Notte Nazionale del Liceo Classico Notte Nazionale del Liceo

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Notte Nazionale del Liceo Classico Notte Nazionale del Liceo
Notte Nazionale del Liceo Classico
Liceo Classico G.M. Dettori, Cagliari
16.01.2015
studen
Reading degli stude
nti con
Maurizio Mezzorani e Tino Petilli
Sic notus Ulixes?
Ulixes?
Vaso del IV sec. a.C.:
Odisseo e Tiresia nell’Ade
Qui primo davanti a tutti, accompagnandolo
40 Primus ibi ante omnis magna comitante caterva
Laocoon ardens summa decurrit ab arce,
una gran folla, corse giù dalla sommità della
rocca Laocoonte ardente, e da lontano "O
et procul “o miseri, quae tanta insania, cives?
miseri cittadini, qual è si gran pazzia?
creditis avectos hostis? aut ulla putatis
Credete partiti i nemici? O pensate che
dona carere dolis Danaum? Sic notus Ulixes?
nessun dono dei Danai manchi di inganni?
45 aut hoc inclusi ligno occultantur Achivi,
Così vi è noto Ulisse? O chiusi da questo
aut haec in nostros fabricata est machina muros,
inspectura domos venturaque desuper urbi,
legno si nascondono gli Achei, o questa
macchina fu fabbricata contro le nostre mura,
aut aliquis latet error; equo ne credite, Teucri.
per controllare le case e per venire sopra la
quidquid id est, timeo Danaos et dona ferentes.”
città, o qualche inganno si cela; non credete
Eneide, II, 40-49
al cavallo, Troiani.Qualsiasi cosa ciò sia,
temo i Danai anche quando portano doni.
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Lavoro degli studenti coordinato dalla Prof.ssa F. Carta
Sin dalle origini, dunque, la figura di Odisseo è nota per la sua astuzia e versatilità, come già
Laocoonte osservò nel celebre monito ai Troiani, dubbiosi se accettare o meno il dono del cavallo.
Il nome Odisseo gli venne dato dal nonno Autolico quando la nutrice Euriclea glielo pose appena
nato sulle ginocchia:
Figlia e genero mio, mettetegli il nome che dico: io venni qui odio covando contro di molti,
uomini e donne, sulla terra nutrice, dunque Odisseo sia il nome...
E in greco, infatti, il verbo o|duéssomai significa «mi adiro, mi sdegno.
Secondo il mito Odisseo aveva ereditato la sua proverbiale astuzia dagli antenati: il nonno
materno, Autolico, era un ladro astutissimo (forse figlio dello stesso Ermes) che aveva ricevuto dal
dio il dono singolare di trasformare ciò che rubava, così da non essere mai colto sul fatto; il padre
sarebbe Laerte, signore di Itaca, che ne aveva sposato la figlia Anticlea; ma, secondo un’altra
versione del mito, il padre naturale sarebbe Sisifo, il più scaltro tra i mortali, così sicuro della
propria astuzia da sfidare gli dèi ed essere, per questo, punito nell’oltretomba a spingere un masso
su per un monte che, giunto in cima, rotolava di nuovo giù.
Il primo epiteto che caratterizza Odisseo, poluétropov, fu già nell’antichità interpretato
nell’ambiguo significato di «ingegnoso», «accorto» oppure «a lungo errante»; certo il primo
significato meglio sembrerebbe adattarsi al versutum di Livio Andronico e al providus di Orazio;
del resto, lo stesso Odisseo si presenta ad Alcinoo dicendo:
Sono Odisseo di Laerte, che per tutte le astuzie sono conosciuto tra gli uomini, e la mia fama
va al cielo
La figura di Odisseo, quale compare nell’Odissea, ha tutte le caratteristiche dell’eroe epico:
è il sovrano di un regno che con una flotta di dodici navi, anche se malvolentieri, si reca a Troia; per
coraggio e forza è superato solo da Achille ed Aiace; per astuzia ed intelligenza non è secondo a
nessuno, ma, rispetto agli altri eroi, che rimangono immutabili nella loro fissità, egli ha dovuto
integrare gli ideali aristocratici dell’onore e del valore con l’intelligenza astuta e la paziente
sopportazione, per riuscire ad affrontare e sopportare tutto il dolore e la miseria che la vita riserva
all’uomo.
E forse proprio questo suo trasformarsi, adattandosi a divenire uomo pur restando eroe, ha
fatto sì che potesse essere l’emblema dell’uomo moderno; del resto uno dei tanti epiteti, poluétlav,
significa «molto audace» ma anche «molto paziente». Tra gli altri epiteti si annoverano
polumhécanov e poluémhtiv, sempre con il significato che ci riporta al «molto senno capace anche
di ordire inganni».
Nel lungo viaggio di ritorno egli perde tutto, compresi i suoi compagni, e delle sembianze
dell’eroe dell’Iliade (che ancora mantiene integre nella lotta contro i Ciconi) non rimane più nulla
così come della sua splendente nave non rimane che una trave della chiglia.
Ma egli è sopravvissuto e ha fatto esperienza del mondo e il suo viaggio continua tuttora,
quando ispira grandi poeti che nella figura di Odisseo riversano le ansie, le paure e la sete di
conoscenza che caratterizza l’uomo moderno. Egli è l’eroe che ha permesso di far cadere la città di
Troia con la sua astuzia, ma nei dieci anni che lo terranno per mare non deve più confrontarsi con
gli ideali della guerra, bensì con le insidie costanti del mare e di luoghi e popoli sconosciuti.
