Tiziano, il Caravaggio e Artemisia Gentileschi

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Tiziano, il Caravaggio e Artemisia Gentileschi
Tiziano
Il Vasari, nelle sue Vite, propone una contrapposizione che avrà secolare fortuna, fra
disegno fiorentino e colore veneziano, concetto che sarà ripreso nella letteratura e
nella polemica artistica del Cinquecento a favore dell'uno o dell'altro.
In realtà Vasari, che aveva lavorato a Venezia intorno al 1540, intendeva soprattutto
contrapporre la complessità lineare del manierismo fiorentino, alla classicità
naturalistica del colorismo tizianesco, ancora dominante a Venezia.
Nell'area veneta, estesa fino all'attuale Lombardia orientale, nel centro veneziano
Tiziano è “dittatore” esclusivo e ammette solo allievi ortodossi, come Palma il
Vecchio.
Altri grandi artisti, precocemente consci delle novità manieristiche di Giulio Romano
a Mantova e del Parmigianino, devono lavorare soprattutto in provincia, come nel
caso del Lotto e del Pordenone.
Con la morte di Giorgione (1510), la partenza di Sebastiano del Piombo per Roma, la
scomparsa di Giovanni Bellini (1516) e il mancato ritorno di Lorenzo Lotto, il
giovane Tiziano rimase dunque l'incontrastato erede del nuovo corso della cultura
pittorica locale, iniziando quell'ascesa che avrebbe fatto di lui l'indiscusso
protagonista della scena artistica lagunare fino alla metà del secolo.
La sua affermazione non si limitò all'ambito territoriale veneto, ma acquistò ben
presto una proporzione italiana ed europea a seguito del consenso riscosso
nell'esclusivo ambiente delle corti.
Dai ducati di Ferrara, Mantova e Urbino, Tiziano nel corso del terzo e quarto
decennio del Cinquecento, ebbe importanti commissioni, divenendo il ritrattista
ufficiale degli Estensi, dei Gonzaga e dei Della Rovere.
Il massimo riconoscimento gli venne tuttavia dall'imperatore Carlo V, che lo insignì
negli anni trenta del Cinquecento, del titolo di conte palatino e di cavaliere dello
speron d'oro e lo innalzò al ruolo di primo pittore della corte asburgica,
accreditandolo di un prestigio senza eguali in Europa.
1.1Le corti e il ritratto
E' di questo periodo, dopo il rapporto con la corte ferrarese degli Estensi, il contatto
di Tiziano con Federico Gonzaga duca di Mantova,che tra l'altro ospitava dal 1524
Giulio Romano.
Il Ritratto del duca (1525) preannuncia nell'essenziale, ma insieme preziosa
immagine del personaggio (rappresentato in pedi, ma con un neutro fondale che si
annulla nell'oscurità), la tipologia più freuqnte adottata dall'artista nel decennio
successivo.
Essa è caratterizzata , secondo lo storico dell'arte Enrico Castelnuovo, da una
“superba sintesi cromatica di personalità e di status”.
I personaggi di Tiziano, si discostano dall'assorto intimismo dei ritratti giorgioneschi,
né sono partecipi del tormento di natura morale e religiosa della ritrattistica di
Lorenzo Lotto che, a differenza di quella tizianesca, non incontrò il favore degli
ambienti di corte.
La fama di Tiziano era ormai conosciuta anche al di fuori dell'ambito veneziano,
quando nel 1530, auspice Federico Gonzaga, egli ebbe a Bologna il primo contatto
con l'imperatore Carlo V, incoronato da Clemente VII.
Di questo periodo è Il ritratto dell'imperatore (1532-1533), con il quale si ufficializzò
al massimo livello il prestigio artistico e personale di Tiziano.
Con l'immagine di Carlo V, effigiato a figura intera nella dignità regale del
portamento, sottolineata dalla sontuosità della veste di seta ricamata in oro, l'artista
realizzò il suo primo ritratto di parata.
Nella creazione di questo genere di pittura, egli rivestì in ruolo di primissimo piano
nella scena europea.
