Otto anni di guai

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Otto anni di guai
UFFICIO STAMPA
R O S I F O N T A N A PRESS & PUBLIC RELATIONS
[SATISFICTION.ME – 31 MARZO 2016]
La stragrande maggioranza dei samoani, come altri popoli timorati di Dio nei rispettivi paesi, è
perfettamente soddisfatta dei propri costumi. E, a una condizione, è evidente che potrebbero goderne ben
oltre la media umana.
Vivendo in isole molto ricche di cibo, la pigrizia dei molti nullafacenti importerebbe poco; e le province
potrebbero continuare a elargire i propri nomi tra i pretendenti rivali, entrare in guerra e divertircisi un
po’, poi passare alla pace e goderne in un modo assai invidiabile. Ma quella condizione – ossia che
debbano essere lasciati soli – ora non è più possibile.
Più di cento anni fa, seguendo da vicino le orme di Cook, un’invasione irregolare di avventurieri ha
cominciato a sciamare tra le isole del Pacifico. I sette dormienti della Polinesia vivono, ancora semisvegli,
nel bel mezzo del secolo della concorrenza e la corsa dell’isola, paragonabile a un magazzino di
ceramiche scagliato nel flusso del tempo, diventa ora un viaggio disperato tra vasi di ottone e di diamante.
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Apia, il porto e il mercato, è la sede della malattia politica di Samoa. Ai piedi di un’erta montagna
boscosa, la costa ha una profonda insenatura, quasi semicircolare. Di fronte, la barriera corallina è
interrotta dall’acqua fresca delle correnti.
Se il moto ondoso viene da nord, entra quasi senza smorzarsi: le navi da guerra rollano vertiginosamente
sugli ormeggi e le onde si abbattono con un rombo continuo lungo il corallo sfrangiato che segue la
configurazione della spiaggia.
Col tempo cattivo, come tutti sanno, le strade sono impraticabili. Lungo tutto il litorale, che è dappertutto
verde, pianeggiante e sovrastato dalle cime dell’interno, la città si estende in strisce e agglomerati. Il
corno occidentale è Mulinuu, quello orientale Matautu; chiedo al lettore di camminare da una all’altra
estremità. In quell’escursione egli troverà più storia di Samoa squadernata davanti ai propri occhi, di
quanta sia mai stata raccolta negli studi o nei resoconti di tutto il mondo.
Mulinuu (dove comincia la passeggiata) è un piatto promontorio spazzato dal vento, ricco di palme,
appoggiato contro una palude di mangrovie e occupato da un villaggio alquanto misero. Il lettore sappia
che questa è l’effettiva residenza dei re di Samoa; rimarrà molto sorpreso leggendo su un qualche cartello
che questo borgo storico è di proprietà dell’azienda tedesca.
Ma queste insegne, che sono tra le caratteristiche più comuni del paesaggio, vanno piuttosto intese come
a implicare che l’appropriazione è stata contestata. Un po’ oltre, l’escursionista costeggia i negozi, gli
uffici e i magazzini dell’azienda stessa.
Di qui passerà attraverso Matafele, l’unica porzione di realtà cittadina in una lunga serie di villaggi,
superando bar e negozi tedeschi oltre che il consolato; raggiungerà poi la missione cattolica e la cattedrale
eretta alla foce di un piccolo fiume.
Il ponte che attraverserà qui (il ponte di Mulivai) rappresenta una frontiera; dietro c’è Matafele; davanti,
Apia propriamente detta; dietro, stanno supremi i tedeschi; al di là, con poche eccezioni, tutto è
anglosassone.
Qui il lettore supererà i negozi del signor Moors (americano) e dei signori MacArthur (inglesi); oltre la
missione inglese, troverà l’ufficio del giornale inglese, la Chiesa inglese, e il vecchio consolato
americano, finché non raggiungerà la foce di un fiume più grande, il Vaisingano. Al di là, a Matautu, la
strada lo porterà all’ombra di alberi e case sparse e, dopo una vasta gamma di uffici, al luogo del
monumento dedicato a un tedesco che ha combattuto l’azienda tedesca nel corso della propria vita.
La sua casa (ora che è morto) resta puntata come un cannone in disarmo verso la cittadella dei suoi
vecchi nemici. Ironia della sorte, è adesso affittato e occupato dagli inglesi.
Un po’ più avanti, il lettore troverà l’angolo orientale fiancheggiante la baia, dove sorgono la casa del
pilota del porto e il faro: da qui potrà vedere, sulla linea della costa principale dell’isola, il consolato
inglese e quello nuovo americano.
Il corso della passeggiata sarà stato animato da un notevole viavai di persone in giro per diletto e per
affari. Avrà incontrato una gran varietà di bianchi: marinai, mercanti, impiegati, sacerdoti, missionari
protestanti coi loro caschi coloniali e gli anonimi frequentatori di qualsiasi spiaggia dell’isola.
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I marinai sono a volte in numero considerevole, ma non i residenti. Il lettore penserà che a volte ci siano
più insegne che uomini che le possiedano.
Può capitare che si tratti di un giorno affollato nel porto; avrà quindi visto ogni sorta di navi, dalle navi da
guerra e da lunghe traversate, a quelle da lavoro dell’azienda tedesca e alle golette dell’isola; e se avrà
inclinazioni matematiche, potrà calcolare che ci sono più bianchi ormeggiati nella baia di Apia che a terra
in tutto l’arcipelago.
D’altra parte, avrà incontrato nativi di ogni ceto: capi e ministri del culto nei loro scrupolosi abiti bianchi;
forse il re stesso, alla presenza di guardie in uniforme; sorridenti poliziotti con le loro stelle di peltro;
ragazze, donne, frotte di bambini allegri. E si sarà chiesto con una certa sorpresa dove risiedessero.
Qua e là, nei cortili delle residenze europee, può aver avuto una fugace visione di una casa nativa
raggomitolata in un angolo ma, da quando ha lasciato Mulinuu, non troverà alcuna abitazione sulla
spiaggia – dove gli isolani preferiscono vivere – e a malapena una lungo la strada.
Un pugno di bianchi possiede tutto: i nativi camminano in una città straniera. Un anno fa, su un poggio
dietro una mescita di alcolici, avrebbe potuto scorgere una casa dei nativi sorvegliata da sentinelle e di
miglior foggia rispetto alle abitudini di Samoa.
Gli avrebbero allora detto che si trattava della sede del governo, trasportata (come devo riferire) oltre
Mulivai e dalla città tedesca in quella anglosassone. Oggi, imparerà che è stata nuovamente spostata nei
suoi vecchi quartieri.
E troverà singolare che il re delle isole debba quindi fare la spola avanti e indietro, nel proprio capoluogo,
a un cenno dei forestieri. E poi osserverà una caratteristica ancora più significativa: una casa con un certo
andirivieni di gente indaffarata, poliziotti e oziosi che girellano, un uomo a uno sportello che esamina
degli avvisi, forse un’udienza nella veranda anteriore o forse il consiglio scioltosi in gruppetti dopo una
turbolenta seduta.
Apprenderà di trovarsi nell’Eleele Sa, il «suolo proibito» o territorio neutrale dei trattati; il magistrato che
ha appena visto cercare indigeni criminali non è un ufficiale del re nativo.
Vedrà che l’unico porto e sede di attività nel regno raccoglie e gestisce le entrate a proprio beneficio dalle
mani di consiglieri bianchi e sotto la supervisione di consoli bianchi.
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