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ἄνδρα μοι ἔννεπε, μοῦσα, πολύτροπον, ὃς μάλα πολλὰ
πλάγχθη, ἐπεὶ Τροίης ἱερὸν πτολίεθρον ἔπερσεν·
πολλῶν δ᾽ ἀνθρώπων ἴδεν ἄστεα καὶ νόον ἔγνω,
πολλὰ δ᾽ ὅ γ᾽ ἐν πόντῳ πάθεν ἄλγεα ὃν κατὰ θυμόν,
ἀρνύμενος ἥν τε ψυχὴν καὶ νόστον ἑταίρων.
ἀλλ’ οὐδ’ ὣς ἑτάρους ἐρρύσατο, ἱέμενός περ.
Narrami, o Musa, l’uomo dal
multiforme ingegno che tanto
errò, dopo che ebbe distrutto la rocca
sacra di Troia;
di molti uomini vide le città e
conobbe la mente
e molti dolori sopportò in mare nel
suo cuore,
mentre cercava di salvare la sua vita e
di procurare il ritorno ai compagni.
Ma neppur così riuscì a salvare i
compagni, pur desiderandolo.
Odissea, I, 1-6
Questo dunque il proemio dell’Odissea in cui sono presenti tutti gli elementi caratteristici
dell’eroe: il multiforme ingegno (v. 1), il viaggio (v. 2), la conoscenza (v.3), la sofferenza (v.4), la
generosità (v.5), il fallimento (v.6).
Uno dei tratti più umani di Odisseo ci sembra di trovarlo nel bellissimo incontro nell’Ade
con la madre Anticlea; l’eroe non sa della sua morte e il cuore gli si stringe per il dolore:
Comparve in questo dell’antica madre
L’ombra sottile, d’Anticlea, che nacque
Dal magnanimo Autolico, e a quel tempo
Era tra i vivi ch’io per Troia sciolsi.
La vidi appena, che pietà mi strinse,
E il lagrimar non tenni: ma né a lei,
Quantunque men dolesse, io permettea
Al sangue atro appressar, se il vate prima
Favellar non s'udìa.
(Pindemonte, XI, 114 ss.)
Umanissimo il suo tentativo di abbracciarla, ma vano:
Io, pensando tra me, l'estinta madre
Volea stringermi al sen: tre volte corsi,
Quale il mio cor mi sospingea, vêr lei,
E tre volte m'usci fuor delle braccia,
Come nebbia sottile, o lieve sogno.
Cura più acerba mi trafisse e ratto:
"Ahi, madre", le diss'io, "perché mi sfuggi
D'abbracciarti bramoso, onde, anco a Dite,
Le man gittando l'un dell'altro al collo,
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Lavoro degli studenti coordinato dalla Prof.ssa F. Carta
Di duol ci satolliamo ambi, e di pianto?
(Pindemonte, XI, 261 ss.)
La struttura narrativa dell’Odissea è innovativa rispetto all’Iliade: quest’ultima narra infatti
gli ultimi cinquanta giorni di una guerra decennale; il contenuto dell’Odissea narra invece gli
avvenimenti degli ultimi quaranta giorni del viaggio di Odisseo che, giunto presso i Feaci,
ripercorre nel primo flash-bach della letteratura occidentale le sue avventure nei dieci anni trascorsi
per mare.
Il poema presenta un inizio in medias res, infatti dal Concilio degli Dei veniamo a sapere
che la guerra di Troia è già finita da sette anni e che Odisseo ha trascorso questo tempo nell'isola di
Ogigia, costretto dalla ninfa Calipso, "Colei che nasconde".
Gli dei decidono dunque che è tempo di lasciarlo andare. Dopo diciassette giorni di
tranquilla navigazione, Poseidone, di ritorno dalla terra degli Etiopi, scatena una violenta tempesta.
Giunto naufrago all’isola dei Feaci, dove viene ospitalmente accolto, durante un banchetto in cui il
cantore Demodoco canta del cavallo di Troia, Odisseo, commosso sino alle lacrime, narra le sue
vicende, sino a che intreccio e fabula tornano a coicidere quando ritroviamo l’eroe a Itaca.
Ulisse non era però destinato a rimanere ad Itaca: nella sua profezia Tiresia dice infatti che,
ristabilito l’ordine in casa sua, proverà di nuovo fortissimo l’impulso di ripartire e concluderà i suoi
giorni in una terra in cui gli uomini ignorano il mare.
Da secoli Ulisse prosegue il suo viaggio e noi lo incontriamo nell’Inferno dantesco, punito
fra i consiglieri fraudolenti nell’ottava bolgia dell’ottavo cerchio. Ulisse è nascosto agli occhi di
Dante da una fiamma biforcuta secondo la legge del contrappasso: come in vita non manifestò mai
il suo vero pensiero, così ora, insieme a Diomede, è avvolto da una fiamma che ne occulta le
sembianze.
Ma per Dante questo è solo il pretesto per introdurre un personaggio che egli sente molto
simile a sè e che sente più come eroe della conoscenza che come orditore di inganni e astuzie.