Nel panorama delle corti italiane che richiesero i suoi privilegi, non mancò il ducato
roveresco di Urbino, per il quale l'artista eseguì la famosa coppia di ritratti: Ritratti di
Eleonora Gonzaga e del marito Francesco Maria della Rovere (1536-1538).
In essi l'artista riuscì a conciliare la rappresentazione dello status dei personaggi con
l'individuazione della loro precisa identità fisica e psicologica, in nome della quale le
immagini non risultano spersonalizzate, come accadrà invece, nella ritrattistica
ufficiale del tardo manierismo.
1.2
Tiziano e il ritratto di stato
La storiografia artistica contemporanea, ha coniato il termine di Status Portrait per
indicare il tipo di ritratto di grandi dimensioni, a figura intera o a tre quarti,
raffigurante un sovrano un principe, o comunque un personaggio di alta dignità e
autorità, con costume veste o armatura, talora con insegne simboliche, e
ambientazione che ne esplicitano l'alto o altissimo status sociale: la sua forma e la sua
funzione variano dalla memoria gentilizia familiare alla celebrazione pubblica.
Tale tipo di ritratto nasce nel Cinquecento fra classicismo e maniera (è tipica per
esempio l'imitazione scultorea dei busti ellenistici e romani di re e imperatori), come
superamento, nel nuovo linguaggio e nelle nuove realtà storiche nazionali e
assolutistiche, del busto ritratto tardogotico e rinascimentale.
Ideatori della nuova tipologia si possono considerare: Raffaello nelle curie di Giulio
II e Leone X (e con lui Sebastiano del Piombo fino a Clemente VII), e di là dalle
Alpi, Hans Holbein alla corte di Enrico VIII in Inghilterra: evolvendosi in misura
maggiore o minore dalla base stilistica del ritratto leonardesco.
I modelli definitivi, validi fino all'età napoleonica, sono proposti da Tiziano, il quale
nella sua matura fase “imperiale” alla metà del secolo, riconduce alle due unità le due
tradizioni, italiana e transalpina.
Prima di questa fase, Tiziano aveva già offerto, straordinari esempi di introspezione
psicologica e di splendore pittorico nel primo Ritratto di Carlo V del 1533 e nella
coppia di Francesco Maria della Rovere e della moglie Eleonora Gonzaga.
Quando viene persuaso a muoversi, nel 1545, da Venezia a Roma per i ritratti
farnesiani di Paolo III e dei suoi “nepoti”, soprattutto cadendo alle istanze del
cardinale e grande mecenate Alessandro, egli ha superato la crisi dei primi anni
quaranta, con soluzioni linguistiche nuove e rivoluzionarie corrispondenti aduna
nuova maturità drammatica ed espressiva, come risulta, con particolare evidenza, dal
ritratto di Paolo III e i nipoti Ottavio e Alessandro Farnese.
In questo ritratto, pur conoscendo tutta la dignità nascente dalla presumibile richiesta
di rifarsi al ritratto di Leone X con due cardinali di Raffaello, Tiziano sottopone ad
una disincantata e impietosa indagine gli intimi rapporti psicologici ed emozionali fra
i tre personaggi esprimendo tutto ciò nella vibrazione e nel quasi dissolvimento delle
forme nello spazio, attraverso la cupa gamma non più naturalistica dei colori
pontifici, il rosso, il bruno e l'oro spento.
Il processo culmina, in tutti i sensi, nei ritratti imperiali a “cavallo”, fra quinto e sesto
decennio del Cinquecento.
E' esemplare il confronto tra i due dipinti di Carlo V.
Il primo che unisce l'allusione classica al monumento equestre (l'imperatore vi è
raffigurato armato, a cavallo come celebrazione della vittoria di Muhlberg sulla lega
protestante), ma con tutta la vitalità dinamica arabo-spagnola del nervoso cavallo
nero, al simbolo cattolico del San Giorgio vincitore del drago protestante, è il
prototipo di una serie che prosegue con Rubens, Van Dyck, Velazquez e via via fino
all'Ottocento.
