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LA GUIDA È IN EDICOLA CON IL SOLE 24 ORE SEI IN REGOLA CON I DECRETI 231? • RESPONSABILITÀ AMMINISTRATIVA DELLE SOCIETÀ • ANTIRICICLAGGIO A 6,90€ IN PIÙ Domenica 25 Ottobre 2009 - N. 294 Così don Gnocchi mi curò l’anima Belle & perverse alla Thyssen di Madrid Il 3D prima di «Up»: e il cartoon si fece spazio Giorgio Cosmacini pag. 39 Anna Detheridge pag. 48 Emiliano Morreale pag. 52 Ledemo-dinastie DISEGNO DI ALE+ALE Il caso di Jean Sarkozy, «delfino» del presidente francese, non è isolato: nell’America senza re i Bush e i Clinton hanno governato per 20 anni, in Grecia il terzo Papandreu ha vinto le elezioni. E l’India si è affidata al nome di Gandhi: adesso è il turno di Sonia, l’italiana vedova di Rajiv di Sergio Luzzatto ecentemente, si è molto parlato anche in Italia di un episodio che in Francia ha rappresentato un piccolo scandalo: la candidatura (ora rientrata) di Jean Sarkozy, figlio ventitreenne del presidente della Repubblica, alla guida dell’organismo che gestisce il centro d’affari parigino della Défense, il maggiore in Europa. È parso incredibile che un ragazzotto tanto ambizioso quanto acerbo, mediocre studente al secondo anno di giurisprudenza oltreché presenza fissa come latin lover sui rotocalchi popolari, venisse elevato dal padre al rango di un manager di altissimo livello. «Ha un futuro davanti e suo papà dietro», è stato il commento tagliente del «Nouvel Observateur». La notizia avrebbe meritato qualcosa di meglio che il sarcasmo, e qualcosa di diverso dallo scandalo. Avrebbe meritato una riflessione pacata e compiuta sopra un autentico fenomeno di questa nostra strana modernità: fenomeno che si potrebbe definire (parafrasando il freudiano «ritorno del rimosso») come il «ritorno del dinastico». Non a caso i commentatori francesi hanno scomodato per Jean Sarkozy l’appellativo di "Delfino", quello stesso che qualificava nell’Antico Regime il figlio primogenito del re, l’erede al trono di Francia. Sottratta alla petite histoire, l’irresistibile ascesa del giovane Jean va trattata per quello che è: l’ultimo episodio di un serial politico da prendere terribilmente sul serio, la nuova puntata di una Dynasty planetaria che ha parecchio a che fare con la crisi della democrazia rappresentativa. Per un paradosso più apparente che reale, la Francia della sacrosanta "République" apparel’epicentrodiquesto ritornodeldinastico. Ogni giorno, le notizie provenienti dall’Eliseoriguardanola reginettaCarlaBruni quasi altrettanto che il marito presidente. Aoggi, la candidatainpole positionpersfidare Sarkozy alle prossime elezioni risulta essereMartineAubry:segretariadelPartitosocialista, ma anche figlia di Jacques Delors, non dimenticato ministro di Mitterrand e presidente della Commissione europea. Sul fronteoppostodelloscacchierepolitico,idestini del Front National sono ormai saldamente nelle mani di Marine Le Pen, la figlia più brillante di Jean-Marie. Tuttavia, si sbaglierebbe a confinare il ritorno del dinastico alla nazione che ha inventato, grazie ai rivoluzionari del 1789, il concettostesso di Antico Regime. Oltreoceano, in quegli Stati Uniti d’America che erano nati precisamente comeuna nazionesenza re e senza nobiltà ereditaria, la doppia di- R Matrioske. Dall’alto, in senso orario: Jawaharlal Nehru, Indira Gandhi, Rajiv e Sonia Gandhi; Jean e Nicolas Sarkozy; la probabile sfidante socialista Martine Aubry e suo padre Jacques Delors. Sotto: Juan Peron e la moglie Evita L’ereditarietà delle cariche rientra nella commistione tra politica e divismo e rivela una democrazia annoiata di sé da far paura