Lo maggior corno de la fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando
87 pur come quella cui vento affatica;
indi la cima qua e là menando,
come fosse la lingua che parlasse,
90 gittò voce di fuori, e disse: "Quando
mi diparti' da Circe, che sottrasse
me più d'un anno là presso a Gaeta,
93 prima che sì Enea la nomasse,
né dolcezza di figlio, né la pièta
del vecchio padre, né 'l debito amore
96 lo qual dovea Penelopé far lieta,
vincer potero dentro a me l'ardore
ch'i' ebbi a divenir del mondo esperto,
99 e de li vizi umani e del valore;
ma misi me per l'alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna
102 picciola da la qual non fui diserto.
L'un lito e l'altro vidi infin la Spagna,
fin nel Morrocco, e l'isola d'i Sardi,
105 e l'altre che quel mare intorno bagna.
Io e ' compagni eravam vecchi e tardi
114 a questa tanto picciola vigilia
d'i nostri sensi ch'è del rimanente,
non vogliate negar l'esperienza,
117 di retro al sol, del mondo sanza gente.
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
120 ma per seguir virtute e canoscenza".
Li miei compagni fec'io sì aguti,
con questa orazion picciola, al cammino,
123 che a pena poscia li avrei ritenuti;
e volta nostra poppa nel mattino,
de' remi facemmo ali al folle volo,
126 sempre acquistando dal lato mancino.
Tutte le stelle già de l'altro polo
vedea la notte e 'l nostro tanto basso,
129 che non surgea fuor del marin suolo.
Cinque volte racceso e tante casso
lo lume era di sotto da la luna,
132 poi che 'ntrati eravam ne l'alto passo,
quando n'apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
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quanto veduta non avea alcuna.
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quando venimmo a quella foce stretta
108 dov'Ercule segnò li suoi riguardi,
acciò che l'uom più oltre non si metta:
da la man destra mi lasciai Sibilia,
111 da l'altra già m'avea lasciata Setta.
"O frati", dissi "che per cento milia
perigli siete giunti a l'occidente,
Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto,
ché de la nova terra un turbo nacque,
138 e percosse del legno il primo canto.
Tre volte il fé girar con tutte l'acque;
a la quarta levar la poppa in suso
141 e la prora ire in giù, com'altrui piacque,
infin che 'l mar fu sovra noi richiuso".
Inf., XXVI, 85-142
Dunque, l’eroe dantesco si presenta come l’eroe della conoscenza, per mezzo della quale
l’uomo si eleva al di sopra delle bestie.
Probabilmente Dante è venuto a conoscenza per via indiretta del racconto dell’Odissea:
possibili fonti sono Cicerone ed Orazio, che fungono da mediatori della rappresentazione dantesca
di Ulisse. Dante deve aver ben colto le parole dell’Arpinate, secondo cui l’eroe omerico incarna non
la curiositas, intesa come voglia di sapere qualsiasi cosa, quanto il desiderio di scientia, ovvero la
sapienza razionale alla quale si rivolgono gli spiriti più grandi: il viaggio dantesco è analogico a
quello dell’eroe mitico che tuttavia, a causa della superbia d’intelletto, non raggiungerà mai la meta
più alta, conquistata dal poeta con il beneficio della grazia divina. Anche gli spazi entro cui si
muovono i due sono diversi: orizzontale quello di Ulisse; verticale quello di Dante.
Indelebile l’immagine della fiamma dentro la quale Ulisse sconta per l’eternità il suo peccato:
come infatti i consiglieri fraudolenti ingannarono, nascondendo dietro false intenzioni il loro vero
scopo, nell’Inferno sono nascosti per sempre da un fuoco che li brucia dolorosamente; inoltre, la
fiamma che li avvolge assume tutti i connotati fisici dei consiglieri fraudolenti, al punto di
assomigliare a una lingua che, guizzando, emette suoni articolati.
Ritroviamo la figura di Ulisse peregrino in A Zacinto di Foscolo, uno dei sonetti più noti
della nostra letteratura, in cui il paragone tra il poeta, costretto a vagare, e Ulisse è esplicito
A Zacinto
Né più mai toccherò le sacre sponde
ove il mio corpo fanciulletto giacque,
Zacinto mia, che te specchi nell'onde
del greco mar da cui vergine nacque
Venere, e fea quelle isole feconde
col suo primo sorriso, onde non tacque
le tue limpide nubi e le tue fronde
l'inclito verso di colui che l'acque
cantò fatali, ed il diverso esiglio
per cui bello di fama e di sventura
baciò la sua petrosa Itaca Ulisse.
Tu non altro che il canto avrai del figlio,
o materna mia terra; a noi prescrisse
il fato illacrimata sepoltura.
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Il tema dell’esilio e del peregrinare è magistralmente reso nella poesia dall’uso
dell’enjambement che fa inarcare uno sull’altro sette versi su undici, creando uno straordinario
effetto che ricorda la risacca del mare: nei primi undici versi, privi di un segno di punteggiatura
forte, i versi infatti si accavallano uno sull’altro come le onde del mare.
Ma sempre in Foscolo, nei Sepolcri, Ulisse torna ad essere l’orditore di inganni che riuscì
con il suo senno astuto a farsi assegnare le armi di Achille; Aiace, cui sarebbero spettate di diritto,
impazzì, ma nemmeno Ulisse riuscì a tenerle perché una tempesta gliele strappò via e il mare
pietoso le porto alla tomba di Aiace.
Felice te che il regno ampio de' venti,
Ippolito, a' tuoi verdi anni correvi!