Il secondo, in cui l'imperatore è rappresentato seduto nella poltrona tronetto, con la
severa zimarra nera, registra, la complessità psicologica dell'imperiale personaggio e i
netti contrasti cromatici di nero, rosso e oro, l'inserimento nel maturo linguaggio di
Tiziano della tradizione nordica risultandone un modello per la ritrattistica imperiale
e sovrana del secondo Cinquecento.
1.3
La Venere di Urbino e il richiamo alla tradizione veneta
Sempre su incarico di una famiglia roveresca, Guidobaldo duca di Camerino, Tiziano
eseguì nel 1538, la cosiddetta Venere di Urbino (1538), che rappresenta, nel
dichiarato riferimento al nudo della Venere dormiente di Giorgione (1505-1510), una
riaffermazione dei legami dell'artista con la tradizione veneta.
Nel dipinto è tuttavia espressa una bellezza femminile che si discosta apertamente
dall'idealizzazione giorgionesca.
Essa si riconnette ad una realtà più concreta, in cui il manifestarsi della moderna
sensualità della Venere, dai tratti fisionomici ben individuati, infrange i confini della
rappresentazione del soggetto mitologico: l'assoluta attualità dell'interpretazione, trae
conferma anche dall'insolita ambientazione in un signorile palazzo veneziano
contemporaneo.
Niente lascia ancora presagire la svolta manierista che avrebbe coinvolto Tiziano
poco dopo, a seguito di un suo confronto con i nuovi orientamenti della cultura
pittorica centro-italiana, testimoniati nel corso degli anni Trenta a Mantova da Giulio
Romano e a Venezia da Pordenone.
2. L'opposizione al manierismo
Alla fine del Cinquecento la cultura figurativa italiana era ancora pervasa dalla
concezione manierista, che accentuava i valori formali e simbolici dell'arte classica
rinascimentale.
La maniera era linguaggio sofisticato, permeato di intellettualismo, giocato
sull'erudizione, rivolto quindi ad un ristretto ambito culturale e sociale, questo non
poteva non contrastare con le esigenze della Chiesa.
Per poter infatti, elaborare una politica delle immagini sacre, intese come strumento
di ampia devozione popolare, si imponeva la ricerca di un linguaggio figurativo
semplice e chiaro, capace di suscitare realisticamente “la mozione degli affetti”.
Intorno agli anno 1540-1550 l'impegno della Chiesa controriformata, si fece più
rigoroso.
La critica ideologica finì con il divenire critica estetica e stilistica e pose i presupposti
per il superamento della maniera.
Ciò che veniva criticato erano le ricercatezze, l'estrema libertà di interpretazione
iconografica, le invenzioni, tanto oscure da non poter essere comprese dai più.
Virtuosismo di esecuzione, elaborate composizioni, accademismo, erano gli elementi
formali che costituivano il tessuto connettivo della maggior parte delle tendenze
pittoriche presenti a Roma prima della fine del secolo.
In particolare durante il pontificato di Sisto V(1585-1590), giungeva all'estremo la
dissoluzione della tradizione linguistica rinascimentale.
Furono due artisti del Nord Italia, Annibale Carracci e Michelangelo Merisi da
Caravaggio, a dar vita a Roma verso il 1590 ad un profondo rinnovamento figurativo;
essi si opposero al manierismo in nome di una comune volontà di rifarsi alla verità
delle cose e di riavvicinarsi alla natura.
Ne conseguì il recupero del concetto rinascimentale (ancora vivo in Vasari), che
vedeva nell'imitazione del vero naturale, il fondamento essenziale dell'arte.
Spregiudicato è l'aggettivo che più si addice al Caravaggio, egli non diede nulla per
già acquisito, non volle riconoscere nessun maestro, tranne la natura e il vero, così
nella sua concezione estetica ciò che contava, non era la nobiltà del soggetto, quanto
il rapporto diretto con la realtà.
