appesi alle orecchie, simbolo di Lisi la svitata.
Si sentì bella. Sentì la fragrante luminosità della propria pelle
e, sdraiata così, persino i suoi seni compressi sembravano pieni,
turgidi e attraenti.
“La prossima volta non farà più male,” disse lui.
“Lo so.”
“Dove abiti?”
“Non telefonarmi, tesoro. Ora sei giudice distrettuale.”
D’un tratto scoppiarono a ridere e Lisi si accorse che lui aveva
capito che non avrebbe avuto fastidi da lei, si stava rilassando e
cominciava persino a divertirsi.
“Cosa fa tuo cognato?” chiese Lisi.
“Lavora con mio suocero. Commercia nei vini.”
“Non gli piace il suo lavoro?”
“No.”
“Tua cognata ce l’ha con te.”
“È gelosa di sua sorella. I Lubitz hanno deciso di scommettere
sul mio cavallo.”
“Forse perché al tuo cavallo piace correre.”
La guardò sorpreso e poi si chinò ad accarezzare con il pollice
la morbida baia fra braccio e seno, sollevò l’orecchino sfiorando
con le labbra la curva del collo, fra orecchio e capelli, e lei udì
il respiro farsi affannoso e il desiderio riaccendersi. Da sopra al
soffitto giungeva la melodia ritmata del tango Jalousie. Lisi si domandò se per caso non ci fosse un’altra uscita, dalla parte della
piscina.
“Sei una ragazza in gamba, Lisi.”
“Anche tu sei un tipo a posto, signor Orenstick.”
Quando arrivò a casa aprì il rubinetto del bagno e si sedette a scrivere le duecento parole sulla festa organizzata in onore
di Pinchas Orenstick, il nuovo giudice distrettuale. Si ricordò di
infilare il nome di Jackie Danzig e non dimenticò nemmeno di
nominare l’Israha, il pianoforte che non abbandonava mai. Il
titolo del pezzo era Un eroe dei nostri tempi.
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