E se il piloto ti drizzò l'antenna
oltre l'isole egèe, d'antichi fatti
certo udisti suonar dell'Ellesponto
i liti, e la marea mugghiar portando
alle prode retèe l'armi d'Achille
sovra l'ossa d'Ajace: a' generosi
giusta di glorie dispensiera è morte;
né senno astuto né favor di regi
all'Itaco le spoglie ardue serbava,
ché alla poppa raminga le ritolse
l'onda incitata dagl'inferni Dei.
Tra l’Ottocento ed il Novecento la poesia muta radicalmente nelle forme poetiche e nei
temi, si abbandonano le forme classiche come il sonetto per lasciare spazio ai versi liberi e ai versi
sciolti, ma la figura di Odisseo rimane uno dei temi prediletti anche nella letteratura del ventesimo
secolo.
Come Dante, anche Lord Tennyson e Pascoli hanno immaginato un epilogo della vita
dell'eroe diverso da quello prospettato nell'Odissea: secondo la profezia di Tiresia, infatti, Ulisse
tornerà alla sua patria, ma dovrà quindi affrontare un nuovo viaggio: con un remo in spalla,
camminerà fintanto che non sarà giunto ad una terra i cui abitanti, ignari del mare, scambino il
remo per un ventilabro, strumento che i contadini usavano per separare il grano dalla pula;
allora, confitto a terra il remo e fatti sacrifici a Posidone, potrà tornare a casa e riprendere il
posto di re: «per te la morte verrà / fuori dal mare, così serenamente da coglierti / consunto da
splendente vecchiezza: intorno avrai popoli ricchi. Questo senza errore ti annunzio».
Tennyson: Ulysses
Traduzione
It little profits that an idle king,
By this still hearth, among these
barren crags,
Match'd with an aged wife, I mete and dole
Unequal laws unto a savage race,
That hoard, and sleep, and feed, and know not me.
I cannot rest from travel: I will drink
Life to the lees: All times I have enjoy'd
Greatly, have suffer'd greatly, (both with those)
...
Poco giova che inoperoso re,
accanto a questo spento focolare, fra queste sterili rupi,
in compagnia di una vecchia moglie, distribuisco e dispenso
leggi ineguali a una razza (popolo) selvaggia
che ammassa beni, e dorme, e mangia, e non mi conosce.
io non posso riposare per il viaggio: berrò
la vita fino ala feccia: tutto il tempo ho goduto
immensamente, ho sofferto immensamente,...
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I versi con cui si apre il lungo monologo interiore di Ulisse ormai
ritornato a Itaca evidenziano immediatamente l’insoddisfazione profonda
dell’eroe che non trova appagamento in nessuno degli affetti che tanto
avevano suscitato la sua malinconia: la “petrosa Itaca” è vista come un
cumulo di sterili rupi, Penelope (che poteva gareggiare in bellezza con le dee
dell’Olimpo) è ormai una “vecchia moglie” e il suo popolo selvaggio, è volto
solo a soddisfare gli istinti primari e a vivere come i “bruti”.
Ulisse non può accontentarsi di una vita condotta come inoperoso re e,
pur avanti negli anni, parte per l’ultima avventura con la fiducia dell’eroe
moderno: l’eroe di Tennyson è infatti l’emblema di un popolo di navigatori e
colonizzatori, gli inglesi, come l’eroe omerico è l’emblema di un altro popolo
che è stato di navigatori e colonizzatori, i Greci.
E proprio il proemio dell’Odissea viene ripreso dal poeta inglese:
Tennyson: Ulysses
Traduzione
...
...
For always roaming with a hungry heart
Much have I seen and known; cities of men
And manners, climates, councils, governments,
Myself not least, but honour'd of them all;
Per sempre vagando con un cuore affamato
ho visto e conosciuto moltoi; cttà di uomini
e costumi, climi, consigli, governi,
e non meno me stesso, ma onorato da tutti loro;
Nel poemetto intitolato l’Ultimo viaggio, suddiviso in ventiquattro brevi canti, il Pascoli ha
cercato di mettere d’accordo Omero, Dante e Tennyson: l'eroe, adempiuta la profezia di Tiresia, per
nove anni rimane ad Itaca.
Assorto nella rievocazione del proprio passato e nel rimpianto dei tempi eroici, viene colto da
un dubbio sempre più tormentoso: non distingue se gli episodi che egli va ricordando appartengano
alla realtà o all'immaginazione. Questo dubbio assillante lo spinge a riprendere la navigazione, ma il
ritorno nei luoghi delle sue avventure si rivela illusorio.
L’Ulisse pascoliano è carico di dubbi, ansioso di risposte, privo di certezze, immagine delle
inquietudini dello stesso Pascoli e del suo tempo. «Pascoli spoglia il personaggio classico della sua
olimpicità e gli dà un’anima decadente, con le sue incertezze, i suoi smarrimenti e l’angoscia
esistenziale» (F. Puccio).
Quando Ulisse giunge all’isola delle Sirene presso il prato di fiori dove vuole sostare per
ascoltare ancora una volta il loro canto, le Sirene non rispondono alle sue domande ed egli vede
solo un cumulo di ossa prima che la sua nave si spezzi tra gli scogli.
"Son io, son io, che torno per sapere!
Ché molto io vidi, come voi vedete
me. Sì; ma tutto ch'io guardai nel mondo
mi riguardò; mi domandò: Chi sono?".
