Cambiare, dialogare, ascoltare: aprirsi per la soluzione dei conflitti

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Cambiare, dialogare, ascoltare: aprirsi per la soluzione dei conflitti
15 Aprile 2011, ore 08:26
La formazione del mediatore
Cambiare, dialogare, ascoltare: aprirsi per la soluzione dei
conflitti
L’approccio del mediatore presuppone una disposizione e un’apertura al cambiamento, la capacità di
dialogare e ascoltare empaticamente per poter fornire una prospettiva di composizione del conflitto e di
risanamento delle relazioni.
di Maria Martello - Formatrice e mediatrice dei conflitti
Vorrei segnalare una abilità fondamentale, assolutamente trascurata dagli attuali programmi di
formazione del mediatore. L’esperienza ha dimostrato che preliminarmente il mediatore deve avere, per
esempio, la consapevolezza dei retropensieri delle parti che spesso, se ignorati o travisati,
compromettono ogni procedibilità reale del processo di mediazione, anche quando formalmente
l’atteggiamento delle parti è collaborativo ed aperto. I profili nevralgici sono tanti e difficili da
intercettare e portare alla luce.
Pongo l’attenzione, a titolo esemplificativo, su di una questione: la disposizione verso il mutamento: la
percezione che sia possibile, l’apertura al suo accadere. Chi vive un conflitto pensa che il superamento
non sia di fatto possibile, tende a credere che la relazione con l’attuale controparte sia stata sempre
grigia e ostile, non vede futuro. Non crede, di fatto, nei risultati possibili tramite la mediazione.
Per questo nel mediatore deve essere particolarmente radicata la sensibilità nei confronti delle possibilità
di cambiamento e delle proficue implicazioni. Cambiamento significa soprattutto saper cogliere le
occasioni, anche se spesso si è fagocitati da una quotidianità che impedisce di percepire segnali
importanti. Adattarsi all’ambiente e recepire prontamente i segnali di cambiamento non significa tradire
quell’insieme di valori originali che ci fanno differenti dagli altri e che costituiscono la nostra forza.
Sovente, invece, si resta legati a vecchi schemi mentali, non ci si rende conto che molte serrature sono
state cambiate o stanno per esserlo e, inconsapevoli di questo, ci ostiniamo a cercare di aprire le porte
utilizzando vecchie chiavi.
Il percorso di formazione del mediatore deve fondare e consolidare la convinzione della necessità di
considerare il cambiamento come condizione naturale del vivere: fino a che, anche nel segreto del nostro
dialogo interiore, nutriamo la sfiducia che ciò sia possibile, saremo cattivi modelli, impossibilitati ad
aiutare chi a noi si è affidato e che, soprattutto, ci richiede di essere testimoni, “voce che grida” che il
cambiamento è possibile.
Il futuro deve sempre essere immaginato, anche se il presente ci vede ingabbiati in immagini negative che
si sono impresse dentro di noi, in situazioni che non ci fanno onore, in comportamenti che disapproviamo,
rendendo invisibili le espressioni delle potenzialità della nostra identità. Un presente affollato dal passato
che non esiste più sul piano della cronologia, ma resiste sul piano del ricordo, che subisce i suoi effetti e
condiziona il modo di vedere la vita attuale.
Nel bene e nel male. Il cambiamento vero è difficile, ogni anno che passa, sempre di più, mentre il
giovane e il bambino restano aperti, più disponibili, a meno che vivano situazioni compromesse. Ma anche
in quei casi la loro voce più profonda richiama il cambiamento, e ad ogni occasione mancata per
realizzarlo torna a volgersi verso l’adulto, che come per sfida gli butta in faccia l’impossibilità del
cambiamento, a testimonianza del suo ennesimo errore.
Per costruire una prospettiva di composizione del conflitto e di risanamento della relazione, in generale il
proprio futuro, occorre credere che potrà esserci altro dal qui ed ora.
La resistenza più sottile è di ordine speculativo: si ritiene, cioè, di non poter cambiare e questo pensiero
impedisce la possibilità di farlo. Ma ugualmente forte è quella di ordine emotivo: cambiare è abbandonare
situazioni con cui si è familiarizzato per andare verso l’ignoto, è nascere a qualcosa di incerto, non
controllabile, insicuro. Si preferisce credere che si è così come si è per nascita ed il conseguente
comportamento pratico sarà di tipo statico, immobile, ripetitivo.