nastia dei Bush e dei Clinton ha governato per vent’anni tondi dal 1988 al 2008, e continua a pesare attraverso la figura di Hillary. Quanto aBarack Obama,il suo avvento sembra segnare l’esatto contrario di Dynasty, il trionfo degliStati Uniti quale paesedelle opportunità per chiunque. Eppure, considerando la notevolissima personalità di sua moglie Michelle, chi può escludere che intorno alla famiglia stessa di Obama non si cristallizzi, in futuro, qualcosa come unalinea disuccessione al trono della Casa Bianca? Le dinastie godono di ottima salute nelle nostre democrazie. È di questi giorni la vittoria elettorale, in Grecia, del socialista George Pa- pandreu: l’ennesimo Papandreu, che ha prevalso sull’ennesimo Karamanlis. Meno recente, ma impressionante come esempio di trasmissionedemocraticadiuntronovacante, l’elezione alla presidenza argentina, nel 2007, di Cristina Kirchner, le cui uniche credenziali politiche venivano dall’essere moglie del presidente uscente Néstor. Quella – si obietterà – è la solita Argentina, il paese deiPerón,JuanedEvita:èl’Argentinapopulista più che democratica. Ma che dire allora dellapiùgrandedemocraziadelpianeta,l’India,doveil Partitodel Congressoèpresieduto oggi da Sonia Gandhi? Un libro appena uscito dal Saggiatore, Il sari rosso, del giornalista spagnolo Javier Moro, racconta come un romanzo la storia eccezionale di Sonia Gandhi: una storia che noi italiani faremmo bene a conoscere meglio, non foss’altro perché Sonia Maino è nata in provincia di Vicenza ed è cresciuta nell’hinterland di Torino. Vicenda impensabile, quella della signora Gandhi, se non entro un quadro squisitamente dinastico. Vedova di Rajiv, il primo ministro indiano ucciso in un attentato nel 1991; nuora di Indira Gandhi, a sua volta Primo ministro dell’India e figlia di Jawaharlal Nehru, lui pure primo ministro... Vicenda impensabile, anche, senza evocare la potenza storica dei simboli: il giorno del suo matrimonio con Rajiv, nel 1968, Soniaindossavailsarirosso (ilcoloredellespose indiane) tessuto in carcere da Nehru per le nozze della figlia Indira. Immensa democrazia in atto, l’India si è aggrappata da subito dopo l’indipendenza al fascino di una dinastia, e perfino all’equivoco dei cognomi (Indira Gandhi non aveva alcuna parentela con la carismatica figura del Mahatma). In Occidente, c’è voluto più tempo perché il «grigio diluvio democratico» che annoiava già Gabriele D’Annunzio producesse una nostalgia diffusa I libri di cui si parla 1 Javier Moro, «Il sari rosso» (il Saggiatore, Milano, pagg. 588, Á 18,50): la storia della nazione indiana narrata attraverso la vita dell’italiana Sonia Maino Gandhi, dal fidanzamento a Cambridge con Rajiv (figlio di Indira) alle vittorie elettorali del 2004 e 2009; 1 Braczko Bronislaw, «Napoleone e Washington. Bonaparte e il modello americano dal Consolato all’Impero» (Donzelli, Roma, pagg. 200, Á 26,00): un confronto tra l’imperatore corso e il fondatore degli Stati Uniti. Perché la Rivoluzione francese sfociò in un Impero ereditario, e quella americana no? per l’Antico Regime. A lungo, qui da noi, la vita di corte ha fatto notizia soltanto sui rotocalchi da parrucchiere: fosse la saga tragica dei Grimaldi, nel minuscolo principato di Monaco, o fosse la saga dei Windsor d’Inghilterra, più boccaccesca che tragica almeno fino al giorno in cui la principessa Diana trovò la morte in un tunnel di Parigi. Ma adesso, nel ventunesimo secolo, il fascino della vita di corte sembra avere penetrato i santuari dei regimi anche più pienamente democratici. Il ritorno del dinastico rientra in un fenomeno più generale della modernità: la