E la corrente tacita e soave
più sempre avanti sospingea la nave
E il vecchio vide un grande mucchio d'ossa
d'uomini, e pelli raggrinzate intorno,
presso le due Sirene, immobilmente stese
sul lido, simili a due scogli.
"Vedo. Sia pure.Questo duro ossame
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cresca quel mucchio. Ma, voi due, parlate!
Ma dite un vero, un solo a me, tra il tutto,
prima ch'io muoia. a ciò ch'io sia vissuto!"
E la corrente rapida e soave
più sempre avanti sospinge la nave
E s'ergean su la nave alte le fronti,
con gli occhi fisse delle due Sirene.
"Solo mi resta un attimo.Vi prego!
Ditemi almeno chi sono io! chi ero!"
E tra i due scogli si spezzò la nave
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Dopo il naufragio il corpo di Ulisse viene sospinto nell’isola di Ogigia dove la ninfa Calipso
grida inutilmente la sua disperazione:
E il mare azzurro che l’amò, più oltre
spinse Odisseo, per nove giorni e notti,
e lo sospinse all’isola lontana,
alla spelonca, cui fioriva all’orlo
carica d’uve la pampinea vite.
...
Era Odisseo: lo riportava il mare
alla sua dea: lo riportava morto
alla Nasconditrice solitaria,
all’isola deserta che frondeggia
nell’ombelico dell’eterno mare.
Nudo tornava chi rigò di pianto
le vesti eterne che la dea gli dava;
bianco e tremante nella morte ancora,
chi l’immortale gioventù non volle.
Ed ella avvolse l’uomo nella nube
dei suoi capelli; ed ululò sul flutto
sterile, dove non l’udia nessuno:
Non esser mai! Non esser mai! Più nulla,
Ma meno morte, che non esser più
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Spontaneo viene il confronto con i versi omerici nei quali Odisseo e Calipso dialogano
prima della partenza dell’eroe:
«Divino figlio di Laerte, Odisseo pieno di astuzie,
e così vuoi ora andartene a casa, subito,
nella cara terra dei padri? e tu sii felice, comunque. 205
Ma se tu nella mente sapessi quante pene
ti è destino patire prima di giungere in patria,
qui resteresti con me a custodire questa dimora,
e saresti immortale, benché voglioso di vedere
tua moglie, che tu ogni giorno desideri.
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Eppure mi vanto di non essere inferiore
a lei per aspetto o figura, perché non è giusto
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che le mortali gareggino con le immortali per aspetto e
beltà».
Rispondendo le disse l'astuto Odisseo:
«Dea possente, non ti adirare per questo con me: lo so
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bene anche io, che la saggia Penelope a
vederla è inferiore a te per beltà e statura:
lei infatti è mortale, e tu immortale e senza vecchiaia.
Ma anche così desidero e voglio ogni giorno
giungere a casa e vedere il dì del ritorno.
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E se un dio mi fa naufragare sul mare scuro come vino,
saprò sopportare, perché ho un animo paziente nel
petto:
sventure ne ho tante patite e tante sofferte
tra le onde ed in guerra: sia con esse anche questa».
Opposto all’Ulisse del Pascoli è l’Ulisse superuomo del D’Annuzio; il viaggio diviene il
simbolo della pienezza eroica, ma anche della grande solitudine che circonda l’eroe omerico.
D’Annunzio in Maia immagina di salpare diretto in Grecia con alcuni fidi compagni e lungo il
viaggio incontra proprio Ulisse, che sdegnosamente non risponde ai richiami della brigata
d’annunziana per riservare una fugace occhiata al poeta.
Roncoroni, scrive che d’Annunzio “celebra, nella figura di Ulisse, l’incarnazione mitica del
Superuomo che si lancia oltre le colonne d’Ercole, sempre attratto da nuove conquiste”.
Incontrammo colui
che i Latini chiamano Ulisse
...
Lui vedemmo
su la nave incavata. E reggeva
ei nel pugno la scotta
spiando i volubili venti,
silenzioso; e il pileo
estile dei marinai
coprivagli il capo canuto,
la tunica breve il ginocchio
ferreo, la palpebra alquanto
l'occhio aguzzo; e vigile in ogni
muscolo era l'infaticata
possa del magnanimo cuore.
...
"O Laertiade" gridammo,
e il cuor ci balzava nel petto
come ai Coribanti dell'Ida
...
Non pur degnò volgere il capo.
Come a schiamazzo di vani
fanciulli, non volse egli il capo
canuto;
...
"Odimi" io gridai
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sul clamor dei cari compagni
"odimi, o re delle tempeste!
Tra costoro io sono il più forte.
...
Si volse egli men disdegnoso
a quel giovine orgoglio
chiarosonante nel vento;
e il folgore degli occhi suoi
mi ferì per mezzo alla fronte.
(vv.631ss.)
A fare strage dell’Ulisse d’annunziano, e non solo, è Gozzano nella poesia L’ipotesi. Da
esempio di eroiche virtù, Ulisse diviene un tale che col suo vivere scempio diede esempio
deplorevole di infedeltà maritale, visse su uno yact circondato da allegre donnine e, dopo essere
stato perdanato dalla moglie, carico d’anni, cercò fortuna in America. Ma trovò solo la montagna
del Purgatorio.