Dopo più di due secoli di venerazione dell'antico, con un gesto rivoluzionario
Caravaggio ne escluse lo studio e, contestò l'autorità del passato e delle norme
estetiche codificate; la sua esperienza conoscitiva, quella del vero, comportava una
cruda visione della realtà riprodotta a volte nella sua sconvolgente evidenza.
Meno radicale, Annibale Carracci invece accetta la storia come esempio di esperienza
passata che doveva essere ricondotta al presente.
Allo studio diretto della natura, egli univa lo studio dell'arte antica e del grande
Raffaello.
L'esperienza pittorica del Caravaggio scosse profondamente l'ambiente romano, tanto
che il suo stile, ebbe ben presto ampia diffusione in tutta Europa.
Grazie a Caravaggio, la pittura aveva acquistato nuovi elementi espressivi; il
cromatismo, le luci, le ombre divennero fondamentali elementi intrinseci al
procedimento pittorico.
Gli artisti francesi, olandesi, giunti a Roma per documentarsi sulle novità, non
potevano non essere affascinati dal messaggio realistico: la peculiare indagine
fiamminga sulla natura trovò infatti possibilità espressive specie negli effetti di luce.
Inoltre i fiamminghi e i bambocianti (così veniva chiamato un gruppo di artisti
seguaci di Pieter Van Laer, pittore olandese soprannominato il Bamboccio per il suo
aspetto deforme), contribuirono all'evoluzione dei generi pittorici avviata da
Caravaggio.
Anche i protagonisti della pittura europea, Rembrandt, Velazquez e il giovane
Rubens, furono colpiti dalla visione moderna della pittura del maestro.
Il filone caravaggesco, con le sue diramazioni popolari e di genere, non è certo il
solo, nel nostro panorama, in grado di caratterizzare questa fase dell'arte italiana.
La meditazione sull'arte antica, sui modelli del passato, tipica di Annibale, sviluppò
una poetica classicista passata in eredità ai diretti suoi seguaci, Domenico Zampieri,
detto Domenichino, Francesco Albani e Guido Reni e altri artisti bolognesi presenti
nella capitale fra il 1621 e il 1623.
2.1 Caravaggio
Michelangelo Merisi, nacque a Milano nel 1571, figlio di un architetto,
sovrintendente e amministratore di casa di Francesco Sforza, appartenente ad un
ramo cadetto dell'importante dinastia milanese e marchese di Caravaggio, una
cittadina a pochi chilometri di distanza da Milano.
La famiglia Merisi, poteva definirsi benestante, godevano di un reddito fisso da parte
dei marchesi Sforza e avevano diverse proprietà, che una volta vendute, sosterranno
Caravaggio nei primi anni difficili a Roma.
Caravaggio svolse il suo apprendistato da Simone Peterzano, dove verrà avviato al
mestiere di pittore.
Il contratto di apprendistato del giovane Caravaggio è firmato dalla madre, nel
frattempo il padre era morto nell'epidemia del 1577.
Così il 6 aprile 1584, dietro compenso di ben 4 scudi d'oro, Simone Peterzano
sottoscrive l'impegno di ospitare nella sia casa il giovane Michelangelo per 4 anni e
di insegnargli, in quel periodo, tutte le tecniche necessarie per poter divenire pittore.
Nel 1590 si recò a Roma, grande centro d'attrazione culturale, per i primi tempi
lavorò presso artisti di poco rilievo, per i quali svolge un'attività quasi commerciale,
come riferisce lo storico dell'arte Giovanni Baglione : “eseguiva tre teste al giorno
per un grosso l'una”.
Nel 1593 riuscì ad entrare nella bottega di un pittore abile che godeva di grande
favore e prestigio presso il papa Aldobrandini: il Cavaliere Giuseppe Cesare
D'Arpino, dal quale “fu applicato a dipingere fiori e frutti”di illusionistica precisione.
Finalmente nel 1595, la conoscenza del cardinale Del Monte, suo primo mecenate,
mutò sostanzialmente la sua condizione d'artista teso all'affermazione professionale.