La propria realtà di vita sarà di negazione del cambiamento, imbrigliata dalla impossibilità di prendere la
decisione di sperimentarlo, di riconoscere che è nella dimensione esistenziale del divenire.
Essere è rimanere, il cambiamento è negativo: questa impercettibile ma tenace convinzione, che
assomiglia tanto a una paura, smorza la fiducia nel cambiamento e mina il coraggio di promuoverlo.
Questi schemi mentali determinano automatismi che impediscono di fatto l’esperienza della risoluzione
dei conflitti; vanno scoperti e svelati con vigore, sì da renderli meno condizionanti.
Pena il vedersi trascorrere la vita senza esservi ‘dentro’. L’itinerario ultraterreno di Dante descritto nella
Divina Commedia è una metafora per qualunque tipo di crescita; le forze degli inferi attraggono verso il
basso, ma superata una certa soglia avviene un ribaltamento, e si comincia a salire spinti da forze che
aiutano a vincere la pesantezza della cupa materialità e producono un effetto moltiplicatore.
La disciplina normativa della mediazione ignora tuttavia i significati ontologici del conflitto ed anche
quindi la conseguente formazione umanistica del mediatore. In definitiva, la formazione del mediatore è
profonda, e va ben oltre i programmi riposti sulle sole tecniche di comunicazione i quali, a volte,
sembrano arenarsi ad un livello di superficie, di apprendimento di strategie simili a sovrastrutture che si
sovrappongono alla persona, modi di essere formali non congruenti con il modo di sentire vero.
Non è un mistero, del resto, che programmi formativi esclusivamente di questo tipo si indirizzino ai
venditori, che si tratti di aspirapolvere venduti porta a porta, od auto usate esposte in un autosalone:
l’acquisizione del consenso tramite le tecniche di getting to yes certamente non fa parte del bagaglio
culturale del mediatore delle controversie. Il mediatore per avere successo deve essere in grado di
operare attraverso una metodologia raffinata, mai standardizzabile, ma flessibile, che sappia tenere conto
delle esigenze, dei tempi, dei singoli protagonisti della mediazione, guidandoli con gradualità.
Quindi, non secondo schemi genericamente predisposti, e questo si raggiunge grazie ad una formazione
che, più che “addestrare” alla reiterazione di una scaletta, di una sorta di check list del mediatore,
insegni a cogliere gli stati emotivi, ad individuare i passaggi che possono essere suggeriti dalla sensibilità.
Questa formazione necessita di particolari caratteristiche di rigore, profondità, significatività, non può
essere pensata in modo lineare, ma circolare. Non può stressare un apprendimento fino alla piena
acquisizione, ma lo imposta e si ferma ove il soggetto/corsista ha possibilità di recepire, per proseguire
con altri input e poi ritornarvi, trovando la persona a un livello diverso dal precedente, un nuovo punto
d’arrivo frutto della metabolizzazione ed elaborazione personale acquisita.
Ed è facile sperimentare che la capacità di intervenire, non si inventa di botto, ma si costruisce con una
formazione iniziale ed una in itinere, permanente. Una formazione che segua un modello preciso, ma non
predefinito. Una formazione che faccia sperimentare un atteggiamento di accoglienza dell’altro e di
vicinanza.
Che valorizzi ogni apporto, che si basi sull’esercizio della creatività, dove ogni occasione, anche un limite
viene trasformato in risorsa, in stimolo di riflessione. Un “qui e ora” che diventa insegnamento, purché il
conduttore, il formatore sappia coglierlo e leggerlo all’interno del percorso che si sta svolgendo.
Un formatore che sa andare al di là dell’attuazione di un piano, di un programma predefinito. Un progetto
quindi che si costruisce insieme con la classe, in un atteggiamento vigile in cui l’osservazione del contesto
viene subito colta e trasformata in risposta formativa. Il tutto in un clima informale, ove la caduta dei
ruoli permette di far affiorare la persona e di metterla in condizione di liberare le sue capacità di
empatia, di comunicazione profonda.
Una formazione che non permette veli consolatori, ipocrisie, di rifugiarsi nei massimi principi per
ricercare l’accordo e l’adesione, ma che si soffermi sui concetti semplici, quelli che costruiscono il vero
cambiamento, quelli che sono tanto difficili da applicare quanto da vivere, ma gli unici realmente incisivi.