Il Re di Tempeste era un tale
che diede col vivere scempio
un bel deplorevole esempio
d’infedeltà maritale,
che visse a bordo d’un yacht
toccando tra liete brigate
le spiagge più frequentate
dalle famose cocottes.
Già vecchio, rivolte le vele
al tetto un giorno lasciato,
fu accolto e fu perdonato
dalla consorte fedele...
Poteva trascorrere i suoi
ultimi giorni sereni,
contento degli ultimi beni
come si vive tra noi...
Ma né dolcezza di figlio,
né lagrime, né la pietà
del padre, né il debito amore
per la sua dolce metà
gli spensero dentro l’ardore
della speranza chimerica
e volse coi tardi compagni
cercando fortuna in America...
-Non si può vivere senza
danari, molti danari...
Considerate, miei cari
compagni, la vostra semenza!Vïaggïa vïaggïa viaggia
vïaggïa nel folle volo:
vedevano già scintillare
le stelle dell’altro polo...
Vïaggïa vïaggia vïaggïa
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vïaggïa per l’alto mare:
si videro innanzi levare
un’alta montagna selvaggia...
Non era quel porto illusorio
la California o il Perù,
ma il monte del Pirgatorio
che trasse la nave all’in giù.
E il mare sovra la prora
si fu richiuso in eterno.
E Ulisse piombò nell’Inferno
dove ci resta tuttora...
Sembrerebbe solo un gioco letterario, se non vi fosse sottesa una finissima polemica
letteraria con il d’Annunzio che chiamò Ulisse “Eroe di tempeste”, fece un lungo viaggio alla volta
della Grecia classica sullo yact di proprietà di un amico, accompagnato da una allegra brigata. Ma
compaiono anche l’Ulisse omerico, divenuto qui un dissoluto turista, l’Ulisse dantesco che cerca i
facili guadagni del sogno americano e, beffato, non trova neppure il Purgatorio, ma l’Inferno.
Sempre Gozzano in La beata riva, da Poesie sparse, torna sulla figura dell’eroe omerico,
immaginando un dialogo tra Ulisse e la sirena, che gli consiglia un rapido rientro in patria da
Penelope.
Quegli che sazio della vita grigia
navigò verso l’isole custodi
una levarsi intese fra melòdi
voce più dolce della canna frigia:
"Uomo! Ritorna sulle tue vestigia
al dolce mondo! Pel tuo bene m’odi!
Ché l’acqua stessa dei canori approdi
quella è che nutre la palude stigia".
"Con un fiore il passato si cancella!" 10
"Cancellerai la faccia della Madre
e della Sposa?" - "Tu sola mi piaci!"
"L’amarsi è bello!" - "Ma tu sei più bella!"
"Fra queste braccia soffrirai!" - "Leggiadre!"
"Verrà la Morte." - "Pur che tu mi baci!"
Chiede la sirena a Ulisse: “cancellerai la faccia della Madre e della Sposa?”. Mentre Ulisse
desidera solo rimanere dalla Sirena e non intende far ritorno a casa. «Tu sola mi piaci!», dice Ulisse
alla Sirena. «L’amarsi è bello!», risponde la Sirena, invitando Ulisse a tornare da Penelope. «Ma tu
sei più bella!», le replica Ulisse, che si lascia attrarre da lei. «Fra queste braccia soffrirai!». La
sirena cerca in tutti i modi di convincere Ulisse ad andarsene e a rinunciare alla sua passione.
«Leggiadre!», esclama Ulisse, riferendosi alle braccia della sirena. «Verrà la Morte.», lo
ammonisce ancora la sirena, riportandolo alla realtà e ai veri valori. «Pur che tu mi baci!», le
risponde infine Ulisse. (Da Longo)
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Ma la nave del nostro eroe è destinata ancora una volta a cambiare inaspettatamente rotta
con l’Ulisse di Saba. L’eroe omerico diviene infatti immagine del poeta stesso che in gioventù ha
tanto navigato e neppure ora può fermarsi.
Nella mia giovinezza ho navigato
lungo le coste dalmate. Isolotti
a fior d’onda emergevano, ove raro
un uccello sostava intento a prede,
coperti d’alghe, scivolosi, al sole
belli come smeraldi. Quando l’alta
marea e la notte li annullava, vele
sottovento sbandavano più al largo,
per fuggirne l’insidia. Oggi il mio regno
è quella terra di nessuno. Il porto
accende ad altri i suoi lumi; me al largo
sospinge ancora il non domato spirito,
e della vita il doloroso amore.
L’incipit della poesia ci porta ad una giovinezza vissuta veleggiando per mare lungo le coste
della Dalmazia tra scogli splendenti e acque nitide; mito e realtà si fondono nella evocazione di una
stagione irripetibile che è la giovinezza.
Ma il desiderio di avventura non si è concluso per il poeta: l’amore per la vita sospinge
sempre al largo l’Ulisse moderno, un uomo che non si stanca mai di esplorare dentro e fuori di sè.
Le difficoltà e le frequenti inversioni di rotta del viaggio che è la vita sono rese con sintassi
caratterizzata da inversioni e iperbati, con il prezioso ossimoro finale, che amplificano il non
domato spirito e della vita il doloroso amore.
Non una mèta precisa orienta la navigazione, ma la necessità di non eledere i rischi e il
bisogno indomito di cercare sempre nuove rotte.