commistione fra politica e divismo, o l’ipertrofia del pop. Al di là di questo, merita però di chiedersi se non vi sia altro ancora. Se la seduzione di Dynasty non rimandi – più che al rimpianto di un re, o a una nostalgia del sangue blu – al bisogno di restituire la politica a una narrazione più suggestivadi quellaprosaica degli appuntamenti elettorali, e a un’incarnazione meno sfuggente di quella della cosiddetta sovranità popolare.In altri termini, torna oggi a porsi con urgenza il dilemma che aveva turbato, nel tardo Settecento, le veglie di Jean-Jacques Rousseau prima ancora che dei giacobini: come rendere politicamente attraente un contratto sociale fondato sull’eguaglianzaanziché sull’eccezionalità, sull’indistinzione anziché sulla distinzione, sul potere di tanti anziché sul carisma di pochi? Esce in questi giorni da Donzelli un libro di Bronislaw Baczko, grandissimo storico delle idee, che può servire da vademecum per una riflessione in materia. Si intitola Napoleone e Washington, e si interroga sul modoin cui laRivoluzione francese del 1789finì per trasformarsi, entro il volgere di un quindicennio,nell’Imperoereditario diNapoleone Bonaparte. Perché il generale venuto dalla Corsica non seppe, né volle imitare il capo di stato maggiore venuto dalla Virginia e rientrato tranquillamente a morire, dopo due mandati da presidente, nella sua tenuta privatadi MountVernon?Perché,adifferenza di Washington, Napoleone volle edificare sulla propria gloria di soldato una dinastia diimperatore,e,soprattutto, perchéi francesi usciti dalla Rivoluzione glielo permisero? Quale nostalgia dell’Antico Regime, o quale vertigine dell’antipolitica consegnò la Francia dell’Ottocento all’improbabile dinastia popolaresca dei Bonaparte? Le dinastie popolaresche ci circondano a tutt’oggi. E ci circondano (ci accerchiano) le nobiltà ereditarie, quelle stesse che hanno spinto un insigne sociologo del nostro tempo – non a caso francese: Pierre Bourdieu – a un’analisi smagata intorno ai meccanismi di riproduzione delle gerarchie sociali e intorno al primato di una diseguaglianza reale sull’eguaglianza legale. Insomma, il problema è molto più grave della carriera da raccomandato di Jean Sarkozy. Il serial politico che va in onda tutti i giorni, la Dynasty planetaria che batte ogni record di audience, interpella l’avvenire di una democrazia troppo annoiata di sé per non farci paura. © RIPRODUZIONE RISERVATA Contrappunto L’invasione dei fattoidi di Riccardo Chiaberge D 9 0 81 6 9 771122 283008 i una persona simpaticamente matta diciamo che èun mattoide. Maun artistoide è un artista mancato, un asteroide o planetoide un corpo celeste troppo piccolo per ambire al rango di pianeta, e l’androide la brutta copia di un essere umano.Ilsuffisso-oide,insomma,può assumere di volta in voltauna coloritura negativa o positiva. A quale categoria appartiene un «fattoide»? Ce lo spiega il quasi centenario Gillo Dorfles in un aureo libriccino del 1997 ora opportunamente rispolverato da Castelvecchiconunanuovaintroduzione(Fattiefattoidi.Glipseudoeventi nell’arte e nella società). Dicesi fattoide un fatto «incompleto o deviato», una notizia travisata, camuffata, «gonfiata»: quella che volgarmente si chiama «bufala» o «patacca».Il fenomeno è vecchio quanto il mondo, ma le tecnologie della comunicazione digitale lo rendono ipertrofico e invasivo, condannandoci a una sorta di «similvita». Fattoidi non sono soltanto i videogame, gli effetti speciali di Star Wars o i presunti scoop sui fidanzamenti di Clooney, ma anche certi exploit degli artisti contemporanei: sterpiofascine–ironizzaDorfles–restanotaliancheselisi