I quadri “allo specchio” sono le prime prove giovanili (1594-1597): Bacchino
malato, Fanciullo con canestro di frutta, Ragazzo morso da un ramarro.
In Bacco (1596-1597), che si trova alla Galleria degli Uffizi, si ha la rievocazione
della divinità pagana, alla quale si riferiscono tutti gli attributi della composizione,
l'atmosfera è luminosa, chiara che evidenzia la verità e la naturalezza del modello.
Come dimostra l'analisi radiografica del dipinto, Caravaggio intervenne al fine di
dare una maggiore pienezza e regolarità alle forme .
Lontano dall'essere un'interpretazione del tema mitologico classico, largo spazio è
dato da Caravaggio alla raffigurazione degli aspetti naturalistici di questa
composizione.
Secondo Giovanni Baglione, che scriveva nel 1642, “fece alcuni quadretti da lui nello
specchio ritratti. Et il primo fu un bacco con alcuni grappoli d'uve diverse”.
Negli ultimi anni del Cinquecento (1598-1599), Caravaggio vantava ormai
committenti celebri: i Doria, i Giustiniani e tra i collezionisti, intenditori entusiasti
delle novità della sua pittura, contava anche il poeta Giambattista Marino.
Del 1598 è la Testa di Medusa; lo sguardo di Medusa mutava gli uomini in pietra,
quale miglior ausilio per affrontare il nemico se non la raffigurazione di una testa di
Medusa su di uno scudo da combattimento?Ciò che forse rendeva tanto prezioso
questo pezzo da essere donato nel1598 dal cardinal Del Monte al granduca
Ferdinando I dè Medici, per il quale svolgeva il compito di ambasciatore a Roma,
poteva essere il realismo della testa mozzata urlante riconducibile alle maschere
classiche, oltre il fatto che l'autore dell'opera stava conquistando sempre maggiore
attenzione nella città papale.
Grazie ad un perfetto espediente illusionistico basato sull'accorto uso della luce,
dell'ombra e dei controluce, Caravaggio trasforma la convessità dello scudo in
apparente concavità utile ad accogliere la testa.
La vivacità e il pathos dell'espressione sono enfatizzati dal movimento disordinato e
ondulatorio delle serpi che circonda l'espressione estrema dello sguardo su di un
unico punto.
La sperimentazione in materia di espressioni estreme è riconducibile a simili ricerche
condotte sulla base di una trasposizione scientifica del naturale che aveva in
Leonardo il precedente più autorevole.
A tal proposito vale la pena ricordare, che proprio nella collezione del granduca di
Toscana, un visitatore nel primo Cinquecento ricordava una Medusa dipinta proprio
da Leonardo.
Abbandonate le piccole tele, si cimentava ormai nelle pale sacre: Il riposo nella fuga
in Egitto, si colloca nell'ambito di una tipologia iconografica che imponeva all'artista
un'ampia verifica dei suoi mezzi linguistici.
Le figure collocate in un bellissimo paesaggio, realizzato attraverso delicate tonalità
di versi, bruni e gialli, ricordano la matrice veneta della rappresentazione sacra in
ambiente naturale.
In quest'opera il sentimento del divino e del reale riescono a convivere in perfetta
armonia.
Con la commissione da parte di monsignor Cerasi di due quadri: la Crocifissione di
San Pietro e la Conversione di San Paolo, Caravaggio venne ufficialmente
riconosciuto nel 1600 egregius in urbe pictor.
2.2
La leggenda del pittore maledetto
A partire dal 1600 Caravaggio “incline a duellar e a far baruffa” ebbe più volte a che
fare con la giustizia, tanto che nel 1606 fuggiva da Roma accusato di omicidio
compiuto durante una rissa.
Tuttavia non bisogna ignorare le numerose testimonianze documentarie di quanto
fossero facili, nella Roma del Caravaggio, le aggressioni e le liti fra gli artisti.