Non più Ulisse, ma Itaca diviene il centro della poesia omonima di Kavafis. La lettura in
greco moderno è affidata a un’alunna della classe 4E del nostro liceo, di padre greco:
Σα βγείς στον πηγαιµό για την Ιθάκη,
να εύχεσαι νάναι µακρύς ο δρόµος,
γεµάτος περιπέτειες, γεµάτος γνώσεις.
Τους Λαιστρυγόνας και τους Κύκλωπας,
τον θυµωµένο Ποσειδώνα µη φοβάσαι,
τέτοια στον δρόµο σου ποτέ σου δεν θα βρεις.
Αν µεν η σκέψις σου υψηλή, αν εκλεκτή
συγκίνησις το πνεύµα και το σώµα σου αγγίζει.
Τους Λαιστρυγόνας και τους Κύκλωπας,
τον άγριο Ποσειδώνα δεν θα συναντήσεις,
αν δεν τους κουβανείς µες στην ψυχή σου,
αν η ψυχή σου δεν τους στήνει εµπρός σου
Quando ti metterai in viaggio per Itaca
devi augurarti che la strada sia lunga,
fertile in avventure e in esperienze.
I Lestrigoni e i Ciclopi
o la furia di Nettuno non temere,
non sara` questo il genere di incontri
se il pensiero resta alto e un sentimento
fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo.
In Ciclopi e Lestrigoni, no certo,
ne' nell'irato Nettuno incapperai
se non li porti dentro
se l'anima non te li mette contro.
Να εύχεσαι νάναι µακρύς ο δρόµος.
Πολλά τα καλοκαιρινά πρωιά να είναι
που µε τι ευχαρίστησι, µε τι χαρά
θα µπαίνεις σε λιµένας πρωτοειδωµένους·
να σταµατήσεις σ'εµπορεία Φοινικικά,
Devi augurarti che la strada sia lunga.
Che i mattini d'estate siano tanti
quando nei porti - finalmente e con che gioia toccherai terra tu per la prima volta:
negli empori fenici indugia e acquista
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και τες καλές πραγµάτειες ν'αποκτήσεις,
σεντέφια και κοράλλια, κεχριµπάρια κ'έβενους,
και ηδονικά µυρωδικά καθε λογής,
όσο µπορείς πιο άφθονα ηδονικά µυρωδικά·
σε πόλεις Αιγυπτιακές πολλές να πάς,
να µάθεις και να µάθεις απ' τους
σπουδασµένους.
Πάντα στο νου σου νάχεις την Ιθάκη.
Το φθάσιµον εκεί είν' ο προορισµός σου.
Αλλά µη βιάζεις το ταξείδι διόλου.
Καλλίτερα χρόνια πολλά να διαρκέσει·
και γέρος πια ν'αράξεις στο νησί,
πλούσιος µε όσα κέρδισες στον δρόµο,
µη προσδοκώντας πλούτη να σε δώσει η Ιθάκη.
Η Ιθάκη σ' έδωσε τ'ωραίο ταξίδι.
Χωρίς αυτήν δεν θάβγαινες στον δρόµο.
Άλλα δεν έχει να σε δώσει πιά.
Κι αν πτωχική την βρεις, η Ιθάκη δεν σε γέλασε.
Έτσι σοφός που έγινες, µε τόση πείρα,
ήδη θα το κατάλαβες η Ιθάκες τι σηµαίνουν.
madreperle coralli ebano e ambre
tutta merce fina, anche profumi
penetranti d'ogni sorta; piu' profumi inebrianti che
puoi,
va in molte citta` egizie
impara una quantità di cose dai dotti.
Sempre devi avere in mente Itaca raggiungerla sia il pensiero costante.
Soprattutto, non affrettare il viaggio;
fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio
metta piede sull'isola, tu, ricco
dei tesori accumulati per strada
senza aspettarti ricchezze da Itaca.
Itaca ti ha dato il bel viaggio,
senza di lei mai ti saresti messo
sulla strada: che cos'altro ti aspetti?
E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà
deluso.
Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza
addosso
gia` tu avrai capito cio` che Itaca vuole
significare.
Il nostro viaggio sarebbe ancora molto lungo, si potrebbe leggere Seferis, Pessoa, Walcott, Joice,
ma vogliamo fermarci qui e concludere, senza alcun commento, questo nostro percosso con una
delle pagine più emozionanti di Primo Levi.
Il canto di Ulisse. Chissà come e perché mi è venuto in mente: ma non abbiamo tempo di
scegliere, quest’ora già non è più un’ora. Se Jean è intelligente capirà. Capirà: oggi mi sento da
tanto.
…Chi è Dante. Che cosa è la Commedia. Quale sensazione curiosa di novità si prova, se si cerca di
spiegare in breve che cosa è la Divina Commedia. Come è distribuito l’Inferno, cosa è il
contrappasso. Virgilio è la Ragione, Beatrice la Teologia. Jean è attentissimo, ed io comincio, lento
e accurato:
Lo maggior corno della fiamma antica
Cominciò a crollarsi mormorando,
Pur come quella cui vento affatica.
Indi, la cima in qua e in là menando
Come fosse la lingua che parlasse
Mise fuori la voce, e disse: Quando…
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Qui mi fermo e cerco di tradurre. Disastroso: povero Dante e povero francese! Tuttavia l’esperienza
pare che prometta bene: Jean ammira la bizzarra similitudine della lingua, e mi suggerisce il termine
appropriato per rendere “antica”.