spacciaper opere d’arte e i collezionisti se li contendono a colpi di fantastilioni. Nell’era dei reality è sempre più arduo distinguere il vero dal falso, le notizie importanti da quelle marginali o strumentali. Ogni giorno è una grandinata di papelli,dicalzini,divideoedidossier. Basta la battuta rubata a un uomo politico per imbastire un titoloanovecolonne,e cisonogiornali(anzi,giornaloidi)chesparanoinprimapaginarivelazionidel tipo: «La cugina di Pinco Pallo (nome di un personaggio pubblico sgradito al proprietario della testata)dieciannifaèpassatacol rosso»,relegandoneltagliobasso onellepagineinternelestragidella camorra o il terremoto in Indonesia. Questo andazzo vi deprime? Non ascoltate i catastrofisti che vedono solo fango e barbarie nelnostrofuturo.«L’adulterazione e la contraffazione non hanno vinto totalmente. L’essere umano contiene ancora in sé una riserva di purezza e di invincibile forza singola».Parola di Gillo, ragazzo asburgicochehaconosciutoSaba eSvevoechedallaTriestediFrancesco Giuseppe è approdato in perfetta forma all’impero di YouTube.Nondatevipervinti,ciesorta con quel suo garbo mitteleuropeo: l’essenziale è «accrescere e utilizzare al meglio» l’autonomia di giudizio individuale. E che i giornalisti non diventino a loro volta dei giornalistoidi, come qualche politicoide vorrebbe. © RIPRODUZIONE RISERVATA http://riccardochiaberge. blog.ilsole24ore.com La Londra dei cloni in carriera di Samir Shah S ono approdato in Gran Bretagna da Bombay, nel gennaio 1960. Harold Macmillan doveva ancora far soffiare i suoi venti di cambiamento con il suo discorso in Sudafrica.CoronationStreetnonera ancora andato in onda. Avevo otto anni e ricordo che fissavo un enorme cartellone pubblicitario appeso aNottingHillGatedoveunasplendida bionda offriva delle barrette di cioccolato molto invitanti. Io andavo matto per il cioccolato e quelle barrette sembravano deliziose, eppure ero avvilito. Ma perché? Perché credevo veramente che fossero riservate ai bianchi. Ventisetteannidopo.Fuinominato direttore dell’attualità alla BBC. Volevoconosceremeglioilmionuovo reparto e decisi di incontrare un membrodelmiostaff,un caposervizio, nel suo ufficio. Andai dalla sua segretaria e chiesi di lui. La risposta fu immediata: «Ah, lei dev’essere il tassista. Il caposervizio è occupato. Anglo-indiano. Samir Shah Aspetti in macchina, prego, scenderà lui quando è pronto». «No», le risposi, non ero il tassista. Lasciai il mio nome e le chiesi di riferire al caposerviziocheilsuonuovocapo era passato per conoscerlo. Naturalmente lui si materializzò all’istante insieme alla povera segretaria che non sapeva più come scusarsi. Questo succedeva vent’anni fa. Mi occupo ancora di televisione, ma negli ultimi dieci anni sono anche stato direttore non esecutivo del Runnymede Trust, un thinktankchesi dedicaallostudiodell’etnicità e della diversità, nato con il "calore bianco" degli anni Sessanta. Per quarant’anni Runnymede ha svoltounottimolavoronell’influenzare il dibattito sulle relazioni razziali. Ai primi di ottobre ho lasciato il mio incarico e vorrei sbottonarmi dando il mio personale contributo a quel dibattito. Quella che leggerete non è la posizione ufficiale di Runnymede dunque, ma la mia. LaGranBretagnaèatuttiglieffetti un gran bel posto per viverci se non sei bianco. Posso comprare tutte le barrette di cioccolato che voglio. E oggi,anche seun numero incredibilmente elevato di asiatici continua a volerfareiltassista,cisonotroppidirigentinonbianchiallaguidadidiverseaziendeperchéanessunovengain mente di ripetere l’errore di quella sventuratasegretariadellaBBC. Continua u pagina 34