Il nuovo modo di intendere la pittura sacra suscitò polemiche e grande sconcerto
presso l'ambiente artistico romano; alcuni scrittori seicenteschi, avversando la sua
opera, certamente contribuirono ad alimentare la leggenda che vede in Caravaggio il
pittore maledetto.
I rifiuti delle tele, la prima versione del San Matteo e l'angelo, la Madonna dei
Palafrenieri e la Morte della Madonna, sono indicativi della condanna della sua
ribellione artistica.
La carica naturalistica e popolare si poneva in chiara antitesi con le norme del
decoro: coloro che rifiutarono quelle tele le interpretarono come irriverenti
rappresentazioni delle storie sacre alle quali veniva a mancare la dignità, convenienza
formale e morale.
3.1
Caravaggisti
A Roma fra gli artisti di formazione e di provenienza diversa, che seppero rinnovare
il linguaggio pittorico in senso naturalistico, sull'esempio caravaggesco, assunsero
particolare importanza Orazio Gentileschi (1565-1638) e la figlia Artemisia.
Nonostante la diretta conoscenza e frequentazione del maestro, Orazio non fu
considerato dai critici contemporanei appartenente alla cosiddetta schola; nelle sue
opere era possibile scorgere fin dall'ora un interpretazione libera e originale della
poeticità e del colorismo caravaggesco.
La qualità toscana, le strutture compositive semplici e la maestria disegnativa,
caratterizzarono sempre la sua produzione.
La profonda sensibiltà cromatica condusse il luminismo caravaggesco ad effetti ottici
più limpidi e più chiari, tali da esaltare in particolare la serietà dei broccati, delle sete,
la morbidezza dei morbidi panni.
Da questa lettura nascono le opere della maturità, eseguite dopo il soggiorno romano
dei primi due decenni del secolo, come la Pala dei Santi Valeriano, Cecilia e
Tiburzio incoronati dall'angelo: di innegabile ascendenza caravaggesca è
l'indicazione della fonte luminosa al di là della soglia e il risalto plastico delle forme
in controluce sottolineato dall'apparizione dell'angelo.
La mirabile resa materica della preziosità delle stoffe, conferisce eleganza alle figure,
la luce dona accenti intimistici all'ambiente; lontano dagli spazi poveri delle scene
religiose caravaggesce, Orazio fa intuire un interno raffinato, socialmente
identificabile in ambito borghese.
Tarsferitosi in Inghilterra nel 1626, come pittore di corte, Orazio accentuò i valori
tonali dei colori freddi.
Il Riposo della fuga in Egitto, pur essendo un'ispirazione nordica, rappresenta l'ultima
interpretazione caravaggesca del tema, che traduce il Riposo in una scena di genere:
pellegrini in sosta durante il viaggio.
Nonostante questa semplice traduzione dell'evento sacro, lo stile di Orazio conservò
note aristocratiche e studi di figure in posa; fu quella luce ormai del tutto fredda e
chiara, rilevabile nel Riposo, ad essere tramite della cultura carvaggesca presso un
grande artista olandese: Vermeer.
3.2
Artemisia Gentileschi
Artemisia(1593-1652 circa), degna discepola del padre e molto considerata
nell'ambiente della pittura fiorentina, soggiornò lungamente a Napoli, dove la pittura
locale rappresentata da artisti quali Caracciolo e Cavallino, risentì profondamente
della temperie culturale caravaggesca della pittrice.
Ereditò dal padre il gusto della preziosità delle stoffe e predilesse la resa delle carni
sode e dorate, attraverso uno studio naturalistico delle ombre e delle luci, suscitanti
effetti straordinariamente suggestivi, come nella scena notturna di Giuditta e
Oloferne.
Dotata di notevoli capacità inventive, Artemisia risolve la struttura compositiva della
scena in un gruppo di figure compatto il cui fulcro drammatico è costituito dalla testa
riversa di Oloferne.
Il sangue spruzza a raggera e spruzza sui candidi lini bianchi; Giuditta è
materialmente aiutata dall'ancella.
Il tema interpretato nei suoi aspetti più violenti supera in efferratezza le
interpretazioni caravaggesche.