E dopo “Quando”? Il nulla, Un buco della memoria. “Prima che sì Enea la nominasse”. Altro buco.
Viene a galla qualche frammento non utilizzabile: “…la pietà Del vecchio padre, né’l debito amore
Che doveva Penelope far lieta…” sarà poi esatto?
…Ma misi me per l’alto mare
Di questo sì, di questo sono sicuro, sono in grado di spiegare a Pikolo, di distinguere perché “misi
me” non è “je me mis”, è molto più forte e più audace, è un vincolo infranto, è scagliare se stessi al
di là della barriera, noi conosciamo bene questo impulso. L’alto mare aperto: Pikolo ha viaggiato
per mare e sa cosa vuol dire, è quando l’orizzonte si chiude su se stesso, libero diritto e semplice, e
non c’è ormai che odore di mare: dolci cose ferocemente lontane.
Siamo arrivati a Kraftwerk, dove lavora il Kommando dei posacavi. Ci dev’essere l’ingegner Levi.
Eccolo, si vede solo la testa fuori dalla trincea. Mi fa un cenno con la mano, è un uomo in gamba,
non l’ho mai visto giù di morale, non parla mai di mangiare.
“mare aperto”. “Mare aperto”. So che rima con “diserto”: “…quella compagna picciola, dalla qual
non fui diserto”, ma non rammento più se viene prima o dopo. E anche il viaggio, il temerario
viaggio al di là delle colonne d’Ercole, che tristezza, sono costretto a raccontarlo in prosa: un
sacrilegio. Non ho salvato che un verso, ma vale la pena di fermarcisi:
…Acciò che l’uom più oltre non si metta.
“Si metta”: dovevo venire in Lager per accorgermi che è la stessa espressione di prima, “ e misi
me”. Ma non ne faccio parte a Jean, non sono sicuro che sia un’osservazione importante. Quante
altre cose ci sarebbero da dire, e il sole è già alto, mezzogiorno è vicino. Ho fretta, una fretta
furibonda.
Ecco, attento Pikolo, apri gli occhi e la mente, ho bisogno che tu capisca:
Considerate la vostra semenza:
Fatte non foste a viver come bruti,
Ma per seguir virtute e conoscenza.
Come se anch’io lo sentissi per la prima volta: come uno squillo di tromba, come la voce di Dio.
Per un momento, ho dimenticato chi sono e dove sono.
Pikolo mi prega di ripetere. Come è buono Pikolo, si è accorto che mi sta facendo bene. O forse è
qualcosa di più: forse, nonostante la traduzione scialba e il commento pedestre e frettoloso, ha
ricevuto il messaggio, ha sentito che lo riguarda, che riguarda tutti gli uomini in travaglio, e noi in
specie; e che riguarda noi due, che osiamo ragionare di queste cose con le stanghe della zuppa sulle
spalle.
Li miei compagni fec’io sì acuti…
…e mi sforzo, ma invano, di spiegare quante cose vuol dire questo “acuti”. Qui ancora una lacuna,
questa volta irreparabile. “…Lo lume era di sotto della luna” o qualcosa di simile; ma prima?…
Nessuna idea, “keine Ahnung” come si dice qui. Che Pikolo mi scusi, ho dimenticato almeno
quattro terzine.
ça ne fait rien, vas-y tout de meme.
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…Quando mi apparve una montagna, bruna
Per la distanza, e parvemi alta tanto
Che mai veduta non ne avevo alcuna.
Sì, sì, “alta tanto”, non “molto alta”, proposizione consecutiva. E le montagne, quando si vedono di
lontano…le montagne…oh Pikolo, Pikolo, di’ qualcosa, parla, non lasciarmi pensare alle mie
montagne, che comparivano nel bruno della sera quando tornavo in treno da Milano a Torino!
Basta, bisogna proseguire, queste sono cose che si pensano ma non si dicono. Pikolo attende e mi
guarda.
Darei la zuppa di oggi per sapere saldare “non ne avevo alcuna” col finale. Mi sforzo di ricostruire
per mezzo delle rime, chiudo gli occhi, mi mordo le dita: ma non serve, il resto è silenzio. Mi danno
per il capo altri versi: “…la terra lagrimosa diede vento…” no, è un’altra cosa. E’ tradi, è tradi,
siamo arrivati alla cucina, bisogna concludere:
Tre volte il fe’ girar con tutte l’acque,
alla quarta levar la poppa in suso
E la prora ire in giù, come altrui piacque…
Trattengo Pikolo, è assolutamente necessario e urgente che ascolti, che comprenda questo “come
altrui piacque”, prima che sia troppo tardi, domani lui o io possiamo essere morti, o non vederci mai
più, devo dirgli, spiegargli del Medioevo, del così umano e necessario e pure inaspettato
anacronismo, e altro ancora, qualcosa di gigantesco che io stesso ho visto ora soltanto,
nell’intuizione di un attimo, forse il perché del nostro destino, del nostro essere oggi qui…
Siamo oramai nella fil per la zuppa, in mezzo alla folla sordida e sbrindellata dei porta-zuppa degli
altri Kommandos. I nuovi giunti ci si accalcano alle spalle. –Kraut und Ruben?- Kraut und Ruben-.
Si annuncia ufficialmente che oggi la zuppa è di cavoli e rape: -Choux et navets.- Kaposzta es
repark.
Infin che’l mar fu sopra noi rinchiuso.
(Primo Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino, 1976, pp. 100 - 103)
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