Una formazione che sia metafora di quel che avviene in mediazione, che non insegua l’efficienza e il
tempismo, ma che solo attraverso un’apparente indefinibilità faccia emergere le realtà più vere. Un
investimento che chiede di sopportare lo sforzo della lunga durata, ma che regala la gioia che consegue
alla fatica per il raggiungimento di un obiettivo fondante e fondamentale.
Questa impostazione può rappresentare inoltre uno stimolo alla rilettura delle relazioni della sfera
personale, un allenamento a un ascolto competente ed assiduo del proprio stato emotivo. Ma richiede un
formatore forte che sappia con destrezza condurre simili livelli di profondità. Il formatore non può
preparare una “batteria” di esercitazioni e proporle secondo una successione stabilita a priori.
Deve averne una tale padronanza da essere in grado di scegliere quella giusta nel momento giusto sulla
base del suo dialogo con l’altro - il gruppo dei formandi - dell’ascolto costante e attento nel preciso
momento in cui si relaziona e interviene proponendo l’esercizio. Un’impostazione, quindi, non direttiva e
interveniente, ma forte e recettiva. Infatti, soltanto un lavoro attento sulla persona potrà creare le
condizioni affinché il confliggente sia visto come persona al di là del suo ruolo professionale, personale o
di litigante. A mio parere un congruo percorso formativo deve comportare la trattazione approfondita
della capacità di ascolto empatico. Occorre anche che generi la padronanza del mediatore nel fissare le
condizioni di fattibilità o di non fattibilità della mediazione.
Deve contemplare la presentazione di più modelli operativi, la prassi e gli interventi possibili durante una
seduta, nonché elementi di metodologia generale e specifica. Soprattutto, però, deve tendere allo
sviluppo delle qualità richieste ad un mediatore, la conoscenza di sé e l’incontro con i suoi personali
conflitti. In primis la capacità di dialogo esercitato, prima che con gli altri, con se stessi.
Con gli altri, per non ridursi passivi esecutori di ordini o di modelli, né arroccarsi in competizioni costanti,
ma intervenire da esseri liberi e partecipi insieme.
Con se stessi, perché dentro ciascuno di noi il dialogo è essenziale e costitutivo.
Così come dialogica è l’origine della società. Socrate diceva di avere dentro di sé un “demone”, una “voce
divina”, e tutto il suo pensiero è basato sul dialogo con questa voce interiore. Il suo “essere Socrate” era
già un’identità relazionale: era se stesso, ma anche un altro dentro di sé. Avere questo dialogo “dentro”
permetteva a Socrate di dialogare “fuori”.
Dalla comunità di filosofi realizzata da Platone nasce la dialettica, cioè quella forma razionale del
pensiero attraverso il quale, dialogando, si scopre la verità. La conoscenza viene dal dialogo e noi stessi
siamo dialogo o dovremmo esserlo; pena la morte interiore.
L’oscuramento del dialogo non fa più vedere l’altro che è ‘dentro’ di sé, ma neppure l’altro che è ‘fuori’
di sé, con il quale si potrà pure continuare ad avere rapporti, ma saranno di conseguenza rapporti solo
improntati all’utile, allo sfruttamento, a collaborazioni limitate, o addirittura allo scontro.
Atrofizza, inoltre, la ricezione di qualche cosa di più grande: l’altro come sorgente di conoscenza e come
portatore di verità, di complessità. Data la scoperta di questa capacità, dello stato di ‘efficienza’, o dei
suoi blocchi, il suo sviluppo non può avvenire se non attraverso esercitazioni numerose, magari riprese
all’occorrenza.
A ciò deve dedicarsi molta parte del tempo di formazione. Anche in questo caso nessuna illuminazione
però è offerta dalla norma.
Maria Martello è Formatrice e mediatrice dei conflitti, giudice onorario presso la Corte d’Appello di
Milano, coach relazionale, www.istitutodeva.it; [email protected]
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Per maggiori approfondimenti
- M. Martello, Sanare i conflitti, Guerini, Milano, 2010
- M. Martello, Educare con SENSO senza disSENSO, Franco Angeli, Milano, 2008.
- C. Vaccà, M. Martello, La mediazione delle controversie, Ipsoa, Milano, 2010
- M. Martello, L’arte del mediatore dei conflitti, Giuffrè, Milano, 2008
- M. Martello, L’arte del mediatore dei conflitti, Giuffrè, Milano, 2008
- M. Martello, Mediazione dei conflitti e counselling umanistico, Giuffrè, Milano, 2006
- M. Martello, Intelligenza emotiva e mediazione, Giuffrè, Milano, 2004